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Autore: Sally_the_rag_doll    28/04/2008    1 recensioni
Un esule e un cantastorie, e il loro incontro, tra distese d'erba e gli echi d'una antica leggenda.
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Sheik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sin dove affaticato poso l'occhio
Veggo una tenue face porporina,
Ch'io spingo tosto a risalir la crina
Laddove di guerrieri sosta un crocchio.

Sul nettare pregiato stanno chini,
Alzano i calici al leggier rossore
Dell'astro che tramonta, ed il sopore
del vino offusca gli occhi lor ferini.

Lassi al terreno cadono, siccome
Poc'anzi eran piovuti al suolo i morti;
un sol groviglio d'arti adesso langue,

Ed al mio cuore sembra tutto sangue.
Sordidi orrori dalla follia sorti,
Perchè Ragione più non vi dà nome?

Scritta l'ultima parola - un fregaccio inelegante sopra la pergamena lisa - l’uomo diede un gran sospiro. La schiena gli doleva, a furia di tenerla appoggiata al tronco d'un albero; decise di alzarsi da terra. Scorse, poco distante, degli uomini e delle donne affollarsi intorno a qualcosa; incuriosito, fregò distrattamente la stoffa delle sue vesti grigie coi palmi delle mani e andò loro incontro.
Come le rocce non deperiscono al trascorrere delle stagioni, dacché non posseggono fiori, morbida pelle o quant’altro di fresco l’invidia dell’età tiranna possa portar via con sé, similmente le storie, e le loro storie, scivolano attraverso il Tempo, vogando in direzione contraria ai suoi flutti; tuttavia, esse di voce abbisognano, e di parole, per poter esser raccontate. Al servizio di queste storie votai il mio ingegno; e che oggi la mia voce possa farsi loro, e parlarvi come per primo dovette fare chi inventò la parola”.
L’uomo in grigio tentò di sporgere la testa oltre quelle della folla; ad attirar l’attenzione dei paesani era stato un cantastorie, un cantore vagabondo quale se ne vedevano assai pochi, di quei tempi. D’un tratto, tra testa e testa, riuscì a scorgerlo; aveva occhi cremisi, carnagione scura e cupe vesti esotiche, e teneva in mano una cetra. Sul petto aveva dipinto un simbolo che l’uomo conosceva bene, e tuttavia non riuscì ad interpretare; era certo un’insolita decorazione.
Stette ad ascoltare. Il vagabondo accompagnava il suono dello strumento al suo bel canto. Narrava bene: raccontò la storia di Lèbaro, il principe Zora che venne assassinato con l’inganno da uno dei ministri del re. La narrazione si fece veemente, nella descrizione del delitto; l’uomo si domandò se la scelta d’un simile mito fosse intenzionale, e se il cantore ne conoscesse i rischi.
Quando il cantastorie tacque e s’inchinò, tutti applaudirono. Alcuni bambini, in un frusciar di vesti colorate, gli domandarono un’altra storia; egli disse loro che sarebbe tornato l’indomani. La folla iniziò a dissiparsi; l’uomo in grigio, tuttavia, non mosse un passo, rimanendo invece ad osservare lo spazio erboso del piazzale vuoto, e il cielo scuro sopra i tetti delle case.
Neanche il cantore si mosse; sembrava impegnato ad accordare il suo strumento. Ora che poteva vederlo meglio, l’uomo in grigio s’avvide che era incredibilmente giovane. La sua apparenza ricordava uno specchio infranto: un’immagine confusa, che tuttavia richiamava figure già viste in tempi migliori.
“Salute, poeta,” disse d’improvviso il giovane.
L’uomo ebbe un lieve sussulto. “Poeta, io? Scherzi!” rise. “poco prima non facevo che conti”.
“Non vi ho visto, poco prima; non credo d’avervi visto mai. Perciò è un onore incontrarvi”. Il ragazzo accennò un inchino. “Il mio nome è Sheik, signore,” disse, “non ne posseggo altri”.
“Che vai farneticando, ragazzo?”
“Non siete voi forse Nodin, il poeta?”
L’uomo in grigio sembrò ancora una volta sorpreso. Diede uno sguardo attorno, come se temesse d’essere ascoltato. “Chi sei, menestrello?” chiese infine. “Chi ti ha mandato?”
“Nessuno; il mio mestiere, tuttavia, mi sospinge in luoghi sempre diversi, dove molto si parla, se pure in lingue differenti. Sono Sheik, signore, e canto per vivere”.
“Chi canta per vivere non sognerebbe mai di raccontare storie sediziose. Chi sei davvero?”
Gli occhi da sfinge del giovane Sheik sembrarono mutare d’espressione per un attimo. “Racconto ciò che dev’essere raccontato,” asserì, piano.
“E io scrivo ciò che dev’essere scritto,” ribatté Nodin.
Trascorsero diversi istanti di silenziò. “Vi rivedrò domani,” disse Sheik, allontanandosi più in fretta che se stesse volando, e svanendo in una sorta di bagliore.
Nodin rimase in piedi sull’erba, assorto.


“Avrete certo inteso discorrere d’un meraviglioso genere di fonti capaci di sanar le ferite dei guerrieri; pare che esse siano guardate da creature che, nelle conte dei fanciulli, noi sogliamo chiamar fate. Ebbene, io vi dirò d’un giovine Hylian che una di queste fonti bramava raggiungere da lungo tempo, e tanto s’impensierì, e tanto s’ingegnò che poco mancò che gli si consumasse il cervello.
Gabr era il suo nome, o almeno noi lo dovremo tener per buono, giacché, ahimé!, sono certo che esso venne storpiato, corrotto e impastato dalle tante bocche che lo pronunciarono; Gabr si chiamava, e se alcuni dicono che era gagliardo molto, altri tengono per vera la leggenda che lo vuole ripugnante a vedersi. Che fosse bruno, lo dicono tutti: v’è chi magnifica la fosca maestà dei sui baffi, chi annovera uno ad uno i cento bei riccioli in cui s’avvoltolava la barba, chi giura ch’era glabro come una fanciulla, ma se mai doveste domandar a tutti costoro il colore del suo pelo, “bruno” vi direbbero, “come d’autunno la foglia e la terra d’estate”.
Or dunque Gabr, studioso molto e di genio senza pari, nel disegnar una mappa della sua terra s’avvide dell’esistenza di un luogo del quale i suoi tomi non dicevano nulla, e che egli certo non aveva veduto mai. Ebbro di letizia, segnò un fregaccio sul punto che gli pareva senza nome e andò di gran corsa a raccattar le cose sue; intendeva partir subito, ché non v’era un istante da perdere.
Se n’andò senza raccomandar nulla a nessuno, dimenticando però la mappa che aveva disegnata sopra lo scrittoio, assieme alle carte. Nemmeno se ne avvide, agitato com’era per la spedizione, senza contar che oramai la mappa l’aveva come disegnata in testa; ma un uomo scuro, arcigno e crudele, dal cuore stretto come un ramoscello d’autunno, dal pelo rosso come lo hanno i malvagi, di soppiatto s’introdusse nella stanza e rubò la pergamena.
Quest’uomo io lo chiamerò Gorka, che in una lingua che poco o nulla intendo vuol dire “tempesta”, o “tuono”, forse; Gorka era tenebroso d’animo, avido come la mala sorte, e mille tesori desiderava, ed eserciti sterminati, e palazzi alti come montagne; e tutto questo, forse, non sarebbe ancora bastato a saziarlo. Egli partì, lasciando rovina, distruzione e fuoco dietro di sé; le fiamme della devastazione si fecero tanto alte che persino a Gabr, a diversi giorni di cammino, riuscì di vederle.
Costui, che era di lungo consiglio, subitamente intese d’esser stato seguito, e molto si rammaricò d’aver camminato come un cieco, senza curarsi d’occultar le tracce, senza guardarsi indietro né avanti; lo colse il panico. Giacché era certo d’esser vicino alla magica fonte, pensò di raggiungerla il più presto che poteva per murarvisi dentro, e far morire il suo segreto con sé.
Camminò sino a consumare i calzari, sbuffò da far tremare le montagne, a tal punto sforzò le ginocchia da farsi scricchiolare le ossa; infine, una mattina troppo fredda per essere retta da membra mortali, si vide comparire innanzi un portale in pietra, tanto magnifico da levare il fiato.
Rimase a contemplarlo un poco, da tanto grande bellezza travolto e rallegrato al pensiero che presto avrebbe troncata la sua sofferenza, e protetto la fonte magica dalle brame del malvagio; ma mentre stava a confortarsi, un’ombra scivolò alle sue spalle e lo passò da parte a parte con un coltello.
Lacero, Gabr s’accasciò al terreno, null’altro vedendo che il suo sangue, un riso nelle orecchie, prima d’esalar l’ultimo alito: il riso di Gorka...
Voglio domandare a voi, adesso, quel che Gabr dovette domandarsi allora: siete voi certi della via che percorrete? Guardate mai indietro, col timore d’un’ombra, o avanti, col terrore d’incontrare un portale più ampio del vostro sguardo? Dove mai vi condurrà il vostro passo?”
Il cantore depose lo strumento; aveva finito. Vi furono applausi, strida e motti d’apprezzamento; intorno a lui s’affollarono i ragazzetti, che insistettero perché raccontasse loro la storia di Gorka; egli declinò gentilmente, ma era evidente come, nel suo rifiuto, fosse implicita la convinzione che una simile storia non era ancora stata scritta.
Nodin, seduto sul declivio erboso poco distante, anche stavolta attese che gli uomini e le donne là riunitisi s’allontanassero per potersi avvicinare al menestrello; questi aveva l’occhio immobile, e la consueta, quieta, misteriosa apparenza. Aveva cantato con vigore non inferiore a quello del giorno precedente.
“Davvero,” esordì Nodin, scostando dal viso i lunghi capelli neri, “Di sconsiderati ne ho visti tanti... ma tu! Di’ un po’, ti credi davvero tanto sottile da risultare oscuro?”
“Non capisco di che stiate parlando, signore,” rispose umilmente Sheik, intento ad accordar la cetra.
“Questa storia dell’uomo scuro e rosso di crine, avido, crudele e millantatore, che lascia fuoco e fiamme dietro di sé non ha radici in quest’epoca, non è vero?” domandò beffardo Nodin. “Il tuo intento è un tantino scoperto, non ti pare?”
“Siete un uomo d’ingegno, e lo dimostrate; non è mio interesse cantar altro che la verità”.
“Dimmi: cosa temi di più al mondo?”
Sheik non rispose; smise d’improvviso d’accordar lo strumento. Alzò lo sguardo; la sua iride porporina sembrava stillar sangue. “Che nessuno m’ascolti,” disse infine.
“La morte, non la temi? Perché t’ammazzeranno”.
“La mia vita è poca cosa, di fronte all’imponente flusso del Tempo...”
“Finirai in carcere, forse. Canterai per i ratti e sarai amico dei vermi, e il tuo giaciglio sarà un mucchio di sterco; niente male, in realtà, tiene al caldo d’inverno. L’umidità ti roderà le ossa e morirai di consunzione... molto più tardi di quando vorrai”.
“Voi, tuttavia, non siete morto”.
Nodin ebbe un fremito. “Io, in galera?” I suoi occhi scuri mandavano lampi. “Che vai insinuando?”
“In galera, no, non siete mai stato; nelle segrete sì, prima d’essere mandato in esilio nel deserto. Non conosco altri uomini tanto nobili da sopportare un castigo simile pur di non tradire le proprie convinzioni. No, credo voi siate proprio l’uomo più nobile che conosca”.
Nodin si fece più vicino, scosso e stupefatto a un tempo. Più s’incaparbiva a scrutare negli occhi del giovane, più gli sembrava d’aver di fronte una di quelle lenti colorate attraverso le quali guardano i fanciulli, che mutano il paesaggio ad ogni scossa.
“Ragazzo,” disse, “tutto quel che tu dici lo credevo noto a una singola persona: me. Sei una spia o un assassino? E’ il tiranno a mandarti?”
“E canterei quello che canto, se così fosse? Sono un semplice cantastorie dall’occhio che vede lontano”.
D’un tratto Nodin si soffermò sul simbolo che Sheik esibiva sul petto: un occhio dipinto. “Sai che significhi?” domandò, additandolo.
“Sì,” rispose Sheik, “Sì; lo so”.
“Saprai, allora, che è l’insegna d’una stirpe estinta”
Sheik stavolta non rispose. Alzò lo sguardo; soffiava un vento rapido e inclemente.
“La gente ha la memoria labile,” disse Nodin amaramente, “e tutto dimentica: le cause del malessere; i tempi migliori; la memoria dei padri... e gli antichi protettori. Chi s’affanna intorno a un pane non può preoccuparsi di serbare il ricordo delle cose passate. Simboli come il tuo altro non divengono che disegni vuoti di significato”.
“E’ il significato di cui parlate ad esser vuoto, ai miei occhi”.
Nodin sorrise, senza che l’amarezza lo abbandonasse. “Ti va di giocar con le parole? Sei il benvenuto, ragazzo. Ho vinto i più illustri agoni di retorica. Il nostro non mi frutterà allori, ma poco male; le foglie mi si seccherebbero in capo”.
Sheik evitava di guardarlo in viso. “Sentite spesso la mancanza della vita a palazzo?” gli domandò.
Il poeta rise. “Se sento la mancanza d’un buon pasto e d’un letto comodo? Non ho l’indole dell’asceta, te lo confesso. Se sento la mancanza dei reali? Mi hanno permesso di vivere a spese loro finché non ho turbato la quiete della corte con le mie “ardite quanto spregevoli insinuazioni”... con le “sgradevoli allusioni” insite nelle mie opere... Fino a che quell’uomo del deserto non ha preso a guardarmi torvo, e a tollerare a stento le mie battute, quand’eravamo a tavola... e dopotutto, chi ero io per affrontarlo?”
Sheik chinò il capo; il vento s’era fatto impetuoso e spazzava la piana. Le nubi s’inseguivano affannose.
“Chi ero io? Te lo dirò, ragazzo; te lo dirò. Un giovine di grande ascendente, raffinato nell’esprimersi, elegante nel muoversi: un poeta di fama illustre, compositore rinomato, che in più d’un regno aveva gareggiato, e vinto, per la leggiadria dei suoi versi... e i reali lo tenevano assai caro! Scrivevo epitaffi per i loro morti, elogi per i vivi, poemi che parlavano dei loro padri; rallegravo la principessa, lusingavo la regina, compiacevo il sovrano. Il mio ingegno indorava le pagine che componevo per loro, le mie idee fremevano al loro interno... e io stesso rilucevo; forse soltanto per boria, ma che importava? Ero! Eppure ogni astro, per quanto brillante, conosce il suo tramonto”.
“Non credo che voi abbiate ancora visto il vostro. Di più, credo che sia la vostra alba ad esser prossima”.
Nodin proseguì, ignorandolo: “Ah! E avrei dovuto tacere, di fronte a quell’uomo venuto dal deserto, dal viso truce e dai modi rozzi del soldato? Ogni suo gesto traspariva la sua inesauribile brama di potere, ogni muscolo si contraeva quand’era di fronte al trono, tradendo la sua aspirazione. Tanto subdoli i suoi discorsi, quanto chiare le sue intenzioni! Persino la principessa, che allora non era che una giovinetta, sembrava esserne turbata. Il pericolo gridava nelle mie orecchie a voce tanto alta da recarmi dolore. Ma il re, anzi la corte intera, aveva le orecchie dure... parlai com’era mio dovere, e mi trattarono alla stregua d’un furfante!”
Nodin tacque. Prese la testa tra le mani: il dolore, il risentimento, la vergogna alla quale era stato esposto sembrarono ritornare impietosi a incidergli il viso; pianse. “Uomini illustri, erano! Ah, quanto illustri! Buoni a ingozzarsi, ma duri di cuore; corti d’ingegno, e di memoria corta... la rovina li ha travolti, come meritavano. E io vivo, a mangiarmi il cuore”.
Sheik gli s’avvicinò; i suoi passi erano tanto leggeri da risultar quasi impercettibili. Non si udiva alcun rumore: soltanto singhiozzi, e il lamento sommesso del vento. Sheik depose la cetra, per poi porre entrambe le mani sulle spalle coperte di grigio del poeta.
“Canterò le vostre poesie,” disse. “Quanto avete composto in questi anni abbruttiti dal ferro e dal fuoco, lo metterò in musica e lo canterò; nelle foreste, nei villaggi, dovunque la mia voce possa arrivare”.
“Allora morirai!” esclamò Nodin. “Pazzo! Tu vuoi dar voce a un muto. Non puoi restituirmi quel che ho perduto, né sperare di non perdere la vita a tua volta”.
“Io vivrò,” asserì Sheik, “e voi vivrete. Vi vedrò domani; buonanotte”.
Nodin lo guardò allontanarsi, e per un momento gli parve d’aver risolto il suo enigma, il fitto mistero della sua persona; perciò lo chiamò. La sua voce si infranse contro il sibilo uniforme del vento, e il ragazzo disparve.


Per giorni in tutto il villaggio si vociferò d’uno straniero che non faceva che andare attorno a far domande sottovoce, in un modo che a taluni parve sospetto: un rotolo di pergamena, per favore, un poco d’inchiostro, se le piace, una penna d’oca, signora, ho sentito che dovete ammazzarla domani la vostra bestia.
Teneva le spalle avvolte in uno scialle - inverno flagrava -, aveva movenze inconsuete e un modo di parlare elegante, vagamente affettato. In molti si domandavano chi lui fosse, se qualcuno l’avesse mai visto, se fosse sano o pazzo, donde venisse.
Qualcuno lo vide assiso sui gradini di pietra presso il piazzale, intento a compilare i suoi rotoli, del tutto assorto. Nacque la leggenda della sua calligrafia perfetta, talmente bella, dicevano, da togliere il fiato a chi fosse così fortunato da rimirarla prima che egli la coprisse goffamente col gomito.
Era un freddo pomeriggio, quando lo straniero si sentì chiamare: “Voi! Poeta!”, e alzò il capo.
“Ah, sei tu, trovatore,” disse, vedendo avanzare verso di lui una figura d’un cupo color blu, dai margini sfocati. Gli occhi gli dolevano per il troppo star chino sulle carte. “E’ trascorso più di un giorno, dall’ultimo nostro incontro... ma tu sei al di sopra del Tempo, non è così? Non trascorri mai”.
Il ragazzo si sedette al suo fianco. “Cosa dite? Non v’intendo. Si sente molto parlare di voi, in paese. Che andate combinando?”
“Davvero!” disse d’un fiato Nodin, quasi stesse parlando di qualcosa a lui estraneo. “Che gente querula. Sì, ultimamente do un po’ di fastidio”.
“Avete smesso di star celato?”
“Ragazzo, mio caro ragazzo!” Nodin tese le labbra in un sorriso che era quasi un ghigno. “Tu non rispondi forse quando le dee ti chiamano?”
“E chi dovrebbe chiamarmi mai... le dee del canto?”
Risero entrambi. “Tu vieni dal deserto... l’ho pensato subito, quando t’ho visto. Osi pronunciare eresie quali ne potei udire soltanto là... ma no, ma no...” si volse a Sheik ed agitò seccamente una mano, “tu non vieni... che sciocchezze sto dicendo?”
“Vi trovo allegro”.
“Non ti sbagli... i germi di questo poema,” accennò alla pergamena che stringeva tra le mani sottili, “li ho in testa dai giorni della mia prigionia. Sinora, tuttavia, non ho osato comporre... mi vagavano soltanto in mente, come fantasmi”.
“E adesso?”
“Adesso ho esaurito il mio canzoniere, ed è bene che m’impegni in altro. O meglio, questo è quel che mi va di dirti,” sorrise nuovamente, prima di sospendere lo sguardo velato nel vuoto.
Sheik pose lo sguardo sulla pagina; ammirò immediatamente l’eleganza della calligrafia. “Salmastri spirti gravaro sui tumuli...” lesse, con voce ben modulata. “Cos’è, un necrologio?”
“Letta da te sembra una fiaba... una fiaba meravigliosa, contata da un fanciullo ancora imberbe”.
“Salmastri spirti gravaro sui tumuli,” ripeté Sheik, stavolta fissandolo dritto negli occhi scuri.
“Meglio... ma ancora troppo dolce. Lo è la tua voce”. Spiegò il foglio con la mano destra. “T’è capitato di sentir narrare - da un villano stordito, che so, da un paesano alticcio - d’una ‘guerra del camposanto’?”
“Conosco una storia antica, inghiottita dalle nebbie della memoria e dai fumi del Tempo. In un’epoca lontana, per un problema di successione la dinastia reggente si divise in due rami avversari; entrambi reclamavano la corona, uno di essi anche i diritti sul territorio dove si ergevano le tombe patrie di un’antica genia dell’ombra devota al trono...”
“Esatto. Certo non ne troveresti il resoconto sui nostri annali”.
“Una bella favola”.
“Favola? Può darsi. Una contesa per un cimitero... un’anomalia tale da entrare nella leggenda e iscriversi nella pietra per l’eternità. Vista la grande considerazione tributata da questo popolo dell’ombra ai propri oscuri avi, vivi soltanto nella memoria - si narra infatti che nessuna delle lapidi avesse il nome del defunto apposto sopra -, possedere queste tombe equivaleva ad avere il loro appoggio... almeno, così dovettero pensare quegli altolocati signori. Perciò in molti la chiamarono “la guerra del camposanto”, quasi a deridere l’empietà dell’atto. In guerra si commettono pazzie delle più gravi; lo sapevi, ragazzo?”
“Dice anche questo, l’antico racconto?”
“No! Lo dicono gli annali...e l’esperienza. E le favole,” concluse Nodin, per poi riprendere a scrivere e chiudersi in un fitto silenzio.
Sheik si drizzò in piedi. L’aria gelida era limpida e luminosa, come una gemma.
“Chi sono i vostri eroi... come avete nomati i rampolli dell’illustre dinastia?”
“Delle illustri dinastie, vorrai dire”.
“Come?”
“Quella d’ombra ha il suo campione”.
“Quale il suo nome?”
Nodin alzò il capo, con estrema lentezza. Accennò appena un sorriso.
“Ignoto,” rispose, tracciando con pazienza un’iniziale riccamente decorata sulla pergamena.

Il giovane avanzava sul crinale un passo alla volta. La lunga ombra che proiettava sul terreno sembrava sempre più assumere proporzioni mostruose.
Il sole del crepuscolo tingeva di vermiglio le valli circostanti; non spirava un solo alito di vento.
“Annunciati,” gridò un uomo a cavallo, la cui tenuta e il cui stendardo ne denunciavano e lo schieramento e la posizione, “e dicci per conto di chi vieni a parlarci”.
“Sono nessuno, e vengo per conto di nessuno”.
Non appena il ragazzo dischiuse le labbra, ogni cosa parve tacere. I grilli cessarono il canto; ogni singolo filo d’erba smise di flettersi; persino il fiume parve scorrere a rilento.
Tale la soavità del suo tono di voce che persino il principe cadetto esitò a lungo, prima di rompere il silenzio. Come quando si sfiora un filo di perle che va gradualmente a sfiorarne altri, l’eco delle sue parole continuava a permanere nell’aria, come se le avesse appena pronunciate.
“Riconosco quell’insegna,” disse infine il cadetto, osservando il ragazzo con grande attenzione: aveva capelli canuti e uno sguardo sanguigno che pareva capace di perforare. “Tu sei degli Sheikah, popolo dell’Ombra, baluardo della Luce. Che nuove ci porti?”
“Dal momento che nessuno può parlare, la mia voce è muta; e con voce muta vengo a riferirti parole mai pronunciate”.
“Ho sentito dire dei vostri enigmi e delle vostre sciarade,” ribatté il cadetto, “ma non m’interessano. Ragazzo - perché se scegli di non qualificarti, ti designerò in questo modo - perché la tua gente ha scelto d’inviare te, così giovane?”
“La mia gente non sceglie; la mia gente non gode di questo facoltà. Nemmeno i principi e i re, benché non ne siano consapevoli. Noi non comandiamo ma ubbidiamo. Non esigiamo ma serviamo. Non scriviamo ma interpretiamo. Ciascun uomo serve gli alti disegni, in verità, certuni con maggiore riluttanza che altri. Noi chiniamo il capo”.
“Affascinante”. Le armature dei soldati erano d’un tenue rosso ferrigno, a quella luce; all’occasione tintinnavano appena. Sembravano accompagnare come uno strumento la voce melodiosa del giovane. Il cadetto accarezzò la barba con una mano. “Io dico che sei venuto per le tombe dei tuoi padri. Noi combattiamo per liberarle, come saprai. Saranno vostre. Non ci è chiaro soltanto come il vostro popolo voglia schierarsi”.
“Voi combattete per le stesse ragioni per cui combattono gli altri, e le vostre ragioni non ci paiono né migliori né peggiori delle loro”.
“Sei certo di ciò che dici? Potreste trovarvi costretti a rivedere la vostra posizione”.
“Non posso esserne certo, perché io non dico. Non ho mai detto. Quello che voi sentite è soltanto il rumore del vento. Ma il rumore del vento lo sentite voi come le prime creature che vennero al mondo, e rimarrà dopo di voi”.
“Non amo gli scherzi. Non intendi dichiararci fedeltà, ho capito. Non so nemmeno se considerarti un messo. Se vedessi una delle vostre famose tecniche di battaglia, magari...”
“Non ho bisogno di provare nulla per conto di nessuno, perché nessuno me l’ha chiesto. Non vi è nulla che voglia da voi come non vi è nulla che voi possiate darmi. Soltanto...”
“Cosa?”
“Non dovete toccarle”.
“Toccarle?” il cadetto scrollò il capo. Lo stendardo giaceva, immoto ed illeggibile, accasciato sull’asta.
“Non toccate le lapidi, e non osate profanare i tumuli”.
“Ah!” il cadetto emise una lunga, fragorosa risata; poi si guardò attorno, a ricercare l’approvazione dei generali. Questi diedero qualche risolino perplesso. “Allora una richiesta c’è. Intendi negoziare?”
“Chi è nulla non può negoziare niente per conto di nessuno, giacché nessuno possiede niente”.
“Sono stanco di te e delle tue parole, ragazzo; sarò franco. Battetevi al nostro fianco, e proteggeremo il vostro onore e la vostra memoria. In caso contrario...”
“Il Caso non può essere contrario; esso segue un flusso univoco e già stabilito. Ve ne renderete conto”.
“Se non hai nulla da servirmi, oltre che sentenze vuote, devo chiederti di andartene”.
“Non ho fatto richieste né dato ordini. Ho detto semplicemente il dovuto: non dovete toccarle. Non una di quelle pietre va spostata, sfregiata, rimossa, così come la terra che ricopre le spoglie degli antichi avi”.
“Per quale ragione, se è lecito?”
“Morreste”.
“E per mano di chi?”
“Per mano di chi li ha dissolti e di chi, giorno per giorno, ci dissolve. Per mano di chi ci ha disegnati in modo che risultassimo invisibili al nostro stesso sguardo. Per mano di chi ci sottrae quella parvenza di evidenza, quella menzognera consolazione che alle altre creature è concessa. Per mano di chi vive dei nostri nomi, privandocene per l’eternità”.
“E chi sarebbe quest’essere spaventoso?”
“L’oblio,” disse secco il giovane, in modo tale da suonare grande e tremendo. La valle intera sembrò ritrarsi per lo stupore. Il cielo si fece cupo.
“Tutti temono l’ignoto, gran Signore,” aggiunse, gli occhi di colore sempre più opaco e denso. “Ma nessuno sfugge”. Poi fece un gesto – non durò più di un istante – e disparve, con una breve luce che abbagliò l’esercito intero.
Appena un momento dopo, il vento prese a ululare ferocemente.

Mentre Sheik leggeva, col cuore che sobbalzava a ogni rigo, dalla stanza adiacente giungevano dei mormorii.
Cantava ogni parola, così da imprimersela nella mente per l’eternità; all’eternità avrebbe poi dovuto consegnarla. Lo raggiunse un rumore di passi; s’interruppe.
“L’uomo è qui?” chiese rapidamente a una donna di mezza età, robusta e vigorosa. “Posso entrare?”
“Puoi entrare, ragazzo. E’ tuo padre? Un uomo tanto stanco, poveretto... camminava a malapena, quando l’ho raccolto; farneticava... sembra proprio che i suoi occhi non vedano più”.
Sheik non rispose; percorse un corridoio dalle pareti grigie, per varcare infine una soglia modesta. Di fronte a lui stava un ben misero giaciglio di legna umida e pelli.
“Sei arrivato, menestrello”. Nodin era in penombra, lungo disteso sulla sua branda fortunosa; sembrò agitare una mano nell’oscurità. “Non ti vedo”.
“Signore,” disse Sheik, e si sorprese nel sentire la sua stessa voce suonare come incrinata. Fece qualche passo; il pavimento era freddo. S’inginocchiò al capezzale dell’uomo. I suoi capelli corvini giacevano scomposti sulle pelli dove era stato deposto.
“Come ti pare la mia opera, di’ un po’?”
“Non ne ho...” Sheik esitò. “Non ne ho mai lette di migliori. Ma il vostro sguardo è opaco”.
“Sì... non credo d’aver mai scritto tanto... talora tentavo di rubar luce a qualche focolare, affacciandomi a qualche vetro. Che sciocco... la mia vista non è mai stata buona”.
“Voi mentite. Qualcuno vi ha accecato”.
“E come avrebbero potuto?” Nodin rise. “Come avrebbero potuto? La verità, ragazzo mio, è che io non vedo più, e temo che non potrò più guadagnarmi il pane componendo epitaffi”.
“Non scherzate. Avete ancora la voce...”
“La voce! La mia è la voce di un muto, lo sai. Quando la udranno tenteranno d’ammazzarmi, e sarà facile: vedi come sono ridotto. Già rimpiango la vista della carta... hai idea di quanto sia bella, sì?”
“Non è terminato”. A Sheik sembrò di dire cose futili, ma non si trattenne. “Il vostro poema non è terminato”.
“Non ha bisogno d’esserlo,” disse pacatamente Nodin, “non ne ha bisogno”.
“Mi racconti la fine. La comporrò io – di qualcosa son capace, e una chiusa mediocre è meglio di nessuna chiusa. Chi vince la guerra? A chi va il camposanto?”
Nodin rise ancora, con velata amarezza. “Proprio tu, non lo sai?”
Sheik guardò con attenzione gli occhi del poeta, che avevano ormai perso ogni luce. Erano fissi, velati e in un certo qual modo mostruosi, da cadavere. Nello scrutarli, tuttavia, avvertì qualcosa di inusitato... e indescrivibile...
“Sai, Sheik,” disse piano Nodin, pronunciando il nome che provocò un sobbalzo al suo interlocutore, “credo d’essere riuscito finalmente a comprendere il tuo mistero. Tutto quello che conosco di te è un enigma, una sciarada, una parola... un guizzo di fumo... ho sempre cercato di andare oltre questi cenni, di vedere al di là, di ricostruire i tratti di un’effigie ben celata... senza mai avvedermi del mio errore: tu sei questo...”
Sheik fu colto come da un’urgenza disperata. Era cieco eppur vedeva... “Ditemi il nome del paladino dell’Ombra. Ditemelo, voi lo conoscete...”
“Il suo nome... il tuo nome... ora sì, lo vedo chiaramente. Tu sei il significante che racchiude in sé tutti i significati... la sagoma indefinita che perciò si adatta ad ogni forma... tu sei la storia che narra ogni storia, l’animo del racconto... sì! Tu... sei il Mito...”
“Signore,” si lamentò Sheik, mentre grosse lacrime già gli scorrevano lungo le guance. Prese una delle mani ossute del poeta. “Vi prego...”
Ma Nodin sembrava aver perso i sensi; i suoi occhi erano chiusi, le sue membra inerti, il viso contratto.
Una donna s’affacciò sulla soglia.
“S’è addormentato, poveretto...?”








@Astrifiammante: Il mio tentativo era appunto quello di rendere Sheik, mediante i suoi racconti, un cantastorie 'credibile', che riecheggiasse i canti di questi ormai scomparsi, ma inestimabili, veicoli della tradizione orale. Il rapporto tra cultura e potere è questione che mi è sempre stata particolarmente a cuore (e sempre ho ammirato chi, come Goya, è stato capace di non sacrificare l'arte all'adulazione - diverso il problema per autori come Virgilio) come pure il ruolo del poeta-vate, dell'intellettuale come orecchio sensibile ai cambiamenti e ai pericoli della propria epoca. Si potrebbe a questo proposito parlare del ruolo dell'informazione nell'epoca odierna, ma non è argomento che tocchi un'epoca come quella di questa fan fiction.

La prosopopea che ti ha lasciato perplessa, invece, è altra storia. Un amico ha avuto dubbi analoghi ai tuoi, spero pertanto di riuscire a essere chiara per entrambi. Anzitutto le rivelazioni finali di Nodin sono intenzionalmente vaghe e di difficile interpretazione. Lo stesso Sheik (che è, sì, personaggio del canone) resta dubbioso, forse addirittura esterrefatto, di fronte alle ultime parole del morente. Ma non potrei fare alcun chiarimento senza rifarmi al 'nodo' della questione, vale a dire il ruolo ricoperto da Sheik nel canone. Sheik, personaggio quanto mai misterioso, è una sorta di 'maschera' assunta dalla principessa Zelda negli anni della tirannide di Ganondorf, come una differente personalità (almeno per chi, come me, non crede che Sheik e Zelda siano la stessa persona; per altri si tratta di un semplice travestimento) entro la quale viene racchiusa quella della principessa. Egli appartiene alla stirpe degli Sheikah (come pure la nutrice di Zelda), un popolo dell'ombra da sempre dedito a servire la famiglia reale ma ormai praticamente scomparso (nel titolo conta due membri soltanto, Sheik e la nutrice suddetta) e compare pressoché esclusivamente per insegnare, con la cetra, una serie di melodie dotate di potere magico all'Eroe del Tempo, Link.

Questo tutto quel che si conosce a suo riguardo. Cantore solitario, che scompare in un bagliore al termine d'ogni esibizione, oscuro e saggio compagno d'avventure dell'eroe, identità artificiale della quale nulla è dato sapere, Sheik diviene qui l'emblema del cantore errante, un veggente capace di decifrare i disegni del destino ma assolutamente inabile a ricostruire il suo (inesistente) passato, la sua provenienza, la sua discendenza, 'strumento' consapevole di servire a uno scopo ma fervidamente convinto della bontà dei propri ideali e della propria missione, al tempo stesso ignaro della propria stessa natura. Questa 'figura di carta' che trascende il tempo e vive nel canto arriva pertanto a rappresentare l'oralità (e l'auralità) e il Mito che sopravvive attraverso di essa, piuttosto che a 'incarnarlo' come le parole di Nodin lascerebbero intendere.

Spero d'aver chiarito. :) grazie mille della bella (come sempre, del resto) recensione.
  
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