Fumetti/Cartoni europei > W.i.t.c.h.
Ricorda la storia  |      
Autore: Sylphs    21/11/2013    7 recensioni
"Sul serio, Orube, dovresti dormire" gli scappò di bocca. Non erano parole inconsuete, anzi. La cosa inconsueta era che le aveva pronunciate senza cattive intenzioni o doppi fini.
La guerriera lo guardò con un occhio aperto e un altro chiuso: "Come no. Così puoi eliminarmi nel sonno".
Cedric ridacchiò: "Non lo farei mai. Le tue amichette mi ridurrebbero ad un mucchietto di cenere".
E poi non voleva farlo...
Uno scorcio della convivenza forzata tra Cedric e Orube nella libreria Ye Olde Bookshop, un guardarsi con circospezione...e anche qualcosa di più.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cedric, Orube
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Sotto la maschera, attraverso lo specchio
 
 
 
 
 
Lord Cedric si guardava fisso allo specchio, nell’oscurità dello scantinato della sua libreria, Ye olde Bookshop, e odiava il proprio riflesso umano come non aveva mai odiato nessun’altro, nemmeno le Guardiane di Kandrakar. Era stupito che l’intensità del suo odio, un odio capace di corrodere la carne come acido e prosciugare le vene ricoprendole di ghiaccio, non avesse già ridotto in cenere il giovane uomo magro che aveva di fronte. C’era un tempo, ricordò con amarezza, in cui chiunque avesse guardato in quel modo non sarebbe vissuto abbastanza da sbattere le palpebre.
Ma quel tempo era finito da un bel pezzo. Forse non c’era mai stato. Forse non era stato lui, a incutere timore, ma il suo padrone, Phobos, e tutti coloro che avevano tremato al suo cospetto, tutti coloro che si erano genuflessi baciandogli i piedi lo avevano fatto non per terrore della sua ira, ma di quella dell’ex sovrano di Meridian. Del resto, a detta di tutti quanti, comprese quelle cinque sgualdrine che avrebbe ucciso volentieri se avesse ancora avuto accesso alla sua magia, Cedric non era altro che un viscido, lurido schiavo. Un serpente infido e bugiardo, che si serviva di menzogne e mezze verità per portare i propri padroni in alto nella patetica speranza che gli avrebbero riservato un posto al loro fianco come ricompensa dei suoi servigi, una pedina in una scacchiera nella quale non sarebbe mai stato il re. Oh, era abituato a quei giudizi, li udiva in sottofondo da sempre, bisbigliati prima alla corte di Meridian quando strisciava nei corridoi per andare ad incontrare Phobos e poi a Kandrakar, dalle guardie che presidiavano la sua prigione e che avevano da offrirgli unicamente sguardi di disgusto e di biasimo.
E la cosa che più lo faceva infuriare era che non erano poi tanto lontani dalla verità.
Non era mai stato il padrone, mai in tutta la sua vita, sempre il servo, il fedele braccio destro costretto a pagare per gli errori di un potente. Quando le Guardiane lo avevano sconfitto, non avevano esultato, perché non era altro che un ostacolo, un maledettissimo ostacolo da abbattere per arrivare al vero avversario, lui, il grande, spietato e innominabile Phobos. Il signore che aveva servito per anni, che aveva sostenuto persino dopo il primo fallimento, e a causa del quale era stato confinato lì, su quello schifoso pianeta, insieme a quegli schifosi umani, in uno schifoso corpo che lo ripugnava nel profondo.
Lui non era niente. E anche adesso…anche adesso, dopo tutto ciò che aveva dovuto subire…non era altro che una marionetta nelle mani di Ludmoore. Mani forse ancor più dissennate e crudeli di quelle di Phobos, perché mosse da un totale desiderio di distruzione, da un’animalesca brama di libertà che aveva reso pazzo e sanguinario lo scrittore intrappolato nel suo stesso libro. Uno scrittore al quale si era venduto senza esitare – confermando ancora una volta che servire era la cosa che gli riusciva meglio – pur di veder soffrire le Guardiane, pur di prendersi quell’unica, amara rivincita, di levare il suo grido di protesta, di rifarsi delle torture inflittegli da loro e dall’Oracolo. Si era detto che sì, era disposto a consegnare la propria anima, sempre che ancora ne avesse una, a quell’altro pazzo esaltato se in cambio gli avesse permesso di versare il sangue di quelle ragazzine che gli avevano rovinato la vita, che era un prezzo che avrebbe pagato volentieri, pur di assaporare per l’ultima volta il gusto dolce della vendetta.
Ma non era stato come con Phobos. No, affatto.
Prima non si era mai sentito umiliato, né inferiore…forse perché si era cullato nell’illusione di non essere affatto un devoto schiavo, ma un fiero luogotenente, una presenza indispensabile e preziosa. Mentre adesso, dopo tutto quello che aveva passato, dopo che tutti gli avevano sputato in faccia, dopo che gli era stata tolta ogni cosa a parte quella polverosa libreria…di giorno in giorno la frustrazione, la rabbia, la sete di sangue crescevano, insieme all’odio per se stesso, per le Guardiane di Kandrakar, per Ludmoore.
Odiava Ludmoore. La sua consumata abilità di attore gli permetteva di fingersi deferente e servizievole, ma dentro di sé avvertiva un desiderio quasi selvaggio di scagliarsi contro quell’infuocato, maligno occhio rosso e cacciarvi dentro una lama ancora e ancora fino a devastare tanto lui quanto il libro in cui era incastonato. Era assurdo che dovesse dipendere così tanto da un volume, un insieme di carta e inchiostro, che tutte le sue speranze ruotassero intorno ad un oggetto così insignificante.
Ma doveva pazientare. Non era mai stato un tipo impulsivo, e sapeva bene quand’era il momento di accovacciarsi in un angolo buio e attendere e quando invece bisognava balzare fuori a sorpresa e attaccare. Finché le cinque sgualdrine non avessero recuperato tutte le pietre, lui sarebbe rimasto intrappolato in quel debole e ripugnante corpo umano e non sarebbe riuscito a fare nulla. No, occorreva ingoiare la furia, il risentimento e l’odio, occultarli dietro un sorriso suadente come stava già facendo e incitarle a portare a termine la missione, far leva su quell’odioso sentimento terrestre che gli dava il vomito, l’amore, che la custode del cuore provava per il ragazzo imprigionato nel libro di Ludmoore e spingerla ad affrettarsi. Poi, quando finalmente le pietre fossero state recuperate e Ludmoore liberato, avrebbe smesso di fingere una volta per tutte, sarebbe tornato potente come un tempo e le avrebbe costrette a considerarlo il vero avversario, non più un ostacolo, non sarebbe stato più un lurido servo ma l’unico a vincere, e uccise loro avrebbe provveduto anche a liberarsi di Ludmoore e di quell’idiota di Matt Olsen.
Li avrebbe obbligati a temerlo. Li avrebbe fatti pentire di tutto.
Se solo le ragazzine non fossero state così maledettamente lente…erano settimane che cercavano le pietre, settimane che si scervellavano inutilmente, e le viveva in uno stato di tensione costante. In certi momenti tenere nascosto il tumulto di sensazioni che gli cresceva dentro era stato così difficile che aveva seriamente temuto di aggredirle, di condannarsi per un gesto avventato.
Ma era Lord Cedric. Il maestro dell’inganno. Mentire, camuffarsi, era il suo pane quotidiano. Ormai trovava più facile indossare una maschera che mostrare il proprio vero volto.
Ma qual è, il tuo vero volto?
Non lo sapeva più. Lo aveva perduto da tantissimo tempo, fin da quando era bambino, forse. Troppi erano stati i ruoli che aveva dovuto interpretare per salire in alto, troppe le facce da assumere, e lentamente la sua vera identità era andata spegnendosi e perdendosi nel buio, senza che quasi se ne accorgesse, un giorno si era svegliato, in mezzo agli intrighi della corte di Meridian, e si era reso conto di aver smarrito se stesso. Non ricordava nemmeno se Cedric fosse il suo vero nome. L’unica cosa genuina era l’odio, quell’odio violento che gli mangiava l’anima e i pensieri. E se lo sarebbe tenuto stretto, lo avrebbe cullato, fino al momento in cui sarebbe emerso in tutta la sua distruttività.
Gli occhi azzurri dal taglio affilato che ricambiavano il suo sguardo attraverso lo specchio erano rabbiosi come quelli di un animale ferito, stretti in due fessure infuocate. Cedric sapeva che in quel momento si era permesso di esternare ciò che provava, ma non voleva accettare che il suo vero volto fosse quello, un ributtante ammasso di soffice carne bianca che l’Oracolo gli aveva imposto come un maleficio, appiccicandoglielo addosso e facendolo assomigliare in tutto e per tutto…ad un terrestre. Una di quelle creature deboli, orribilmente buone e altruiste, con il cervello annebbiato dall’amore e da altri tremendi aborti e i sensi ridotti ad uno zero. L’aria di quel pianeta gli dava il voltastomaco, aveva la sensazione di infettarsi ad ogni boccata, ad ogni mefitico soffio che filtrava nei suoi polmoni. Quasi preferiva le prigioni di Kandrakar, per quanto si fosse sentito impazzire tra le mura strette e gelide. Ma perlomeno non aveva mai corso il rischio di contaminarsi.
Percorse lentamente con lo sguardo la sua nuova prigione di carne e sangue, arricciando le labbra per la ripugnanza nel soffermarsi sui lineamenti affilati, sulle dita affusolate ed eleganti, sui lunghissimi capelli ramati che gli scendevano in una cascata liscia fino alle reni e sulla consistenza morbida, quasi traslucida della pelle rosea. Avrebbe voluto strapparsela con le unghie, graffiarla fino a renderla irriconoscibile, tanto detestava il proprio aspetto, il maglione grigio e i pantaloni sformati che era stato costretto ad indossare per celare la propria nudità, un’altra abitudine umana a cui faticava ad abituarsi. Forse aveva perduto se stesso, ma sapeva di non essere il giovane riflesso sul vetro, privo di magia e vulnerabile come un lattante ai poteri delle Guardiane, sapeva di dover riconquistare le sembianze dell’altro, l’enorme rettile umanoide che aveva fatto tremare le ragazzine e fremere di paura incauti nemici. Era lui, la sua unica possibilità di vittoria. E Ludmoore glielo aveva promesso, gli aveva garantito che presto sarebbe stato di nuovo suo.
Ma non ci si poteva fidare dei potenti. Non ci si poteva fidare di nessuno.
Con un ringhio di frustrazione e un sibilo basso, sferrò un pugno violento allo specchio e digrignò i denti ancora di più quando lo incrinò appena, provocandosi per contro un dolore atroce alle nocche scorticate. Era diventato così fragile da non riuscire nemmeno a distruggere una sottile lastra di vetro! Se la custode del cuore avesse voluto, avrebbe potuto farlo a pezzi con facilità ridicola.
Che tu sia maledetto, Phobos, per avermi condotto a questo punto. Che siano maledette quelle sgualdrine per aver rovinato tutto!
“Il tuo è stato un gesto decisamente sconsiderato e inutile, Cedric”.
Trasalì, facendo una sorta di salto per lo stupore. Ben poche volte gli era capitato di essere preso di sorpresa: dopotutto era stato una spia e un assassino, ed aveva imparato ad essere sempre consapevole di ciò che lo circondava. Altrimenti, gli avrebbero cacciato un pugnale in mezzo alla schiena o lanciato contro una scarica di energia magica da un pezzo.
Ma le sue abilità non funzionavano mai, quando si trattava di lei.
Si costrinse a superare il primo attimo di sbalordimento e, dopo essersi assicurato che sul suo viso vi fosse un’espressione di piatta e annoiata impassibilità, si girò verso la figura alta e scattante ferma sulla soglia dello scantinato invaso da scaffali e ragnatele: “Orube” salutò, freddo: “Non ti avevo sentita”.
La guerriera contrasse le mascelle in una posa dura, mentre i profondi occhi dorati lo esaminavano, diffidenti e indagatori come quelli di un gatto: “A cosa sono dovute quelle occhiaie?” lo interrogò brusca: “Hai un aspetto orribile”.
Cedric produsse il suo consueto sorriso irritante, l’amabile sorriso del serpente l’istante prima che balzi sulla preda con le fauci spalancate: “Grazie, mi lusinghi davvero. Ma non è una novità che il mio aspetto sia orribile”.
Lei serrò le labbra: “Cos’è che fai qui sotto?” insistette. Aveva i sensi e l’agilità di una gatta selvatica, ma alle volte sapeva essere un vero e proprio segugio, e non mollava l’osso finché non aveva ottenuto le sue spiegazioni.
Cedric inarcò le sopracciglia, nascondendo la mano dalle nocche insanguinate dietro la schiena in un gesto apparentemente casuale che gli uscì naturalissimo: “Non ho il diritto di spostarmi a mio libero piacimento nella mia libreria? Cercavo solo una lettura piacevole per ingannare il tempo” agguantò rapido un tomo a caso dallo scaffale più vicino e glielo mostrò; ebbe bisogno di dare solo una velocissima occhiata al titolo per leggerlo: “La tempesta, di Shakespeare. Un’opera interessante. Sai, ero particolarmente affascinato dal personaggio di Califano”.  
Era sicuro che lei non avesse mai sentito parlare né di Shakespeare né dei suoi personaggi. Sulla Terra ne sapeva ancora meno di lui. In effetti, da un certo punto di vista era confortante interagire con un’altra creatura aliena.
Orube si guardò attorno nella stanza infestata di ombre e sporcizia: “E riesci a leggere con questo buio?” la voce era carica di sospetto.
Cedric alzò le spalle, reprimendo a stento una smorfia infastidita; era abituato a cavarsela con una sola bugia, massimo due, ma da quando era diventato un sorvegliato speciale e le Guardiane gli avevano dato per cane mastino la guerriera di Basiliade aveva dovuto rivedere completamente le sue tattiche di autodifesa. Spesso finiva per accavallare menzogne su menzogne, e nemmeno così le toglieva dallo sguardo quell’ombra di diffidenza che non svaniva mai, qualsiasi cosa facesse: “Non è così tanto buio”.
“Lo è, invece” ringhiò Orube, irremovibile.
L’ex servitore di Phobos rilasciò un sospiro esasperato: “Di tanto in tanto anch’io ho bisogno di stare da solo, Orube. Ma ti assicuro che non ho fatto nulla che potesse danneggiare le tue amichette. Non sono uno stupido”.
Forse la sua voce aveva rivelato più astio di quanto avrebbe dovuto quando aveva nominato le Guardiane, ma non aveva mai fatto mistero di nutrire ben poca simpatia per loro. L’importante era che Orube non si accorgesse che stava facendo il doppiogioco, che non scoprisse mai i termini dell’accordo che aveva stretto con Ludmoore, altrimenti sarebbe andata in frantumi la sua unica occasione di rivincita e proprio quando stava per concretizzarsi. E senza la possibilità di vendicarsi e di riacquistare le sue vere sembianze, era finito.
Scrutò la sua sentinella da capo a piedi, cercando un particolare che gli desse il pretesto di spostare l’attenzione su di lei: “Anche le tue occhiaie sono piuttosto evidenti” sibilò mellifluo, evidenziandole con un gesto della mano magra e pallida: “Forse dovresti dormire un po’”.
Gli occhi dorati di lei si assottigliarono: “Forse dovresti provarne un’altra. Dormirò solo quando sarà strettamente necessario, e possibilmente quando lo farai anche tu”.
“Ti deciderai mai a capire che sono dalla vostra parte?” mentre pronunciava quella frase, assunse la sua espressione più innocente, la stessa che aveva fatto capitolare quell’ingenua senza cervello della Luce di Meridian. Un’altra che avrebbe volentieri voluto vedere morta.
Un’espressione che, però, non convinse affatto Orube: “Neanch’io sono una stupida, Cedric. Le fiuto, le menzogne. E smetterò di controllarti solo quando Matt sarà libero di uscire da quell’orribile libro”.
Allora credo proprio che mi rimarrai appiccicata per sempre, tesoro.
Si mostrò annoiato, portandosi i lunghissimi capelli dietro le orecchie: “Come vuoi. Non sono io quello che accumulerà un’enorme quantità di sonno arretrato. Lo dicevo per il tuo bene”.
La guerriera piegò le labbra in un ghigno aspro: “La tua premura mi commuove. Potrei quasi credere che t’importa davvero del mio benessere”.
Infastidito senza un particolare motivo, Cedric le voltò le spalle di scatto e si finse occupato con i vecchi libri ammuffiti e ingialliti dal tempo che teneva nello scantinato della libreria, opere ormai troppo malridotte per essere vendute. Maneggiare la carta fragile e il cuoio delle copertine gli dava il pretesto di non guardarla negli occhi. Anche se era ridicolo. Aveva imparato da secoli a mentire fissando il suo interlocutore dritto nelle pupille. Ma con Orube…con Orube non ci riusciva. Era alquanto seccante. E decisamente svantaggioso: essendo stata incaricata dalle Guardiane di controllarlo mentre erano via e riferire eventuali avvenimenti sospetti, la guerriera era diventata a tutti gli effetti la sua custode. E proprio per questo sarebbe stato molto meglio se fosse riuscito a ingannarla senza problemi. Invece era proprio l’unica persona nell’universo con cui aveva difficoltà a fingere.
La sua frustrazione era al suo apice. Non poteva fallire solo perché Orube era particolarmente immune alla sua abilità di bugiardo e perché non aveva la forza di guardarla negli occhi. Sarebbe stato assurdo. Quella convivenza forzata…in qualche modo avrebbe dovuto gestirla.
Mentre spostava antichi volumi a caso, al solo scopo di avere qualcosa da fare, lei si fece strada nella stanza buia, attenta a non urtare contro gli scaffali mangiati dalle tarme e infestati dalle ragnatele, e arricciò la punta del naso: “C’è una puzza tremenda qui” si lamentò, contrariata.
Cedric, per tutta risposta, emise uno sbuffo che poteva essere interpretato come un segno tanto di noia quanto di beffardo divertimento: “Non è colpa mia se hai i sensi di una gatta selvatica. Magari potresti uscire, così respirerai meglio”.
“Ah ah, Cedric” ribatté la giovane donna. Ma c’era del buonumore stavolta nella sua voce: “Hai mai pensato di dare una pulita?”
“E perché dovrei?” guardò con amore i granelli di polvere che danzavano nell’aria e i volumi sbiaditi: “È proprio questa decadenza a piacermi. Mi ricorda Meridian”.
Orube rimase in silenzio per qualche istante. Non la stava osservando, dedicava tutta la sua attenzione ai libri – per quanto fosse acutamente consapevole dei suoi movimenti, e pronto a scattare come una serpe se ce ne fosse stato bisogno – ma sentiva il suo sguardo penetrante su di sé. Strinse i pugni sudati, fingendo di non essere a disagio. Lei era completamente diversa dalle persone con cui aveva interagito e che aveva conosciuto. In tutte quante, dalla prima all’ultima, aveva percepito un po’ di falsità, ma Orube pareva esserne del tutto priva: al contrario, era estremamente diretta e senza peli sulla lingua, chiamava le cose col loro nome e spesso e volentieri si dimostrava persino indelicata o brusca. Qualità con cui Cedric non era abituato a fare i conti e che non sapeva come gestire. Quando era in sua compagnia, sentiva appieno la propria mendacità, la propria doppiezza, e dentro, nel petto, qualcosa gli doleva, anche se si rifiutava di accettare simili sensazioni.
Forse era il fatto che entrambi provenivano da pianeti alieni. Forse un’ammirazione di cui non voleva prendere coscienza. Forse…
Forse niente. È una nemica, un’alleata di quelle maledette sgualdrine, un ostacolo. Se sapesse cosa stai facendo ti ucciderebbe senza pensarci due volte. Al momento giusto, dovrà morire come le sue amichette.
“Anche a me certe cose ricordano Basiliade” disse ad un certo punto la guerriera, assorta, facendo scorrere un dito sui dorsi dei libri e raccogliendo polvere e sporcizia: “A volte passeggio e basta un particolare a farmi rivangare il passato. Mi mancano gli allenamenti con la mia maestra. E mi manca il sole”.
Cedric voltò il capo verso di lei, suo malgrado interessato: “Il sole?” le fece eco con una smorfia: “Come può mancarti il sole? C’è anche qui”.
Nel dire qui il suo tono trasudò un profondo disgusto. Pazienza.
“Non è la stessa cosa” replicò Orube, corrucciandosi: “Il sole terrestre è pallido. Smorto. Persino nelle giornate più serene fatico ad avvertire il suo calore. Quello di Basiliade, invece…sembra quasi bruciare, per quanto è intenso e luminoso. Ne sentivo i raggi attraverso il soffitto dell’accademia, come una carezza lieve sulla pelle” lo sguardo le si velò di nostalgia: “Sì, è il sole a mancarmi più di qualsiasi altra cosa”.
Lui tacque. Per la prima volta, Lord Cedric era a corto di parole suadenti. Anzi, era ancora concentrato su quelle di Orube, che si rincorrevano nella sua mente come le strofe di una canzone. Per un attimo, mentre lei raccontava, gli era parso di avercelo sopra la testa, quel sole assurdamente luminoso, e di sentirne il calore. A Meridian non gli era mai successo, era stato un regno in decadenza per gran parte del tempo in cui ci aveva abitato, e lì sulla Terra…beh, non usciva mai dalla sua libreria, il pensiero di mescolarsi agli umani lo ripugnava, perciò era diventato pallido come un fantasma e freddo come un cadavere. Ma forse la carezza dell’astro rovente di cui parlava Orube lo avrebbe riscaldato.
Rabbrividì, strappandosi a quella catena di pensieri, e si pulì i palmi impolverati sui pantaloni: “Notizie dalle Guardiane di Kandrakar?”
Parlare di loro l’avrebbe aiutato a riprendersi. Erano la barriera che lo divideva da Orube, il confine impercettibile che non gli avrebbe mai permesso di considerarla qualcosa di diverso da una nemica.
Per l’appunto, l’espressione nostalgica scomparve e la sostituì il solito cipiglio risoluto: “Vogliono andare in visita a delle sorgenti termali. Credono che le fauci del mondo si trovino lì. Altro non so. E comunque” soggiunse, come ricordandosi qualcosa: “Anche se lo sapessi, non te lo direi”.
Cedric sogghignò, subdolo: “Ovviamente”.  
Orube gli lanciò un’occhiata truce, poi nella sua maschera feroce si aprì una piccola crepa: “Sono preoccupata per loro” confessò in uno slancio di sincerità, serrando i pugni lungo i fianchi: “Specialmente per Will, è molto instabile a causa di Matt”.
Certo, pensò Cedric. L’amore era una vera e propria fregatura. Era questa la grande debolezza delle Guardiane, si lasciavano influenzare eccessivamente dai sentimenti. E sarebbe stato proprio l’amore a decretare la loro sconfitta. Per vincere bisognava essere freddi, spietati, calcolatori. Non avere niente da perdere.
“È frustrante rimanere con le mani in mano” si lamentò Orube.
“Potrei offendermi” commentò, simulando oltraggio: “La mia compagnia è davvero così deludente?”
Aveva pronunciato quella frase tanto per pronunciarla, e rimase stupito quando lei gli sorrise, aperta, mostrandogli i suoi denti bianchi e lucenti: “Escludendo il sonno arretrato, la puzza e la nullafacenza, no. Tutto sommato non mi dispiace troppo stare qui. Ci sono tantissimi libri. E tu sei una persona interessante, Cedric”.
L’uomo che un tempo era stato un mostro e che forse lo era tuttora alzò un sopracciglio, celando la strana tensione che gli era cresciuta nello stomaco: “Devo prenderlo come un complimento?”
“Sì” fece la guerriera, secca: “Non mi fido di te, sia chiaro. Ma mi interessa sapere cosa pensi”.
Chissà se sarebbe rimasta della stessa opinione nel caso in cui avesse scoperto che si era messo in combutta con Ludmoore per uccidere le sue preziose amiche. Sicuramente no. No, se avesse saputo che mirava alla disfatta delle Guardiane, non avrebbe provato che disgusto per lui. Diceva di non fidarsi, ma evidentemente aveva finito per credere almeno un po’ alla sua farsa. Altrimenti non sarebbe mai stata interessata a lui.
Turbato dalla sensazione spiacevole che avvertiva alla bocca dello stomaco, Cedric si lasciò sfuggire un aspro mormorio forse troppo avventato: “Alle tue compari non piaccio affatto. Lo sai”.
Perché ho detto una cosa del genere?
Orube rispose con naturalezza: “Neanche a te piacciono loro”.
“È una questione diversa” ribatté, piccato. Avventato!
“E in che modo?”
“Loro mi hanno fatto finire qui. Se non potrò più tornare a Meridian, se rimarrò per sempre intrappolato in questo corpo, è per colpa di quelle mocciose” sibilò, incapace di nascondere il risentimento. Le parole erano come dardi velenosi che dalla sua bocca schizzavano per la stanza. L’odio lo gonfiava come una nuvola tossica. Se non fosse stato per quelle sgualdrine… avrebbe avuto il Metamondo ai suoi piedi.
Ne sei certo? Credi davvero che Phobos avrebbe mantenuto le sue promesse?
Scosse la testa con foga per scacciare quel pensiero molesto. Doveva essere la presenza di Orube a farglieli venire.
Lei lo scrutava con i suoi occhi seri e orgogliosi, quei dannatissimi occhi capaci di penetrare dentro di lui e carpirgli segreti che nessun altro aveva portato alla luce: “Anch’io all’inizio non andavo d’accordo con le Guardiane” disse, neutra: “Le sottovalutavo, o forse sopravvalutavo me stessa. Ma poi… ho compreso che erano più forti di me e di qualsiasi altro guerriero con cui mi fossi mai confrontata. E proprio per quella che allora consideravo una debolezza. La forza delle Guardiane sta nella loro amicizia. Nei sentimenti che non hanno rinnegato mai”.
Cedric si trattenne a stento dal simulare un conato di vomito. Si contentò di piegare i lineamenti spigolosi in una smorfia sprezzante e sardonica: “Mi stupisci, Orube. Non ti credevo così sentimentale”.
La guerriera lo fulminò: “Un tempo l’avrei considerato un insulto. Ma essere sentimentali è una virtù, Cedric”.
Ne dubito assai.
“E chi vive senza amore” continuò la donna: “Non vive per davvero”.
Si sentì…deluso. Aveva pensato, scioccamente, che Orube potesse capirlo. Che fosse l’unica su quel pianeta a condividere il suo senso di smarrimento e di ripulsa per quel popolo dalle abitudini tanto assurde. Invece si era fatta fare il lavaggio del cervello dalle mocciose. Proprio lei, che appariva tanto forte e sicura di sé.
“L’aria terrestre deve averti contaminata” insinuò, pugnace.
“Se è per questo, ha contaminato anche te”.
Sobbalzò, dilatando gli occhi d’impulso: “Cosa?! Stai scherzando?” scoppiò in una risata sarcastica e schernitrice: “E in che modo mi avrebbe contaminato? No, Orube. L’unica cosa ad avermi contaminato è stata l’orrendo caffè che mi hai offerto giorni fa”.
Un’ombra di divertimento le attraversò il viso: “Il fatto che ricordi quel caffè conferma ciò che ho detto. A me non sfugge niente. E il tuo odore è l’odore di un uomo”.
Cedric arretrò da lei, cozzando con la schiena contro lo specchio e artigliandosi la stoffa dei pantaloni per cercare di resistere all’ondata di panico, inammissibile da parte sua, che gli era montata dentro davanti all’affermazione perentoria, risoluta della guerriera, alle sue iridi d’oro che lo fissavano fin nel profondo dell’anima. Mantenne a stento un’espressione imperturbabile mentre teneva a bada con meno successo il tumulto di emozioni che gli si agitava nel petto.
Lei si sbagliava. Vedeva semplicemente quello che voleva vedere. Non era diventato un uomo. Non lo sarebbe diventato mai. Era ancora quello di un tempo, ancora l’implacabile, subdola e spietata creatura che aveva soggiogato Elyon e tanti altri disperati, portandoli dalla parte di Phobos, il serpente dalla mente acuta e le parole suadenti che era stato lì lì per ottenere un potere immenso…se solo cinque sudice adolescenti a cui erano state donate capacità magiche palesemente fuori dalla loro portata non avessero deciso di mettersi in mezzo.
Gettò alla propria immagine riflessa uno sguardo allarmato da dietro la spalla. Non era quell’essere patetico. Quell’umano dalla pelle morbida e gli arti magri. Non poteva.
“Cedric” accigliata, Orube gli venne incontro protendendo le braccia e lo prese sotto le ascelle, cingendolo in una stretta tenace: “Che ti prende? Stai tremando, per Basiliade!”
“No…” scrollò il capo, schiarendosi a forza le idee, e si ritrasse dal corpo caldo e forte della giovane donna come se si fosse scottato, sbalordito che un semplice contatto fisico gli facesse quell’effetto: “Sto benissimo” ansimò, in una vacillante imitazione della sua consueta freddezza: “È stato solo…”
“Non è stato solo” sbottò Orube, brusca. Dilatò le narici, annusandolo: “Ti sento l’ansia addosso. E c’è anche…del sangue…”
Cedric si sforzò di produrre una risata beffarda, ma gli uscì un verso fiacco. Non si oppose nemmeno quando lei gli afferrò la mano con cui aveva colpito lo specchio e scoprì le nocche graffiate e sporche di rosso.
Gli occhi dorati si ridussero a due fessure: “Cos’hai fatto qui?”
“Che c’è” la provocò, mascherando il disagio con un ghigno carico di sottintesi: “Sei preoccupata per me?”
Orube reagì con un grugnito e gli vibrò un pugno non troppo forte sul torace: “Lo sapevo che non stavi leggendo, stupido. Che senso ha ferirsi da solo?”
Sembrava quasi una madre, pensò distrattamente Cedric. Una madre severa e apprensiva. Si chiese che genere di persona fosse stata la sua. Non aveva mai conosciuto i suoi genitori. Aveva trascorso la sua infanzia in un dedalo di vicoli sudici e invasi dal tanfo dei rifiuti e delle carogne occasionali di qualche animale, sepolto nei meandri della più sordida ed estrema periferia della Città Reale, sognando un giorno di poter ascendere sino al castello perlaceo e luccicante che li dominava dall’alto e perfezionando le sue doti di mutaforma. Se aveva avuto dei parenti, lo avevano abbandonato. Era stato allevato da un piccolo criminale che aveva aiutato nei suoi affari finché non l’aveva pugnalato nel sonno per conto di un altro delinquente più ricco e importante, e da lì era stata una scalata al successo che l’aveva portato, dopo mille fatiche, al servizio del sovrano Phobos.
Era sempre stato uno schiavo, solo i suoi padroni erano divenuti via via più nobili. Forse se i suoi genitori lo avessero tenuto, però, avrebbe avuto un destino diverso.
Ma erano pensieri stupidi. E inutili. Pensieri che non aveva mai formulato prima.
Doveva essere l’aria mefitica di quel maledetto pianeta. O la presenza di Orube. O l’uno e l’altro mescolati insieme. In effetti, non si sentiva nient’affatto bene.
“Siediti” gli ordinò la guerriera, brusca, spingendolo verso una poltrona polverosa e strappata sui braccioli.
Cedric le ammiccò senza troppa convinzione e fece eco alle parole che gli aveva rivolto: “La tua premura mi commuove, Orube. Quasi mi viene da credere che t’importi davvero del mio benessere”.
Lei roteò gli occhi e lo spinse senza tante cerimonie sulla poltrona: “Sta zitto, stupido metamondese”.  
Aveva una forza insospettata in quelle braccia esili ma muscolose e Cedric piombò sull’imbottitura logora come un peso morto. I capelli gli si sparsero sulle spalle e sul petto come un mantello, pesanti e intrisi di sudore. Non si era accorto di avere un tale affanno. Chiuse le dita a pugno, per nascondere a se stesso e a lei il loro tremito evidente.
“È colpa di questa maledetta aria viziata” borbottò Orube, estraendo dalla tasca dei jeans un fazzoletto di stoffa e premendoglielo contro le nocche ferite: “Non ti fa bene rimanere chiuso qui dentro giorni e giorni. Me ne rendo conto più che mai ora che lo faccio anch’io. Mi sento come…” strinse le labbra: “Un predatore in gabbia”.
Cedric tirò fuori un pallido ghigno: “Analogia migliore non potevi trovarla”.
Lei mugugnò qualcosa di incomprensibile e continuò a tamponargli la pelle lesa. Si era dimostrata una combattente implacabile e feroce, ma il suo tocco, in quell’occasione, era delicato come un sospiro. Cedric se ne scoprì turbato, in un modo scomodo e fastidioso che mai aveva sperimentato prima, e volse il capo di lato per celare quell’emozione inconsueta affiorata incautamente dalla sua maschera beffarda e annoiata. Avvertiva un bizzarro e incomprensibile calore alle guance, su quella pelle soffice e vulnerabile così diversa, così poco familiare rispetto alle squame che aveva posseduto un tempo, troppo dure e impenetrabili per permettere al sangue di filtrare così liberamente.
Non andava bene. No, affatto. Arrossire era una cosa tipica da umani. Una delle loro tante, patetiche debolezze. Proprio come piangere. O ridere.
Hai riso quando ti ha offerto quel disgustoso caffè…
Ma lui non era un uomo. Orube si sbagliava. E se ne sarebbe resa conto molto presto, appena Ludmoore gli avesse reso i suoi poteri. Quando avrebbe ridotto le sue cinque amiche ad un ammasso scomposto di sangue e organi. Allora l’avrebbe guardato nel modo giusto. Allora l’avrebbe guardato non con quel vago sospetto, ma con orrore puro.
L’unico sguardo che Lord Cedric bramava.
Davvero?
“Sono abituato a stare al chiuso” commentò, tanto per riempire il silenzio e coprire la voce indesiderata dei suoi pensieri: “E poi non ci tengo ad esplorare questo posto” aggiunse con un’ombra di avversione.
“Scopriresti che non è poi così male” replicò la guerriera, senza alzare gli occhi dalle sue nocche: “Farsi nuove esperienze ti tempra”.
“Ma io non sono un guerriero”.
Sono solo un devoto, piccolo schiavo.
“Non conta” obiettò Orube: “A tutti serve un cambiamento prima o poi. Io per esempio detesto stare al chiuso. A Basiliade passavo tutto il tempo nei cortili dell’accademia, o nei boschi ad imparare le tecniche di sopravvivenza”.
Le sorrise, sardonico: “Immagino quanto debba pesarti l’attuale situazione”.
“Non è facile” confessò lei: “Ma so adeguarmi. In realtà, Cedric…” piantò gli occhi dorati nei suoi e lo inchiodò: “Credo che quello più provato sia tu”.
Cedric fece una smorfia. Perché le sue menzogne funzionavano tanto bene con le Witch, e lei riusciva a vedere al di là di ognuna? Aveva la sensazione di essere totalmente disarmato, totalmente nudo davanti a quelle iridi color ambra. Sarebbe stato così facile, se Orube non si fosse mai aggregata alle sue odiate nemiche…se se ne fosse rimasta nella sua Basiliade, sotto al sole abbagliante, allenandosi tra gli alberi e i cespugli. Lui avrebbe potuto continuare a fare il doppiogioco senza problemi e non si sarebbe sentito così instabile, così insicuro, solo perché c’era lei a controllarlo costantemente, a soffiargli il suo fiato sul collo, a tenergli incollato addosso lo sguardo profondo.
“C’è qualcosa che ti divora l’anima” mormorò la guerriera, scrutandolo intensamente con le brune sopracciglia aggrottate.
Cedric si mosse a disagio sulla poltrona. Sarebbe voluto fuggire, non sapeva neppure dove. Aveva sempre posseduto l’istinto del serpente, e quell’istinto gli gridava di scappare a quella situazione, di aggirarla come se fosse stata un ostacolo, perché non ne avrebbe ricavato niente di buono. Stava finalmente per vendicarsi, per ottenere la sua rivincita, per far vedere alle Guardiane e a Kandrakar che esisteva, che non era soltanto l’appendice di un potente.
Non avrebbe permesso ad Orube di rovinare il progetto più importante della sua miserabile vita.
Ma l’apparenza veniva prima di tutto. Non poteva lasciare che lei si accorgesse del suo disagio interiore.
Ripulì il viso da ogni sentimento, improntandolo ad una fredda e spietata ironia: “È la stessa cosa che divora la tua. Mi manca Meridian”.
Se le precedenti bugie non l’avevano convinta, questa – che in realtà era più che altro una mezza verità – fece breccia nella sua corazza. Addolcì l’espressione e un pizzico di benevolenza le apparve negli occhi, scaldandolo mentre lei terminava di asciugargli il sangue dalle nocche e riponeva il fazzoletto macchiato di rosso: “Vedrai, Cedric, con il tempo andrà meglio” anche la voce si era fatta più soave: “Ricorderai il tuo mondo per sempre, ma smetterà di fare male”.
No. Non smetterò mai di odiare coloro che mi hanno strappato ad esso.
“E a quel punto” concluse la guerriera, lanciando uno sguardo allo specchio: “Accetterai anche te stesso”.
Ci fu un lungo momento di silenzio. Non si udiva altro rumore all’infuori del respiro calmo e regolare di Orube, di quello affannato di Cedric e di una pendola che ticchettava da qualche parte nella libreria. Di clienti ce n’erano pochi, quasi nessuno, e i rari malcapitati che osavano entrare alla Ye olde Bookshop venivano comunque rispediti al mittente da un’occhiata di puro veleno da parte del proprietario.
Cedric non sentiva il bisogno di parlare, né di pensare. Guardava Orube negli occhi come non aveva mai fatto con nessun altro. No, aveva imparato fin da piccolo che il mentitore professionista non guarda mai gli altri negli occhi: era il sistema migliore per essere scoperti. Invece adesso, per qualche ragione che gli sfuggiva, le iridi brillanti della guerriera lo catturavano, lo calmavano. E poi lei sosteneva il suo sguardo con franchezza, senza distoglierlo come facevano gli altri e senza sbattere le palpebre, proprio come avrebbe fatto un gatto.
“Ehm…” esordì alla fine il metamondese, quando gli parve che il silenzio si fosse protratto troppo a lungo e che fosse d’obbligo dire qualcosa.
Ehm. Un verso molto poco da lui. Un verso fin troppo umano. Si schiarì la gola, tentando di riprendersi: “Credo che andrò a fare del tè. Confesso di essere alquanto assetato. Ne vuoi una tazza?”
Anche Orube sembrò tornare in sé. Si scostò, innalzando nuovamente le sue barriere e lasciando che il sospetto togliesse gentilezza al suo viso – un sospetto che Cedric recepì con una morsa stritolante al petto, una morsa priva di senso giacché il rimorso non era mai stato contemplato nella sua lunga carriera di doppiogiochista – e annuì in modo brusco: “Sì, grazie. Anche se preferirei una bevanda energetica. Mi aiuterebbe a restare sveglia”.
Cedric considerò le pesanti occhiaie scure, il volto sbattuto e la stanchezza che offuscava gli occhi della guerriera. Scoprì, con grande stupore, che una parte di lui era realmente preoccupata per il suo benessere: “Provvederò” le disse in fretta, ghignando: “Ma niente cappuccini, caffè o altre diavolerie terrestri”.
“Fa come ti pare” biascicò lei, sostituendolo sulla poltrona e allungandosi come una gatta selvatica.
“Sul serio, Orube, dovresti dormire” gli scappò di bocca. Non erano parole inconsuete, anzi. La cosa inconsueta era che le aveva pronunciate senza cattive intenzioni o doppi fini. Quando aveva suggerito la stessa cosa al suo tutore, lo aveva ucciso appena era sprofondato nel mondo dei sogni.
La guerriera lo guardò con un occhio aperto e un altro chiuso: “Come no. Così puoi eliminarmi nel sonno”.
Cedric ridacchiò: “Non lo farei mai. Le tue amichette mi ridurrebbero ad un mucchietto di cenere”.
E poi non voglio.
“Oh, quanto sei rassicurante” ringhiò Orube: “È un piacere parlare con te!”
Lui le abbozzò una riverenza scherzosa: “Sempre a tua disposizione”.
La giovane donna grugnì e si girò dall’altra parte: “Fila a fare il tè e taci”.
Sorridendo, Cedric si avviò fuori dallo scantinato, sorpreso da quanto il suo passo fosse baldanzoso. Avrebbe dovuto controllare Ludmoore e magari scambiare qualche parola rapida con lui, ma ci avrebbe pensato più tardi. Al momento non desiderava altro che una buona tazza di tè e altre frecciatine da parte del suo cane mastino personale. Lo faceva solo per farle abbassare la guardia, tutto qui. Era una tecnica, niente di più.
Per quanto…Orube fosse una compagnia piacevole. L’unica ad avergli parlato solo per parlare, e non per impartirgli ordini o biasimarlo.
“Cedric?”
Si fermò sulla soglia, girandosi: “Sì?”
Non poteva vederla, l’oscurità era troppo densa. Distingueva solo una sagoma scura rannicchiata sulla poltrona, un caschetto arruffato dai riflessi bluastri.
“Non mi fido ancora di te, comunque”.
Quella precisazione lo colpì più duramente di quanto si sarebbe aspettato, tanto che non replicò immediatamente e non riuscì a riguadagnare il vantaggio con la solita, velenosa ironia. Perché avrebbe voluto che lei si fidasse. Solo per…avrebbe voluto che…si dimenticasse almeno per qualche ora di essere la sentinella e che lui era il sorvegliato speciale. Ecco. Sarebbe stato un sollievo pensare che Orube…lo credeva un alleato.
Scosse la testa più volte e si obbligò a rispondere: “Non ti ucciderò nel sonno”.
Non ti farò del male…
“Questo lo so” mugolò Orube stancamente: “Ma potresti approfittarti comunque della mia disattenzione”.
Già. Saggia.
“Torno tra poco con i rifornimenti” disse in fretta prima di uscire dalla stanza.
Con un tono flebile. Troppo flebile.
 
Angolo autrice: Hello everyone! Ecco qui una piccola shot sulla mia coppia preferita di Witch, il fumetto che praticamente ha fatto la mia infanzia e la mia prima adolescenza: Cedric e Orube! Amo questi due personaggi, amo la loro storia d’amore, ho amato la saga di Ludmoore e tutto ciò che è successo nel corso di essa :D questo mio delirio si colloca quando le Witch devono recuperare la pietra del fuoco, mi pare sia la seconda, non rileggo da un po’ e potrebbe esserci qualche imperfezione cronologica. Cedric e Orube convivono nella libreria e si guardano con circospezione…e anche l’accenno di qualcosa di più ;) spero di averli resi IC, sono più o meno quattro anni che non tocco i fumetti e mi sono basata sui vividi ricordi che avevo, comunque se qualcuno avrà voglia di farmi sapere cosa ne pensa, già in anticipo lo ringrazio perché mi farà tanto piacere :D
Un bacione a tutti!
Sylphs  
    
    
 
  
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni europei > W.i.t.c.h. / Vai alla pagina dell'autore: Sylphs