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Autore: Belle_    22/11/2013    11 recensioni
«Usagi...», ripeté con dolcezza.
Le stava accarezzando le guance piene di biancore, poi passò a toccarle i capelli dorati lasciati anonimi sulle spalle, ed infine sfiorò le sue labbra con entrambe le mani, con tutte e dieci le dita. La toccava come se fosse tutta roba sua, come se in qualche tempo tutta quella pelle, quelle palpitazioni e quelle ossa fossero state sue. Solo sue.
«Usagi...», sussurrò ancora.
Si chinò sul suo viso con gli occhi dischiusi, le labbra pronte ad improntarsi sulle sue, il respiro spezzato da un'emozione più grande.
Ma lei si scostò, spaventata, e iniziò a toccarsi le mani con morbosità.
Lui le fermò con la sua presa salda, sicura e spaventosa, consapevole di quel vizio immaturo, e la stava fissando con quegli occhi suoi, color cielo. Un cielo antico si stava stagliando su di lei, un cielo pieno di dolore. Ed era tremendo trovarsi sotto una volta così agghiacciante e morbida, meravigliosa e terribile.
* * *
...se perdessi la memoria, a chi crederesti?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inner Senshi, Mamoru/Marzio, Outer Senshi, Seiya, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi, Seiya/Usagi
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna serie
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A Mamoru e alle sue stelle.
Ai pastelli nel cielo, alle luci dei suoi occhi.
A Mamoru, quel sorriso di nuvola.

 



*Tu che conosci il cielo, saluta Dio per me.
-Luciano Ligabue.





11) Color Mamoru
Un po' cielo, un po' pastelli




Ritrovare quel viso davanti a sé, le fece un effetto triste. Un effetto che la ferì, profondamente.
Usagi aveva vissuto quei lunghissimi sei mesi concentrandosi su se stessa, sulla scuola e sugli amici. Lo aveva fatto con molta fatica, annaspando contro una vita che desiderava altro, un mondo racchiuso in un unico paio di braccia. Braccia lontane, purtroppo.
Ogni volta ripensava a lui con una tale forza da immaginarselo lì con lei, spesso le sembrava di sentire quell'odore addosso, ma resisteva. Intrappolava le lacrime dentro il suo petto e sorrideva al resto del mondo che, secondo lei, aveva perso un colore bellissimo nella scala di Iride. L'azzurro, il blu, l'indaco.
Ogni sfumatura del cielo era andata persa, in quel suo mondo ogni colore non brillava più come una volta.
Resistere era stato un tormento unico, duro, ma doveva farlo, altrimenti sarebbe impazzita.
Quando aveva saputo che Mamoru era partito per gli Stati Uniti senza salutarla, ebbe la forza necessaria per non piangere, ma si era innescato in lei un meccanismo di rifiuto. Ogni volta che sentiva il suo nome sulla bocca di qualcuno, distoglieva l'attenzione dalla conversazione.
Non parlava mai di lui spontaneamente e negava persino di averlo amato. Cercava vanamente di toglierlo dalla sua vita, cercava di oscurare quel suo passato che aveva già posseduto una nebbia vendicativa.
A volte, si diceva che recuperare la memoria non era stato un gran bene, perché quella vita lì era meglio dimenticarla.
Dopo tutto il male che si erano fatti a vicenda, quell'inerzia era risultata la cosa più grave e imperdonabile. Era sciocco, ma sentiva un grande male. E
ra stato come se fosse stata dimenticata da un grande amore e faceva un male agghiacciante, per questo si sentiva persa senza avergli detto addio. Persa senza quell'azzurro addosso, spezzata senza quel cielo colorato dal pastello giusto.
Aveva bisogno di un addio, un addio che avrebbe avuto il sapore di un bacio alle lacrime, ma non sarebbe stato più un addio, lo sapeva.
E ritrovarlo davanti a sé, quasi per magia, mandò ogni suo sforzo a frammentarsi con clangore contro quegli occhi inimitabili. Affilati dalla sofferenza, veri. Ogni barriera cadde e i suoi sentimenti, fintamente messi a tacere, rinacquero con un boato atroce.
Osservò il volto che adesso le stava davanti e fece un passo indietro, scuotendo la testa.
Non poteva accettare di trovarselo davanti, nonostante erano state numerose le volte che lo aveva immaginato e, forse, desiderato. Era incredibile come quei tratti pronunciati del viso, quelle labbra così perfettamente disegnate e quegli occhi così intensi li avesse ricordati così come erano e che sapevano ancora incantarla come la prima volta. Erano ancora una magia, solo che sapevano di bugia.
Ancora riusciva a vedere il cielo dentro quello sguardo, ancora ci aggrappava le sue speranze in silenzio. Ancora moriva dentro, ogni volta che li vedeva.
«Che ci fai qui?».
Fu spietata e autoritaria. Non avrebbe voluto farlo, esisteva una dolcezza chiara e tiepida dentro di lei, ma il dolore tornò nel suo petto con una forza brutale, spezzando via tutti quei fili di ferro che aveva costruito con meticolosità, come una trincea, attorno al proprio cuore.
Come avrebbe voluto essere ancora in coma...
Se non si fosse svegliata, lei non avrebbe rivisto Mamoru e non se ne sarebbe innamorata ancora. Sembrava impossibile non farlo; la prima volta che lo aveva visto era successo in un attimo e quel cielo le era entrato dentro, così come nell'ospedale dopo il coma. Non sapeva nemmeno chi era e già lo amava, tanto da ricordarsi quanto male faceva.
Ed ora, mentre scuoteva la testa, era successo di nuovo: un attimo e, dopo sei lunghi mesi, quel cielo le penetrava l'anima come se fosse stata la prima volta. E l'amore e il dolore continuavano a frapporsi dentro di lei in un miscuglio di sale e acqua.
Lui le sorrise e lo fece in quel modo che solo con lei usava fare, un po' triste e un po' felice, bellissimo e terribile, e le fece sentire dentro quella sensazione che le bucava ogni volta il petto. In quel continuo combattersi un opposto contro l'altro, il piacere e il dolore in una lotta spietata e senza vincitori.
Ma questo era Mamoru: amarlo era bello quanto doloroso, tanto da non sapere dove finisse l'uno e iniziasse l'altro.
La cicatrice ancora divideva lievemente la guancia dal sorriso di Mamoru, come a voler delineare un limite, una gioia che non avrebbe raggiunto i suoi occhi blu come il cielo. Quella cicatrice che si era procurato quando aveva diciassette anni in una rissa, quando il suo cielo era solitario e senza genitori a fermare il sangue delle sue ferite. Quel ragazzino spaventato e codardo che non ci metteva nulla a picchiare duro, ma che si nascondeva dalle vere sensazioni. Quel ragazzino era ancora dentro di lui, ben mascherato da quel sorriso celestiale che si portava dietro tanti demoni.
Questo era Mamoru. Con quella sua parte di cielo brillante nello sguardo, con quella sua vertigine verso la vita, la paura verso i sentimenti, con quei capelli corvini mai troppo curati e quei riflessi di ghiaccio.
Mamoru e i suoi colori. Chiari, penetranti, acidi.
Rosa chiarissimo, la sua pelle. Nero corvino, i suoi capelli. Rosso cremisi, le sue labbra. Verde foglia, la sua giacca. Bianco puro, la sua camicia. Blu notte, i suoi occhi tristi. Azzurro cielo, i suoi occhi felici. Indaco brillante, i suoi occhi dentro il corpicino di Chibichibi.
Questo era Mamoru con i suoi colori e umori. Mamoru e i fulmini che l'avevano dilaniata, Mamoru e i cieli con le stelle più tenere, Mamoru e le nuvole che avevano il sapore di zucchero. Mamoru e i suoi stramaledetti occhi azzurri. Quel pezzo di cielo che aveva cucito addosso, rubato alla natura, dentro quelle fessure piccole e profonde, quel pezzo di cielo che lei sentiva sempre addosso, sulla propria pelle. Anche quando i suoi occhi non erano posati su di lei.
Usagi riconobbe ogni emozione. Le sentì nuovamente sulla propria pelle, amare e tristi sulle mani, felici e disperate sulla sua schiena.
Si sentì ancora sua, in qualche modo irreparabile. Solo sua, per sempre.
Lui aprì la bocca e fece un passo in avanti, verso di lei. In quel suo continuo e disperato modo di tendersi verso di lei, con le mani, con gli occhi. Con quelle parole non dette e che gli rimanevano incastrate dentro, forse nella gabbia toracica, oppure tra i denti.
Sarebbero bastate quelle parole a rompere il ghiaccio che si era formato attorno a loro; quelle parole trattenute a lungo, asfissiate dentro una tormenta di sentimenti, rese carnefici di tanti sbagli.
«Sono tornato», disse semplicemente.
E semplicemente l'avvolse in se stesso, catturandola in un mondo privato e ovattato che solo con lei riusciva a dividere ed apprezzare, stringendola contro la sua pelle così fredda. Così semplicemente da rinchiuderla in quel mondo azzurro, un regno fatto di nuvole e cielo infiniti, così semplicemente da farle ritrovare il giusto equilibrio: il loro. Perso e ammaccato, ma indistruttibile. Invariabile, vero, sofferto e privato.
Altrettanto semplicemente, però, Usagi si staccò da quel mondo che la stava richiamando, annegando ancora, e schiaffeggiò Mamoru con decisione, recidendo ogni radice con quel mondo che aveva il cielo che tanto amava.
Il sorriso di rammarico, che lui le regalò, le spezzò ancora il cuore, ma non si fece impietosire. Non questa volta: quel cielo l'aveva tradita.
Barcollando, fece molti passi indietro. Lo osservò ancora una volta con quella disperata voglia di rivedere in lui ciò che più amava, studiando ogni ruga e legarla a un dolore che lei non aveva potuto curargli, ritrovando ogni ciglia al suo posto e, quelle paure, erano ancora incastrate lì. Ritrovò persino quel senso di colpa verso Galaxia che se ne stava adagiato tra le rughe d'espressione che Mamoru aveva attorno agli occhi.
Fu questo che la gelò in quel silenzio sinistro: ritrovò ogni cosa al suo posto.
Ogni maledetto dettaglio che ancora le pareva affascinante e, dentro quei dettagli tanto amari, ci si rivide. Un ricordo, un pensiero.
Ciò che avrebbe voluto fare, era toccare il volto di Mamoru con entrambe le mani, con tutte e dieci le dita, proprio come aveva fatto lui quando l'aveva trovata sveglia in ospedale. Avrebbe voluto sentire com'era riavere sotto la pelle qualcosa che le era appartenuto in qualche maniera arcana.
Qualcosa che le sfuggiva sempre...
Ci sfuggiremo sempre, Usako.
Ma non lo fece e ingoiò il dispiacere.
Non ci furono altre parole, non volle dirle questa volta, e preferì il silenzio, sentendole dentro il suo petto che spingevano per uscire dalla bocca. Soppresse quella frase che tanto sentiva di dirgli con decisione, portandosi una mano sul petto e fissandolo negli occhi con attenzione. Quegli occhi la supplicarono di parlare, di scaldare quel ghiaccio a cui la vita li aveva costretti con uno schiocco secco, leggero, marcato.
Uno schiocco ci fu, ma fu lo schiocco dei tacchi di Usagi.
Si era voltata, lasciandosi alle spalle Mamoru e il suo cielo, e aveva cominciato a correre verso casa sua, portando a inclinare brutalmente il tacco a spillo delle sue scarpe.
Si era fermata un secondo ad osservarle.
Erano azzurre, belle, fresche di vernice che avevano appena perso un tacco. Proprio come si sentiva lei in quel momento: con il cuore strappato.
Le tolse entrambe e le lasciò sul marciapiede, correndo via. Perché voleva fuggire via, era brava in questo e lo ricordava benissimo, e dimenticare quella vita tanto intricata.
Cristo, aveva solo diciannove anni! Voleva una vita spensierata!
Ancora teneva la mano sul petto che cercava, vanamente, di trattenere quella frase tra le costole e i denti. Ancora cercava di ingabbiarla nel suo singhiozzo feroce, spingendola sempre più giù, verso lo stomaco, le ovaie, le cosce e poi verso i piedi.
Via, lontano da lei. Quella frase doveva volare via.
Ma, quando entrò in camera sua nel frastuono della sua corsa e con il fiato corto, vinse la frase che riemerse nel suo corpo, salendo dai piedi fino al cuore, colpendolo con decisione, e arrivò con estrema precisione sulle sue labbra e spinse per uscire.
Vinse, vinse la frase, e Usagi si sentì nuovamente persa.
«Ti amo», mormorò alla stanza vuota.
Ti amo, ripeté dentro di sé. Come se fosse stato possibile il contrario.
Si alzò da terra e raccolse i cocci del suo cuore che erano stati sparsi ovunque in quella città, ma non dentro di lei. Un pezzo per ogni luogo che aveva diviso con Mamoru, un pezzo per ogni sofferenza che aveva ingoiato. Si era spezzata in milioni di pezzi due anni prima in quell'ospedale e non li aveva mai ritrovati, per questo si aggrappava a Mamoru. Si sentiva come una falena in cerca della luce artificiale, attratta e senza ritorno, o come Icaro che vola troppo vicino al sole con le sue ali di cera.
Non aveva voglia di fare più nulla, non era stanca, ma si sentiva distrutta.
Era solo uscita un sabato pomeriggio con Rei a fare shopping, non lo faceva da una vita, e aveva deciso di indossare subito quelle scarpe. Le erano piaciute sin da subito e non sapeva spiegarsi il perché, forse non era il modello ad attirare la sua attenzione, ma il colore che l'aveva colpita subito al cuore.
Azzurro ghiaccio. Lucide. Alte. Pericolose. Erano come Mamoru.
Si guardò i piedi nudi e arrossì. Erano sporchi per l'asfalto che avevano attraversato, freddi e bianchi, un po' umidicci. I suoi piedi da fatina erano sporchi e senza quelle meravigliose scarpe, quelle scarpe che aveva indossato da subito e che la facevano sentire diversa. Non la Usagi con la memoria persa, non quella innamorata di un uomo irraggiungibile, non quella che litigava per l'ultima coscia di pollo con Seiya, m una persona forte, sicura, con la memoria intatta e in grado di affrontare quella sofferenza nel cuore.
Adesso era nuda, di nuovo se stessa. E si odiava.
Percorse la stanza con dolcezza, sentendosi riscaldare un po' dalla moquette del pavimento, e raggiunse la finestra, notando che il cielo si era gonfiato di pioggia. Il cielo quel giorno era come lei: gonfio, nero, triste.
Scosse la testa e si asciugò le lacrime dal viso con la manica della maglia bianca che portava sul vestito estivo di colore azzurro. Ormai lei vestiva sempre di azzurro, ma non se ne rendeva veramente conto.
Era un riflesso involontario, il suo. Forse un bisogno nascosto. Vestirsi del colore del cielo, avere il cielo sulla pelle la faceva stare meglio.
Respirò profondamente e fece per voltarsi verso il suo letto, ma un particolare nella sua visuale colpì la sua attenzione e rimase impietrita.
Fu come quando vide la fotografia della festa dei suoi diciotto anni e una sensazione di deja- vu la colpì, perché fu un angolo ad attrarla, un dettaglio triste che stava oltre la fotografia e, ora, oltre la finestra. Il dettaglio della vita di Usagi era Mamoru, un dettaglio grosso come il cielo.
Lui se ne stava sotto l'albero del giardino, completamente bagnato per via della pioggia, con i capelli irrorati attorno al viso angelico, caldo, e le mani lungo i fianchi mentre stringevano quelle scarpe azzurre.
Usagi mancò due battiti. Si sentì profondamente triste nel vederlo lì, così toccata da quegli occhi che da sopra la finestra avevano l'aspetto di due lapislazzuli minuti, eppure ne vedeva una profondità spaventosa, pericolosa per la sua essenza.
Senza pensare realmente a ciò che faceva, aprì la finestra con un gesto asciutto e si sporse in fuori, bagnando completamente la sua testa bionda della pioggia estiva. Sporgendosi, fece innescare un moto di reazione nei movimenti di Mamoru e lo vide mentre faceva due passi in un fasullo slancio in avanti, ignaro di non poterla salvare se fosse caduta.
Usagi ne sorrise con dolcezza e, lasciando che la pioggia imperlasse il suo viso, inclinò il viso e gli disse: «Cosa ci fai lì? Piove».
Il suo tono non era stato acido come prima, era divenuto una soffice nuvola di premura che si dirigeva verso Mamoru.
Lui le sorrise, felice. Alzò le scarpette azzurre e il tacco ormai rotto con quelle mani grandi che avrebbero preso il viso di Usagi con un solo gesto.
«Voglio restituire la scarpetta a cenerentola», le urlò.
E lei non poté che ridere. Rise senza un reale motivo, alzando la testa al cielo, e inspirò profondamente quell'aria secca di agosto. Fu naturale sentire gli angoli della bocca aprirsi in un sorriso docile, felice, così come si sentiva insensatamente serena sotto quel cielo tumultuoso e grigio.
Abbassò lo sguardo e si addolcì, ritrovando quel Mamoru così dispiaciuto.
Chi fosse, in realtà, quell'uomo non poteva saperlo.
Sapeva così poco di lui, nonostante ne fosse perdutamente innamorata. Conosceva le sue paure a furia di ripercuoterle sulla loro storia, conosceva quel passato così sterile e senza genitori e conosceva quell'attaccamento a Galaxia e all'idea di famiglia che si era fatto. Conosceva la sua bravura in tutto e soprattutto nello spezzare cuori di pane, come il suo. Ma non sapeva poi molto, non poteva mai scorgere delle verità dentro degli occhi così profondi, così misteriosi. Si consolava nel vedere che possedeva un vero cielo dentro, ma il cielo non è vuoto, ci sono numerose stelle e pianeti a costellare il suo splendore.
Chi era Mamoru?
Non lo avrebbe mai saputo. E questo faceva paura.
«Aspettami. Scendo», disse.
Scese e lo trovò davanti a sé, spaventato. Aveva gli occhi lucidi, arrossati, mentre un sorriso appena annunciato si mostrava sul volto bagnato. Non poteva soffermarsi a pensare quanto fosse bello con quelle dolci fossette ai lati del sorriso intimidito, con quegli occhi chiari e umidi e con quei capelli lasciati modellare dal tempo e non dalle sue mani.
Avrebbe voluto accarezzargli la testa, dolcemente. Come avrebbe fatto una mamma col suo piccolo, con dolcezza e amore.
«Ciao», mormorò Mamoru.
«Ciao», gli sorrise.
Usagi fece qualche passo in avanti e inclinò la testa, completamente abbagliata da quell'immagine rarefatta che aveva davanti.
Lui, Mamoru. Con quel cipiglio così sofferente, quel pezzo di cielo addosso che lo schiacciava e che sorreggeva con fatica. Lui, così come lo vide la prima volta in quell'ospedale, davanti alla nursery.
Fu questo ricordo che le fece scaturire da dentro un pianto liberatorio, facendole versare tutte quelle lacrime nascoste e represse che sapevano di fuoco sulla sua pelle. Tutta quella sofferenza così latente: loro, l'amnesia, Galaxia, loro e l'America.
Mamoru scattò in avanti e corse verso di lei, gettando a terra le scarpe. La strinse a sé con una forza inaudita e la cullò, cercando forse di calmare anche il suo, di cuore. Quell'abbraccio era la cosa più sanante che poteva esistere.
Quanto dolore avevano masticato in quei due anni, quante sofferenze ancora dovevano dimenticare per poter essere felici. Troppe, un numero impossibile.
«Che succede?», le chiese.
Ma i singhiozzi di Usagi erano più forti di qualsiasi altra parola, erano così clamorosi che lo scuotersi del petto non cessava e il dolore inabissava la sua volontà. Il fatto era che lei lo amava così fortemente che spesso veniva investita dal suo stesso amore, un amore così malamente ricambiato.
Lei aveva fatto davvero di tutto per restare al passo di Mamoru e non si era mai fatta schiacciare dalle pesanti verità della sua vita; aveva affrontato tutto coraggiosamente, anche se aveva avuto paura, e aveva continuato a camminargli vicino. Anche se a fatica.
Lei lo amava tanto, in una maniera che dovrebbe essere illegale.
«Su, Usako», le disse dolcemente. «Sono qui adesso».
Era qui adesso! Santo cielo, non capiva!
No, non poteva capire quanto lei lo amava, quanto era stata esposta, cosa era stata capace di fare solo per lui. Solo per poter curare quelle ferite che continuavano a sanguinare nel suo cuore. Mamoru non poteva vedere tutto questo, la sua paura era come una massiccia benda sugli occhi e non si sentiva mai veramente rassicurato da lei.
Lui era in grado di affogare il suo bisogno di lei, lei no.
Lei era morta in quei sei mesi senza di lui, nonostante avesse desiderato lasciarlo andare via. Lei moriva ogni giorno, sapendo di essere stata il terzo incomodo di una lunga relazione, una relazione così malata che nonostante tutto aveva donato un bellissimo scricciolo come Chibichibi. E non c'era stata una sola notte in cui Usagi non aveva sognato la piccola che piangeva nel vedere il suo papà e la sua mamma separati, una sola notte senza il rimorso a renderla vittima di incubi tremendi.
Usagi moriva ogni giorno da quando lo aveva incontrato. E moriva ogni volta che quegli occhi la guardavano, ogni volta che sentiva quel cielo addosso a porre nostalgia e dolore alla sua pelle.
Mamoru continuava a parlare, senza che Usagi lo ascoltasse, dato che i singhiozzi erano forti e dolorosi. Ma la sua voce le entrava dentro come una filastrocca dolcissima, un leggero dondolo per il suo cuore ferito da questo bellissimo carnefice.
Lo amava così tanto da far male.
«... Non voglio lasciarti più», stava dicendo.
Quante volte lo aveva sentito? E quante volte si era trovata sola, senza di lui?
Tante volte, così tante che non avrebbe mai curato davvero quel vuoto.
Usagi alzò la testa e sentì lo stomaco contorcersi sotto quello sguardo interrogativo e bellissimo.
Lui inclinò la testa e addolcì lo sguardo, lasciando vedere a Usagi un pezzo di cielo limpido, luminoso, pieno di colore, un cielo che non aveva visto e che avrebbe voluto vedere sempre.
Le sorrise. «Ti amo».
Lei rimase a bocca aperta, incredula. Mai le aveva detto così apertamente di amarla, era stato sempre restio a manifestare i suoi sentimenti e lo diceva sempre a denti stretti. Era sempre stato spaventato da tutto questo.
Lui rise dolcemente. «Hai sentito benissimo».
E adesso era lei ad essere spaventata a morte. Perché questa volta Mamoru stava giocando davvero sporco, quella era una bugia così detta bene che un giorno, quando si sarebbe trovata di nuovo sola, avrebbe bruciato.
Bastardo! Bastardo di un Mamoru!
Lei scosse la testa, mentre un pianto soffocato percuoteva il suo petto. Decise di allontanarsi da lui, ma farlo consisteva in una rinuncia davvero coraggiosa.
Amava stare tra le sue braccia, si sentiva al sicuro, a casa. Lo amava ed era normale amare anche quelle braccia.
«So cosa stai pensando», disse ancora Mamoru.
Lei sospirò. «No, non sai cosa sto pensando».
Lui sorrise, compiaciuto, lieto di poter ritrovare quella Usagi. Lieto di un pezzo di felicità che finalmente lo baciava.
«Illuminami», le disse.
Lei affondò la testa al suo petto, sentendo con una briciola di sollievo il profumo che tanto a lungo aveva sentito vagare leggero per la città, e sorrise.
«Ti amo», mormorò.
Lui ridacchiò con dolcezza. «No, non sapevo a cosa stavi pensando».
Si guardarono e sorrisero dolcemente, l'uno complice dell'altra.
Entrambi così opposti eppure così uguali, così feriti e paurosi, così lontani eppure così vicini.
L'uno il cielo dell'altra, l'una il sorriso dell'altro. Insieme così difettosi, eppure così perfetti. Divisi così giusti, eppure imperfetti.
L'una la metà dell'altro, paradossalmente.
Quando si congiungevano, dimenticavano la loro pelle e i loro corpi. Si univano in uno di quei rari abbracci in cui era l'anima a venir sfiorata. Ed era questo che era successo dopo mesi di assenza, dopo due anni di sofferenza e torti fatti senza pietà.
La verità era che Usagi non sapeva negarsi a quegli occhi azzurri e non sapeva negar loro altro amore, quell'amore che in realtà non avevano mai avuto e apprezzato. Non sapeva ritrarsi da quell'abbraccio che sapeva di magia e bugie perché, per quanto facesse paura, Usagi ne era follemente innamorata.
Era iniziato tutto con lui, Mamoru. Lo aveva dimenticato a causa dell'amnesia, ma non c'era stata attimo in cui non lo aveva amato. Lo aveva messo da parte per poter tornare quella di una volta, amareggiata e ferita per via della sua decisione di trasferirsi in America, ma era da capire. Aveva avuto solo paura che Usagi non si fosse svegliata dal coma e, scappare da un dolore simile, era l'unica cosa sensata da fare, per lui.
E adesso erano lì, stretti in un abbraccio che non lasciava entrare l'aria, ma solo lacrime e sorrisi timidi.
Mamoru abbassò leggermente la testa e andò a posare le sue labbra su quelle di Usagi.
La baciò, delicato. Le sorrise sulle labbra e fece per staccarsi, ma lei lo fermò e infilò la sua lingua, dicendogli silenziosamente quanto lo amava. Lui l'afferrò interamente e la incastrò contro il muro del porticato, sorreggendola così come avrebbe voluto fare per una vita intera. La baciò con tutta la passione che aveva avuto per lei, con tutto quell'amore che aveva represso e che non smetteva di svegliarlo di notte.
«Non ho fatto altro che pensarti», disse sulle sue labbra. «Non ho fatto altro che rivederti dentro i miei sogni mentre piangevi».
Usagi attese in silenzio che quella confessione continuasse, mentre veniva tormentata dalle sue labbra calde e bagnate e così esperte.
«Non ho fatto altro che domandarmi in che modo ti avessi persa, in che modo avrei potuto riafferrarti, ma...», si fermò, senza fiato. «Sei così fuggevole, Usako».
Così... fuggevole? Lei?
Quella frase le bruciò il volto, perché era stata detta con tanto dolore che sentirsi scottata fu solo una sensazione.
Lo capiva e abbassò gli occhi.
Sarà sempre così, Usako.
Anche lui era sempre fuggevole con lei, si sentiva sempre un passo indietro a lui e, quando finalmente credeva di averlo raggiunto, lui fuggiva ancora.
Lontano... in America o tra le braccia di Galaxia.
E lei? Dove fuggiva?
In un'amnesia o da Seiya.
La verità era che anche lei era una codarda, si nascondeva da quell'amore e lo temeva da morire. Un po' per la sua giovane età, un po' per la grandiosità di un sentimento così profondo e così tormentato. Amare Mamoru portava tormento. Tanto.
Ma non era mai scappata, era rimasta sempre. Era rimasta quando aveva saputo che stava per sposarsi, quando si rivedeva con Galaxia, era rimasta anche quando lo aveva dimenticato tutto e ricordato lentamente. Era rimasta a tenergli la mano, sempre, e non poteva essere così ingiusto con lei.
«Non è vero», disse. «Non sono io ad essere fuggevole».
Mamoru inclinò la testa, riassaporando il ricordo di mesi prima quando erano stati davanti al porticato di casa Tsukino a guardare la neve. Si erano solo abbracciati, ma valeva così tanto per lui quell'abbraccio semplice. E adesso erano lì, dopo mesi senza vedersi e sentirsi, a riabbracciarsi di un affetto così sobrio e sincero, nonostante ci fosse una grande quantità di sofferenza da smaltire. Erano di nuovo lì, reduci da una lontananza, a baciarsi.
Era l'unica cosa che sapevano fare bene, lo sentivano entrambi che quando si congiungevano era l'unico movimento giusto, sacro per due caratteri come i loro. Per una storia come la loro, la fisicità poteva essere un toccasana, ma non c'era mai stato il tempo di potersi amare anche col corpo.
Mamoru aveva sempre voluto stare ai tempi di Usagi, non dimenticava che allora era ancora una diciassettenne e non voleva di certo rubargli qualcosa di troppo prezioso, ma era stato uno sbaglio.
Lei cercava di stare al suo passo, lui cercava di restare fermo per aspettarla, eppure non si erano mai incontrati. Erano stati entrambi fuggevoli, entrambi per amor dell'altro.
Che scemi! Scemo era Mamoru che era ebro di lei, amava quel suo lato ancora così innocente e si diceva sempre di potersi dare un'altra possibilità con lei. E scema era stata Usagi che impazziva per quel lato così acerbamente maturo di lui.
Mamoru abbassò di nuovo il capo e poggiò la sua fronte su quella di Usagi, fissandola con uno sguardo puro, intenso. Un cielo che si capovolgeva in piccolo lago turbinante.
«Hai ragione, scusami», disse a voce bassa. «Sono stato io a fuggire sempre».
Sempre. Voleva fuggire sempre da quella loro attrazione che non lasciava mai spazio ad altre azioni indipendenti, un'attrazione sibillina e così intensa che aveva macinato il cuore di Galaxia e qualsiasi cosa ci fosse stato come cornice.
«Già», parlottò Usagi. «Ma perché scappare da tutto questo?».
Aveva allargato le braccia, divincolandosi per poco da quell'abbraccio, e fece mostra, con un gesto, del magnifico annesso che impersonavano quando si univano. Era pura magia, attrazione ad un livello puro, lo sapeva.
Eppure, un po' capiva quel timore di Mamoru. Non era mai stata facile la loro storia, si erano ritrovati catapultati dentro senza avere scelta, perché era successo tutto per un fortuito caso. Si erano scontrati e si erano voluti sin da subito, ignorando deliberatamente Galaxia e il legame che la univa a Mamoru.
Tra di loro c'era qualcosa di imprescindibile. Qualcosa che, così come li aveva uniti, li avrebbe separati e tutto sarebbe successo con uno scoppio pieno di fragore e dolore, perché doloroso fu il loro incontro e doloroso sarebbe stato il loro addio.
Chi non poteva avere paura di tutto questo?
Solo una sciocca ragazzina che credeva di essere pronta ad un amore impegnativo, solo una povera romantica che trovava bella la cicatrice di Mamoru, ignorando quanto fosse stato solo e pericoloso un tempo.
Avere paura fa parte della crescita. Avere paura rende coraggiosi e Mamoru era stato temerario nel cercarla e averla voluta al suo fianco in passato, perché era un rischio per uno come lui che di sofferenze ne aveva viste.
«Perché tu mi spaventi», disse con incertezza.
Sul suo volto si disegnò una grande ombra di angoscia, portando quel sorriso a offuscarsi nelle tenebre che si dipanavano nel suo sguardo blu.
Lei corse verso di lui e lo strinse. «In che modo?».
Lui rimase senza respiro per alcuni istanti e con gli occhi sbarrati, guardando attentamente la testolina bionda di Usagi che se ne stava sul suo petto. Poi sorrise e l'accarezzò con estrema lentezza la testa.
«Per questo», rispose.
«Non capisco».
Mamoru continuò ad accarezzarle i capelli e lasciò la sua immagine per potersi dedicare al cielo grigio che stava scemando a poco a poco.
«Usagi, io non sono mai stato molto equilibrato. Io non ho più i genitori e non sai quanto una cosa simile ti segni per la vita, oltre che ricordare così poco di loro e la nostra storia», spiegò con dolcezza.
Era una dolcezza che non aveva mai cullato la sua voce e Usagi ne fu sorpresa, cominciando a domandarsi in che modo fosse riuscito ad addolcire gli spigoli del suo carattere.
«Vivere da solo non ha giovato molto al mio carattere, sai? Mi sono rintanato sempre nel mio appartamento, solo, e mi piaceva stare solo. Non ho amici, lo sai, e quando ho incontrato Galaxia mi ci sono aggrappato come fa una pulce ad un cane», scosse la testa, tormentato. «A dire la verità, in lei non ho mai trovato nulla di davvero interessante, ma mi sono cullato in quella sorta di legame che ci univa e le ho chiesto di sposarmi solo perché credevo che fosse la cosa più giusta da fare dopo un certo periodo insieme».
Usagi smise di respirare e lo fece di proposito. Sentire quelle frasi riguardo Galaxia facevano un male tremendo, un dolore che non si aspettava di conoscere davvero. Era gelosia, pura e insana gelosia.
La cosa che la feriva ancora di più era il suo cuore inesperto nei legami con chiunque incontrasse, era sempre più spaventata da questa persona che la teneva in bilico tra l'inferno e il paradiso.
«Poi, avevo appena saputo che avremmo avuto Chibichibi. Ero sicuro che l'avrei amata, quella bambina, con tutto me stesso. E non importava se avevo solo ventidue anni e senza un reale lavoro, non mi importava niente se Galaxia non era il mio tipo, me la sarei fatta piacere. Tutto pur di avere un mezzo scorcio di famiglia, pur di assaporarne il sapore buono».
Il cuore di Usagi si dimenticò di battere, lasciandola in balia di un'apprensione eccessiva verso Mamoru, quello che ancora non aveva conosciuto. Quello che senza una famiglia non sapeva distinguere un affetto profondo a quello più superficiale, quel ragazzino a cui mancavano le basi.
«Ma mi rendo conto che così ho rovinato la vita di Galaxia, tenendola appesa ad un legame fasullo. Per un mio egoistico bisogno, ho rovinato la vita a tutti coloro che mi sono stati vicini e non ho idea perché Dio abbia voluto togliermi Chibichibi dopo avermela fatta conoscere. Davvero non lo so, mi è sembrato crudele e ingiusto».
«E' stato ingiusto», confermò istintivamente Usagi.
Ma lei si riferiva a Chibichibi e alla poca vita che aveva vissuto, all'ingiustizia che si era riversata su di lei, invece di punire quei genitori distratti.
Mamoru tornò a guardarla e le prese il viso tra le dita, lo avvicinò al suo volto e la bacio dolcemente in una leggera danza di anime. Quando aprì gli occhi, in lui nacque un dolore e sospirò.
«Dopo sei arrivata tu. In un modo assurdo, con rumore, con semplicità nello stesso giorno che Chibichibi è morta. Quando ti ho vista, ho pensato che eri solo una ragazzina e in modo davvero poco gentile. Poi, però, ti ho osservato e c'era un'armonia su di te, una dolcezza così attraente mentre sorridevi che non riuscivo a staccarmi da te», stava sorridendo mentre parlava. «E quando mi hai abbracciato... be', mi sono sentito così bene che, all'inizio, ho pensato fosse un sogno. Più ti toccavo e più c'eri, più prendevi forma dentro di me. Credo di averti amata sin da subito, solo che ne avevo paura. Di te, di questa nuova sensazione. Io, quel calore...», l'abbracciò dolcemente. «Non lo avevo mai conosciuto, nemmeno quando facevo l'amore con Galaxia. Un abbraccio dolce e forte come quello, e come quelli che ci siamo sempre scambiati, non l'avevo mai conosciuto. Per questo avevo paura».
Calò gli occhi su Usagi, in cerca di una reazione a tutta quella confessione.
«Credo di aver avuto paura anche io», mormorò Usagi. «Solo che non ho avuto il tempo di pensare alla paura, Mamochan. Esistevi solo tu per me, tu e il dolore che ti portavi dietro e che cercavo vanamente di curare».
Mamoru sgranò gli occhi, facendo colare il suo cielo in lacrime, e l'abbracciò a sé con furia. Prese a baciarle il collo e salire, fino a raggiungere l'angolo della sua bocca per poterla prendere con una dolcezza così malinconica.
Lei si ruppe sotto di lui, ammaliata da quel tocco così pungente ed esperto, paralizzata dalla paura di quel futuro che finalmente si apriva davanti loro. Era rattristata da cosa aveva scorto finalmente dentro gli occhi di Mamoru, dentro quegli occhi un po' come cielo e un po' come pastelli di luce che l'avevano da sempre colorata. Aveva scorto un bambino triste e solo che la stava aspettando, un cucciolo che si leccava le sue ferite e che aveva avuto bisogno del suo tempo per poter comprendere appieno il suo bisogno di lei.
«Non sei solo, Mamochan», gli disse con la voce tremante.
Era questo che succedeva sempre: gli donava il cuore. Lo rassicurava, lo curava e lo amava tanto. In un modo da dover essere illegale.
Mamoru la baciò con molta passione, portandola sempre di più dentro il suo abbraccio per poterla respirare. La baciò così profondamente che rimase senza respiro, senza più quei rimorsi a legargli l'anima, senza più quel dolore.
Adesso erano dentro una bolla calda con delle sfumature dorate, dolcemente avviluppati dalle stelle e deliziosamente scortati in un cielo blu intenso. Adesso c'erano loro dentro un bacio che finalmente esigeva passione, contatto, amore e ansimi in un fugace abbraccio nudo.
Adesso c'erano solo loro. E quel bacio li divorava, li schiacciava l'uno contro l'altra, li ottenebrava in una desiderio leggero e sempre più pronunciato.
«Usako... io», mormorò Mamoru a denti stretti.
Usagi aprì gli occhi, dolcemente risvegliata da un incantesimo sigillato dalle sue labbra, e fissò gli occhi del suo adorato Mamochan, trovandoli scuri.
Non era il solito sguardo a concederle il paradiso, ma uno sguardo brillante, cupo in quel colore del cielo che adesso diventava notte fonda. Era uno sguardo desideroso, così sconosciuto a lei in ogni forma.
Capì cosa finalmente le stava dicendo con quegli occhi e con il respiro affannoso e si ritrovò ad essere estremamente paurosa di quel desiderio. Un desiderio che adesso prendeva anche lei.
«A- andiamo di sopra», disse, incerta.
Si spostò da lui e afferrò le sue mani, trascinandolo verso casa.
Lo stava portando dentro di lei e, forse, non se ne rendeva davvero conto.
Mamoru, però, la fermò. La osservò attentamente e l'abbracciò, rinchiudendola con una tale dolcezza che il cuore di Usagi minacciò di sgretolarsi.
«Sei sicura?», le sussurrò.
Era sicura? Doveva essere sicura sulla propria verginità?
Alzò la testa e guardò con amore il suo viso, candido e spezzato come lo aveva sempre visto. Adesso lo avrebbe avuto addosso, lo avrebbe avuto dentro quel viso, dentro il cuore, dentro la pelle.
Ripensò distrattamente alle parole di Seiya di qualche giorno prima, dopo che le aveva messo una mano sul viso e le aveva sorriso con molta dolcezza.
Ti manca, vero? Lo so, Usagi, che ti manca. Guardare te è come vedere un uccello con un'ala strappata che cerca comunque di volare.
Gli era mancato, era vero. Come l'aria. E Seiya lo aveva capito, solo lui poteva capire cosa si era scatenato dentro di lei in quei sei mesi. Solo lui aveva visto che, in quel malsano rapporto che c'era tra loro, c'era un compromesso: lui le mostrava il suo cielo e lei gli insegnava a volare. Proprio come una magia.
Solo Seiya con quel sorriso al cioccolato poteva curarla almeno un po', solo un amico che in quei lunghi sei mesi non le aveva mai voltato le spalle poteva comprendere da cosa era stata lontana. Solo Seiya, il suo migliore amico.
Per questo Usagi non era del tutto sicura di ciò che stava per fare, perché se avesse avuto Mamoru ancora più dentro della pelle e si fossero persi di nuovo, non avrebbe mai più volato. Invece di una sola ala strappata, ne avrebbe avuto due e non avrebbe mai più visto il cielo da vicino. Lei che amava il cielo.
Ma, dentro di sé, si formò un coraggio improvviso e annuì lo stesso e lo portò verso la sua camera. Era ubriaca di una sensazione nuova e, in quel tempo, non le interessava troppo cosa sarebbe il giorno dopo. Semplicemente e amaramente perché una parte del suo cuore le diceva che non potevano perdere altro tempo, loro due. Ne avevano perso già troppo.
Era spaventata, curiosa, eppure così consapevole di ciò che stava per fare. Era consapevole a cosa stava rinunciando e non era più una ragazzina cotta del suo ragazzo, era semplicemente arrivata alla consapevolezza di volersi dare interamente al suo amato uomo. All'uomo che le lasciava guardare il suo cielo.
Giunti in camera sua, si sentì fortunata nel sapere che i suoi erano via e sorrise di riflesso.
«E'... tutto ok?», domandò Mamoru.
Si avvicinò a lei e le prese il viso con la mano destra, mentre cercava di sorriderle con serietà, ma era nervoso. Si vedeva dalle leggere rughe che si dipanavano sulla fronte e dagli occhi che scintillavano. Un tuono nel cielo.
«Sì», annuì.
Alzò le punte e lo baciò. Sentì le braccia di Mamoru che l'attorniavano con dolcezza, mente tremavano, e lei stessa tremava nel suo abbraccio. E
rano entrambi spaventati, tremavano.
Lui soffiò un lieve sorriso agitato sulle sue labbra e le accarezzò i capelli.
«Usako, voglio... voglio dirti una cosa», mormorò.
Lei si fermò e aspettò, curiosa, con il sorriso sulle labbra e il rossore a colorare il volto imbarazzato.
«Io... io, ecco», cominciò col dire. «Io... io».
Era insensatamente nervoso e spaventato. Cosa lo bloccava?
Usagi gli accarezzò una guancia e capì che aveva bisogno di essere rassicurato, di doverlo abbracciare e amare.
«Mamo, ti amo», pronunciò con molta dolcezza.
Lui rise, nervosamente. «Era quello che cercavo di dirti».
Lei sorrise, serena. «Cercavi di dirmi che io ti amo?», scherzò.
Mamoru scoppiò a ridere con molta dolcezza e scosse la testa. «Cercavo di dirti che ti amo e che sentirmi amato è strano, ma è bello. Per cui, grazie, amore».
Usagi scosse la testa, sorridente.
Era conscia dell'inesperienza di Mamoru in fatto di sentimenti, ma vederlo ammettere certe sensazioni le faceva tremare il cuore, perché finalmente non vedeva più il bambino spaventato che si immischiava in una rissa. Finalmente vedeva un uomo che aveva avuto il coraggio di guardarsi allo specchio e si era lasciato raggiungere nel suo cielo.
E così una malsana consapevolezza si sciolse sulla sua schiena e nel cuore, portandola ad avere una paura grossa come un pianeta. Non bisognava perdere altro tempo, perché cominciava a sentire che di tempo non ne avevano più.
Usagi gli accarezzò nuovamente una guancia e la baciò delicatamente.
Nei gesti di Mamoru c'era una dolcezza così triste che faceva sembrare tutto come un doloroso addio, in quei cenni leggeri e così tremanti si nascondeva un amore così difficoltosamente tenero.
«Ti amo», gli sussurro con sofferenza.
Fu una sofferenza così repentina che la colpì perfidamente e che la fece tremare ancora tra le sue braccia. Aveva paura, una grande paura.
Mamoru le sorrise e l'abbagliò. «Anche io ti amo».
E il sorriso abbagliante discese sulle sue labbra, intento a baciare la sua pelle, mentre nervosamente un paio di mani fredde e abili cercavano di aprire la cerniera del suo vestito azzurro. Quel sorriso le passò accanto all'orecchio e le baciò il collo, invece delle braccia sicure e spaventose la portavano sul letto, calandola dolcemente. E quel sorriso offuscò ogni vestito che veniva gettato a terra, mentre le mani di Usagi toccavano con un amore da spezzare il cuore il petto di Mamoru. Quel sorriso la distraeva dal corpo perfetto che le si piegava sopra, cercava di adombrare i suoi futuri ricordi di quel pomeriggio e una parte di lei odiò quella luminescenza, perché sentiva di dover registrare ogni attimo. Doveva imprimere ogni movimento, qualsiasi cosa, perché temeva di perdere nuovamente tutto questo. Ma il sorriso di Mamoru vinse su di lei e offuscò ogni paura nel momento in cui si ritrovò completamente nuda sotto quel cielo color pastello che le si scioglieva addosso, ottenebrò il suo rossore e contemplò il corpo atletico e asciutto di Mamoru che non le nascondeva un desiderio davvero sofferto e grande.
Era tutto avvolto da una patina leggera e bianca, come se tutto fosse magico e coperto da una profumata polverina bianca fatata.
Usagi, però, sapeva che ogni magia ha un prezzo da pagare.
Quale prezzo avrebbe pagato?
La domanda si smaterializzò nel momento in cui la punzecchiò ancora la frase detta da Seiya, trovando una dolce verità. Così dolce che ne ebbe paura.
E' così strano vedere come insieme siete difettosi, eppure funzionate.
Ma le dimenticò nel momento in cui trovò il volto di Mamoru sul proprio volto, quel volto che le era stato lontano troppo a lungo, quel volto che aveva desiderato sin dal primo momento e che la vita le aveva tolto sempre con estrema crudeltà.
«Ciao», le disse Mamoru.
Usagi gli sorrise, incapace di far altro, e arrossì tiepidamente. «Ciao».
Il sorriso di Mamoru si aprì ancora su di lei, mentre tutto il calore della sua pelle si divideva e si plasmava sulla pelle di Usagi.
L'emozione di trovarsi pelle contro pelle era stata debilitante, spiazzava ogni senso di inibizione in entrambi che non si erano mai visti così. In quel letto non si stavano solo denudando dei vestiti, ma stavano entrando l'uno dentro il dolore dell'altra in una danza antica e suadente.
In quel letto stretto e cigolante loro ci stavano bene e lo capirono quando Mamoru, con estrema dolcezza, cercò di entrare in Usagi, portando a sgranare gli occhi dietro quel contatto divino. Carnale e doloroso.
Per Usagi ci fu un dolore secco e strascicato per qualche istante che le divampò in ogni terminazione del basso ventre e delle gambe, poi il dolore iniziò a sciogliersi mentre l'espressione apprensiva di Mamoru si faceva sempre più grave.
«Usa, va tu...», stava per domandare, ma venne bloccato da un bacio.
Si baciarono e si sorrisero, complici, e Mamoru iniziò a spingerle dentro la sua passione, ansimando a fiato leggero.
Ad ogni affondo, c'era un sospiro vaporoso che veleggiava verso la pelle dell'altro. Ad ogni spinta, c'era una risposta di Usagi che si spingeva verso di lui, cercando di dar più piacere possibile. Ad ogni movimento, c'era una reazione che portava a controllare un equilibrio perfetto e delizioso. Correvano mani su un corpo ancora tutto da scoprire, volavano sospiri deliziati e sofferenti verso una meta sconosciuta per entrambi, sfregavano pelli che non si erano mai appartenute per davvero, ma che erano nate solo per potersi congiungere un giorno.
Aveva ragione Seiya: loro insieme funzionavano.
Su quel turbinio di ansimi e di movimenti profondi scendeva la notte, fondendo le stelle col tramontare del sole, e in quel groviglio di braccia e gambe si scorgeva solo un paio di occhi color cielo che scendevano in picchiata su un lago profondo e blu. Occhi lucidi e bramanti che raccontavano un tale dolore e un tale amore che nell'oscurità erano impareggiabili.
Quando entrambi si sciolsero in un dolce e frettoloso piacere, non ebbero alcun desiderio di allontanarsi e rimasero abbracciati senza dire una parola. Entrambi tremavano ancora e respiravano affannosamente. Avrebbero voluto dirsi chissà quali parole d'amore, chissà quali pensieri avrebbe voluto esternare, ma tutto venne inevitabilmente cancellato dal bacio che li unì. Un baciò che ebbe subito un seguito più intimo e corsero a fare l'amore ancora.
Fecero l'amore abbracciati e si guardarono per tutto il tempo negli occhi, tutto si svolse molto lentamente, torturando entrambi in un ridente contatto che sembrava portare all'apice in un secondo e nell'altro si spegneva, ma con la promessa invitante e affamata di dare ancora piacere. Poi il piacere arrivò ancora e fu più intenso per entrambi, tanto da farli cascare addormentati l'uno sopra all'altro, ancora sporchi dei loro umori e del loro amore.
Siete una macchina male assemblata, eppure una macchina che cammina.
Le parole di Seiya cullarono Usagi nel sonno, mentre si sentiva dolcemente amata dalle braccia di Mamoru. Quelle braccia erano la cosa più bella che potesse desiderare di avere, perché la issavano al cielo, ma al cielo dei suoi occhi finalmente.
Non doveva più saltare per poterlo raggiungere, adesso era Mamoru che le mostrava il suo cielo e la sorreggeva con le sue braccia.


A svegliarla fu il vibrare insistente del suo cellulare.
Aveva sognato tutto il tempo Mamoru che la salutava da lontano ed era morbidamente avvolto da una nebbiolina bianca e molto gradevole, ma non se ne spiegava il motivo. Forse, aveva così paura di perderlo che tutto si riversava nei suoi sogni.
Aprì gli occhi e con la mano cercò il corpo di Mamoru, ma non lo trovò. Si voltò e, trovare il vuoto accanto, le fece sentire un freddo inspiegabile, così corse a infilarsi qualcosa. Prima di andare a vedere la chiamata del suo cellulare, diede uno sguardo al cielo ed era nero e completamente cosparso di stelle lucenti.
Non ricordava di aver mai visto un cielo così maestoso, se non dentro lo sguardo di Mamoru.
Sorrise e ripensò a cosa aveva appena condiviso con quello che doveva essere il suo amore rinnegato. Avevano fatto l'amore. Nemmeno lei ci credeva.
Arrossì e si toccò il ventre, mentre sentiva una fitta profonda di imbarazzo.
Raggiunse il comodino e, invece di prendere il suo cellulare, afferrò un foglio di carta metodicamente piegato in quattro. Lo portò al naso e ne inspirò il dolce profumo che riconobbe subito come il profumo di Mamoru.
Lo aprì.

''Scusami se non mi troverai, quando ti sveglierai. Vengo a prenderti domani mattina e ti porterò a fare colazione, anzi voglio fare colazione con te tutte le mattine della mia vita. E' stato bello guardarti dormire.
Ti amo tantissimo, Usako.
Mamo''.



Usagi sorrise dolcemente ed ebbe il cuore colmo di gioia nel sapere che avrebbe fatto colazione con Mamoru e che avrebbe voluto farla ogni mattino con lei. Quel biglietto aveva il sapore della speranza. Si apriva davanti a lei una prospettiva colorata di pastello e non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo, perché era già innamorata di quel punto di vista a cui era stata lontana.
Chiuse il biglietto e lo poggiò sul suo petto, immergendosi in una dolce contemplazione dei suoi ultimi ricordi con Mamochan. Ma il vibrare petulante del suo cellulare la disturbò e finalmente rispose, profondamente infastidita dall'intrusione nei suoi ricordi, dato che ora ricordare non era più un problema.
''Pronto, Usagi? Finalmente mi rispondi!''.
Fu Rei ad aprirsi, mentre Usagi prese a tremare senza motivo. Forse fu il tono che la sua amica aveva usato a farle temere il peggio, ma decise di non dare ragione al suo istinto e sorrise.
«Dai, scusami. Sai, devo raccontarti un mucchio di cose...», cominciò.
Cercò di frenare i tremiti che la scuotevano, ma aveva insensatamente paura di ciò che stava per pararsi di fronte a lei. Sentiva qualcosa di strano attorno al suo corpo, come una delicata carezza sulle spalle.
''Oh, ascoltami. Adesso vestiti e raggiungimi''.
Usagi inclinò la testa e si domandò cosa stava accadendo a Rei.
«Rei, mi dici che ti succede?».
Il silenzio che sentì provenire dall'altra parte dell'interfono un po' la spaventò, ma dentro aveva una felicità così limpida che nulla avrebbe potuto inquinarla.
Inclinò la testa e diede tutto il tempo alla sua amica, mentre si perdeva con lo sguardo verso l'orizzonte ancora leggermente color arancio mentre si combinava dolcemente con il blu intenso della notte. Quel cielo era bellissimo: qualcosa lo aveva tinto di pastello.
''Usagi, so che, forse, non vorresti saperlo, ma Mamoru è tornato da Boston''.
Il tono incerto e a disagio di Rei la fece sentire molto più tranquilla, finalmente consapevole cosa voleva dirle tanto insistentemente. Il ritorno del suo Mamochan era stato sfiancante anche per Rei, dedusse con ironia.
«Lo so, Rei», rispose sicura. '
'Davvero?''.
«Ci siamo rivisti».
Rivisti? Oh, non era nulla in confronto a cosa era appena successo tra loro, ma Usagi non paragonava solo al fatto di aver fatto l'amore con l'unico uomo che avrebbe voluto per il resto della sua vita, ma anche al cambiamento sottile di Mamoru e al suo voler sgretolare lentamente quell'invincibile corazza.
Mamoru finalmente le aveva teso una mano e non l'aveva lasciata cadere, l'aveva sorretta anche se stavano cadendo rovinosamente verso l'inferno.
Adesso erano insieme, era un noi, e non un Usagi che ama Mamoru.
Il sospiro spezzato di Rei la impensierì, ma subito dopo sentì la sua voce ricongiungersi al dialogo.
''State insieme, vero?'', le chiese.
«Non lo so».
No, Usagi non sapeva ancora se erano una coppia, perché il loro modo di stare insieme era malato, per nulla normale. Così si ritrovò dubbiosa anche dopo aver attaccato con Rei, tanto da non trovare riposo tra le sue coperte.
Sbruffò sonoramente e si alzò dal letto, afferrando il biglietto di Mamoru che le ridonò un senso di pace per un secondo. Le parole che c'erano scritte e le promesse che erano state tacitamente sigillate quel pomeriggio volevano solo dire che, sì, erano una coppia. Una meravigliosa coppia.
Ma con Mamoru non si poteva mai dire; mille dubbi da snodare e uno appena risolto. Era un enigma continuo, un continuare di sofferenze e serenità fallaci.
Diede uno sguardo alla finestra e, sorprendendosi, trovò la figura alta di Mamoru che se ne stava appollaiato sul ramo dell'albero che era proprio vicino la sua stanza. Si spaventò e corse ad aprire la finestra, inclinando la testa dalla confusione.
Lui le rispose con un sorriso smagliante che fece invidia alle stelle e le porse un sacchetto marroncino da cui proveniva un'invitante profumo di cornetti caldi.
«Non ho resistito», disse. «Ti va una colazione adesso?».
Sembrava un bambino. Era un uomo felice finalmente e Usagi si commosse nel vedere quegli occhi così chiaro e puro, tanto da sentir il cielo fondersi alla sua pelle.
Usagi si spostò di poco e lo fece entrare nella sua stanza, sentendo il leggero fremito che aveva nelle braccia e nel cuore per poterlo abbracciare.
«Non è un po' presto?», lo canzonò.
Lui fece spallucce e la rapì in un abbraccio leggero, mentre in lei si districavano i mille dubbi da quei nodi aggrovigliati. Quell'abbraccio le ridonò la forza necessaria per qualsiasi cosa, la racchiuse in una corazza di diamante e di sicurezze. Finalmente era a casa, Usagi. Finalmente era al suo posto.
«Sono in ritardo di quasi due anni, Usako», mormorò a voce roca. «Non voglio perdere altro tempo».
Usagi sorrise impercettibilmente sul suo petto, finalmente felice di ciò che stava ascoltando e non erano solo per quelle parole che provenivano da quel cielo così vicino ormai. Stava anche ascoltando cosa la sua pelle le stava dicendo in quell'abbraccio ed erano mille suppliche sommesse di non lasciarlo andare mai più. Né in America, né da Galaxia. Doveva tenerlo lì con lei.
«Va bene», disse Usagi.
Si sedettero sul letto e iniziarono a mangiare lo stesso cornetto vuoto, sorridendosi complici.
Un morso Usagi e un morso Mamoru, mentre la stringeva in un abbraccio che non lasciava vie d'uscite.
Si stavano respirando, si stavano vivendo, si stavano amando.
«Sai di cosa ho voglia?», cominciò col dire Usagi.
Mamoru scosse la testa e la osservò, in attesa.
«Ecco, ti va di raccontarmi cosa hai fatto in questi sei mesi a Boston?».
Gli occhi di Usagi penetrarono quelli di Mamoru in quella disperata ricerca di vedere il cambiamento tanto bramato che le aveva promesso le stelle.
Mamoru le sorrise e annuì, incerto. «Da cosa posso cominciare?».
Il sorriso di Mamoru si fece lentamente più sincero e più aperto e cominciò a raccontarle una lunga storia, mentre dentro di lui si stava scatenando qualcosa, qualcosa che il cuore di Usagi leggeva con amore. E che la riempiva.
Usagi si stava colorando di Mamoru, un colore dal sapore di cielo. Quel cielo color pastello, un pastello tinto da una leggerissima luce azzurrina.
«Da te», mormorò Usagi. «Comincia da te, Mamochan».



In fine eccomi qui che calorosamente vi saluto. So di aver impiegato un anno per terminare questa storia e non è ancora finita per me, dato che la sto revisionando. Scusarmi per l'enorme ritardo di mesi credo che risulti scontato, perché chi mi segue sa che sono una ritardataria cronica, ma sono comunque felice di aver terminato questi tremendi undici capitoli. Quest'ultimo è stato particolare, perché differisce dalla realtà, ma sono soddisfatta di aver dato questo lieto fine al mio Mamochan e alla mia Usako. '
'Pastelli di luce'' è dedicato a tutti coloro che hanno amato tanto, a chi ha vissuto esperienze che hanno influito particolarmente nella loro vita, a chi ha provato dolore. A tutti.
E' dedicata a voi, ragazze. Forza, qualunque cosa si pari davanti, non vi scoraggiate e vivete al massimo e con il sorriso.


Volevo ringraziare con molto affetto il supporto di Daniela (Kitri) che mi ha revisionato questo ultimo capitolo, mi ha consigliata sulla vera vicenda e che si è dimostrata una persona molto cara e molto amica. I miei ringraziamenti vanno anche a Gabriella (Kim Nanà) autrice impeccabile e che considerò davvero una bella persona, oltre che speciale. Ringrazio anche Beppin79 che è stata la mia prima lettrice, Shelly 2010 che semplicemente adoro per il suo comportamento sempre positivo, Aryli, Cricri che è davvero simpaticissima, Emyname, Robiz, Leaf 81 e celtics. Ringrazio di cuore tutte coloro che hanno inserito la mia storia tra le seguite: aryli, ayame90, beppin79, Black_Isis, brescy, celtics, christin89, cuoricino289, DeepDerk, Emiemi, Faith 18, Fire Soul, Freegirl87, Frogvale91, Kim Nanà, Kitri, lalla5585, lyn81, Maryanto84, olga86, Pandora_2_Vertigo, QeenSerenity83, Quintessence, Ran_neechan, red85, sailor star light, sailorbu, sailorm, Seiya Kou Tsukino, Sereniti2783, Shike, Shining star 83, Strega_Morgana, taty, testolino buffo e windancer.
Un grazie enorme a tutti, GRAZIE DI CUORE.
E adesso spero di vero cuore di potermi dedicare completamente a ''Cappuccetto rosso e il cristallo d'argento'', una storia molto più leggera e che amo proprio per questa leggerezza.
Un bacione a tutti e alla prossima!
Belle!
   
 
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