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Autore: dilpa93    24/11/2013    17 recensioni
“Il momento della morte, come il finale di una storia, dà un significato diverso a ciò che lo ha preceduto”
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kate Beckett, Martha Rodgers, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Richard Castle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima stagione
Capitoli:
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“Il momento della morte, come il finale di una storia,
dà un significato diverso a ciò che lo ha preceduto”
Mary Catherine Bateson
 



 
Sente due mani posarsi sulle spalle, un tocco che quel giorno ha già provato sulla sua pelle.
“Non è facile, vero? Vederlo così immobile, silenzioso.” Una leggera risata le esce naturale mentre parla. Sa di nervosismo il modo in cui arriccia le labbra, di rabbia il greve digrignare dei denti, di mancanza e solitudine il modo cupo in cui i suoi occhi cercano di sorridere.
Kate resta immobile, sembra quasi trattenere il respiro per non mandare in frantumi la bolla in cui momentaneamente si è rinchiusa.
“Alexis si è addormentata.” Prosegue non sentendola reagire. Non la conosce bene quanto vorrebbe, ma da come Richard gliela aveva sempre descritta la immaginava diversa dalla ragazza fragile a cui sta carezzando dolcemente la schiena. “Ho preferito non svegliarla. Non vorrei ricominciasse a piangere. Non ci sono abituata, è sempre così solare. Vorrei provare a farle mangiare qualcosa più tardi o a portarla a casa, ma non credo di riuscirci.” La detective continua ad ascoltare, in silenzio, ha ripreso a respirare regolarmente. L’odore di disinfettante si mischia a quello di morte, acro e pungente. È fastidioso il modo che ha di insinuarsi nelle sue narici, senza consenso, senza che possa in qualche maniera evitarlo. Eppure, per quanto irritante e disgustoso possa essere, c’è qualcosa di stranamente dolce che l’attira, che le impedisce di cercare altro su cui concentrarsi.
“Non ho idea di come si gestisca la perdita di un genitore, erano così legati che... non so davvero da che parte cominciare. Dovrei avvisare Meredith, ma non è pronta a sentire le ovvietà che sua madre certamente avrà da dire. Non ho mai capito cosa Richard avesse visto in lei. Era forse troppo ingenuo all’epoca, lo è sempre stato in amore.”
La stupisce il modo in cui la donna riesca già a parlare di Castle al passato, anche se lui è ancora lì davanti a loro e il suo cuore continua a battere riempiendo la stanza con quell’incessante bip. “Sono andata a parlare con i medici per sapere come poter far fronte alla cosa.” Fa scivolare stanca le dita tra i capelli rossi, vaporosi, la cui piega è ancora perfettamente integra. “Tra poco verranno a prenderlo. Nel frattempo stanno rintracciando i riceventi”, un brivido percorre Kate dalla base del collo fino alla pianta dei piedi, “ho chiesto di poter essere informata circa i nomi. Ho dovuto forzare un po’ la mano, la capo reparto non era sicura di potermi mettere al corrente riguardo i dati personali, ma credo che abbia capito che non ho assolutamente intenzione di minacciarli o cose simili. Tra di loro ci sono anche due bambini, sette e dieci anni. Ho notato che... tra quei nomi c’è anche il tuo.”
Ha scelto un modo forse troppo diretto, ma pensa sia meglio non girarci intorno.
Le si mette accanto, solo allora nota che la sua mano è intrecciata con quella del figlio.
“Lo so...” sospira la detective senza alcuna inflessione nella voce che permetta di capire il suo stato d’animo.
“Speravo che l’infermiera avesse letto male.” Nota la mano che Kate tiene sulla coscia chiudersi a pungo, tanto stretta da far diventare le nocche bianche. “Ho paura che tu abbia frainteso.” Gliela carezza obbligandola a distenderla. “Non vorrei che pensassi che non voglia che tu riceva l’aiuto che meriti. Speravo solo che una ragazza così giovane non dovesse sperimentare una tale difficoltà.”
Ruota il capo, la fissa sorpresa da quelle parole. Le pupille si muovono veloci a destra e sinistra squadrando ogni centimetro del viso che si trova di fronte. Le iridi sono diventate di un verde più scuro, come quello dei pini bagnati ora rischiarati solo dalla luce fioca del sole ormai tramontato.
“Mi dispiace. Non ce la faccio.” Si alza correndo fuori. Corsa che si arresta quasi immediatamente, rallentando il passo per non dare nell’occhio. Non può sopportare quel peso, non può sopportare di sentire una madre darle l’assenso di impossessarsi del cuore del figlio.
Non c’è nulla di normale in quello. Nelle sue parole, nel suo essere così tranquilla, pacata. Non lo capisce, non capisce perché non la odi, perché cerchi invece di convincerla che va tutto bene, quando a lei sembra non andare bene affatto.
 
Martha si rammarica per quella reazione, ripetendosi che forse avrebbe dovuto aspettare che fosse lei a parlare. Magari non sarebbe riuscita a dirle nulla, non in quel momento, ma per quel poco che l’ha conosciuta attraverso i racconti di Richard è convinta che le avrebbe chiesto il permesso prima di sottoporsi a quella rischiosa operazione, prima di rubarle il cuore di una persona a lei cara.
Sarebbe stato strano, lei non ha alcun diritto di dirle fallo o, al contrario, rinuncia. Eppure per certi versi è così. Le hanno dato la possibilità di scegliere cosa fare al posto di suo figlio. E se si fosse sbagliata, se lui non avesse voluto disperdersi così, in corpi diversi, in diverse parti del mondo? Troppo tardi per tornare indietro, spera solo che sua nipote sarà in grado di perdonarla e di capirla.
Carezza il viso di suo figlio, la mano sfiora l’intera guancia.
“Oh tesoro, dimmi che ho fatto bene”, una domanda retorica con la quale, dopo un ultimo e prolungato bacio sulla fronte, lo saluta.
Raggiunge la nipote sdraiata scomodamente sulle poltroncine nere della sala d’attesa. Le dita scorrono sulle braccia lasciate scoperte dalla maglietta a mezze maniche di un blu cobalto particolarmente cupo, colore che aveva sempre fatto risaltare l’azzurro ghiaccio dei suoi occhi. Si toglie il cardigan distendendolo lungo il suo corpo. Le scosta i capelli dal viso, vedendolo così ancora impastato dalle lacrime che anche nel sonno non le danno tregua. Cortesemente chiede ad un’infermiera di tenergliela d’occhio mentre si allontana alla ricerca di Katherine.
La trova su di una sedia in un corridoio vuoto e silenzioso, tra carrelli carichi di medicinali e lettini liberi. Tiene gli occhi puntati sul pavimento scosso dal tamburellare dei piedi della ragazza. Può sentire il linoleum gemere.
Le poggia una mano sulla spalla.
Sussulta sotto quel tocco.
“Martha... non l’avevo vista. Mi scusi per essere andata via così.”
“Oh cara, ti prego, dammi del tu.”
La osserva, ininterrottamente, senza dare una risposta affermativa né di diniego a quella richiesta. Cerca di placare il suo tormento interiore. Chi ha davanti ha già affrontato il dolore della perdita, della perdita di un figlio, e ora sta per riviverlo. Com’è crudele il destino nel portarle via anche lui.
Vorrebbe che Castle non glielo avesse mai raccontato, vorrebbe non essere a conoscenza di quella storia.
“Lo sai.”
“Cosa?” Domanda con sconcerto.
“Te lo leggo negli occhi. Il tuo sguardo. È quello che hanno tutti quando sanno che hai già perso qualcuno. Oh”, sospira, “non devi preoccuparti, sono contenta che abbia trovato qualcuno con cui parlarne, io non lo facevo più da tempo ormai.”
“Mi dispiace così tanto per Alexander e per... Rick.”
“Parli come se fosse colpa tua”, la vede abbassare il capo, come in un gesto d’assenso. “No, non è così.”
“Non posso portartelo via.”
“Ascolta, me lo hanno già portato via. Non voglio che pensi che abbia accettato la cosa, che abbia accettato di non rivederlo mai più sveglio, ma purtroppo questa è la verità.”
“Non posso farlo, non ci riesco.”
“Hai ancora un po’ di tempo per decidere.”
“Ho già deciso. Non posso.”
“Non puoi, o non vuoi? Credi sarebbe più facile se non lo conoscessi?” Kate la guarda, pensando ad una risposta, ma non dice nulla, restando in silenzio ad ascoltarla. “Hai questa splendida, meravigliosa opportunità di vivere. Falla tua.”
“E Alexis? Io non-”
“Lei capirà. Non oggi, non domani, ma un giorno... Un giorno capirà. Guarderà le foto di suo padre, ripenserà a lui e non potrà non esserne orgogliosa. Sarà contenta che lui abbia aiutato tante persone, che abbia aiutato te.” Portando l’indice sotto il suo mento, le solleva il viso. Gli occhi sono quelli di una madre che parla ad una figlia.
Kate aveva scordato quello sguardo, aveva dimenticato la sensazione di calore che questo emana. La rossa, come se avesse colto i suoi pensieri, le sfiora la guancia in una carezza materna, sentendo poi una lacrima scorrerle lenta tra le dita. “Sai, ho sempre creduto che il cuore di una persona conservi la sua vera essenza. Sono certa che molti medici avrebbero di che contraddirmi, ma io so che è molto più che sangue e vene. Una parte di Richard è racchiusa nel suo cuore.
Cara, non voglio che pensi che io cerchi di convincerti solo per avere qualcosa di mio figlio ancora vicino a me, ma sarebbe mentire non dirti che sarei felice se fossi tu la custode di questa parte di lui. Katherine non rinunciare per paura. Lui non c’è più, quello là dentro non ha più niente di mio figlio, ma tu... Tu splendida creatura sei ancora qui. Vivi Kate, ti chiedo solo questo. Vivi.”
 
 
Ti chiedo solo questo. Vivi.
Sono le ultime parole a cui pensa mentre l’anestesia comincia a fare effetto sul suo corpo. Nonostante stia contando a voce alta è l’implorazione di Martha che le risuona nelle orecchie. Gli ultimi numeri sono poco più che un sussurro, li sbiascica mentre le palpebre si fanno pesanti chiudendosi.
 
Il corridoio dell’ospedale ora è gremito di gente, la sua famiglia.
Martha è stata raggiunta da Jim poco dopo la chiamata fattagli dalla figlia. È arrivato di corsa, un po’ frastornato, giusto in tempo per darle un bacio prima che venisse portata via. Kate gli aveva detto che ci sarebbe voluto tempo e invece, il giorno dopo, eccola lì, anestetizzata e pronta a riprendere in mano la sua vita e a ristabilirsi completamente. Non aveva avuto il tempo di prepararsi, non aveva avuto il tempo di pensare a cosa sarebbe successo se l’operazione fosse andata storta, non aveva avuto il tempo di pensare a cosa dire a quella donna dai capelli rossi che non aveva mai incontrato e che aveva appena perso il figlio, nuova speranza della sua Katie. La donna con la quale ora è lì ad aspettare fremente, dopo averle fatto le sue condoglianze in maniera impacciata e con le sole parole che sentiva venire da dentro sperando fossero quelle più adatte.
I ragazzi erano stati spediti lì da Montgomery.
Dopo essere stato avvertito da Kate, si era preso qualche secondo per elaborare la cosa. Il distretto era la sua casa, la sua seconda famiglia. Era fiero di quei ragazzi che in un certo senso aveva cresciuto, ed era stato felice che la squadra avesse guadagnato un membro in più anche se un po’ sopra le righe. Ed ora tutto si stava sgretolando e, per la prima volta da quando era diventato capitano, gli sembrava di non avere più il controllo su nulla. Aveva posato gli occhi sulle foto dei suoi figli e di sua moglie con la stessa velocità con cui un lampo squarcia il cielo, si era ricomposto e li aveva convocati nel suo ufficio. Aveva dato loro l’ordine tassativo di stare in ospedale fino a che non si fosse risvegliata, e sotto le loro scroscianti proteste, dichiarando di dover ancora portare a termine il caso, aveva tuonato che si sarebbe occupato di persona di mettere dietro le sbarre il responsabile di quella perdita che li aveva profondamente segnati e distrutti. Una cosa che non li aveva sorpresi era il silenzio mantenuto dalla collega sulla sua salute. Collega non era la parola giusta, amica. Si, si era questa la parola, perché dopo tutti quegli anni loro erano prima di tutto amici, avevano imparato a conoscersi ed è per questo che non erano rimasti stupiti ascoltando il discorso del capitano, ma semplicemente dispiaciuti. Non erano stati in grado di portarla a fidarsi di loro, non erano stati capaci di oltrepassare quella corazza che aveva intorno e che era più spessa di quanto avessero mai creduto.
Il tragitto in macchina verso l’ospedale era stato lungo. L’aria era tesa e pesante, tagliente. Il silenzio faceva quasi male, ma nonostante questo Esposito non aveva detto nulla, mantenendo lo sguardo fisso sull’asfalto, sulle colonne di macchine davanti a loro che si biforcavano come la lingua di un serpente illuminata da catarifrangenti rossi. Anche Ryan non aveva parlato, rimasto a fissare lo spesso vetro del finestrino segnato dalla pioggia battente. Il suo sguardo profondo e vuoto e la sua aria impassibile erano stati traditi da quell’unica lacrima che, intrappolata all’angolo dell’occhio, era poi scivolata facendo quella sorta di slalon tra la barba appena accennata.
Se si escludono quelle artificiali, esistono tre tipi di lacrime. Le lacrime basali, che mantengono idratato il bulbo oculare, le lacrime riflesse, quelle causate da un corpo estraneo nell’occhio ed, infine, quelle emotive, associate generalmente al dolore, diverse per composizione chimica alle precedenti.
Contengono infatti un elevato contenuto di prolattina e manganese. Quella lacrima solitaria, che aveva solleticato il viso dell’irlandese, era di quest’ultimo tipo, era custode di dolore per la perdita e paura ed angoscia per quell’operazione che sapeva essere lunga e rischiosa. Aveva letto un articolo in merito, mesi fa, per puro caso. Tutto era spiegato meticolosamente, ma ora non riusciva a ricordarne una sola parola, neanche le percentuali di sopravvivenza. Rammentava solo il viso sorridente del medico a lato di quei due trafiletti.
 
Lanie passeggia nervosa.
È su tutte le furie con l’amica. Con lei che l’aveva tenuta all’oscuro della sua malattia, lei che aveva deciso di parlare e liberarsi di quel peso con una persona che conosceva da poco. Ripensandoci non era arrabbiata, più infastidita. Era forse gelosia quella che per un attimo aveva provato nei confronti di Richard Castle? Si. Ma sarebbe arrivato il momento adatto per parlarne con Kate. L’avrebbe sgridata, ma in tono scherzoso, certa che avesse avuto un motivo valido per decidere di non dirle nulla. Del resto non riesce a non incolpare anche se stessa. Quando Castle era andato a parlarle era riuscita solo a rimproverarlo. Era stata l’ultima cosa che gli aveva detto. Ecco i rimorsi di cui tutti parlano, quelle ultime parole che non avresti detto se avessi immaginato che non avresti più rivisto quella persona. Talmente presa dal difendere la privacy di Kate, non aveva pensato a proteggere Kate stessa, andando a domandarle da amica, magari nel caldo confortevole del suo appartamento, comodamente sedute sul divano, cosa non andasse.
Con questi pensieri a perseguitarla si limita quindi a camminare avanti e indietro, preoccupata, facendo risuonare il tonfo sordo dei tacchi bassi che affondano nel linoleum consumato.
Alexis è ormai sveglia, tiene ancora il cardigan sulle spalle. Inspira a fondo, tirando su col naso ogni qual volta sente il magone impossessarsi di lei. La lana rilascia un profumo famigliare, lo stesso che impregna casa sua, che è solita sentire quando abbraccia Martha, che gustava quando abbracciava il padre nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. È qualcosa che la tranquillizza, che le impedisce di scoppiare davanti a tutti, davanti a persone che ancora non conosce bene, ma che conoscevano suo padre e che è certa potranno raccontarle aneddoti divertenti e bizzarri su di lui che lei ignora e che forse riusciranno a farle tornare il sorriso. Ma, mentre si abbandona alla sensazione di calore e famigliarità rilasciata dal golf, la rabbia è in agguato, ribolle, pronta ad esplodere dentro di lei. È furibonda con sua nonna, con quella decisione presa velocemente senza chiederle neanche un parere. Da che ne ha memoria è sempre stata trattata da adulta, invece, quel giorno, è come fosse tornata una bambina, incapace di comprendere e decidere. Solo più avanti, probabilmente, avrebbe capito che era semplicemente così che doveva essere.
Gli occhi, seppur arrossati e gonfi, si muovono incessantemente, finché lo sguardo non le cade sul pacchetto tenuto in mano da Ryan. Riconosce la scrittura di suo padre su quella carta da pacco un po’ malconcia.
“Quello, quello che cos’è?” La voce risulta più acuta di quanto volesse. Ogni volta che tenta di parlare a voce bassa, questa le diventa più stridula rispetto al solito, ancora non ha idea del perché di quel curioso fenomeno.
L’irlandese rigira il pacchetto tra le mani, lo spago sfrega contro le dita lasciandoci sopra sottili filamenti. Lo batte un paio di volte sul palmo, prima di passarlo verso il collega che ha teso il braccio nella sua direzione in quelle richiesta implicita.
“Credo sia un libro. L’abbiamo trovato a bordo del taxi, sui sedili posteriori.”
“Non dovrebbe essere tra le prove?” Domanda Lanie perplessa.
“Beh, abbiamo pensato che non fosse poi fondamentale per le indagini. Insomma... diciamo che nessuno sa della sua esistenza.”
“Katie non ne sarà felice.” Mormora divertito Jim.
“Si, probabilmente si arrabbierà quando verrà a sapere che lo abbiamo omesso nel verbale.” Ammette Ryan grattandosi la nuca con lieve imbarazzato.
“Vorrai dire se... se verrà a sapere che lo abbiamo omesso.” Lo corregge con prontezza Esposito.
Una risata leggera fiorisce a quelle parole, ma non è più che qualche secondo, poi nuovamente il silenzio e il gelo.
 
La porta cigola aprendosi. I passi pesanti del chirurgo scandiscono gli ultimi secondi di quell’attesa estenuante al posto del ticchettio dell’orologio alla parete.
È ormai notte fonda.
Fuori da lì la notturna New York procede come se nulla fosse accaduto.
Una famiglia esce da un ristorante. Sorridono dirigendosi verso la macchina lasciata ad un paio di isolati di distanza.
Un gruppo di ragazzi entra al cinema per godersi il secondo spettacolo, corrono verso la sala scherzando tra loro, lanciandosi i popcorn appena presi ora disseminati sulla passerella in finto velluto rosso.
Le luci intermittenti dei televisori accessi nelle case, riflettendosi nelle pozzanghere disseminate su marciapiedi e strade, rischiarano il buio di quella fresca serata primaverile.
Jim si risolleva dalla parete alla quale è stancamente appoggiato. Sfrega le mani tra loro, incitando il medico a dargli notizie strabuzzando gli occhi stanchi. Velocemente Ryan ed Esposito lo raggiungono rimanendo solo di qualche passo dietro a lui.
I nervi sono a fior di pelle. Sotto le maniche della camicia nascondono tutti una fitta pelle d’oca per quel silenzio protratto a lungo. Le bocche sono asciutte, le labbra secche.
La vena sul collo dell’irlandese pulsa senza controllo, quasi stia per scoppiare. Alexis sembra la sola ad accorgersene, seduta a terra, senza la forza di alzarsi.
“L’operazione è riuscita. Tutto è andato come previsto.”
Un forte sospiro proviene dai presenti, finalmente Jim riesce a deglutire e anche i suoi polmoni incamerano di nuovo aria.
“Adesso verrà portata in terapia intensiva. Avrei bisogno di parlare con i famigliari per i dettagli sulla degenza.”
“Parli pure liberamente”, lo incoraggia Jim, stringendo forte la mano che Martha gli ha posato sulla spalla in quell’amorevole gesto di conforto di cui anche lei avrebbe bisogno.
“Sarà un decorso abbastanza lungo. Per la prima settimana dovrà restare in completo isolamento. Dobbiamo tenere sotto stretto controllo la funzione cardiaca e la ferita chirurgica. Vogliamo scongiurare ogni tipo di infezione. Per i primi giorni il rischio di rigetto è maggiore, seguiranno una serie di antibiotici che eviteranno il suo manifestarsi a lungo andare. Avrà bisogno di sostegno una volta terminata questa settimana. Dovrà rimanere qui per almeno un mese, più avanti discuterà con me e con il suo medico curante circa le visite post operatorie. Sarà necessario un lungo periodo di riposo, i farmaci potrebbero stancarla. Il dottor Bolkowitz mi ha informato che è una donna piuttosto attiva, potrà essere scoraggiata dal dover restare ferma per tanto tempo, quindi avrà bisogno che le restiate accanto e che l’aiutiate. Anche ora, nonostante non possa vedervi, sarebbe un bene per lei sapere che c’è qualcuno. A volte anche piccole frasi che potrà riportarle l’infermiera di turno possono essere d’aiuto. Giusto qualche ora al giorno qui. So che potrebbe essere difficile, per impegni lavorativi e-”
“Non sarà un problema”, la voce della giovane Castle si fa spazio, lievemente incrinata, tra i presenti. Gli sguardi sono ora posati su di lei. Fa leva sulle braccia alzandosi a fatica dal pavimento a cui era rimasta ancorata per quasi cinque ore. “Ci sono le vacanze di primavera. Io e papà dovevamo passarle insieme, ma credo... credo che a questo punto non lo faremo, perciò...” Punta lo sguardo al soffitto. Un modo come un altro per non piangere, per intrappolare le lacrime dentro agli occhi chiari ed ingannare così la forza di gravità. Il modo più gentile per impedire a chi le è intorno di avvicinarsi nel tentativo di consolarla. “Verrò io se ci sarà bisogno. Voglio dire, se... se non ha nulla in contrario Signor Beckett.”
“Affatto, te ne sarei molto grato, e penso che Katherine ne sarebbe felice.”
Gli sorride, anche se fintamente.
Non ha nulla per cui sorridere. Nulla per cui ne valga la pena. Non adesso almeno.
Martha l’abbraccia fiera, “è molto bello quello che fai tesoro”, le sussurra all’orecchio stringendola.
 
 
Quando apre gli occhi ogni dettaglio che lentamente riesce a mettere a fuoco le porta alla mente una situazione già vissuta.
A giudicare dall’altezza del sole, che intravede al di là dello spesso vetro della finestra, deve essere primo pomeriggio.
Cerca di aggiustare la sua posizione, sentendo indolenzito il braccio parzialmente schiacciato dal corpo. Una fitta al petto le impedisce di muoversi ulteriormente. Avvicina tremante la mano sfiorando appena lo sterno, ricordandosi improvvisamente, come una folgorazione, il perché di quel dolore che si fa sempre più acuto. Si lascia andare al pianto, tentando però di soffocare la rabbia che cerca di uscire attraverso mugugni senza senso.
L’accelerare del battito cardiaco, come l’allarme in cucina che scatta quando il fumo la invade, fa accorrere da lei un’infermiera. Le soprascarpe sbuffano strisciando contro il pavimento, il fruscio del cellofan si mischia con lo schiocco dei guanti sterili in lattice quando, prima di controllare la flebo, termina di sistemarli.
Le ruote del carrello a cui è collegato il monitor stridono spostandolo. Il suono si amplifica per la stanza quasi completamente vuota.
Si tranquillizza abbastanza rapidamente, ritrovando il suo solito autocontrollo.
Osserva a lungo gli occhi dell’infermiera, il suo sguardo dolce e gentile.
Ha imparato così a riconoscerle non potendone studiare i lineamenti a causa della mascherina e della cuffietta che ne nascondono i tratti fondamentali, oltre naturalmente a concentrarsi sul suono della voce e le diverse sfumature che assume a seconda di ciò che le viene detto.
Anche la loro camminata, già dopo due giorni, non ha più segreti. Il soffiare delle soprascarpe è diverso per ognuna e riesce bene a distinguere il passo che è in esso racchiuso. Pesante e trascinato, piuttosto che rilassato e quasi inudibile.
È stata felice quando suo padre è andato a trovarla, anche se non aveva avuto la possibilità di vederlo di persona. Era stata Clarice, la caporeparto, a rivelarle la sua presenza, lasciandole poi una carezza sul viso come se fosse stato lo stesso Jim a fargliela.
“Finalmente quella ragazzina ha un po’ di compagnia.” Aveva poi esclamato spezzando il silenzio. “Sono un paio di giorni che è qui. Ci passa le ore in quella sala d’attesa e non l’ho mai vista prendere nulla più di un tè.”
“Una ragazzina. Sapresti descrivermela?”
“Piuttosto carina, pelle chiara, occhi di ghiaccio... capelli rossi.” Aveva mormorato battendo piano sulla siringa prima di infilarle l’ago nel braccio. Il viso di Kate si era illuminato, le labbra increspate lasciando intravedere un sorriso.
“Potresti farmi un favore? Potresti dirle... Dille grazie. Solo grazie.”
“Come vuoi.” Era stata la sua risposta accompagnata da un’alzata di spalle incapace di comprendere.
Dopo quel giorno Alexis è sembrata un po’ più serena, anche Clarice l’ha notato.
Nella stanza di Kate, ogni infermiera che vi fa il suo ingresso ha qualcosa da dirle. Chi le porta auguri di guarigione, chi aggiornamenti su quel buffo detective che ha momentaneamente preso il suo posto, chi notizie più tristi, come quel funerale a cui lei non ha potuto partecipare. Sa esattamente che ogni parola arriva per bocca di Alexis, lei che è i suoi occhi e le sue orecchie al di fuori di quel mondo fatto di farmaci, disinfettati, garze e suture.
Una settimana passa con lentezza, tutti i giorni sono uguali ad esclusione delle piacevoli, seppur brevi, chiacchierate con Clarice. Così, quando quella mattina sente bussare e non riesce a riconoscere il tocco di nessuno resta perplessa, guardando accigliata la porta che, senza attendere il suo assenso ad entrare, si apre davanti ai suoi occhi. Non riesce a capire perché nessuno rispetti quella semplice regola per una convivenza pacifica. Forse perché si è convinti che quando si è malati non si sia in grado o non si abbia voglia di dire ‘avanti’ oppure ‘tornate più tardi’. O semplicemente perché medici e infermiere bussano così, en passant, ignorando il reale volere del paziente.
“Le prime visite del giorno signorina.” Annuncia la voce piuttosto greve dell’inserviente. Una donna robusta, dall’aria paciosa, che si limita ad aprire le porta allungando il braccio sulla superficie di questa, mantenendosi poi di lato per far entrare i misteriosi visitatori prima di volatilizzarsi nuovamente tra i corridoi in compagnia di carrello, spazzolone e disinfettanti vari.
Sorride sorpresa vedendo un grosso mazzo di fiori avanzare verso di lei. I volti dei suoi partner sbucano dietro variopinte rose e gerbere che riempiono quella composizione.
“Ragazzi.” Si raddrizza, sprimacciando il cuscino posizionandolo poi dietro di sé. “Cosa fate qui, credevo non facessero entrare nessuno?”
Ryan poggia il vaso sul comodino in finto legno laccato di bianco e il profumo inebriante stuzzica piacevolmente i sensi di Kate.
“La tua prigionia è finita. La caporeparto ci ha concesso di entrare prima che ti trasferissero in un’altra stanza.”
“Clarice è un angelo, devo ricordarmi di ringraziarla. Ascoltate... Alexis è ancora là fuori?”
“Mh-mh.” Annuisce Esposito sbirciando fuori dalla finestra.
“Come sta?”
“Abbiamo parlato un po’. Sta meglio”, la tranquillizza l’irlandese, “mi è quasi sembrato di scorgere un sorriso mentre le raccontavamo qualche divertente storiella su Castle. Oh, e credo che quando andrai nella tua nuova camera ci troverai anche dei palloncini e un gigante orsacchiotto di peluche.”
Sorride al pensiero di tanta dolcezza. Le piacerebbe poter arrivare a conoscerla meglio e a fondo. Non sa spiegarlo, ma sente uno strano legame con quella ragazza. Potrebbe essere solo l’influenza di sapere di avere il cuore di suo padre che ora batte e pulsa forte dentro di sé, o forse Martha aveva ragione. Nel cuore di una persona c’è più di un semplice ammasso di sangue e vene.
“L’altro giorno ha fatto uno splendido discorso al funerale, il saper usare le parole deve far parte dei geni di quella famiglia.”
“Mi spiace non essere potuta venire.”
“Avevi un valido motivo.” Dice Ryan certo che sentisse il bisogno di quella rassicurazione. “Senti, noi ora dobbiamo tornare al distretto, siamo passati più che altro per darti questo.”
Da dietro la schiena di Esposito ecco spuntare ancora quel pacco rettangolare, la carta agli angoli comincia ad essere più consumata, sull’orlo di rompersi.
Lo prende tra le mani scorrendone i lati incuriosita.
“Lo aveva con sé Castle.” La delucidano. “Crediamo stesse venendo a portartelo, ma nella confusione e nel trambusto quando è arrivato qui deve essersene dimenticato.”
“Non sei obbligata ad aprirlo. Prenditi il tuo tempo. Noi torniamo domani.”
“Sei in buone mani.” Sussurra l’ispanico con un velato riferimento ad Alexis.
“Va bene, a domani. E grazie per essere passati”, mormora ancora scossa per quel misterioso pacchetto. “Aspettate”, prende una rosa bianca, ne inspira forte il profumo. La porge ai colleghi tendendo il braccio avanti a sé. “Potreste...” lascia in sospeso la frase, sicura che capiranno a chi vorrebbe la portassero.
“Certo, passiamo prima di rientrare al distretto.”
Li saluta con un ultimo sorriso, tornando poi a sfiorare quel particolare regalo che sembra scottarle tra le mani. Una sorta di personale eredità di Castle per lei.
Le dita affusolate accarezzano un’estremità dello spago, la tira debolmente, fino a che il nodo non si scioglie e il filo si affloscia stanco sul lenzuolo che la copre fino al ventre.
Toglie la carta attenta a non romperla. Ne elimina ogni piega contemplando il suo nome scritto. La calligrafia inconfondibile, l’inchiostro leggermente assorbito dalla carta color caffè espansosi come una macchia d’olio sporcando quella scritta che prima immagina dovesse essere curata e pulita.
Lascia l’involucro sul letto, accanto a lei. Davanti ai suoi occhi compare il manoscritto. La copertina è appena abbozzata, in prima pagina risalta il titolo nel suo bel carattere fine ed essenziale. Heat Wave. Le lettere sono sottili, i bordi smussati.
Lo sfoglia facendo scivolare rapidamente le pagine tra le dita.
Ne esce un biglietto che, come una piuma sospinta dal vento, vola fino a posarsi sul suo grembo.
La scrittura è fitta, ma comunque ordinata.
Lei non può sapere che era stato scritto quella fatidica mattina, dopo essere andato alla casa editrice e supplicato Gina che una copia venisse preparata in poche ore, infilandolo poi tra le pagine nel pomeriggio, prima di uscire dal parco.
 
“Ho pensato ti avrebbe fatto piacere ricevere la prima copia del libro. Ho insistito particolarmente per averla, ci tenevo ad avere il tuo parere per primo. Mi hai ridato la carica per scrivere, era tempo che non mi sentivo così ispirato, stimolato, vivo. Dopo la nostra conversazione di ieri ho cambiato un po’ di cose nel manoscritto, ho colto una sfumatura in te, forse quella che mi mancava perché il personaggio di Nikki fosse completo, così che i lettori la possano conoscere a 360° gradi. So che forse è solo l’egocentrico che è in me, e che tu tanto odi, a parlare, ma credo di aver fatto un buon lavoro e spero non ti sentirai troppo in imbarazzo per certe scene.  Non sono altrettanto sicuro per quelle due righe che ti ho dedicato in prima pagina. Non so se le hai già lette, se così non fosse, quando lo farai, sappi che lo penso davvero e che le ho scritte col cuore.”
 
Involontariamente, senza rendersi conto di quel gesto, si porta la mano libera al petto, che ora si muove impercettibilmente al ritmo di ogni pulsazione. Le sembra di sentirlo vicino, così terribilmente e irrimediabilmente vicino. Una vicinanza che quasi la spaventa.
Fa un profondo respiro prima di proseguire.
 
“Avrei potuto dirti tutto questo a voce, ma qualcosa mi ha detto che era giusto scrivertelo. Del resto non  sono certo un oratore. Un’ultima cosa prima che questo biglietto si trasformi nel ‘Nuovo romanzo americano’, grazie per avermi ascoltato ed esserti aperta con me, so quanto sia difficile.”
 
E in fondo la sua firma.
Ripone il biglietto sul comodino. Apre ancora una volta il libro girandone le prime due pagine.
La dedica si staglia sul lato destro della pagina di un tenue color crema. Nei suoi occhi verdi si riflettono quelle parole eleganti, gentili e piene di speranza.
 
Alla straordinaria Katherine Beckett,
mia amica, mia ispirazione.
Lotta, resisti, combatti, vivi e so che un giorno il mondo saprà chi sei.
 
Eccola di nuovo, quella strana sensazione di contatto, quella presenza vicino a lei.
Dentro di lei.
La intimorisce, è come sentirsi spiata dall’interno, nel proprio intimo, eppure al tempo stesso si sente tranquilla, al sicuro come non lo è mai stata. Con lui sempre accanto e il suo cuore a proteggerla.
Cuore di cui si prenderà cura ogni giorno finché potrà.
 
 
 
 
 
 
 
Diletta’s coroner:           
 
Siamo giunti alla fine.
Spero vi sia piaciuta nonostante tutto.
Non mi dilungo, vista la lunghezza del capitolo ;)
Ci tengo solo a ringraziare chiunque abbia letto, recensito e inserito la storia tra le seguite, preferite e ricordate. Grazie davvero!
Baci
  
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