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Autore: EvgeniaPsyche Rox    24/11/2013    8 recensioni
Roxas sapeva che non sarebbe riuscito a nascondere per sempre un intero universo all'interno di un cielo così piccolo.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Roxas
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun gioco
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Storm on the skin.

Talvolta si domandava come fosse iniziato tutto.
E puntualmente rispondeva con due semplici parole: ''Non ricordo.''




Prese posto sulla sua solita sedia di legno e fece per incrociare le gambe, quando un'improvvisa fitta di dolore alla caviglia gli impedì il movimento.
Roxas si sedette quindi in maniera composta e osservò suo fratello lanciargli il solito sorriso smagliante, seduto dall'altra parte del tavolo.
«Oggi spaghetti al pomodoro, cosa ne pensate?». Sua madre spuntò dalla soglia della porta con due piatti fumanti tra le mani; lo stesso sorriso di Sora, soltanto un po' più stanco e invecchiato, che però non stonava affatto, data la sua età.
«Io ne voglio tantissimissimi!»
«Te ne ho già messi un sacco, Sora. Non vorrai diventare una ciambella?»
A quella domanda il castano allontanò le mani dal tavolo e assunse un'espressione pensierosa, appoggiando l'indice sul labbro inferiore. «Mmmh... Una ciambella? E poi mi mangerete tutti?»
La donna scoppiò a ridere e appoggiò i due piatti di fronte ai ragazzi; dopodiché si chinò verso il più piccolo e gli stampò un rumoroso bacio sulla fronte, lasciando un leggero segno con il rossetto. «Non ti preoccupare, non ti mangerà nessuno.»
Sora ridacchiò un poco e si voltò verso l'altro presente, il quale era intento ad osservare un punto indefinito verso il basso. «E tu, Roxas? Tu vuoi diventare una ciambella?»
La madre nel frattempo aprì il lavandino e iniziò a sciaquare i piatti rimasti dalla colazione.
«Roxas? E tu?»
Il biondo alzò leggermente le iridi blu verso l'altro, senza però guardarlo veramente.
O forse era lui che non veniva mai guardato per davvero.
«E io cosa?»







Girò la chiave e udì il suono della serratura rimbombare nel bagno; successivamente si voltò e fece qualche passo in avanti, sospirando pesantemente.

''Roxas, da quando hai iniziato a chiudere la porta a chiave?''

 

Da quando aveva trovato qualcosa da nascondere.
Si tolse la felpa e la cannottiera; poi si sfilò lentamente i jeans e si volse verso lo specchio, guardando con aria indecifrabile ciò che era rimasto di lui.
Era sempre lui, Roxas?
Lo stesso bambino che una volta amava passare la notte della vigilia di Natale in soggiorno per poter svegliarsi per primo accanto ai regali sotto l'albero? Lo stesso Roxas che conoscevano i suoi compagni, quello pacato, un po' distaccato forse, ma comunque sempre impeccabile?
O forse quelle precedenti erano tutte maschere, un ammasso di stronzate? Come Babbo Natale? Come quella figura rossa che aveva aspettato ogni notte e che mai si era presentata?
Roxas abbassò gli occhi verso le proprie gambe e vide dei lampi illuminare il cielo che si estendeva sulla sua pelle. Pensò agli uomini primitivi che non conoscevano nessuna scrittura e che di conseguenza utilizzavano le tacche per segnare tutte le pecore del gregge.
Si sfiorò il cielo e tremò un poco, immaginando se stesso come un uomo primitivo proiettato nel presente. Non pareva conoscere alcuna scrittura, o meglio, non pareva conoscere alcun modo concreto per sfogare la propria angoscia, e allora utilizzava delle tacche.
Delle tacche tra le caverne del suo corpo.
Inchiostro rosso, non disponeva di altro, purtroppo.
Roxas, o meglio, quel che era rimasto di Roxas fece scivolare anche i boxer sul gelido pavimento a piastrelle e si infilò nella doccia dopo aver preso il suo shampoo preferito dal primo cassetto.
Poi esitò un attimo, guardò nuovamente i lampi sparsi sul suo cielo, si mordicchiò ripetutamente il labbro inferiore e si decise ad aprire la doccia, cercando di spostare il getto nell'angolo in attesa che l'acqua diventasse più calda.
Brevi flash della giornata passata nel frattempo riemersero dall'oceano in burrasca della sua mente; frasi, rimproveri, voti, parole, sguardi. Frammenti apparentemente quotidiani; apparentemente, apparentemente perché per lui erano macigni opprimenti.
Alcune gocce più tiepide gli sfiorarono il volto, permettendogli dunque di regolare il getto verso di sé; Roxas socchiuse gli occhi, sia per permettere all'acqua di potergli schiaffeggiare le gote senza alcun fastidio, sia per soffocare il lancinante dolore che correva lungo le gambe e le braccia, fino ai polsi.
I lampi ora erano seguiti da tuoni che rimbombavano in tutto il suo corpo, scuotendolo violentemente; il ragazzo continuò a mordicchiarsi il labbro, armeggiando tra i propri dorati capelli intrisi di shampoo al cocco.
Apriva gli occhi e vedeva i lampi sotto di sé; sopra di sé, ovunque nel suo cielo.
Li chiudeva e udiva i tuoni pulsare sotto la pelle.
Roxas pensò che forse i suoi tagli facevano così male perché erano numerosi, o forse perché alcuni erano più profondi di altri, o forse ancora perché se li era procurati lui stesso, da solo, volontariamente.
Niente cadute dallo skateboard, niente gatti randagi che aveva cercato di accarezzare, né goffaggine durante la lezione di ginnastica.
Solo lui, un taglierino e una stanza vuota, possibilmente chiusa a chiave.

 







«Ma è una follia, Hayner!»
«Oh, ma andiamo! E' tanto per provare, sarà divertente, vedrete!»
Olette e Pence si lanciarono un'occhiata perplessa e sospirarono di fronte alla consapevolezza che Hayner non sarebbe mai cambiato; dopodiché la ragazza si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e si chinò per sfilarsi le ballerine, venendo poi seguita a ruota da Pence.
«Se ci prenderemo un raffreddore sarà solo colpa tua.»
«Sì, appunto.»
Hayner rise appena e scosse la testa. «Almeno non andrete a scuola e vi salterete la verifica di scienze, no? Dovreste ringraziarmi!», e, dopo aver ottenuto in risposta due sospiri all'unisono che però lasciarono trapelare un sorriso divertito, Hayner si voltò all'indietro e si avvicinò all'altro presente, seduto sulla sabbia con le gambe strette al petto. «Roxas?»
Il diretto interessato alzò leggermente le iridi blu e incrociò lo sguardo sorridente dell'amico.
Sorriso triste, preoccupato, una maschera diversa da quella che aveva mostrato ad Olette e Pence. Un sorriso cauto, che camminava con attenzione tra statue di vetro.
«Non vieni?»
«A fare cosa?»
«Ci bagnamo un po' le gambe in acqua. Vediamo chi resiste di più, eh?», Hayner tentò poi di tingere la propria voce con una punta di ironia e scherno, ma di fronte al tono secco e pacato di Roxas s'accorse che non era servito a nulla: «E' Novembre, fa troppo freddo. Vi guarderò da qui.»
Roxas spense il lieve entusiasmo di Hayner come due dita che schiacciavano una fiammella appena nata.
Il compagno abbassò un poco le spalle e volse istintivamente le iridi verso le gambe di Roxas; poi risalì sulle sue braccia coperte dalla pesante giacca, e infine guardò il suo volto, i capelli dorati che venivano scompigliati dal vento. «Va bene, Roxas.»
«Va bene, sì.»
«Stai su, mi raccomando. Passerà, ne sono sicuro». Roxas alzò di scatto gli occhi e schiuse le labbra; per un attimo pensò di aprire il cielo, di scostare le nuvole per lasciar posto alle sue parole, pensò di vomitare via tutto, pensò di spazzare le foglie autunnali, ma non ci riuscì.
Non ci riuscì, e decise dunque di fingere. «Passerà che cosa?»
Il suo migliore amico corrugò la fronte e anch'egli, proprio come Roxas, fu sul punto di accompagnare il vento con l'amara verità, ma poi, proprio come Roxas, finse anch'egli, finse e alimentò il triste gioco delle menzogne.
«Nulla», disse, scuotendo la testa. «Dicevo per dire, passerà il freddo di Novembre, intendevo.», successivamente si voltò e si affrettò a raggiungere gli altri due che nel frattempo si stavano lamentando della temperatura polare dell'acqua.
Il biondo chiuse di scatto gli occhi, come avesse voluto soffocare non solo la propria vista, ma anche la rabbia, la frustrazione, la sua totale incapacità nel parlare apertamente di ciò che stava infangando da mesi la sua esistenza.
Hayner lo sapeva, e lui sapeva che Hayner lo sapeva.
Non riuscì mai a capire come avesse fatto a scoprirlo; forse l'intuito, o forse la sua improvvisa riservatezza nel mostrare il proprio corpo, chissà.
Il fatto era che un giorno Hayner si era recato a casa sua per essere aiutato nel solito e noiosissimo -A parer suo- tema di italiano.
«Allora, la traccia dice: ''Parla delle amicizie e del tuo rapporto con i tuoi amici. Come ti trovi con loro? Condividi tutto o ci sono passioni che non avete in comune? E, soprattutto, ci sono loro scelte che non sei riuscito a capire? Hai cercato di cambiarle o alla fine le hai comprese?''»
Roxas nel frattempo aveva tirato fuori un foglio e si era seduto sul materasso, assumendo un'espressione pensierosa. «Beh, devi dirmelo tu. Parlami un po' di come ti comporti con la gente e io vedrò di formularti le frasi in maniera accettabile, o comunque che ti permetteranno di avere la sufficienza». Dopodiché si era aspettato un sorriso o qualche battuta sarcastica da parte dell'altro, ma non era avvenuto nulla di tutto ciò.
Hayner lo aveva guardato intensamente, le iridi marroni indecifrabili, poi aveva abbassato leggermente lo sguardo, invaso da un'improvvisa rabbia.
E, infine, si era deciso a parlare:
«Sì, ci sono scelte che non capisco. Una in particolare. Scelte sbagliate per sfogarsi, sai. Alcune non le capisco, e non è facile, perché qui si parla sempre di persone a me molto care. Non le capisco proprio, anzi, le detesto a morte, ma so che non sarei in grado di cambiarle. Non ne sono capace, Roxas. Forse non ne sarò mai capace, mi dispiace.»







Quando era solo in casa e durante la tarda sera si sentiva il padrone dei suoi cieli e sapeva che poteva danzare sulle nuvole senza timore di cadere.
Roxas si alzava le maniche e arrotolava fino alle ginocchia il tessuto dei suoi pantaloni blu; dunque si sentiva libero, libero in mezzo al dolore, passava la maggior parte del tempo di fronte allo specchio, li provava tutti, tutti quanti gli specchi presenti in casa.
Quello della sua stanza di dimensioni medie: si allontanava fino a toccare il letto per poter guardarsi quasi per intero, per osservare le proprie braccia invase dalle tacche dell'uomo primitivo proiettato nel presente, e le sue gambe che si erano trasformate in un enorme pezzo di carta.
Lo specchio del bagno, piccolo, così piccolo che gli permetteva d'ammirare rattristandosi soltanto le braccia; quello di suo fratello, delle stesse dimensioni dello specchio presente nella sua camera, e, infine, quello nei corridoi, grande, il più grande della casa, un posto in prima fila per il teatro sulla sua pelle.
Carta, inchiostro, parole, tutto dentro di lui.
Un linguaggio che conosceva solo dei segni, dei segmenti che bruciavano, frammentati, che costellavano la sua pelle.
E accidenti se bruciavano quei piccoli meteoriti.
Bruciavano da matti, Roxas aveva acceso tante piccole fiammelle nella speranza di acquietare l'immenso incendio che regnava dentro di sé, ma probabilmente non era servito.
Bruciavano quando si ricordava di loro, bruciavano quando pensava ad altro, e allora gli tornava in mente tutto, delle tacche, delle stelle e del suo cielo traboccante d'angoscia e frustrazione.
Bruciavano la mattina quando si alzava dal letto, con le coperte, i cuscini e i pantaloni appiccicati alle ferite ancora fresche.
Bruciavano quando era solo in casa e le lasciava libere. L'aria le schiaffeggiava, e il fuoco si espandeva.
Bruciavano quando si cambiava, quando indossava in fretta e furia i suoi jeans aderenti. Bruciavano quando camminava per recarsi a scuola e bruciavano da impazzire sotto l'acqua.
Sotto la doccia sentiva migliaia di luci accendersi sopra la sua pelle, s'accendevano come luci di Natale, come palazzi, e lui pareva essere una città infestata da tutte quelle presenze che tuonavano.
Gli ricordavano di esistere.
Gli ricordavano che lui esisteva, che non era ancora morto.







Roxas non aveva ancora capito se quando si faceva del male era in uno stato di trance o meno.
Forse addirittura era il contrario. Forse oramai la sua vita era un continuo stato di trance e quando nuovi germogli sbocciavano sulla sua pelle si svegliava di punto in bianco a causa del dolore.
Comunque non assisteva mai alla loro nascita. Vedere i lampi faceva mille volte più male, e lui voleva solo liberarsi, in quei momenti. Vomitare via la frustrazione, il dolore, velocemente, il più velocemente possibile, perché c'era anche l'ansia in lui, l'ansia di vedere la porta spalancarsi, di vedere suo fratello o i suoi genitori inorriditi.
E se li sognava pure, qualche volta.
«Che cosa sono quei segni?», dicevano così, proprio così, e la sua era un'ansia continua, e temeva che presto o tardi il suo universo non sarebbe più riuscito ad esistere esclusivamente nella sua piccola stanza.
C'erano giorni in cui avrebbe potuto continuare all'infinito e ciò che lo fermava era il terrore di essere scoperto. Il terrore delle domande, il terrore delle cicatrici che sarebbero state evidente durante la stagione estiva.
Altri giorni invece si guardava allo specchio e si trovava smarrito di fronte ad uno schiaffo.
Si svegliava, si scuoteva dentro e si chiedeva: «Dio mio, ma che ho fatto?»
Da bambino piangeva così tanto quando cadeva dalla bicicletta. Detestava le sue ginocchia sporche di fango e sangue, quel tremendo liquido rosso che gli faceva contorcere le budella, e allora piangeva, piangeva tanto per scuotersi dalla paura e dal dolore.
Piangeva.
Ora no, non più. Ora era lui stesso a cercare buche su cui cadere, era lui che non riusciva più a piangere, a versare una lacrima, anche se avrebbe voluto tanto.

C'erano giorni in cui si disinfettava le ferite e lì bruciava mille volte di più; più dell'acqua, dei vestiti, delle coperte. Sfiorava i lampi con il cotone bagnato e sentiva un temporale esplodere dentro sé.
«Che male, cazzo, che male», ripeteva una, due, tre volte. Poi avvicinava di nuovo il cotone, sentiva la tempesta e imprecava ancora.
Non sapeva perché alcune volte sentiva il bisogno di disinfettarsi. Forse sperava che in questo modo le ferite si sarebbero cicatrizzate prima per poi scomparire definitivamente. O forse perché voleva dimostrare a sé che un briciolo di amore lo provava ancora nei propri confronti.
Ma era una cosa stupida, stupidissima, e lui si sentiva sbagliato perché non riusciva a vivere in maniera decente nemmeno il suo problema. O si faceva male e basta, o non lo faceva. Perché farsi male e poi prendersi cura di sé?
Non aveva senso.
Era come quando da bambino alle feste di compleanno si ingozzava di pizzette, patatine e torta, e poi, alla sera, per dimostrare a sua madre che seguiva i suoi consigli, mangiava una mela accuratamente sbucciata.







Udì dei passi veloci, sul punto di correre quasi, rimbombare sul parquet del corridoio ed essi misero in allarme tutte le luci della sua città.
Roxas balzò in piedi e si infilò al contrario i pantaloni del suo pigiama, fingendo poi di essere intento a leggere un libro.
Un attimo dopo la porta si spalancò e il volto impaurito di suo fratello apparve sulla soglia. «Roxas, Roxas!»
«Che cosa vuoi, Sora?», rispose con aria seccata il biondo, cercando nel frattempo di calmare il proprio battito cardiaco che era salito alle stelle.
Il più piccolo imbronciò le labbra e salì sul materasso, avvicinandosi all'altro. «Hanno appena parlato degli alieni alla TV, e io ho paura! E' vero che non esistono? E' vero, Roxas?»
Quest'ultimo venne assalito da una scarica di rabbia e chiuse di scatto il libro, lanciando un'occhiataccia al castano. «E tu mi hai fatto quasi venire un infarto per questo?! Per gli alieni?!»
Sora sobbalzò al tono alterato del fratello e scese immediatamente dal letto, stringendosi le spalle. «Ma come infarto?»
Roxas allora s'accorse della propria frase e si morse un poco il labbro inferiore, riaprendo il libro ad una pagina a caso. «Stavo leggendo, Sora. Mi dà fastidio quando la gente mi interrompe mentre leggo. Hai capito?»
«Allora... Allora la prossima volta busso prima di entrare?»
«Sì, Sora, grazie. Bussa sempre, mi raccomando. Sempre.»







«Mi dispiace». Roxas si voltò di scatto alla sua sinistra e incrociò il sorriso malinconico di Xion.
«No, sono io che dovrei scusarmi», mormorò poi, tornando a guardare l'asfalto che correva attraverso il finestrino. «è che in questo periodo sono un po' stressato.»
«Capisco.», bisbigliò a fior di labbra la ragazza, alzandosi lentamente. «Roxas?»
«Dimmi.», rispose con aria distratta il biondo, senza staccare gli occhi dal paesaggio notturno; successivamente si accorse che l'altra non cennava a parlare e dunque si voltò verso di lei, degnandole davvero di attenzione.
Xion sorrise nuovamente. «Io ci sono, se hai bisogno.»
Il ragazzo sgranò leggermente gli occhi e provò nuovamente quella fitta, quel bisogno di scostare le nuvole per lasciar piovere soltanto le proprie parole.
''Sì, sì, sì. Ti devo parlare. Magari domani, ci vediamo al bar, davanti ad un cappuccino, o un caffè, magari una cioccolata calda, come preferisci. Possiamo parlare, cioè, io ti devo parlare, devo dirlo assolutamente a qualcuno, altrimenti morirò per davvero.''
«Lo so, grazie». Roxas dunque concluse la conversazione voltandosi nuovamente verso il finestrino; il sospiro di Xion nel frattempo si perse tra il solito chiacchiericcio dei passeggeri e l'autobus rallentò fino a fermarsi del tutto.

«Allora io vado. Ci vediamo... Roxas».
«Ciao Xion, grazie della giornata.», mormorò con aria impassibile il biondo, udendo distrattamente i passi della ragazza scendere le scale e, infine, le porte dell'autobus chiudersi definitivamente.
Poi la strada riprese a correre e Roxas si isolò nella propria mente.
Pensò a sua madre che a tavola gli avrebbe detto di alzarsi le maniche e lui che avrebbe scosso la testa, spiegando che aveva troppo freddo prima di deviare argomento; pensò a suo fratello che si sarebbe lamentato dei fagioli, e suo padre che avrebbe borbottato ''Noi volevamo concludere un affare!''; poi pensò al giorno dopo, al suo risveglio, alla tremenda sensazione di smarrimento che provava ogni mattina, al fatto che non sapeva che cosa fare lì, nella sua stanza, a casa sua, nella sua città, nella vita, forse. Si sentiva goffo, di troppo, un tassello in più di un puzzle già completato.
Pensò a sua madre che, sorridendo, gli avrebbe detto che era ora di alzarsi.
Pensò al tragitto, a lui che avrebbe raggiunto i suoi amici nel cortile. Pensò ad Hayner che, come ormai ogni mattina, guardandolo avrebbe scosso leggermente la testa.
Pensò ad Olette che, ogni volta che si sarebbe accorta del suo sguardo perso, gli avrebbe chiesto: «Ehi, Roxas, che hai?»
Pensò alle stronzate che leggeva su Internet riguardante il suo problema: un ammasso di righe che non permettevano di arrivare a nulla di concreto, tangibile. Pensò al fatto che però continuava a cercare informazioni, immagini, e sperava forse di guarire.
Pensò alle sue gambe rovinate, al prato delle sue braccia che ormai ospitava soltanto fiori per lapidi.
Pensò alle lezioni di motoria, al fatto che non poteva cambiarsi di fronte ai suoi compagni. Pensò ai fallimenti che per lui pesavano come macigni, mentre altri addirittura ci ridevano su.
Pensò al fatto che non voleva parlarne apertamente con i suoi amici perché temeva di essere guardato in maniera diversa. Non giudicato, sapeva che Xion mai lo avrebbe fatto, né tanto meno Hayner lo stava trattando come un lebbroso.
Aveva paura degli sguardi, di quelli che stava ottenendo dal suo migliore amico. Dalle sue occhiate tristi, preoccupate, arrabbiate quando lui si tirava la manica e cercava di nascondere anche le mani.
Si domandò se un giorno ce l'avrebbe fatta senza perdere troppi pezzi di sé. Si domandò se avrebbe passato la vita a combattere contro quei dannatissimi lampi; magari sarebbe guarito, e poi, dopo qualche anno, sarebbero tornati, e così per tutta la vita.
Roxas sperò di no. Non sarebbe riuscito a sopportarlo.
Voltò un poco la testa e si accorse delle porte spalancate; si affrettò ad alzarsi, mormorando all'autista di non chiudere, e scese frettolosamente le scale, ritrovandosi in mezzo al gelido vento autunnale.
Si guardò attorno, come uno spacciatore in cerca di giovani a cui vendere la droga, o meglio, come un giovane in cerca di uno spacciatore, e si affrettò ad imboccare la strada per tornare a casa.
Sentì il cellulare vibrare nelle proprie tasche un paio di volte, ma lo ignorò, intuendo che, molto probabilmente, era Pence che come al solito non aveva capito una mazza di matematica.
Non aveva voglia di salire nella propria stanza e chinare la testa sui libri. In verità non aveva nemmeno voglia di andare a scuola, il giorno successivo. Non aveva voglia di rivedere i professori, non aveva voglia di subirsi spiegazioni, verifiche ed interrogazioni. Non aveva voglia poi di ritornare a casa, mormorare distrattamente a tavola che cos'aveva combinato in classe, dormire un po', e tornare con la testa china sui libri.
Il tutto costellato dai suoi momenti personali, quelli in cui nuovi lampi squarciavano il cielo.
Piccole strade che si aprivano nella sua giornata, portandolo a nuovi cortili, nuovi luoghi.
Prese la chiava di casa dalle tasche e la infilò nella serratura, facendola scattare e udendo immediatamente la voce di sua madre urlare dal soggiorno: «Roxas, sei tu? Hai fatto tardi!»
«Sì, sono io», brontolò il biondo, probabilmente senza riuscire nemmeno a farsi sentire; dopodiché richiuse la porta alle proprie spalle e buttò in malo modo le chiavi sul tavolo della cucina, sbottonandosi la giacca.
Salì frettolosamente le scale e si recò nella propria stanza, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo di fronte al calore emesso dal termosifone.
Si tolse la maglia e poi passò ai pantaloni, stando nel frattempo ben attento a possibili rumori di passi nei corridoi; fece una smorfia di dolore e cercò di sfilarsi i jeans il più lentamente possibile.
«Garze di merda», sbuffò tra sé e sé, lanciando i propri indumenti sul pavimento; successivamente guardò le proprie gambe fasciate e sospirò rumorosamente.
Non serviva. Non serviva a nulla.
Le garze erano quasi completamente scivolate, mettendo in mostra alcuni segni rossi, con il risultato che il suo tentativo di non vedere quei dannatissimi lampi era stato un fiasco totale.
Roxas si sfilò con rabbia le garze e le allontanò da sé, incrociando poi le gambe al petto.
Aveva sperato di utilizzare quelle fasciature come un anello che avrebbe racchiuso un pianeta intero, il più triste di tutto l'Universo.







«Continuava a spegnere e a riaccendere la luce, l'avrà fatto tipo una ventina di volte!»
«E poi?»
«E poi è saltata la corrente! Sono rimasti così per tutto il giorno! E alla fine le ha prese da suo padre, ovvio.»
«C'era da aspettarselo.»
«Sì, appunto.»
«Vado un attimo in bagno». L'attenzione dei presenti si rivolse verso Roxas che nel frattempo si era alzato, raggiungendo il cameriere più vicino per domandargli dove fossero i servizi; dunque seguì le sue indicazioni e si infilò nella prima porta bianca, sospirando rumorosamente.
Sarebbe esploso.
Presto o tardi sarebbe esploso.
A furia di accumulare ansia, terrore nel farsi scoprire, attenzione nel curare i propri germogli, sarebbe esploso.
Si avvicinò al lavandino e si tirò le maniche, sciaquandosi lentamente le mani sporche di cioccolata.
«Accidenti, che brutti segni.»
Roxas si voltò di scatto e notò la presenza di un uomo dai lunghi capelli rossi e un paio di occhi smeraldini e indagatori. 

«Di sicuro non sei caduto, eh?»
Roxas sapeva che non sarebbe riuscito a nascondere per sempre un intero universo all'interno di un cielo così piccolo.


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*Note di Ev'*
Mi vergogno tantissimo.
Mi vergogno tantissimo ad interrotto tutte le mie long e non... Non mi scuso neanche, tanto non serve. Dico solo che quella che verrà aggiornata prima sarà sicuramente ''Insidie Interiori''.
Avevo detto che ''Gloomy'' si sarebbe conclusa per metà Novembre, e invece...
Quante stronzate dico, lo so.
Quest'anno è veramente dura per me, giuro. A scuola è un mezzo inferno per colpa dei professori. Di nuovo, la storia si ripete.
Non so se ne uscirò viva. Grazie a Dio qui domani e dopo domani non ci sarà scuola (Evviva i patroni della provincia!), quindi posso staccare un attimo. E poi potrò pregare di sopravvivere per le vacanze natalizie, anche se la vedo veramente dura.



E niente, ho deciso di scrivere questa storia. Vi prego, non linciatemi, non uccidetemi per aver utilizzato il personaggio di Roxas, spero di non averlo rovinato (???), ma dovevo, dovevo davvero. Volevo pubblicare qualcosa e ne ho approfittato per sfogarmi con questa storia.
Non so nemmeno che cosa dire per l'analisi.
Beh, abbiamo un Roxas che soffre di autolesionismo e la storia è frammentata in momenti della sua vita quotidiana, o meglio, momenti ampiamente dedicati alle sue riflessioni che talvolta vengono interrotti dalle persone che contornano la sua vita.
Non si conoscono con esattezza i motivi che hanno spinto Roxas a questo problema; si accenna alla scuola, ad un suo disagio esistenziale, ma sono solo sfumature, quindi il tutto viene lasciato all'immaginazione del lettore.
Roxas non è esattamente solo; la sua famiglia è piuttosto normale, e sia Xion che Hayner sono disponibili a tendergli la mano, il problema è che il biondo non ha il coraggio di sfogarsi, di accettare un aiuto.
Nella storia non si parla mai esplicitamente di autolesionismo e solo una volta ho utilizzato il termine ''ferite/tagli''. Principalmente mi sono cimentata in similitudini e metafore; sì, insomma, le cicatrici vengono paragonate a stelle, fiammelle, luci, lampi, tuoni, meteoriti e chi più ne ha più ne metta.
In breve, da una parte Roxas vede la salvezza nell'autolesionismo (Stelle, germogli, luci), mentre dall'altra parte è consapevole del suo potere distruttivo (Tuoni, lampi, incendi, lapidi).
Non saprei che altro dire. Oh, beh, certo, poi c'è la parte finale che si distacca molto dal resto del racconto; è breve, poche righe, abbiamo un Roxas in un bar, o forse in un ristorante, in compagnia probabilmente dei suoi amici. Si reca in bagno per allontanarsi un po' degli altri, ha bisogno di stare un po' tranquillo, e, proprio come aveva pensato diverse volte, il vaso vacilla e la sua stanchezza è tale da fargli abbassare la guardia, mettendo in mostra il suo problema di fronte ad un perfetto sconosciuto (Il caro e vecchio Axel non poteva mancare, ohw.)
E bom, basta.


Beh, niente, se avete letto questa storia vi invito caldamente a commentarla, poiché per me l'opinione altrui riguardante le mie storie è davvero essenziale.
Passo e chiudo, fatemi gli auguri per i giorni scolastici traboccanti di merda che mi aspettano.
Alla prossima-!
E.P.R.

 

   
 
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