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Autore: outofdream    27/11/2013    8 recensioni
Rivisitazione di "Twilight", di S. Meyer.
Dal 17 Capitolo:
Rimasi immobile in quel modo, rossa in viso, coi piedi scalzi e i capelli arruffati, lo sguardo fisso su di lui.
Non ero spaventata, ma non sapevo nemmeno cosa fosse giusto fare.
Le sue mani delicate sfiorarono i contorni rigidi della finestra e ne spostarono con leggerezza le ante, facendo entrare nella stanza un’aria pungente, fredda e morbida. Provò a sorridermi, ma sapevo che in quel momento la sua tristezza non conosceva confini e quando lo capii, non potei resistere: corsi verso di lui, gettandogli le braccia al collo e stringendolo a me.
Oh, Edward.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Twilight
Capitoli:
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Nota dell’autrice: poiché questa non può essere considerata una fanfiction in senso stretto, ma è piuttosto ascrivibile alla categoria dei ‘remakes’, ci tengo a precisare che (per chi non lo sapesse), la storia NON è mia, NON ho creato io questi personaggi, né la storia o le ambientazioni, io mi baso sul libro scritto da Stephenie Meyer, ‘Twilight’ (traduzione di Luca Fusari, collana Lain Books, Fazi Editore, 2006). La mia NON è, quindi, un'opera di plagio.

P.S. - Sto modificando ulteriormente la storia, perciò se notate delle differenze fra questo e altri capitoli, è tutto ok: sto soltanto aggiornando i capitoli.

                                                                                         
                                                                                           A prima vista


Masticai una risata nervosa quando colsi quel suo sguardo triste perdersi nella ragnatela di finissime e minuscole rughe che le incorniciavano gli occhi verde acqua.
«Capisco che tu sia triste, ma mi aspettavo almeno una colonna sonora degna di questo momento», sorrisi bonaria – mia madre, davanti a me, schioccò la lingua, infastidita. Ma la curva delicata delle sue labbra screpolate mi rasserenò immediatamente. «Ah, che ariolina», sospirai, cercando di levarmi di dosso tutti quei sentimenti, provando a liberarli nel cielo terso di Phoenix. Si avvicinò a passi incerti, arrivando a scostarmi una ciocca di capelli. «Puoi rimanere, se vuoi», disse, di nuovo.
«Mamma, sì. Andrà benone».
Avrei voluto chiederle di non rendere le cose ancora più difficili e impacciate di così, ma immagino che non mi avrebbe capito. Forse si trattava soltanto di una paura solo mia, temevo che non potesse sopportarlo, che non fosse abbastanza forte per tutto quello, che ne sarebbe rimasta schiacciata e quel terrore gelido di poterla vedere scoppiare in lacrime mi faceva tremare le ginocchia.
Lanciai un’occhiata timida alla smorfia di insicurezza dipintasi sul suo volto abbronzato, a quella punta di dolore che scorgevo nel fondo dei suoi occhi profondi.
«Va bene», rispose stanca lei, sotto quel sole acceso di vita, «Fai la brava», mi abbracciò, stringendo anche quella mia vaga malinconia, stropicciando la camicia di sangallo bianca.
«Come sempre», risi.
Quel muro che cominciava a formarsi fra noi, che ci allontanava fisicamente era il distacco che principiava a farsi reale, delinearsi. Era tutto lì: le valigie, il mio impacciato modo di fare, il tenero addio che non riuscivamo proprio a cavarci fuori dalla bocca.
«Ci sentiamo, va bene?», sentii la mia voce tradire l’emozione.
«Mi raccomando».
La folla dell’aeroporto ci divise più in fretta di quanto avrei potuto immaginare – girandomi la vidi sporgersi aldilà di quel mare infuriato di colori e vestiti poi, piano e con estrema riluttanza, sparire.
Sembra quasi la fine e a me veniva da piangere.
Quanto sono stupida, pensai, vergognandomi di me stessa.
Andrà tutto bene dopotutto, rivedere papà sarà bello. Tornare a Forks, forse, un po’ meno. All’idea di rimettere piede in quel bigio agglomerato urbano, costantemente coperto da una coltre pesante di nuvole, un brivido mi salì lungo la schiena.
Forse era solo un errore, a cosa stavo rinunciando? No, forse non sarei dovuta salire davvero su quell’aereo. E papà,.. Lui avrebbe capito. Avrebbe capito, vero?
Non ero semplicemente pronta, non a quella pioggia così fine, così rada, non a tutto quel buio e freddo. Non ero pronta a tornare di nuovo in quella casa, non avevo ancora messo piede nel gate e già il sole accecante di Phoenix mi mancava immensamente, disegnava i contorni del vuoto che principiava a mangiarsi il mio cuore e a farmi pulsare di un dolore muto, acutissimo.
Provai a girarmi, in un ultimo slancio, presumibilmente dovuto al panico, l’ansia.. I ricordi. Mia madre era già scomparsa, nessun volto familiare fra la folla. Quando mi voltai, ancora e per l’ultima volta, l’hostess di fronte a me domandava le carte di imbarco con un sorriso falso e tirato.
Nella mia vita, questo era uno di quegli addii che sembravano davvero per sempre.


Quando atterrai a Port Angeles, pioveva.
Non lo interpretai come un presagio: era inevitabile. Eppure, per un attimo, nel mio cuore si creò una crepa e da quella traboccò un po’ d’amore, del tutto inaspettato. Ah, io mi ricordavo di quel posto. Mi ricordavo di quel grigio, delle strade alla sera dopo la pioggia, degli inverni rigidi. Mi ricordavo anche delle estati trascorse lì, dopo il divorzio dei miei. Fu strano per un momento, ma fu quasi come intravedere una scintilla di bellezza pura in quei tetti sporgenti e in quelle grondaie storte che si disegnavano sotto un orizzonte tagliato da una pioggia fittissima. «E’ un piacere rivederti, Bells», quella voce rauca mi fece sussultare dalla sorpresa. «Ciao papà», tirai su un mezzo sorriso.
Riconoscevo in lui molti dei tratti che mi contraddistinguevano: goffaggine, timidezza, riserbo, difficoltà nell’esprimere sentimenti che ricordassero bei posti caldi, accoglienti, come l’amore. Riconoscevo i suoi occhi tinti d’un nero corvino, lo sguardo severo che nascondeva l’uomo gentile e docile che era, eppure per un attimo fu come non vederlo davvero. Fu come trovarsi di fronte a un’altra persona, una che non mi era troppo familiare, che mi ricordava qualcuno che un tempo avevo conosciuto bene, che avevo a lungo amato, eppure faticavo a riassemblare un’immagine nitida della nostra storia nella mia mente.
Durò appena un attimo, giusto il tempo che provasse a sorridere.
«Sarà meglio andare a casa ora, no?», tentennò lui, dopo aver ficcato la mia valigia nel portabagagli.
Annuii e silenziosamente mi infilai in auto.
Il cielo continuava a tremare agitato e la pioggia cominciava a farsi violenta. La sensazione che provavo ora era un misto di dolore e angoscia, simile al sentimento che ti tocca il cuore quando sprofondi troppo velocemente nei tuoi ricordi e non trovi appigli durante la discesa. Eppure in essa vi era del buono e questo mi consolava. Mi rilassai, distendendo piano le gambe, sotto l’influenza del riscaldamento acceso. Guardavo fuori dal finestrino mentre Charlie mi informava che mi aveva già iscritto a scuola.
Diceva che mi aiuterà a trovare una macchina tutta per me, anche.
«Così potrai andare dove vuoi», disse.
Charlie somigliava alla pioggia leggera che faceva brillare di mille piccole luci tutte le strette viuzze di Forks, era delicato, piacevole come persona, ma ogni bruciante passione e lacerante amore faticava sempre a venir fuori. Appariva spento, costantemente al buio – forse era per questo che mamma l’aveva così colpito: lei che era come il sole che bruciava la terra africana gli aveva rubato il cuore.
Ma quando persone così diverse si incontrano e si scontrano, non può mai durare.
E infatti non durò.
Mia madre lo lasciò qualche giorno dopo il mio terzo compleanno. Non ricordo molto di quel giorno, solo la pioggia e gli occhi di mio padre, fissi su di noi.
«Grazie», risposi quasi sottovoce io, cercando di dimenticare.
«Sarà bello», continuai sorridendo, giusto con un briciolo di convinzione in più.
La debole luce che vidi tremare nei suoi occhi fu per me una risposta sufficiente.
Quando arrivammo a casa, mi accompagnò nella mia nuova stanza.
Le sue mani dure aprirono la porta su un angolo di mondo che il tempo aveva cancellato dalla mia memoria. Le pareti ruvide, il letto dal materasso troppo morbido e i comodini, la vernice screpolata ai bordi dei cassonetti,.. Ah, ma guarda. Le foto di famiglia sulla mensola a destra. I miei capelli infantili corti e lucidissimi, il giorno del saggio di danza, il sorriso giovane e smagliante di mia madre. Le dita scorrono lente sulle costole dei libri impolverati, sulle favole della notte, sui ninnoli e i balocchi. Era così strano a pensarci, pensare a come avevo vissuto una vita come se fossi stata un’altra persona prima di diventare così. Rimasi per un attimo così, in contemplazione, a occhi semichiusi. Quando li riaprii, Charlie non era più sulla soglia della camera, e mi chiamava a gran voce. Abbandonai a malincuore la mia stanza e scesi le scale in fretta.
«Che c’è?», lo cercai, sbirciando un po’ in ogni stanza.
«Sono qui, vieni a vedere».
Uscii di casa, guidata dalla sua voce.
Lo trovai riparato sotto un sottile pannello di legno bianco verniciato male, che proteggeva lui e la mia sorpresa, dai colpi incessanti dell’acqua.
«Oh..», esitai un momento, «Questo è..».
«Quasi nuovo», si affrettò a dire lui, «Un pick-up, un Chevy.. Sai non se ne vedono più così a giro», disse in uno slancio d’orgoglio, con quella sua voce roca. «E ci sarà pure un motivo..», bofonchiai io, prima di incontrare i suoi occhi mortificati. Scoppiai a ridere, «Sto scherzando!».
Mi avvicinai cauta, lanciando un’occhiata ai sedili sdruciti e al volante ormai già consumato.
«Sai, va ancora bene per andare a scuola», iniziò lui, «L’ho comprato da Billy, ricordi Billy?».
Scrollai le spalle, «Così e così, credo».
Aprii lo sportello arrugginito, «È in una sedia a rotelle, adesso, sai?», continuò e i suoi occhi si fecero immediatamente seri, «Lui non lo usava più comunque».
«Mh-mh..».
«Comunque», si schiarii la voce, «Spero ti piaccia».
Mi sedetti dietro al volante, prendendo confidenza con il mezzo. Non mi dispiaceva stare lì dentro, mi sentivo al sicuro. Un odore lieve di erba secca e aria viziata mi arriva al naso – chissà da quanto tempo era fermo. Sorrisi a malapena, assorta fra i miei pensieri.
«Bells?», Charlie richiamò la mia attenzione, «Allora?».
«Mi piace», risposi io, «È.. È forte».
Sembrò piuttosto soddisfatto di questa mia reazione e il modo in cui si aggiustava i capelli e la cintura mi faceva venire voglia di abbracciarlo. Era come se tutto, ogni elemento di questo preciso istante, mi facesse sentire ancora di più, ancora meglio chi sono. Tornava in me, a momenti alterni, questo sentimento che mi fa sentire fragile, che rimarca con estrema precisione ogni tratto del mio spirito. Tu sei così, dice questo sentimento, Sei così e è questa la tua storia. E anche questa è la tua vita, anche questa sarà casa tua. E adesso sei qui fra questi alberi, sotto questa pioggia scrosciante e sotto questo cielo bizzoso, ma nulla di tutto questo ti è avverso, poiché tutto di questa vita ti appartiene.
Ero finalmente, anche se sapevo sarebbe durato solo per poco, serena.
«Andiamo a mangiare adesso? Ho una fame», risi.
Sì, non sarebbe durata.
Ma tanto valeva godersi l’attimo.

La notte mi lanciò in preda a sconforti ben più grandi, non riuscii a prendere sonno che dopo mezzanotte. Vivere le oscurità nelle case altrui non è mai stato semplice per me. Avrei avuto bisogno di tempo – una vera e propria sofferenza. Il tempo che io passo a dormire è per me assolutamente indispensabile e questi attimi di silenzi nervosi e continui rigirii nel letto, cercando un nuovo punto ancora e ancora, me lo ricordavano perfettamente. Queste angosce violente che mi attraversavano come coltelli mi facevano dubitare di ogni ma singola qualità e temere le peggiori situazioni. Sentivo il mio cuore pompare il sangue nel mio corpo a una velocità disumana, agitando ogni cellula del mio minuscolo essere. Prima che me ne potessi rendere conto, stavo già singhiozzando, con le mani fra i capelli, spaventatissima.
Sembrava di cadere, cadere da un punto altissimo, in un vuoto infinito.
Sembrava e invece ero sempre su quel letto e tutta quella pressione, tutta la velocità con cui mi pareva di volare sul nulla, si schiantava sul mio corpo intero, schiacciandomi.
Facendomi credere che mai più nella vita sarei stata in grado di abbandonarmi alle piacevolezze del sonno. Ma mi sbagliavo.
La mattina dopo mi svegliati con il viso rosso e i capelli appiccicati alle tempie, ancora leggermente umidi. Scesi nella piccola cucina con i pavimenti in linoleum bianco e gli armadietti colorati da tinte vivaci. La sete che mi bruciava in gola era talmente violenta che non mi presi nemmeno il disturbo di afferrare un bicchiere, ma ficcai direttamente la faccia sotto la cannella aperta del lavandino.
«A Phoenix fate così quando vi svegliate?», commentò ironico mio padre, fisso nel rettangolo di legno.
Entrò nella stanza, dirigendosi verso il tavolo, «Avevo sete», mugugnai asciugandomi la bocca con il braccio.
Qualche goccia cadde a terra, qualcuna sui miei piedi pallidi.
«Capisco», fece lui, aprendo il giornale.
La colazione fu tranquilla, mangiai poco in realtà. Charlie uscì prima di me da casa, mi salutò augurandomi buona fortuna e con le sue parole, sbatté la porta. Lo guardai andarsene dalla finestra dalla cucina.
Bevvi un altro sorso d’acqua e andai a vestirmi piuttosto in fretta, scesi di nuovo le scale e mi precipitai fuori di casa. Ero in anticipo, ma non potevo stare lì senza far nulla un minuto di più.
Quando arrivai a scuola, il parcheggio era ancora deserto. Un velo leggero di nebbia avvolgeva tutto ciò che mi circondava. Sgattaiolai velocemente verso la Segreteria, cercando di trovare un po’ di conforto.
La stanzina in cui arrivai era piccola, ma più luminosa di quanto mi aspettassi. Dietro una scrivania di quello che probabilmente era un pannello in simil-legno, se ne stava una donnona dai capelli di fuoco. Le sue dita grassocce ticchettavano velocemente sulla tastiera del suo computer.
«Mi dica», le sue parole erano totalmente prive di qualsiasi emozione, si muoveva  e interagiva con me con la pratica e l’esperienza che solo una routine frustrante poteva regalare.
«Mi chiamo Isabella Swan», accennai con un fil di voce.
Non sapevo nemmeno io su cosa concentrarmi di più, se sulla sua scollatura esagerata o se su quei suoi pacchiani anelli. «Sono quella nuova», aggiunsi.
Alzò lo sguardo per controllarmi un momento, «Ah, certo», sorrise poco interessata, e ficcò la sua mano luccicante e piena di braccialetti tintinnanti in una caterva di scartoffie. «Questi sono tuoi, gli orari, la mappa della scuola e via dicendo». Rimasi per un attimo ferma a osservarla, come estasiata. Era davvero strana e la mia mente viaggiava liberamente, provando a capire che tipo di vita vivesse una donna così.
Ma per lei, il mio soggiorno nel suo ufficio era bell’e che terminato e così, alzando di nuovo lo sguardo dal suo monitor, con quei suoi minuscoli occhietti mi fissò e poi disse, «Serve altro?».
«No,.. Credo», feci io uscendo.
Chiusi la porta dietro di me e me ne ritornai al parcheggio, che si stava già cominciando a riempire. Mi guardai intorno, poco convinta, e mi infilai fra il flusso rado delle persone che si stavano dirigendo, come me e con poco entusiasmo, verso ore di lezione, libri, campanelle e cibo scadente.
Prima lezione, letteratura – Mr. Mason, un uomo sulla quarantina, dall’aria sprovveduta, mi accolse non troppo calorosamente. I suoi occhietti somigliavano a quelli di un ratto e la sua voce era lasca, priva di tono e fascino. Non mi piaceva. Non mi piaceva che parlasse di Emily Brontё in quella maniera sciatta, insulsa. Mi feriva e mi disturbava profondamente, con quei suoi occhietti di ratto e quel suo tono inadeguato. Non era giusto lì, non era quello il suo lavoro, non era nelle sue corde, si vedeva dal modo in cui si muoveva. Era insignificante. Stava rovinando il bello, delle parole, una persona intera. E la cosa peggiore era che non gli importava nemmeno, che visione, che spreco di tempo allucinante! Mi era già insopportabile.
Chissà se sarebbe stato poi così grave saltare le sue lezioni da qui fino alla fine dell’anno.
Degli anni. Per sempre.
Il suono della campanella fu una liberazione, e di certo tutti quegli occhi puntati su di me e gli eventuali coraggiosi che mi si avvicinavano per fare conoscenza furono un’utile distrazione.
Durante le ore seguenti, trigonometria e spagnolo, feci amicizia con una ragazza riccioluta e bassina. Si era presentata prima, ma onestamente parlava così tanto,.. Non avevo più idea di come si chiamasse, ma badai bene a non tradire questa mia mancanza. Mi accompagnò in mensa e mi fece posto accanto a lei.
Iniziai a mangiare lentamente, ascoltando però con molto interesse, le conversazioni fra la ragazza accanto a me e le sue amiche, sedute al tavolo con noi.
«Non posso credere che sia ancora marzo», sbuffò una di loro, rovistando con la forchetta fra le sue foglie di insalata, «La scuola era così noiosa anche a Phoenix, eh Isabella?», mi chiese.
«Bella», precisai io, «..Abbastanza, comunque. Ma i ragazzi là non erano male», feci, tradendo un sorrisetto malizioso. La tavolata esplose in un boato di gridolini e risatine, «Saranno stati tutti abbronzati come atleti!», esclamò un’altra. «Tutti con i capelli biondi, muscolosi e bellissimi come modelli», rise la sua amica. Quella reazione mi divertiva, sembravano come impazzite, con le gote rossissime e le mani preda di una frenesia incontrollabile. Non mi dispiaceva che parlassero fra loro, che bastasse così poco per distrarle. Se non altro, io potevo starmene in silenzio – rivelare fatti della mia vita privata non era un’idea che mi esaltava granché. In definitiva, ero proprio come Charlie. L’improvviso, ma senz’altro ovvio paragone con mio padre mi fece un po’ stizzire, ma d’altro canto non era vero?  Eravamo davvero simili.
Per quanto in me si potesse scorgere il fuoco di mia madre, esso rimaneva pallido, intaccato da quella mia solita diffidenza, così simile alla paura di un animale randagio che qualcuno prova a avvicinare. A volte, avrei desiderato essere più spigliata, ma immediatamente, da subito e poter essere interamente come mia madre. «Ma allora», la ragazza riccioluta mise per un attimo fine a quello starnazzare, «Perché tu sei così?». La guardai con aria seria, «Così come».
«Jessica, ma che dici!», sbottò la ragazza di fronte a lei, «Come sei sfacciata».
«Non è vero», alzò le spalle lei, «Non volevo offenderti, sai? Intendevo, perché sei così bianca. Ma a Phoenix non c’è sempre il sole e roba simile?».
«Sì infatti», risposi poco interessata, «Io non mi abbronzo. È genetica, immagino».
Jessica sgranò gli occhi e mi fissò per un momento interminabile, «È per via della melanina. La mia pelle sembra esserne sprovvista».
«Ah.. Ho capito», rispose davvero poco convinta e si gettò con lo sguardo sul vassoio di plastica e sul suo pranzo. Io dubito, pensai fra me e me e continuai a mangiare.
Dopo qualche secondo, anche la conversazione riprese normalmente.
Fu la ragazza di fronte a me, Angela, a spezzare quel sereno chiacchiericcio e fu come gettare una manciata di sassi in uno specchio d’acqua.
«Ei, Jessica, guarda chi c’è», tese timidamente il suo esile dito aldilà della spalla della sua amica.
«Mh», fu la sua risposta, «Guarda che Edward non mi interessa più».
«È un ragazzo che ti piace?», domandai io, senza prendermi nemmeno la briga di voltarmi.
«No, cioè, sì, diciamo che c’è stato una sorta di.. Breve connessione fra noi», tirò su un sorriso amaro, «Ma a quanto pare nessuna è carina abbastanza per uno così».
«Non dire sciocchezze, Jess, tu sei carina come tutte le altre, se non gli vai bene.. Allora è un problema solo suo», saltò su Angela.
«Come ti pare», bofonchiò quella.
Mi veniva da ridere. Cos’era una breve connessione? Era davvero possibile instaurare qualcosa di simile con un’altra persona? Non mi voltai, comunque. Non mi interessava. Ero più che altro concentrata a non perdere il filo del discorso, non che avessi un grande contributo da apportare alla conversazione, ma pensai fosse giusto sforzarsi di essere più aperta. E sicuramente era un ottimo espediente per allontanare dalla mente il pensiero di tutte quelle persone che ancora continuavano a fissarmi, quasi fossi stata una specie di attrazione turistica: ancora contavo gente che si voltava a fissarmi, i ragazzi che parlottavano fra loro indicandomi con ben poca discrezione e seguito. La troppa attenzione mi infastidiva e mi metteva a disagio, ma che c’era di male se non amavo il centro dell’attenzione? E comunque, avrei preferito di gran lunga che si fossero venuti  a presentare di persona a quel vociferare infetto che riempiva l’aria fino a farmi soffocare. Scossi la testa, «Magari è stupido», feci spallucce io, riprendendo il discorso, «Quindi ti sei forse risparmiata una lagna, che ne sai».
Jessica non fece in tempo a rispose che Angela smentì subito la mia teoria, «In realtà ha i voti più alti dei suoi corsi. Quindi..», guardò Jessica, quasi per assicurarsi di avere il permesso di continuare la frase, «..In realtà è anche molto intelligente, oltre a essere veramente,.. Veramente carino», arrossì dolcemente.
«Ah sì?», dissi stupita.
«Già», rispose in tono secco Jessica, «Possiamo parlare di altro? Per esempio del fatto che io e la trigonometria non riusciremo mai a combinare nulla di buono insieme?».
Per un attimo, smisi di mangiare. Diventata improvvisamente curiosa, mi voltai, lanciando lo sguardo aldilà della mia spalla e lì li vidi, cinque ragazzi dai volti statuari e dai lineamenti delicati e misurati, la pelle bianca come un velo sottile di neve. Non avevo idea di chi fosse Edward e la mia pazienza, come la mia voglia di andare in fondo a quella questione, si esaurì molto prima di quanto immaginassi.
Tornai a mangiare, indifferente.

L’ora seguente mi aspettavano il Signor Banner e la sua lezione di Biologia II. Nemmeno lui si dilungò in troppe presentazioni e moine, mi mise in mano un libro dalla copertina stropicciata e mi chiese di sedermi. Angela, lei aveva già un compagno di laboratorio, come tutti, del resto.
Realizzai solo dopo aver peso posto che, accanto a me, c’era uno di quei ragazzi. L’avevo riconosciuto dalla pelle bianchissima, forse perfino più della mia. Non sembrava molto amichevole e tutto il corpo pareva stretto in una morsa incandescente che lo lasciava teso e inteccherito come se fosse appena morto assiderato. «Mi chiamo Bella», mi sforzai di presentarmi, pensandolo unicamente vittima di una timidezza esagerata. Lui non rispose affatto e si limitò a voltarsi dall’altra parte.
«Il piacere è tutto mio», risposi sarcastica. Irritante.
Per tutta la lezione non fece che coprirsi ostentatamente il viso con le mani, dietro il colletto della camicia, senza mai trovare pace, quasi come se al mio posto avessero messo un cadavere putrefatto. Ma non era colpa mia, non poteva esserlo, pensai mentre continuavo a prendere appunti, cercando di non dargli troppo peso. Io avevo un buon odore, e su questo non c’era alcun dubbio. Quando suonò la campanella, feci appena in tempo a vederlo schizzare via dall’aula. «Sei tu Isabella Swan?», mi voltai verso gli occhi lucidi e teneri di un ragazzo alto e biondo. «Chiamami Bella», feci, mentre mi alzavo.
«Io sono Mike», si presentò, «Serve aiuto per trovare la prossima lezione?».
«No, non credo», risposi garbatamente, «Ho ginnastica, credo di potermela cavare».
«Anche io», sorrise lui dolcemente. Uscimmo insieme fuori dall’aula.
«Scusa ma hai pugnalato Edward Cullen con una matita o cosa?», chiese a un certo punto con un mezzo sorriso. Ci misi un po’ a rispondere, perché assorta fra i miei pensieri. E perché credevo che stesse ancora farneticando dei suoi affari personali. «Mh?».
«No, dico. Non l’ho mai visto così», ripeté.
«Chi è Edward?», chiesi senza capire.
«Il ragazzo che ti sedeva accanto», m’informò lui.
«Ah. Non so. Si vede che non gli piace la compagnia», scrollai le spalle noncurante, cercando di infilare il mio nuovo libro nello zaino e di soffocare il senso di inadeguatezza che quello strano individuo mi aveva messo addosso. «Se ci fossi stato io al suo posto..», si fermò subito, arrossendo, «Beh, se ci fossi stato io, sarei stato molto più gentile con te», si corresse.
Scoppiai a ridere: ne parlava come se si fosse trattato di un caso nazionale.
«Stai tranquillo, sto bene. Non è poi così grave», assicurai.
«Sì, beh. E’ un tipo strano. Fai attenzione magari», mi disse, prima che ci dividessimo davanti agli spogliatoi.
«Lo farò, papà», sospirai divertita, vedendolo sparire dietro la porta di legno.
L’ora di ginnastica passò più in fretta di quanto mi aspettassi – poiché ancora non avevo una divisa, ebbi l’immenso piacere di godermi, dalla tributa d’onore – la panca della palestra –, mandrie di studenti sbuffanti che si affannavano a correre dietro una palla.
Molto divertente.
Molto irritante invece era pensare che, alla fine, sarebbe toccato pure a me.

Quando suonò la campana, mi diressi in fretta verso la Segreteria per restituire un paio di moduli e poi, con sommo piacere, infilarmi nel pick-up e tornarmene a casa. L’ufficio mi accolse caldo e luminoso, proprio come stamattina. Quando entrai, davanti a me si disegnavano le spalle large e grosse di un ragazzo ben piazzato che si voltò immediatamente verso di me, fissandomi, quasi con odio. Edward Cullen, di nuovo davanti a me. Oh, io voglio sperare, pensai fra me e me, che la signora dai capelli rossi non abbia osato presentarsi. Se è così, spero almeno in una punizione divina.
Si voltò bruscamente verso il viso paffuto della donna, continuando insistentemente a chiedere di poter cambiare corso di Biologia, di poter frequentare durante un altro orario.
La donna non gli fu molto d’aiuto, in realtà.
Questo lo fece infuriare ancora di più, e andarsene sbattendo la porta.
Io e lei ci lanciammo un’occhiata, «Allora, Isabella», fece lei, riconoscendomi.
«È andato bene il primo giorno di scuola?».
«Sì, abbastanza. La gente qui è strana».
«La gente è strana dovunque», rispose lei, prendendo i moduli.

Senza dubbio.
  
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