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Autore: Yssel    27/11/2013    3 recensioni
A volte dovevi andare in contro alla morte per temerla davvero, no? Perché è ovvio, tutti siamo bravi a fare i gradassi, “chi se ne frega se muoio”, poi ti dicono che ti stai ammalando e tutti si rovescia.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Aprii, lentamente, gli occhi e con una lentezza disumana allungai il braccio verso il comodino, afferrai il cellulare e spensi la sveglia.
Mi stropicciai gli occhi e poi mi misi a sedere, sempre lentamente.
Sentii un enorme calore vicino alla mia faccia e poi qualcuno mi leccò la guancia, mi girai sorridente e accarezzai la mia unica vera amica.
Amethyst, la mia cagnolina.
‘Cagnolina’ si faceva per dire, era un enorme alano bianco, con un’enorme macchia nera al centro del petto.
Le accarezzai la testa poi, ancora in mutande e canottiera scesi al piano di sotto e le cambiai l’acqua nella ciotola, misi altri croccantini nell’altra e mi diressi di nuovo al piano di sopra, lasciando aperta la porta sul retro che dava sul piccolo giardino di casa mia.
Un altro morboso, pesante, stupido ed insensato giorno della mia insensata vita stava cominciando.
Mi diressi in bagno, accessi lo stereo che era lì e i muri iniziarono a tremare al ritmo dei Pierce The Veil, mi infilai sotto la doccia e mi lavai lentamente, sperando che l’acqua corrodesse la mia pelle, gli organi e le ossa facendo sì che di me non rimanesse più nulla ma non accadde.
Tristemente uscii dalla doccia e mi piazzai davanti allo specchio, iniziando ad asciugare quell’ammasso di paglia verde acido che usavo chiamare capelli, appena finito alzai il volume della musica e tornai in camera, presi dall’armadio la biancheria a caso, infilai un paio di calzettoni a righe bianche e nere che mi arrivavano fino alle ginocchia, mi infilai i primi shorts di jeans che mi capitarono sotto mano e la mia maglietta dei Pierce the Veil, che ancora gridavano e suonavano dal bagno.
Mi infilai gli anfibi e li allacciai, sempre con rigorosa lentezza poi afferrai le cuffiette, il telefono e la borsa degli Avenged Sevenfold, quella che mi accompagnava ovunque andassi, ci buttai dentro un quaderno, una penna nera e le sigarette.
Ribaltai la camera alla disperata ricerca di un accendino, ma non lo trovai così capii che mi sarei dovuta fermare dal tabaccaio anche quella mattina per comprare il millesimo accendino della settimana.
Tornai in bagno dove contornai, come ogni mattina, i miei occhi neri come la pece di un pesante strato di matita rigorosamente nera poi, mentre giocavo con l’anellino sulla parte destra del mio labbro inferiore, spensi, mio malgrado, la musica e scesi al piano di sotto.
Sul tavolo c’era il classico post-it dei miei genitori, ‘siamo fuori per lavoro ma non torniamo dopo cena, stiamo via tre giorni, fai la brava, porta buoni voti e non spendere i tuoi soldi in sciocchezze’.
Accartocciai il post-it e lo buttai nel secchio.
Ogni giorno era la stessa storia, mi alzavo, trovavo il post-it con i soldi contati sopra e facevo sempre la stessa cosa, metà dei soldi in tasca, l’altra nel porta monete nella tasca interna della mia borsa.
La metà che mettevo da parte serviva per i tatuaggi che avevo in programma.
I miei genitori non c’erano mai, ero abituata e ormai trovavo fastidiosa anche la loro presenza in casa, quelle poche volte che c’erano.
Loro non erano stati pronti ad avermi, non mi volevano, ero stata un errore.
Mia nonna, la madre di mio padre, insistette a morte perché mia madre mi tenesse e finché mia nonna rimase in vita non ci furono problemi, lei mi teneva con se, viveva da noi, mi crebbe come dovrebbe fare una madre ma quando avevo 8 anni morì, da lì fu tutto un andare a picco.
I miei genitori erano troppo occupati tra lavoro e svago per occuparsi di me.
Lentamente imparai a cavarmela sempre di più, col tempo stringemmo un tacito patto: Io portavo buoni voti e loro mi lasciavano i soldi necessari per fare ciò che più mi piaceva, senza che io creassi loro problemi.
Dopo aver bevuto il mio bicchierone di caffè feci rientrare la mia amata Amethyst e chiusi la porta sul retro, la salutai con un bacio in testa, mi infilai le cuffiette, presi le chiavi di casa e mi infilai il giacchetto di pelle mentre camminavo nel vialetto davanti casa, tirandomi dietro la porta.
Vivere in California non significava affatto essere immuni al freddo, come in molti credevano.
Io ero freddolosa, da far schifo e la mattina alle 6.30 non faceva affatto caldo.
Feci partire la riproduzione casuale dell’ iPod e il “NIGHTMAAAARE” gridato da Matt Shadows e contornato dalla musica furiosa e tormentata del resto dei Sevenfold mi ricordò a cosa stavo andando incontro; un altro stupido giorno di scuola, in quel posto schifoso pieno di professori che non facevano altro che ignorarmi e ‘compagni’ di classe che si divertivano a pestarmi e prendermi in giro.
Arrivai al tabaccaio ed entrando alzai una mano per salutare il commesso, senza neanche guardarlo in faccia, presi il primo accendino nero che vidi e gli lasciai gli spicci sul bancone, uscendo sempre a testa bassa.
Conoscevo il commesso perché, praticamente, ogni mattina ero lì a comprare un accendino o le sigarette ma non ci parlavo mai, avevo preso il brutto ma comodo vizio di non parlare con nessuno e di non alzare mai la testa quando camminavo per evitare di incrociare sguardi che mi avrebbero, sicuramente, portato a qualche pestaggio.
Continuai la mia lunga camminata verso l’inferno accendendo una sigaretta ed alzando di più il volume della musica, arrivata davanti al cancello, senza fermarmi, andai sparata verso il retro della scuola e mi misi seduta a fumare e aspettai circa un’ora, il tempo esatto che ci mettevano tutte le persone ad arrivare, la campanella suonava e tutti entravano, quando il cortile era libero entravo anche io e mi infilavo in classe, andandomi a sedere al mio banco in fondo all’aula vicino alla finestra, senza togliere le cuffiette, semplicemente abbassando leggermente il volume.
Anche quella mattina ero scappata ad un pestaggio, ora dovevo sopravvivere a 8 ore d’inferno e sperare di sfuggire anche al pestaggio del pranzo e quello all’uscita.
Tirai fuori il mio quaderno e la penna ed iniziai ad abbozzare disegni e scritte che mi venivano in mente.
La mia vita continuava a fare schifo, era un circolo vizioso.
Mi alzavo, uscivo di casa, ricevevo odio che accumulavo dentro di me, uscivo da scuola, tornavo a casa e sfogavo la metà dell’odio che avevo dentro con la musica per poi mettermi a dormire e ricominciare tutto il giorno dopo.
Le uniche due amiche che avevo abitavano a New York, le avevo conosciute quando avevo 9 anni e stavo benissimo con loro.
Margaret e Kelly.
Margaret era altissima, con dei lunghissimi capelli neri e degli occhi castani che andavano verso l’oro mentre Kelly era bassina, capelli corti e rossi fuoco e gli occhi verde smeraldo che facevano un contrasto assurdo e meraviglioso con i capelli.
La madre di Margaret morì quando aveva 6 anni, incidente stradale e da allora il padre fece di tutto per farla vivere bene, ma lei non divenne viziata, anzi, rimase sempre una persona meravigliosa.
I genitori di Kelly invece si separarono quando lei aveva 8 anni, un mese dopo che morì mia nonna. Il padre di Kelly era un ubriacone bastardo che se ne fregava di lei e suo fratello più grande, mentre la madre era una delle persone più dolci, comprensive e ragionevoli del pianeta.
Quando avevamo 11 anni Margaret e Kelly si innamorarono e le aiutai a mettersi insieme, arrivate a 15 anni Margaret, dovette trasferirsi dalla California a New York e Kelly convinse sua madre ad andare a vivere con Margaret ed il padre.
Ora avevamo tutte 17 anni, l’anno dopo le ragazze avevano programmato il matrimonio ed io ero felicissima per loro.
Quando vivevano ancora qui noi eravamo le emarginate, escluse da tutti, avevamo solo noi tre e la nostra musica, da quando si erano trasferite non era cambiato molto, io ero ancora emarginata e tutto ciò che avevo erano la musica e la mia adorata Amethyst che mi era stata regalata da mia nonna, al mio 7° compleanno; l’avevo chiamata “Amethyst” perché mia nonna adorava le ametiste.
Io non ero potuta andare con Kelly e Margaret a causa dei miei genitori ‘non ci sono abbastanza soldi per pagarti il viaggio e per permetterci di pagarti il necessario per vivere lì, finisci scuola, trova un lavoro e poi farai come vuoi’ e io non avevo potuto controbattere.
Io e le ragazze ci sentivamo ogni sera tramite computer, facevamo lunghissime videochiamate.
Da quel che avevo capito neanche loro erano cambiate molto, non avevano molti amici, vivevano del loro amore ed era una cosa meravigliosa ma anche molto triste e spaventosa, dal mio punto di vista.
La prima ora finì e quando mi staccai dai miei pensieri e buttai un occhio sul foglio che avevo davanti, notai di aver disegnato una rosa nera quasi completamente appassita con i petali che cadevano e una catena legata sul gambo pieno di spine sporche di sangue, attaccato alla catena c’era il nome di mia nonna “Coraline” e sorrisi.
Quella rosa ero io, cadevo a pezzi, appassivo e sanguinavo ma non mollavo l’unica persona che aveva sempre creduto in me.
Decisi che appena uscita da scuola sarei andata a prendere appuntamento al negozio di tatuaggi vicino casa mia, quello davanti cui passavo sempre e buttavo un occhio, per farmi tatuare quel disegno.
Passai tutta la giornata, stranamente, senza essere notata da nessuno.
Mangiai un panino chiusa nel bagno delle donne per pranzo, tanto per evitare pestaggi e all’uscita corsi a perdifiato evitando il gruppetto di bastardi che mi aspettava, come sempre, alla fine del corridoio.
Corsi fino a che la scuola non sparì dalla mia vista, poi girai l’angolo e cominciai a camminare e riprendere fiato, guardai il telefono, erano le 16.40, il negozio di tatuaggi doveva essere aperto così mi diressi lì ed entrai per prendere appuntamento.
Mi fermai davanti alla porta, presi un enorme respiro e fermai, mio malgrado, la musica costringendo il povero Oliver Sykes a fermare le sue meravigliose imprecazioni poi, senza alzare lo sguardo dal pavimento, entrai nel negozio con il mio disegno stretto in una mano.































 Masticavo svogliatamente la mia gomma e, dopo tutti i marchi e le strette dei miei denti, mi fu impossibile riuscire a percepire il suo sapore originario. Non avevo le papille altamente sensibili, il mio non era un palato magnifico ma mi annoiava dover cambiare gomma da masticare ogni decina di minuti a causa del suo scarso successo. Odiavo quelle gomme confezionate e tenute sui banconi delle casse al supermercato, per questo me le facevo portare spesso e volentieri da Jason, che le produceva. A dire il vero odiavo il cibo confezionato in genere e tutte le volte che passavo per un frigorifero con quello stupido carrello fra le mani mi veniva voglia di infilarmi due dita in gola e vomitare tutto, però dovevo comunque prostrarmi a quella che era una vita cittadina e abbandonare con lentezza tutti i principi che, negli anni, si erano radicati nella mia testa. Il mio mento ballava, sincronizzato con il palmo che lo sorreggeva, gli occhi slittavano dalla montatura nera degli occhiali, onde verdi che si mescolavano alle pareti rosso accese dello studio. Non c’ era nessuno, nessun cliente e nessun collega a farmi compagnia, ma non mi lamentavo affatto, in quanto la compagnia non mi era quasi mai gradita. Mi piaceva quest’ aria muta, priva di suono, tanto che non avevo acceso le casse e non avevo neanche portato dei CD da casa da poter ascoltare indisturbata.
Il tempo cambiava, talvolta piovigginava e talvolta degli spiragli di Sole colpivano il pavimento, la porta trasparente lasciava intravedere le gocce chiare che ogni poco si scagliavano contro il marciapiede, si vedevano gli schizzi frutto dell’ afa e della stagione inoltrata della California. Non avevo freddo. Per la città ero conosciuta, da chi mi conosceva, come quella che girava a maniche corte di Dicembre e che sopportava senza l’ ombra di un problema l’ inverno.
Mi sporsi dal bancone, sbuffando. Mi stavo annoiando. Dopo aver passato tutta la mattina in quello studio della stampa rimpiangendo la perdita di vari anni della mia vita per poi vedere due stupidi pezzi di carta infissi alle pareti che sarebbero dovuti essere diplomi ricercati in ogni dove, l’ unica cosa che volevo era avere sotto le mani un pezzo di carne fresca da tatuare. Pensai che potevo sistemarmi le unghie, che dovevo smettere di morderle per quello che era un sano vizio che mi portavo appresso dall’ infanzia, mi voltai e mi guardai nell’ enorme specchio che mi copriva le spalle. Tossicchiai, mi squadrai, mi infilai le dita nei capelli e li scossi- nonostante fossero corti, “troppo corti per una femmina!”- desiderando di tagliare quel ciuffo castano forse troppo lungo. Per i miei gusti, ovvio. Spostai le dita sulla fronte e mi torturai il labbro inferiore con noncuranza. L’ interno della bocca era ancora distrutto, pur non avvertendo più la pressione della mia vecchia casa; sentivo i lembi di pelle sporgere e solleticare le gengive, le guance scavate e bucate avevano ormai smesso di dolere.
Avevo fin troppi vizi e troppa poca voglia di perderli o lasciarli scemare.
Chiusi gli occhi, sospirai e misi mano al telefono. Lo sbloccai senza guardare e me lo portai alle orecchie. “Che c’è?” La mia era una voce grossa, per niente leggera o lieve, era senza motivazioni. “Ah-ha. No, non c’ è nessuno. Non posso chiudere prima, lo sai. Se vuoi, fai un salto qui e, se ti va, ti riempio d’ inchiostro. Oh dai, tu sei l’ unico che ha voglia di vedermi. Dai. Ti prego.” Sorrisi, ma solo un poco. “Bravo uomo. Ti pago un drink stasera.”
Jason. Lui era l’ unico uomo della mia vita. Non in senso vero e proprio, mi vantavo della mia situazione stabile con me stessa e il gatto che ogni tanto veniva ad elemosinare una scatoletta di tonno dalla mia finestra, piuttosto nel senso che era uno dei pochi amici che, finite le superiori, mi era rimasto accanto. Non ero un essere particolarmente facile da trattare, lui sapeva farsi valere e sapeva farsi rispettare. Il carattere dominante, in ogni caso, era pur sempre il mio. Ero io quella che il sorriso lo portava sul volto, ma solo mezzo e per compiacimento o per presa per il culo. Ero io che alzavo il volume della musica e delle urla, e poi ero io che lo ospitavo nel mio garage a bere fino a che non finivamo la scorta dell’ ubriacone al piano sotto il mio. Jason lavorava in una fabbrica di caramelle, un lavoro gay e da pappamolle, ma il suo temperamento suggeriva tutt’ altro: le sue braccia erano ricoperte dei miei tatuaggi e allo stesso modo lo erano le sue gambe. Era il mio foglio umano, tutto ciò che disegnavo sulla sua pelle finiva con l’ essere ripassato da un ago. Edera rampicante che partiva dalle punte dei piedi e saliva, opaca, fino a diventare fuoco sulle caviglie. Fiamme sui polsi, schiena tracciata da frasi per lui di classica importanza e poi, tatuaggio del quale andavo più fiera, due leoni sulle spalle che si incontravano e ruggivano con il chiudersi delle clavicole. Il manico della sua chitarra era sempre a portata di mano, impresso su un suo polpaccio e aggrovigliato nelle edere, le mani erano soggette ad un continuo mutamento, colori sbiaditi si mescolavano a tanti inchiostri accesi, il predominio era imposto da quell’ Hate sulle falangi e, uniti i palmi, una farfalla prendeva vita e gli occhi aperti sulle sue ali ti guardavano fino a che dovevi distogliere lo sguardo. A completare il tutto c’ era il suo abbigliamento mediocre, i suoi occhiali da sole spessi come una lastra di ghiaccio e la sua voce roca e graffiante che nessuno avrebbe mai attribuito ad un trentenne. Con lui avevo fatto tante cose: ero finita dal direttore dell’ istituto che avevo frequentato, avevo partecipato ad una rivolta dell’ Università, avevo fatto bunjee jumping e mi ero persino decolorata i capelli. I tempi della scuola erano finiti e, al massimo, riuscivamo ad uscire la sera e magari anche a tornare a casa con qualcuno da intrattenere. Jason era il riflesso del divertimento, io quello della serietà.
Con uno scatto violento, buttai la gomma da masticare nel cestino ai miei piedi. Se smettere di fumare comportava diventare una consumatrice accanita di gomme, allora qualcosa mi diceva che avrei fatto meglio a continuare a sfondarmi i polmoni. Tutto quello zucchero mi faceva ribrezzo, ma avevo dovuto smettere o ci sarei rimasta secca. A volte dovevi andare in contro alla morte per temerla davvero, no? Perché è ovvio, tutti siamo bravi a fare i gradassi, “chi se ne frega se muoio”, poi ti dicono che ti stai ammalando e tutti si rovescia.
Fissai le mie infradito e storsi il naso. Spinsi le braccia all’ indietro, i muscoli dovuti ai miei allenamenti di boxe si fecero sentire, duri ed impossibili da scalfire, dopodiché sbadigliai e mi misi ad aspettare qualcosa, anche una mosca che volava, da una parte del bancone, a sedere e con un pezzo di carta davanti agli occhi.
Per Jason fu questione di minuti, non fece in tempo ad arrivare che si stese sul lettino e mi guardò, pregandomi di agire. Non gli feci neanche vedere il disegno che stavo per trasportare sulla sua pelle, anzi, gli carezzai i riccioli scuri che gli cadevano sul viso e cominciai senza fiatare ad affondare l’ ago in quella pelle pallida e morbida. Seguii le linee dei nei, li circondai e mi divertii a cambiare colore ogni volta che mi aggradava. Stavo per tracciare l’ ultima riga di nero quando sentii il campanello della porta tintinnare. Le mie orecchie si rizzarono, la macchinetta che stringevo smise di fare rumore e la spensi. Teoricamente non dovevo neanche essere lì, ad usare inchiostro per mio piacere, e sperai con tutto il cuore che chiunque fosse appena entrato non fosse uno dei miei colleghi. Feci cenno a Jason di stare zitto- e non ci eravamo neanche salutati o rivolti la minima parola-, misi giù la macchinetta e mi sollevai dallo sgabello senza far rumore. Lo vidi affogare la testa fra le braccia mentre sparivo verso il bancone. Mi tolsi i guanti sporchi di un’ accozzaglia di colori e li feci diventare compagni della gomma da masticare solitaria che aveva fatto la simpatica e si era appiccicata al sacchetto dentro il cestino, dopodiché mi decisi a togliermi gli occhiali e a pulirli nella maglia. Chiunque fosse entrato, per me, era solo una macchia di colori confusi e poco definiti, un insieme di sfumature e di galassie perse e ancora non scoperte. Chiunque fosse entrato, una volta messo a fuoco dalle mie lenti, attirò la mia attenzione. 












Eccoci qui.

Questa è la mia prima fanfiction a quattro mani, e sono fiera di dire che le due mani che mi accompagnano in questa pazzia sono quelle del mio amore, Sah. 
Lest' begin, we hope you enjoy!
  
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