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Autore: ScarletQuinjet    04/05/2008    7 recensioni
Avvertimenti: questa è una What if… da quando Azzurro imprigiona la principesse e la regina. Così, per specificare. "Sin da quando Azzurro le aveva rinchiuse nella Torre, Fiona e sua madre avevano capito che c’era ben poco da fare, nonostante entrambe volessero uscire, scappare ed andare ad aiutare Shrek e gli altri, andare a difendere il loro regno dalla follia del nuovo, pazzo, re. La principessa guardò sua madre di soppiatto, preoccupata: la regina era impallidita e fissava con aria preoccupata fuori dalla finestrella della cella sulla sommità della Torre, una mano stretta alle sbarre, le piccole nocche bianche e tremanti..."
Genere: Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Regina Lillian
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fairytale Gone Bad

Avvertimenti: questa è una What if… da quando Azzurro imprigiona la principesse e la regina. Così, per specificare.

N/A: avevo voglia di buttarmi sul Molto Molto Tragico. Et voilà, detto, fatto. Era da tempo che volevo scrivere una one-shot, ma le idee mi schizzano da una parte all’altra della testa (disturbando la mia povera coppia di neuroni, Gualtiero e signora). Poi ho scoperto che la musica triste fa miracoli, e anche la depressione pre-compito-di-filosofia-su-Niccolò-Machiavelli-e-pre-compito-di-chimica; dunque eccomi qua, depressa e pronta a scrivere una delle cose - credo - più tristi che io abbia mai scritto. Ah, si, piccola specificazione…ai fini della storia mi sono vista costretta a spostare la cella in cui Azzurro rinchiude Fiona, la regina e le altre principesse - oche giulive.

Buona lettura!

P.s. Bla, bla, bla, i personaggi non mi appartengono (purtroppo), bla, bla, bla, tutti i diritti sono della Dreamworks (purtroppo!), la canzone “Fairytale Gone Bad” non mi appartiene (purtroppo), è dei Sunrise Avenue, bla, bla, bla, le citazioni di Macbeth sono del fu William Shakespeare (purtroppo) ecc., ecc., ecc…spero di essermi ricordata tutto. In caso contrario, perdono.

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Fairytale gone bad

To my queen: “This is the end you know

Lady, the plans we had went all wrong

We aint nothing but fight and shout and tears”

Love, your king.

Sin da quando Azzurro le aveva rinchiuse nella Torre, Fiona e sua madre avevano capito che c’era ben poco da fare, nonostante entrambe volessero uscire, scappare ed andare ad aiutare Shrek e gli altri, andare a difendere il loro regno dalla follia del nuovo, pazzo, re.

La principessa guardò sua madre di soppiatto, preoccupata: la regina era impallidita e fissava con aria preoccupata fuori dalla finestrella della cella sulla sommità della Torre, una mano stretta alle sbarre, le piccole nocche bianche e tremanti.

“Mamma”

“Si?” lei si girò a guardarla, un sorriso tirato per celare il dolore e la preoccupazione “Dimmi”

“Sei preoccupata” rispose Fiona, appoggiando le mani sulle spalle magre della regina “Cosa c’è?”

“Bambina, siamo in trappola, nella cella più alta della Torre Prigione di Molto Molto Lontano, è ovvio che sia preoccupata, qui è dove--”

“No, c’è altro, vero? Dov’è il problema?”

“Io…”

La porta sbatté violentemente, e le prigioniere si girarono a guardare chi era entrato: re Azzurro le fissava arroganti, crudele, scrutando le principesse e la regina con la tipica sicurezza di chi è convinto di sapere tutto e di avere il potere assoluto; un paio di guardie entrarono dopo di lui e si piantarono al suo fianco: entrambe evitarono di guardare la loro regina, consapevoli dello sguardo ferito e addolorato che le avrebbero visto negli occhi chiari qualora li avessero incrociati. Il loro era tradimento nei confronti della regina.

Il discorso del falso re fu breve e conciso: non dovevano sperare in una possibilità di salvezza, ora le loro vite erano un mero divertimento per il re. I suoi occhi azzurri, un tempo dolci e affascinanti, avevano un brillio folle. Prima di uscire lanciò una lunga occhiata significativa alla regina, come a dimostrarle che era lui ora quello che aveva il potere, mentre lei era quella che aveva perso tutto, e che avrebbe perso anche quel poco che forse le era rimasto.

“Maestà” se la risata di scherno del re colpì la regina, lei non lo diede a vedere “Prendetela” disse Azzurro alle guardie, e queste afferrarono rapidamente la Bella Addormentata per la braccia, trascinandola a peso fuori, piccola principessa urlante.

“Bella no!” urlò Fiona, scagliandosi in avanti, cercando di liberare l’amica urlante, imitata delle altre “No, Azzurro, lasciala, lasciala! Bella, Bella! BELLA!”

La porta fu richiusa di nuovo, e il silenzio piombò sulle donne restanti.

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Biancaneve e Cenerentola piangevano ancora, in silenzio, rannicchiate in un angolo, e Doris cercava inutilmente di consolarle. Fiona tentava di aprire la porta, usando la forza bruta per rompere la serratura metallica, senza risultati evidenti.

“Tesoro, smettila, è…è inutile. Basta, non stancarti”

“Mamma…”

“Conosco queste prigioni. Non si esce se colui che ti tiene prigioniera non vuole. E Azzurro non vuole lasciarci andare”

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La piccola grata sulla porta si aprì e le prigioniere si voltarono di scatto a fissare il nuovo arrivato: gli occhi verdi di Raperonzolo ricambiarono colpevoli i loro sguardi pieni di astio, e solo negli occhi grigi della regina trovò qualcosa che sembrava pietà.

“Raperonzolo, cosa vuoi?” la voce di Fiona era rabbiosa e bassa, violenta “Hai già fatto abbastanza, e Bella è stata portata via, Raperonzolo, cos’altro vuoi?!”

“Mi…mi dispiace…” mormorò la principessa, abbassando il capo colpevole “Azzurro aveva detto…che non vi avrebbe fatto nulla e--”

“Ti dispiace? TI DISPACE?! Bella è sparita, chissà cosa le farà Azzurro!!”

Raperonzolo abbassò il capo e si ritrasse, chiudendo lo sportello, consapevole che non aveva argomenti con cui controbattere le urla di Fiona.

“Aspetta” tutte si girarono a guardare la regina, e lei s’avvicinò alla porta, stringendo la sottile grata metallica che proteggeva lo spioncino, le lunghe dita strette attorno lo sbarre metalliche “Azzurro quanto sa delle tradizioni di Molto Molto Lontano?”

“Ma cos--” Raperonzolo la guardò stupita.

“Mamma, ti sembra il momento?!”

“Raperonzolo” insistette la regina “Ascoltami. Suppongo che tu sia stata con lui diverso tempo prima di venire a trovare Fiona, Azzurro quanto sa delle tradizioni del nostro regno?”

“Tutto, credo, o almeno le tradizioni più importanti…ma perché?”

La regina non rispose, ma le voltò le spalle e barcollò verso la panca, cadendo pesantemente a sedere, una mano che le teneva la fronte, improvvisamente stanca e scoraggiata.

“Mamma…?”

“Io devo andare…cercherò di portarvi delle informazioni, ma se Azzurro mi scopre…” Raperonzolo le guardò un’ultima volta, colpevole “Addio”

“Mamma, stai male?” Fiona corse dalla regina e le strinse una mano “Cosa c’è? Perché hai fatto quella strana domanda alla traditrice?”

Sua madre la guardò e parlò piano, in modo che solo la figlia potesse sentirla “Chi è chiuso in questa cella, per tradizione, non scappa, mai. Neanche se il suo carceriere lo desidera. Questa è la cella dei condannati a morte” i suoi occhi grigi, stanchi, incontrarono quelli della principessa, spaventati “Azzurro vuole ucciderci tutte”

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La seconda a sparire fu Doris, il membro più forte del gruppo dopo Fiona. La principessa aveva cercato di ribellarsi, ma aveva guadagnato solo un lungo taglio sulla guancia, e sua madre l’aveva costretta a fermarsi, ricordandole che portava un bambino in grembo, e a loro non era rimasto altro che piangere. I giorni si susseguivano lenti, e la totale inoperosità delle sue compagne mandava fuori dai gangheri la principessa di Molto Molto Lontano.

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Quando anche Cenerentola fu portata via, e nell’umida cella rimasero solo Fiona, Biancaneve e la regina, la principessa sfogò tutta la sua rabbia sulla madre, che era così triste e rassegnata da non sembrare più lei. Ma come potevano, anche volendo, fuggire, le aveva chiesto la madre, se fuori dalla porta guardie armate aspettavano solo che tentassero la fuga per scappare? Così avrebbero solo fatto il gioco di Azzurro, facendolo sentire potente e realizzato.

E di fronte alla ferrea logica di sua madre, pratica e lucida nonostante la situazione, e ai piagnucolii isterici di Biancaneve, Fiona fu costretta a cedere.

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La quarta a sparire fu un’isterica Biancaneve, che non oppose alcuna resistenza, e Fiona cercò comunque d’impedire che venisse portata via. La regina rimase a guardare imperturbabile, ma l’occhio attento della figlia poteva vedere che qualcosa in lei si era finalmente rotto: ora erano in gioco le vite di sua figlia e di suo nipote, non quelle delle amiche; sua madre si alzò lentamente e si appoggiò alla finestrella, scrutando triste e malinconica il castello in cui aveva abitato, felice, fino a poco tempo prima. Il suo sguardo argentino vagò sul cortile del castello, sulla parte che desiderava disperatamente vedere, ben consapevole che ciò che voleva vedere ancora un’ultima volta era dietro l’imponente castello bianco.

“Se tuo padre fosse qui, nulla di questo sarebbe successo…” Fiona la guardò stupita, sua madre non aveva più menzionato il re da quando era morto, chiusa nel suo dolore “Lui avrebbe saputo cosa fare…ma io sono così debole…”

E a Fiona parve di udire l’ombra di un singhiozzo nelle parole di sua madre.

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Quando vennero a prendere Fiona, la regina quasi impazzì di dolore. Si lanciò sulle guardie, prendendole per le braccia, chiedendo pietà per la figlia, che prendessero lei al suo posto, supplicandole di far fuggire almeno lei, che uccidessero la regina piuttosto che la principessa. Ma quelle non l’ascoltarono né la guardarono, incapaci di reggere lo sguardo disperato che brillava folle negli occhi grigi e argento. La spinsero a terra con forza, scaraventando il corpo magro contro il duro pavimento, e trascinarono via la principessa, che urlava chiamando la figura priva di conoscenza della madre.

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Il sole calò e sorse sul regno di Molto Molto Lontano più volte, e la regina ogni giorno si chiedeva perché si ostinasse a mangiare ancora una volta, perché non si lasciasse cadere sulla dura panca aspettando la fine; forse perché in lei ancora brillava la fiera regina che non si arrendeva mai, o forse perché nel suo cuore ancora viveva la speranza che la sua bambina fosse viva. O forse perché non aveva il coraggio di presentarsi davanti a suo marito e ammettere la sua debolezza dopo la sua morte, la spossatezza che la sua scomparsa le aveva provocato, facendola diventare la debole ombra di se stessa.

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Guardava sovente al castello. E sovente guardava alle strade principali, come se da un momento all’altro si aspettasse di vedere Shrek e i suoi amici che portavano il legittimo erede al trono del regno, che combattevano, che liberavano le principesse e Fiona, e lei sarebbe stata felice anche se si fossero dimenticati di lei, lasciandola languire nella sua fredda cella, pur di vedere la sua famiglia di nuovo felice.

Un giorno vide un feroce tumulto sulla strada maestra, Romeo Drive, e fino alla sua alta cella potè sentire l’urlo di trionfo di Azzurro, che indossava la corona dei re, e quello bestiale di un’altra creatura, e seppe che ogni sua speranza era venuta meno. L’erede, catturato. Lei, perduta. Il regno, in rovina.

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Infine vennero a prendere anche lei, e le guardie la scortarono silenziose lungo le scale, poi in uno stretto cunicolo sotterraneo, un paio di passi dietro di lei, le teste chine, come a portarle rispetto ancora una volta nonostante il tradimento. E lei camminava dritta e fiera, davanti a loro, consapevole di andare incontro a morte pressoché certa, ma decisa a giungervi da regina.

Il passaggio sotterraneo la portò dall’umida Torre al suo accogliente castello, e il suo cuore si spezzò ancora a notare come era drasticamente cambiato: non un ritratto a lei noto era presente sui muri, non un arazzo, non uno stemma: ovunque presenziavano, come orribili copie di un mostro assassino, ritratti e quadri del nuovo re, ovunque il suo stemma, la sua ‘A’ dorata, ovunque gli arazzi che lo raffiguravano in prodi imprese che lui non aveva mai compiuto.

Provò ribrezzo.

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Continuò a camminare sicura e fiera, ora una guardia davanti a lei e una dietro, come a formare una scorta, quando d’un tratto lei si fermò e parlò loro per la prima e l’ultima volta.

Aspettate, disse, ve ne prego. Si allontanò da loro e raccolse qualcosa sotto il loro sguardo attento, inginocchiandosi a terra, e un piccolo sorriso le stese le labbra dopo molto tempo: la foto che teneva tra le mani tremanti, recuperata da un mucchietto di cenere e resti di carta, sotto un tavolino sfondato che un tempo sapeva essere stato sostenitore di una decina di altre foto, le sorrideva di rimando, flebile ricordo dei tempi che erano stati. Il re le sorrideva allegro, bianco e stempiato, e tra le sua braccia un’altrettanto allegra se stessa le sorrideva a sua volta, entrambi ignari del dolore che sarebbe a loro toccato da lì a qualche anno.

“Maestà” la voce della guardia la riscosse e lei s’infilò la foto nell’abito, sopra il cuore, e si voltò lentamente, triste, verso di loro “Re Azzurro la aspetta”

Una stilettata le colpì il cuore, là dove la foto del vero re e della regina felice la riscaldava. Tornò dalle guardie e riprese a camminare, le mani strette al petto, grata di aver visto almeno un’ultima volta il sorriso di suo marito.

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La stanza in cui giunse le tolse il fiato per il dolore: il suo trono era rovesciato, abbandonato a terra, segno che, se una regina c’era, non aveva alcun potere, e la sua mente volò all’illusa Raperonzolo, tradita da colui che amava, e il trono dei re era occupato da lui, dal nuovo re, causa dei problemi del regno. Le guardie erano sparite, ora erano loro due, soli.

“Vostra Maestà” la chiamò lui, sarcastico “Lillian. Non credo che il termine ‘Vostra Maestà’ vi si addica più, non è vero?” sorrise, un sorriso scarno e folle, e la squadrò sprezzante “Tu sai perché sei qui”

Lei lo guardò, e nel suo sguardo c’erano disprezzo e pietà, dolore e illusione, gentilezza e rabbia “Sì” rispose la sua voce tranquilla, serena fino all’ultimo, regina, fino all’ultimo.

“E la prendi con così calma? Ammirevole” guardò la regina e un moto d’ira lo scosse: anche nel suo abito sporco e rovinato, nonostante fosse rimasta sola contro di lui, nonostante fosse in pieno territorio ostile, era ancora lei la regina, più di quanto Raperonzolo sarebbe mai potuta essere. “Ho detto al tuo - mio - popolo che hai abdicato in mio favore, sconvolta e distrutta dal dolore causato dalla morte del re” attese una possibile reazione, ma tutto ciò che ottenne fu solo l’ombra di una lacrima negli occhi alla menzione del marito.

“Non ci crederanno, crederanno al fatto che sia distrutta dal dolore, perché è così. Ma il mio popolo sa che non avrei mai abdicato a tuo favore, meglio la morte. E questo la sai anche tu” lo guardò a lungo negli occhi chiari, e quando parlò la sua voce era calma, ma vibrante dell’ira repressa “Se devi fare qualcosa, fallo”

“Morirete” era tornato a darle del ‘voi’, colpito dalla freddezza.

“Lo so”

“E la prendete con tutta questa filosofia?” domandò, ammirato contro il suo volere.

“È inevitabile, suppongo”

“Ultimo desiderio?” chiese ironico, come a prenderla ancora in giro; invece lei rispose, e lo fece con immensa umanità.

“Permettimi di rivedere la mia famiglia, un’ultima volta”

Lui la guardò stupito per qualche istante, poi riassunse la sua aria feroce e crudele “Sono tutti morti. Fiona, l’orco, il principino del college. Tutti. Sono morti tutti.”

La regina piegò la testa, e il re vide che finalmente l’aveva ferita; lei si morse le labbra, ma quando tornò a guardarlo la sua voce era calma, il suo sguardo duro, appena il luccichio di una lacrima “I loro corpi?”

“Bruciati”

Lei sorrise triste e ironica, come se se lo aspettasse e lanciò un sguardo vago attorno a lei “Non mi lasci neppure il conforto di una tomba su cui piangere prima di unirmi loro? Dopo mio marito, anche mia figlia e gli altri?”

“Per mia madre non c’è stata tomba quando vostro marito l’ha uccisa! Solo un paio di occhiali e una bacchetta, un po’ poco per un figlio solo!” urlò, piccato e furente.

“Dunque è per questo, per tua madre.” mormorò la regina, guardandolo comprensiva “Fa quello che devi fare, allora”

“Nessun ultimo desiderio?”

“Voglio rivedere la mia famiglia un’ultima volta” ripeté lei, a voce bassa ma decisa.

“I corpi non ci sono”

“Qui ti sbagli”

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Lei avanza, silenziosa e ormai rassegnata, ma decisa a portare a termine il suo ultimo compito, a realizzare il suo ultimo desiderio, consapevole della morte che l’attende; cammina per i giardini, ricordando altri tempi, l’orlo dell’abito, che il re non le ha permesso di cambiare neppure per l’ultimo saluto, sfiora appena i sassolini dei sentieri che attraversano le aiuole un tempo fiorite: persino il giardino è andato in rovina, immagine di un mondo che non c’è più.

Lui è lì, e lei lo sa, lui la aspetta, dolce richiamo che riprende la sua voce calda, appassionata, amata, dai suoi più bei ricordi, lontani, fragili come un giglio. La regina è arrivata alla sua meta, è in piedi e ora guarda la superficie calma del laghetto, ricordando quante volte ha desiderato caderci dentro e raggiungere l’uomo che vi riposa tra i morbidi flutti. Il cielo è di piombo sopra di lei, davanti a lei l’acqua è argento fuso, come i suoi occhi, bellezza e orgoglio del regno.

Sul fondo, una piccola cassa marrone: “Ye Olde Footlocker” recita la scritta dorata, e lei la guarda offesa.

L’acqua comincia a cadere, colpendola sulle spalle tremanti con grosse gocce pesanti: Molto Molto Lontano piange per il suo vero re e la sua regina. E finalmente anche a lei scivola una lacrima lungo la guancia pallida, lei che durante il funerale è rimasta immobile, pietrificata dal dolore, lei che piange di nascosto nel letto, struggendosi per l’amore perduto. Le ginocchia le cedono, cade in avanti, urta il terreno, la figura di regina persa a favore della donna che piange l’uomo che ama, amore perduto. Inginocchiata a terra sulla dura pietra che circonda la vasca dove ripose il re, la regina piange l’amore e la famiglia, consapevole di aver fallito nei suoi compiti. Lei, ultima della famiglia, lei, regina deposta, lei, nonna mancata, lei, madre incapace, lei, lei, lei, moglie vedova, capace di nascondere il dolore per tanto tempo per non offrire il fianco ai commenti, ora piange senza ritegno, i begl’occhi che liberano finalmente il dolore nel cuore della regina vedova.

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Azzurro fece segno alle guardie di andarla a riprendere e loro le si avvicinarono titubanti, come se interrompere il suo pianto fosse un’eresia; scocciato da tanto rispetto nei confronti della regina, fu il re ad andare da lei, prenderla per un braccio e costringerla ad alzarsi; poche per lei le istruzioni: passerà i suoi ultimi giorni nella Torre, nella cella in cui si trovava, ordinò il re folle, senza vedere alcuno.

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La regina soleva guardare fuori dalla finestrella: ai suoi occhi stanchi, lontano, nel cortile del castello, stavano preparando quello che sembra un baldacchino di trionfo, che, dopo qualche giorno, scomparve. Ogni speranza nel cuore della regina sparì, lasciando spazio al dolore, neanche alla disperazione: perché disperarsi per la propria morte, quando chi hai di più caro è già morto? Persino il suo regno era morto, e lei si sentiva tradita: nessuno aveva mosso un dito per lei, nessuno aveva mai chiesto di lei, persino l’esercito le si era ribellato contro grazie ai soldi del nuovo re. I miei soldi, pensò la regina, il mio tesoro. Sospirò: a quanto pareva non l’amavano quanto lei aveva sempre creduto. Il dolore per la perdita della figlia l’aveva consumata in quelle settimane rinchiusa nella Torre, e più volte si era ritrovata a sperare di morire.

Qualcuno bussò alla porta e lei neanche si girò a vedere chi stava entrando, disinteressata a tutto.

“Maestà?” la voce la chiamò titubante e lei si girò sollevata, grata di sentire una voce un tempo amica “Per voi”

La regina guardò il fagotto che Raperonzolo le porgeva e lo aprì lentamente, scoprendo il suo contenuto: accuratamente piegato, la regina teneva tra le braccia il suo abito da funerale, ancora perfetto e pulito; le sue piccole scarpe di raso nero caddero a terra con un lieve tonfo, assieme alla sua preziosa retina d‘argento. Lacrime d’incredulità le salirono agli occhi, qualcuno si era ricordato di lei.

“Pensavo voleste cambiarvi e indossare qualcosa di più nobile. Se volete lavarvi…di qua…” Raperonzolo la guidò in un’altra stanza, e nessuna guardia le seguì. La regina fece per entrare, ma si fermò improvvisamente, una mano sulla porta.

“Come li ha uccisi?”

“Non lo so…”

Lei si guardò attorno per la prima volta “Nessuna guardia?” chiese tranquilla.

“Non…non ce n’è bisogno, Maestà” la voce di Raperonzolo tremò.

“Ah…” il sorriso della regina era triste, ma la guardò lo stesso negli occhi verdi “Capisco”

“Morirete, Maestà…” gli occhi di Raperonzolo luccicarono di lacrime, era solo colpa sua, e lei lo sapeva.

“Lo so” le sorrise ancora, dolce e triste “Grazie per il vestito”

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La regina camminava per l’ultima volta lungo lo stretto tunnel dalla Torre al castello, attraverso le sale, lungo i corridoi, al suo fianco solo due guardie erano la sua scorta. La sua mente non pensò a nulla se non a continuare a camminare dritta e fiera, da regina ancora una volta. Raperonzolo le aveva procurato anche un bel mantello in velluto nero che le copriva le spalle, il cui cappuccio le copriva i capelli biondi e perfetti. Se era consapevole che stava andando a morire, non lo dava a vedere.

Le guardie la condussero ad un portone e uscirono, scortandola fino al centro di un cortile, formando alle sue spalle un drappello: di fronte a lei, Azzurro la guardava trionfante e sarcastico, alle sue spalle un baldacchino da cerimonia, dietro di lei, le due guardie, silenziose, e il popolo che guardava incuriosito la nuova arrivata.

“Oggi!” urlò tronfio “Assisteremo alla condanna a morte di un colpevole di lesa maestà! Complottava contro il mio regno, complottava per minare la vostra sicurezza!”

Alle orecchie di lei le sue accuse risuonarono folli e prive di senso: dunque così doveva morire, come una traditrice della patria? Non sarebbe morta con onore? Ogni cosa le veniva tolta: l’amato marito, il rango, la famiglia, ora l’onore.

“Abbassatevi il cappuccio” il nuovo re la guardò trionfante, il momento del suo folle trionfo “Vediamo il volto della traditrice!”

Lei lo fissò stupita, chiedendosi perché dovesse essere così stupido: mostrare che la stava uccidendo? Sperava forse che il popolo non facesse niente? Probabilmente non avrebbero fatto niente, realizzò poco dopo, l’avevano già abbandonata una volta. Abbassò il cappuccio e la folla trattenne il respiro.

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“Nonostante abbia abdicato ha continuato comunque a complottare contro il re!” urlò Azzurro alla folla “E questa è lesa maestà, punibile con la morte!”

“Fai quello che devi fare” lei parlò con voce chiara, sprezzante, e con la coda dell’occhio vide il terrore dipinto nella faccia di coloro che un tempo riteneva suoi fedeli sudditi. Ora non le interessa più molto la loro reazione, l’avevano abbandonata ancora una volta “Non ho motivi per chiedere il tuo perdono”

“Non subito…prima voglio mostrarvi una cosa” schioccò le dita e un altro portone si aprì; lei non degnò di uno sguardo i soldati che stavano entrando, fissando ancora gli occhi azzurri del re con tutto il disprezzo e la pietà che sentiva per lui, finchè un urlo non le mando in frantumi tutte le sue certezze.

“Mamma!”
“Fiona!”

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La regina guardò sconvolta sua figlia e scattò in avanti verso di lei, ma le due guardie la riafferrarono per le braccia e la costrinsero a rimanere al suo posto, seguendo il silenzioso ordine del re, e ancora non avevano il coraggio di guardarla; lei urlò, spaventata per la prima volta, e si divincolò, ma quelle si limitarono a stringerle più forte le braccia “Fiona! Fiona!”

“Mamma!”

“Lasciatemi andare, sono la vostra regina, lasciatemi! Fiona! Bastardo, avevi detto che li avevi uccisi, bastardo, perché, perché?!”

“Perché vi ho mentito? Lasciatela andare” loro la mollarono all’ordine del re e lei barcollò in avanti, guardando con odio l’uomo di fronte a lei “Mah, forse perché è stato così piacevole vedervi soffrire. Ora, avete qualcosa per cui supplicarmi o sbaglio?”

Lei non gli rispose, ma cercò la principessa: sua figlia era viva, e anche le sue amiche, suo marito, tutti coloro che Azzurro diceva di aver ucciso; ma ancora mancava suo nipote.

“Arthur” mormorò “Dov’è Arthur?”

“Azzurro! Sono vivi!”

“Taci, stupida, vattene!”

Con la coda dell’occhio, la regina vide Raperonzolo avvicinarsi stupita fissando le amiche che credeva morte; qualcosa scattò in lei, e lei reagì: afferrò Raperonzolo per la vita e la puntò un piccolo coltello affilato in gola, spuntato fuori da chissà dove “Azzurro, lascia andare la mia famiglia” parlò con calma, la voce fredda “Liberali o la uccido, e sai che lo farò”

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L’istinto di sopravvivenza scatta, ora sa che può salvare la sua famiglia. Con un rapido movimento estrae dalla manica il piccolo coltello che da tempo aveva nascosto presso la tomba del re, sempre indecisa se usarlo a meno, e lo punta risoluta alla gola della ragazza che tiene prigioniera: sa che può ucciderla senza farsi scrupolo, lo sanno entrambe, e Raperonzolo trema, supplicando il fidanzato con gli occhi. La lama è gia macchiata di sangue, lei si è leggermente tagliata un polso prendendo il pugnale dal manico nero, ma la mano è ferma, non trema; alla sinistra brilla fiera la fede “Liberali o la uccido, e sai che lo farò”

“Uccidila. Non m’importa” la regina sa che il re non bleffa. Il cuore le sprofonda, ha fallito, ancora.

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“Uccidila. Non m‘importa” la regina impallidì, e Raperonzolo cominciò a piangere piano, vedendo la vera natura dell’uomo che amava, pur avendo tentato per tanto tempo di ignorarla “Non te la prendere, tu non lo potevi sapere, regina” Azzurro rise, tornando al ‘tu’ dispregiativo “Per quando mi riguarda, puoi ucciderla e morire assieme a lei, alla tua famiglia e ai tuoi amici, e puoi non ucciderla, morire lo stesso con tutti i tuoi cari, ma senza averla sulla coscienza, scegli tu, ne sono indifferente” la sua risata folle riecheggiò nell’aria, e il popolo rabbrividì d’orrore davanti alla sua pazzia “Oppure puoi supplicare che tenga in vita te e l’allegra famigliola”

“A cosa serve supplicare, se so che tanto ci ucciderai comunque?” spinse via la ragazza; gli uomini e le donne presenti rabbrividirono ancora quando sentirono la voce della loro regina risuonare così calma e decisa, e si sentirono delle bestie: lei sì che era coraggiosa e fiera, lei rappresentava veramente Molto Molto Lontano. Eppure, nessuno andò in suo aiuto.

“Touchè” Azzurro la squadrò, certo della sua vittoria, e lei ricambiò calma lo sguardo folle “Allora, sei-- “

“Al mio popolo!” la voce di lei si alzò chiara e cristallina nel cortile “Non ho mai abdicato, ne lo farò mai. La mia accusa non esiste. L’unica cosa vera è che la morte del vero re mi ha distrutta. Non mi è imputabile alcun crimine” si fermò un attimo e, quando riprese, la sua voce tremò per la prima volta “Eppure ancora non fate niente”

“Commovente” ironizzò il re, ed estrasse la spada dal fodero “Ultime parole?”

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La regina guarda alle spalle del folle re e cerca gli occhi terrorizzati della figlia, lanciandole lo sguardo e il sorriso più dolci che riesce a fare. Poi l’abbandona senza una parola e si volge dall’altra parte, finchè non incontra lo sguardo che brilla in un paio di occhi argentati come i suoi. Arthur, pensa la sua mente, e le sue labbra stanno per fare uscire il nome, ma lei le blocca, non è quella l’ultima parola che vuole dire. Lo fissa invece, scrutando negli occhi come i suoi, vedendo per la prima volta dopo quasi sedici anni il suo nipotino: è smilzo e spaventato, ma lei sente che, se potesse, sarebbe un grande re. Gli sorride triste e dolce, ancora un sorriso, e un colpo di vento la investe, facendole volare via il mantello.

Rabbrividisce e alza gli occhi al cielo, guardando le nuvole di piombo, assorta e triste, non disperata, solo malinconica nel suo bell’abito nero, tragico, e sola anche nell’ultima ora, nessuno l’ha aiutata, neppure sua figlia ci ha provato. Tradita. Ancora. Nonostante tutto ciò che lei abbia provato a fare per loro.

Una grossa goccia cade dal cielo e le finisce sulla guancia, scivolando lenta verso il suo mento, e lei sorride alle nuvole e al regno che celano, alto nei cieli e nell’etere: è suo marito che piange per lei, e lei si permette di piangere con e per lui, una sola lacrima le sfugge dagli occhi grigi e va a raggiungere quella di suo marito, caduta dal cielo. Vuole parlare, ma sa che non appena pronuncerà una singola parola, Azzurro la ucciderà. Non le importa molto, ma vuole per l’ultima volta guardare il cielo. Poi apre le labbra e pronuncia la sua condanna a morte.

“Harold…”

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L’ultima parola l’aveva pronunciata, uno stupido nome, e non pareva aver voglia di dire altro. Azzurro guardò il collo teso, sarebbe stato così facile tagliarle la gola, troppo facile, poco divertente. Invece, scattò in avanti.

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Lei sussulta e gli occhi improvvisamente le si spalancano contro il cielo plumbeo; da un angolo della bocca, dalle labbra delicate, esce un sottile rivolo di sangue e lei lo sente scorrere fino al mento, come la lacrima del vero re. Abbassa lo sguardo sul braccio del re e vede che regge una spada, ne segue la lama e la vede affondata quasi fino all’elsa nel suo petto: alza lentamente una mano e se la porta alla ferita, non per incontrare il sangue che già le impregna l’abito, bensì per spostare la fotografia dalla macchia, per evitare che si sporchi; le dita sottili, ora leggermente tremanti, sentono il bordo della foto, un po’ discosto dalla ferita, e con sollievo riescono a spostarla un po’ più in là, lontana dal sangue: ora è soddisfatta, sa che il sorriso del vero re, di suo marito, è al sicuro. Una goccia di pioggia colpisce la lama, rimbalzando sul metallo, seguita da molte altre: piove sul regno, come se piangesse per la regina, per la tristezza e la tragicità della sua fine e per la crudeltà del re illegittimo. Non è una pioggerellina leggera, è un vero a proprio acquazzone, ma lei non se ne cura, anzi, non riesce ad immaginare cornice migliore per uno spettacolo così misero e penoso quale l’assassinio di una regina di fronte al popolo e alla famiglia che l’hanno abbandonata, sciocca regina, illusa regina.

Guarda ancora la spada, e un sorriso ironico le stende le labbra sotto lo sguardo stupito di Azzurro: è della spada di suo marito la lama che la sta uccidendo, ma è un braccio indegno quello che la regge. Respira piano, e il suo respiro è un leggero gorgoglio a causa del sangue in bocca e in gola, le viene da sputare, e invece ingoia con difficoltà, fissando il re negli occhi: lei è regale, accorta, educata, regina fino all’ultimo atto.

Life is but a walking shadow, a poor player,

That struts and frets his hour upon the stage,

And then is heard no more:

(W. Shakespeare - Macbeth act5 - scene5 - lines 26-28)

I suoi occhi cadono sul volto della figlia, pallido, se possibile, in cui si rispecchia un orrore mai visto dalla regina, ma anche sua figlia non ha fatta niente per aiutarla; vicino a lei, le principesse, Biancaneve, Cenerentola e la Bella Addormentata, trattengono il fiato spaventate, ma la loro paura non interessa alla regina, loro le sono indifferenti, tutte, compresa la figlia. Piuttosto, il suo sguardo corre al nipote mai conosciuto, e le lacrime che scendono lungo le guance del ragazzo la colpiscono più del terrore della figlia: quel ragazzo che non ha mai conosciuto piange per lei e ha provato ad intervenire, lei l’ha visto, un lungo taglio gli sfregia il giovane viso, ha una spalla ferita, ma ancora si dibatte per liberarsi e correre da lei; scusa, gli sillaba con le labbra perfette, scusa…; lui la vede e scuote appena il capo: dovrei essere arrivato prima, sillaba lui, sono stato lento, e debole, perdonami. La regina sorride al legittimo re, e si sente più leggera; lo scambio di battute finisce, le prime, uniche, ultime parole, sillabate, silenziose, sospese nell’aria, che lei mai dirà al nipote, note solo a loro, il loro primo ed ultimo segreto. Torna a guardare Azzurro, e nei suoi occhi legge il trionfo e la follia: fa per aprire le labbra, ma non trova la forza necessaria per farlo, e riprova, inutilmente, ancora una volta; lui le sorride, schernendola, trionfante; il freddo la circonda e la paralizza, la vista le si annebbia. Piega appena il capo, ma, fiera, lo rialza a guarda il folle re.

It is a tale,

Told by an idiot, full of sound and fury,

Signifying nothing.

(W. Shakespeare - Macbeth act5 - scene 5 - lines 28-30)

Lui le rivolge un sorriso carico di sarcasmo, è lui che ha vinto, è lei che ha perso, entrambi lo sanno, ed estrae bruscamente la spada dal petto di lei: la lama rientra nel corpo dalla schiena per uscire di nuovo dal petto di lei, e la regina barcolla per qualche istante, priva del appoggio della spada, prima di cadere in ginocchio, prima di giacere nel fango.

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Il popolo è ammutolito dall’orrore, finalmente si è riscosso dall’apatia, finalmente ha capito, ma è troppo tardi.

Troppo tardi.

È la loro regina la donna con una spada nel petto. È la loro regina la donna che sta cadendo a terra, dopo che il nuovo re ha estratto la lunga lama dal suo corpo. È la loro regina la donna che giace nel fango, sotto la pioggia battente. È la loro regina la donna il cui vestito nero, zuppo d’acqua a sporco di terra, rispecchia la terribile vedovanza. È la loro regina la donna la cui corona è rotolata via nel fango e ora giace dimenticata in una pozzanghera, ma sempre brillante e fiera, come la sua legittima proprietaria. È la loro regina la donna il cui sangue comincia a formare una pozza per terra. È la loro regina la donna la cui mano è abbandonata nella fanghiglia, le dita sottili immobili e appena piegate. È la loro regina la donna i cui capelli biondi, bagnati ed inzaccherati, cominciano a sfuggire dalla retina d’argento, incollandosi al collo bianco, spargendosi nella melma. È la loro regina la donna le cui guance perdono via via il loro rosato colore. È la loro regina la donna dalle cui labbra scivola un rivolo di sangue, rosso come solo il sangue può essere. È la loro regina la donna i cui occhi, grigi e argento, ancora rivolti verso il nipote, hanno appena perso la loro scintilla. È la loro regina la donna il cui cuore gentile si è fermato per sempre.

La rabbia serpeggia.

Il dolore divampa.

L’incredulità di essere rimasti lì a guardare mentre lei veniva uccisa senza fare niente li sommerge, lei che per loro aveva fatto tutto, lei che per loro aveva dato tutto, sommerge i loro animi e le loro menti; e nel cuore di ognuno nasce la giustificazione di “cosa potevo fare io da solo, neppure gli altri hanno fatto qualcosa, lei non avrebbe voluto che io mi sacrificassi per lei”, ma hanno almeno la decenza di metter a tacere quella ridicola scusa. Lei era la loro regina, lei è ancora la loro regina. E ora loro vogliono vendetta per lei, coloro che l’hanno lasciata morire vogliono vendicarla.

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L’urlo bestiale di dolore e sgomento della principessa risuonò nel cortile, disumano.

La risata di Azzurro seguì il grido, mentre il re guardava il corpo a terra di fronte a lui, l’ultimo baluardo di un mondo ormai sconfitto.

L’urlo della principessa fu il loro risveglio, il loro segnale.

Troppo tardi, il popolo insorse.

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La lunga bara di vetro della regina venne portata a spalla da alcuni cavalieri fino al laghetto nei giardini reali: gli spigoli d’oro massiccio brillavano alla luce del cielo nebuloso e le pareti di cristallo rilucevano come acqua nel pomeriggio grigio; i setti nani l’avevano costruita appositamente in onore della regina di Molto Molto Lontano, ed era decisamente molto più bella della bara di vetro di Biancaneve: il feretro nel giardino del castello era simbolo eterno della bellezza e dell‘eleganza della sovrana; ma era tanto bella, per quanto fosse elegante e permettesse di vedere la sua occupante, quanto dannatamente inutile: nessuno avrebbe mai baciato le sue labbra fredde per risvegliarla dal suo sonno di morte, nessuno, il suo principe, il suo re, l’aveva già preceduta da tanto tempo.

I numerosi presenti abbassarono lo sguardo in segno di rispetto, ben consapevoli di non essere degni di guardare neppure il corpo della loro sovrana: tutti l’ora l’avevano tradita, nessuno di loro si era mosso in suo aiuto, neppure la famiglia che lei aveva tanto amato e che aveva cercato di difendere in ogni modo. Erano tutti presenti per l’ultimo saluto alla regina, tutti coloro che non l’avevano difesa: la principessa Fiona e il marito, Sir Shrek, incolumi ma scossi, lei ancora incinta, la Bella Addormentata, Biancaneve, Ciucchino, la Dragona, il Gatto, tutti; c’erano state perdite durante la battaglia, alcuni erano caduti cercando di riscattare il tradimento: Cenerentola era morta dopo che le sue sorellastre Doris e Mabel avevano cercato di proteggerla, dando la vita per lei, e la principessa si era fatta uccidere comunque; uno dei tre porcellini era stato infilzato da parte a parte e i suoi fratellini ancora lo piangevano, Pinocchio aveva perso la gamba ma non se l’era mai fatta sostituire, così come Zenzy non si era fatto ricostruire il piccolo braccio. Il volto delicato di Bella era sfigurato da una lunga cicatrice lungo uno zigomo, ma lei, a differenza di Biancaneve, non nascondeva le sue ferite, ma ne andava fiera. L’amica, invece, indossava solo abiti molto accollati per non mostrare la cicatrice su una spalla. Raperonzolo, da ultima, era stata crudelmente assassinata dallo stesso Azzurro mentre lei cercava di difendere il legittimo erede dalla furia del fidanzato: quando il Principe l’aveva vista tra lui e il ragazzo, non si era preoccupato di allontanarla, ma, accecato dalla furia, le aveva inferto una profonda ferita al ventre e l’aveva lasciata lì, agonizzante nel fango, finchè non era morta tra le braccia di un clemente Arthur alla fine dello scontro; lui aveva ereditato tutte le migliori qualità della regina, lui era il vero re di Molto Molto Lontano: educato, gentile, carismatico, pietoso, severo, ma giusto e clemente.

Era lui l’unico che guardava il cristallino feretro, il legittimo re, Arthur Pendragon, e il suo sguardo era la summa di tutti i suoi sentimenti: il dolore, per aver perso la zia che aveva sempre ammirato dal liceo ma che non aveva mai veramente conosciuto, idolo lontano, rabbia, per non essere riuscito a salvarla, odio, nei confronti di chi l’ha uccisa, e disprezzo, per coloro che non l’avevano difesa; il viso del re era pallido, una maschera di cera con un limpido occhi grigio-azzurro che riluceva solitario: una lunga cicatrice solcava il giovane volto, spaccandogli la guancia sinistra e correndo giù fino alla gola, deturpando il volto dopo avergli strappato l’occhio vigile.

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Arthur era scattato in avanti, urlando il nome di sua zia, in un ultimo disperato tentativo di salvarla: con un rapido movimento, fluido e appena percepibile, Azzurro aveva spostato la lama dal petto della regina, estraendola bruscamente, verso di lui e aveva tentato di colpirlo, mancando la sua giovane e agile preda; il principe aveva perso l’equilibrio e la lama della spada dei re si era ficcata profondamente nel fango, bloccandolo e facendogli perdere tempo mentre cercava di liberare l’arma per vibrare l’ultimo colpo; il ragazzo lo aveva superato di corsa e si era inginocchiato al fianco del corpo della regina, prendendolo delicatamente tra le braccia, girandola per guardarle il volto: gli occhi d’argento lo guardavano vuoti, e il terrore si era fatto largo nel cuore del giovane ragazzo.

“Zia! Zia! ZIA LILLIAN! Rispondi, zia!” l’aveva scossa delicatamente, come se cercasse di svegliare una donna addormentata “Zia Lilly, ti prego, rispondi! Zia! Zia…zia…rispondi…” Arthur aveva abbassato il capo e aveva stretto a se la regina, come a nasconderla dagli altri parenti: l’allontanò dalla principessa Fiona, improvvisamente sopraggiunta, incredula, e il legittimo re aveva fulminato la cugina e lei era indietreggiata imbarazzata e colpevole, sapeva, sentiva di aver sbagliato terribilmente, il peso delle sue azioni già le opprimeva il cuore. Lui le aveva urlato di starle lontana, lei aveva tradito sua madre, non doveva avvicinarsi a lei!

Le azioni successive si erano svolte in fretta: Azzurro aveva liberato la spada dal fango e si era gettato sul legittimo re, ma Raperonzolo, la sua fidanzata, la donna che lui stesso avrebbe dovuto difendere, gli si era parata di fronte, braccia spalancate e viso inondato di lacrime, urlandogli qualcosa, ma lui l’aveva ignorata e l’aveva trapassata da parte a parte senza pietà, lasciandola cadere riversa per terra, e la lama affilata della spada era uscita facilmente dal ventre di lei, pronta e affamata del sangue del ragazzo che ora stava in piedi a difendere il corpo della regina; Arthur era stato velocissimo: era chiara la sua intenzione di difendere sua zia fino all’ultimo, ma era riuscito comunque ad allontanarsi di scatto e a recuperare un’arma anche lui: sapeva che ad Azzurro non interessava assolutamente il corpo della sovrana, almeno non subito, ed era più che contento di sfidarlo a duello; Arthur non era un campione come Lancillotto nei combattimenti, e lo sapeva, ma lui combatteva per motivi e valori che, probabilmente, Lancillotto non avrebbe mai conosciuto: la vendetta e l’amore per un parente morto in maniera così ingiusta, la rabbia così feroce di non essere riuscito a difendere coloro che si amava. La lama della spada dei sovrani si scontrò con un cupo clangore metallico con quella semplice che il ragazzo aveva estratto dal fodero che nessuno aveva notato, era lunga ma maneggevole, elegante, ma semplice e modesta, un modesto decoro celtico s’imperniava su tutto l’elsa e su parte della lama, ma delle rune andavano a incidersi nel metallo fino alla punta brillante. Il duello sembrava essersi stabilizzato, entrambi i contendenti erano alla pari: Azzurro era bravo e allenato, Arthur era furioso e in cerca di vendetta. Il re usurpatore vibrò un colpo e colpì di netto il volto del giovane: il legittimo re era caduto in ginocchio tenendosi il viso, mentre il sangue gli scorreva copioso tra le dita pallide e Fiona aveva urlato, temendo il peggio; ma lui era velocemente rotolato via, evitando il fendente di Azzurro e rialzandosi in piedi, la guancia sinistra coperta di sangue, l’occhio serrato e il collo ferito: era chiaro a tutti, aveva perso un occhio, eppure riusciva a tenerlo fieramente aperto, un buco insanguinato e dolorante.

Il legittimo re saltò all’indietro con molto agilità, atterrando giusto davanti alla regina: alzò la spada, la lama verso l’alto, l’elsa all’altezza degli occhi e li chiuse per un istante, cercando di concentrarsi

“Il compito di un vero guerriero è di difendere coloro gli innocenti, rispettando i diritti” una scintilla argentata balenò sull’elsa e si spense, ma nessuno la notò, se non Merlino “Il compito di un vero guerriero è di difendere i suoi sovrani, rispettando il regno” lo scintillio si ripeté con più forza e venne notato: Azzurro si fermo in mezzo al suo attacco, rimanendo scioccamente con le braccia alzate e Fiona guardò il cugino stupita, finchè il vecchio mago non andò da lei per allontanarla dalla scena dello scontro “Il compito di un vero guerriero è di vegliare sulla sua famiglia, ascoltando gli aiuti del cielo” la luce argentata, prima tenue ma via via più forte raggiunse la punta della lama e le antiche rune cominciarono a brillare “Io ho fallito nei miei tre compiti! Chiedo umilmente aiuto per riscattarmi!” il ragazzo spalancò gli occhi, e le sue iridi d’argento brillarono come se fossero fatte di vero metallo prezioso tra il sangue rosso e copioso; un vortice d’argento e azzurro brillò attorno a lui, e un vento freddo gli scompigliò i capelli biondi e le vesti rovinate “Rispondi alla mia chiamata!”

Azzurro lo fisso sbalordito per qualche istante, poi comprese e si scagliò contro di lui, imprecando “Non ti permetterò di evocare un Antico Potere in tua difesa, miserabile moccioso! MUORI!”

Merlino congiunse le mani in una muta preghiera, sapeva che quell’incanto non era mai riuscito al ragazzo, ma ora sembrava essere abbastanza forte e motivato, e la principessa guardò impotente il Principe che si avventava contro il suo giovane cugino, ancora fermo immobile con le gambe divaricate e la spada stretta tra le mani pallide.

“Dal fondo del lago mi sei stata donata dalla Dama!” urlò Arthur alla sua spada “Con te riuscirò a vincere le mie guerre e a governare con giustizia il mio regno! Con te ritroverò mio padre e mia madre! Con te riuscirò a vendicare colei che ho amato come una madre!” la voce del legittimo, giovanissimo re si fece bassa e profonda, alta e isterica, decine di voci diverse assieme, tutte vendicative e crudeli, quasi demoniache, diverse dalla sua voce calma e gentile “Io ti invoco, aiutami!” la terra tremò e gli occhi di Arthur si spalancarono ancora, rivelando un abisso argentato privo di pupilla, un vortice di forza straordinaria in un mare rosso sangue

“EXCALIBUR!”

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Arthur guardò il feretro che veniva delicatamente appoggiato alla pietra chiara della vasca dei gigli: e ancora gigli circondavano la cassa di vetro, e altri fiori riposavano come un morbido letto attorno al corpo che giaceva tra le pareti cristalline e oro; anche nell’ora della morte, lei era dannatamente bella; chi l’aveva rivestita aveva fatto un ottimo lavoro, il suo abito, prezioso ed elegante, regale ma semplice, dall’ampia gonna, il bustino stretto e le maniche dalle spalle a palloncino, era quello che aveva indossato quando si era sposata: con quell’abito era entrata al castello come moglie del futuro re, con quello ne usciva regalmente come vedova del re defunto. Ora erano assieme, e per sempre lo sarebbero stati.

Il volto della regina era un po’ più pallido del solido, ma non aveva perso nulla della sua bellezza, i capelli erano acconciati, la sua corona dorata brillava nella tenue luce della giornata nuvolosa; re Arthur aveva lasciato il diadema sul capo della regina, perché nessuna sarebbe stata più degna di lei di portarla, e l’aveva fatto ignorando le proteste dei ministri; in realtà, il nuovo re si era spinto ben più in là.

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Terrorizzato, Azzurro menò un fendente dritto verso il ragazzo, sperando di coglierlo impreparato, ma sperò male: prima ancora che potesse arrivare vicino alla sua vittima e sferrare il suo attacco, Arthur si scagliò in avanti, lanciando con forza le braccia in avanti, come se la spada pesasse ben più di quanto ci si aspettasse; con uno sforzo sovraumano, il ragazzo spostò la sua lama ed Excalibur guizzò in avanti in un turbine azzurro e argento, unendo la sua forza magica all’impeto dato dalle braccia del ragazzo che la possedeva: lui volò in avanti, dando ancora più slancio alla sua arma e quella perforò ogni difesa che si trovò davanti.

Tutto finì relativamente in fretta. Ci fu una gran luce e tutti i presenti furono costretti a coprirsi gli occhi, ma quando li riaprirono lo spettacolo davanti a loro era apocalittico: re Arthur Pendragon stava ritto e fiero dinnanzi ad un enorme fossa che era venuta a crearsi sul suolo e fissava con evidente disgusto quello che gli stava di fronte; la sua potente Excalibur, stretta nella mano sinistra del ragazzo, penzolava docile lungo il suo fianco, tornata ad essere una comunissima lama come se ne vedono tante, immacolata e senza un graffio. Gli occhi, anzi, l’occhio del re era puntato verso qualcosa al centro dello spiazzo dove era avvenuta l’esecuzione, dietro di lui riposava protetto e indisturbato il corpo senza vita della regina: un lungo squarcio attraversava il terreno, là dove la potenza di Excalibur aveva colpito, divellendo tutto ciò che si era trovata davanti, e in fondo a quella strana fossa giaceva un cadavere con il ventre squarciato e le braccia spalancate, il petto massacrato e lo gola aperta dalla forza del colpo subito. Arthur si avvicinò a quanto restava del Principe Azzurro e lo guardò con disgusto negli occhi chiari e folli: questi tossì violentemente e sputò sangue, fissando il giovane di fronte a lui, respirando e producendo un raccapricciante sibilo.

“Se speri…sciocco…di riuscire a dominare…una spada del genere…illuso…” cercò di ridere, e il sangue gorgogliò dalle ferite e dalle labbra, gli occhi pazzi iniettati di sangue “Soccomberai al suo potere…moccioss--”

Arthur gli conficcò la spada in gola con un semplice, rapido gesto, ponendo fine alla sua inutile quanto disastrosa esistenza, dimostrando chi era il più forte e chi aveva vinto. Azzurro ansimò stupito e spalancò gli occhi, poi la testa ricadde indietro, il collo rotto di netto dal colpo della spada, mostrando a tutti la clemenza del vero re: non aveva lasciato che il suo nemico morisse lentamente e nel dolore, ma gli aveva rotto il collo, procurandogli una morte rapida e sicuramente più indolore. Il re era giunto, ma il suo regno era cominciato nel sangue di un’innocente donna dal cuore gentile e dall’animo buono.

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Arthur si era spinto ben più in là di quanto i suoi poteri gli potessero realmente concedere; sorrise e guardò tra le mani della regina, bianche e sottili, strette al petto coperto di seta e perle candide: il piccolo corpo del defunto re, avvolto in un ricco drappo dorato, riposava sul seno della moglie, dove spesso da umana era giaciuta la sua testa quando si amavano; e sulla piccola testa di rospo del sovrano brillava la corona dei sovrani di Molto Molto Lontano invece che giacere sul capo del giovane re Arthur: i ministri si erano lamentati, avevano invocato la Legge e il Diritto del regno, solo per scoprire che il re aveva il diritto di fare ciò che voleva con i tesori del regno e della corona. E Arthur aveva fatto di testa sua, ordinando che la sua corona venisse rimpicciolita da Merlino e che venisse posta sul capo del precedente re in tempo per il funerale della regina: e così era stato fatto, ignorando le lagnanze dei pomposi ministri che invocavano alle tradizioni infrante, ma il giovane, cocciuto, deciso re era andato avanti, e aveva attuato il suo piano; salvo poi far fondere una nuova corona, simile ma non uguale all’originale per mettere a zittire i poveri consiglieri sull’orlo di una crisi isterica non da poco. Così, in quattro e quattr’otto, Arthur aveva reso onore ai suoi zii e aveva riportato l’umore dei ministri ad uno stato di accettabile contentezza e gagliardezza, per quanto fosse concesso dalla situazione di lutto.

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Il re continuava a guardare la bara, ascoltando con aria distratta e assente le parole che l’arcivescovo diceva in memoria della regina, senza sentire la commovente messa che si stava svolgendo.

“Signore, accogli nella Tua misericordia la nostra regina, così tragicamente venuta a mancare…”

Arthur scosse il capo chino, come infastidito da una mosca, e si dedicò a scrutare con sguardo vigile ma discreto le altre persone presenti, cercando disperatamente di celare il disgusto che provava a vederle lì al laghetto.

Fiona piangeva, ma al re ragazzo sembravano lacrime false ed ipocrite. Sir Shrek teneva un’espressione compita e triste al suo fianco, le orecchie abbassate come se fosse un cane randagio, ma per lui provava disprezzo, e qualche passo più in là Ciucchino e la Dragona portavano il loro lutto in silenzio, ritenuti dal re, ancora disgustato dal loro vile comportamento, poco più che due scherzi della natura.

“Una grande regina, una donna dolce e gentile, un’ottima madre e un’amatissima moglie…“

L’unico a stare vicino al giovane re era il Gatto, l’unico della compagnia che aveva tentato di salvare la sovrana, l’unico a cui Artie sentiva di dover davvero qualcosa. Le principessa, le due sopravvissute, erano un po’ più in là. Le altre creature delle fiabe non le degnò di una sguardo.

“…così buona e gentile. Signore Onnipotente accogli la sua dolce anima nella Tua gloria…”

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“Ciao, Artie” una giovane donna gli allunga la mano e gli sorride. Ha lunghi capelli biondi, una graziosa corona d’oro molto elegante, e i suoi occhi grigi brillano come perle. Alle sue spalle c’è un uomo con una maestosa corona posata sui capelli rossi già striati di bianco e anche lui gli sorride cordialmente, tenendo in mano una pipa “Sono la zia Lillian, sono molto felice di conoscerti”

Arthur allunga a sua volta la mano e stringe quella della donna “Io sono Arthur. Ho quattro anni”

Lei ride, la donna chiamata Zia Lillian ride, una risata allegra che lo riempie di gioia, la mamma raramente ride.

“Sei un ometto, allora!” stavolta a parlare è l’uomo, che si avvicina a loro; Arthur indietreggia e stringe la mano della zia che sorride divertita, è un po’ impaurito: l’uomo, anche se non molto alto, è imponente e regale.

“Suvvia, Harold, non spaventare il bambino! E metti via la pipa! Ti rovini i polmoni!”

Qualcuno ride alle parole della zia, e Arthur vede un altro uomo, alto e dai capelli scuri, e un’altra donna, piccola e dai capelli chiari quasi quanto quelli della zia: i suoi genitori.

L’uomo s’inginocchia di fronte a lui “Mi chiamo Harold. Sono il marito della zia. Sono tuo zio, ciao”

Arthur arrossisce e abbassa lo sguardo, quell’uomo ha il potere di mandarlo in confusione: ha sentito molto parlare di lui e lo ammira “Salve, Vostra Maestà”

Lui lo guarda sconcertato da tanto rispetto, la zia con lui.

“Mamma e papà dicono che siete un grande re a cui si deve molto rispetto. È un onore per me incontrarvi”

L’uomo, lo zio Harold, gli sorride e gli stringe con forza la manina

“Per te sono solo lo zio Harold”

Lo sguardo del bambino si alza, luminoso e incredulo “Solo zio Harry?”

Lo zio sorride “Lo zio Harry, sì”

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“Che cosa?!” esclama una voce femminile nella stanza di fianco, incredula.

“Igraine non lo vuole” una voce maschile, suo padre.

“Cosa?!”

“Non vuole il bambino. È malata”

“Non può scaricarlo, Uther!”

“Per questo noi…lei…pensava di lasciarlo a voi”

“Non potete! Noi non possiamo materialmente!”

“Arthur vi adora”

“Lo sappiamo, ma abbiamo i nostri problemi. Possiamo aiutarvi dal punto di vista finanziario, pagare le cure di Igraine e tenere il bambino per le vacanze, ma non di più!”

“Non so se Igraine ce la farà, Lillian. Tua sorella sta morendo”

La zia singhiozza piano.

“Uther, non spaventarla” la voce dello zio.

“È la verità. Igraine sta morendo”

La zia mormora qualcosa, e da dietro lo spiraglio della porta Arthur la vede asciugarsi gli occhi, mentre lo zio la stringe gentilmente tra le braccia “Andremo da Igraine.” mormora lo zio, preoccupato e triste “Ma non possiamo promettervi che terremo con noi Arthur, ma faremo del nostro meglio. Starà da noi per le vacanze, questo è sicuro”

Il silenzio che segue viene interrotto dalla voce tremante della zia

“Voglio vedere mia sorella”

“Non puoi. Lei non vuole vedere nessuno” risponde il padre del ragazzo “Vuole stare sola”

La zia salta in piedi, urlando “Mia sorella sta morendo! Esigo di vederla, che lo voglia o meno!”

Anche il padre scatta “No!”

Arthur indietreggia spaventato, facendo cadere uno sgabello, e l’attenzione delle tre persone nel piccolo salotto di fianco viene attirata dal rumore, tre teste si girarono verso di lui.

“Artie?” chiama piano la zia, avvicinandosi. Lui sussulta e indietreggia a carponi, spaventato.

“Arthur!” urla Uther furioso, ma lui scappa, terrorizzato dall’ira del padre e dalle condizioni della madre “Arthur!”

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“Voglio che alleviate mio figlio. Ha perso la madre, io non posso badare a lui” Uther allunga un pesante sacchetto a un uomo dall’aria simpatica e bonaria, che lo accetta di buon grado sorridendo.

“Ci occuperemo noi del giovane Arthur, signore. L’Accademia del Worchestershiree sarà il luogo ideale per il ragazzo” l’uomo, il preside, sorride a Arthur, ma lui vede che non è né un sorriso e né un saluto amichevole come quello dei suoi zii “Salve, Arthur”

Lui rimane immobile fissando il signore davanti a lui con aria sospettoso, sotto lo sguardo severo del padre.

“Arthur, saluta” sibila “Non fare il maleducato, pensa a cosa direbbe tua madre”

Artie sente una fitta di dolore al petto alla menzione della madre “Buongiorno, signore”

“Arthur!”

Il ragazzino, appena di dieci anni, si volta di scatto e vede una giovane donna bionda scendere da una carrozza e corrergli incontro reggendosi a malapena la gonna dell’abito per non inciampare.

“Zia Lillian!”

Uther si gira verso il preside , serio e cupo “E dovete impedire a quella donna e alla sua famiglia di vedere il bambino”
“Ma è sua zia!” esclama stupito il vecchio preside.

“È il volere della madre del ragazzo. Assicuratevi che non si incontrino mai”

“Arthur, tesoro!” la zia corre ancora verso di lui, le braccia spalancate e lui gli si getta dentro, stringendosi a quella donna gentile “Tu vieni a casa con noi, Arthur…tu vieni al castello con noi, bambino mio…”

“Lascia il bambino, Lillian”

Lei guarda il cognato, stringendo con forza il nipotino al petto “Non permetterò che il bambino venga messo in collegio quando posso tenerlo con noi al castello”

“Igraine non voleva che venisse con voi”

“Non dire stronzate!” urla la zia, gli occhi già lucidi “Mia sorella voleva che Artie vivesse con me e Harold, cosa diavolo le hai detto per convincerla?!”

Uther prende per un braccio la zia e la strappa dall’abbraccio del bambino “È il volere di Igraine!”

“NO!”
“Uther, non osare toccare mia moglie!”

“Dille di stare al suo posto”

Artie piange, vuole stare con gli zii “Zia Lillian!” urla mentre lo trascinano dentro scuola “Zio Harold! Zio Harry, aiutami! Voglio stare con voi!”

Lo zio scatta in avanti e cerca di prendergli la mano, ma il padre del ragazzo gli punta una corta spada affilata alla gola “Non ci pensare, Harold”

Lui si blocca davanti alla spada e indietreggia scrutando con odio il cognato, fino a tornare al fianco della moglie, abbracciandola gentilmente.

“Sei un mostro senza cuore”

“Voglio solo il bene di mio figlio” risponde arrogante.

“Noi siamo il bene per tuo figlio!” urla Lillian, cercando di liberarsi dalle braccia del marito, invano “Noi siamo la sua famiglia!”

“Ne dubito” ora Uther ride “Non lo vedrete più, ve lo posso giurare, la smetterete di mettermelo contro”

“COSA?!” esclama la zia, stupefatta “Mettertelo contro?! Uther non dire stronzate! Almeno d’estate, ti prego!”

“No”

“Uther, ti prego!” la zia piange e lo supplica “Uther, almeno d’estate, ti prego!”

“Zia Lillian!” urla il bambino, spaventato e rinchiuso dietro un pesante cancello “Non lasciarmi qui! Voglio stare con te!”

“Artie!”

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Un rumore di catene metalliche riportò il giovane re al presente, distogliendolo dai tristi ricordi della sua infanzia: non aveva più rivisto gli zii da quando suo padre l’aveva chiuso in collegio e per molti anni, per sei lunghi anni l’unica immagine degli zii che aveva era quella di un giovane re e di una giovane regina che volevano tenerlo con loro per dargli una famiglia, un delicato volto femminile che piangeva per lui e un volto maschile molto fiero che fissava furioso il cognato.

La bara cristallina della regina venne sollevata nuovamente, posta a qualche centimetro sopra l’acqua lucida e splendente del laghetto delle ninfee: la leggera brezza fredda increspò la superficie dello specchio d’acqua e fece rabbrividire i presenti nei loro cappotti pesanti, tutti in religioso silenzio attorno al feretro.

Artie si avvicinò al bordo della vasca e guardò il profilo delicato della sua occupante: dopo sei anni l’unica altra volta che aveva visto sua zia era stato quanto lei stava per essere uccisa; avrebbe così tanto voluto averle potuto parlare almeno una volta, dirle che non l’aveva mai dimenticata, che lei era sempre stata la sua mamma, dato che la vera madre non l’aveva mai amato davvero, che era lei che sognava la notte e di cui si ricordava il volto alla perfezione. Dirle che sapeva dei tanti regali che lei e lo zio gli avevano mandato, e delle lettere, che i maestri avevano distrutto per ordine del padre. Che sapeva che gli volevano bene e che non lo avevano mai abbandonato.

Guardò suo zio: no lo aveva più visto vivo, e gli piangeva il cuore non averlo potuto salutare nemmeno una volta, dirgli che lo ammirava e gli voleva bene. Aveva scoperto poi che era diventato un rospo, ma la sua ammirazione per lui era comunque fortissima; osservò compiaciuto la piccola corona d’oro e zaffiri e si sentì fiero della sua decisione.

Nuovamente, un dubbio assillante: sua madre è morta davvero? Lui non ha mai visto il suo corpo, nessuno ha mai partecipato al funerale di Igraine. Magari l’aveva solo abbandonato. Arthur sorrise ironicamente e accarezzò la superficie fredda del feretro di vetro: la zia è bella, il suo profilo è molto simile a quello della sorella sciocca e immatura; Arthur odia sua madre.

Alzò una mano in un muto segnale. Alcune guardie, vedendo l’ordine strinsero con più forza le catene d’oro che tenevano sollevata la bara di vetro, in attesa del secondo segnale. Trattenendo a stento le lacrime. Arthur indietreggiò ancora, preparandosi a dare l’ultimo saluto ai suoi cari zii, tentando di imprimersi nella mente il delicato profilo e il sorriso appena accennato di lei, il piccolo muso di rospo di lui.

“Addio, zio Harry” mormorò triste ma con voce chiara, bassa ma decisa “Addio, zia Lillian”

Abbassò la mano guantata di nero tenendo lo sguardo fisso sul sarcofago reale.

Con un sibilo, le catene scivolarono da sotto la bara di vetro e oro e questa cadde in acqua, sollevando degli schizzi leggeri. I presenti sobbalzarono e Fiona si mosse d’istinto in avanti, tendendo una mano verso la bara della madre, ma Arthur la fulminò con l’unico occhio rimasto e la bloccò sul posto, senza che lui muovesse un muscolo o dicesse una parola: la principessa si fermò e guardò intimorita il cugino; il giovane re la fissava serio e in un certo qualmodo furioso, squadrandola da capo a piedi quasi con disgusto, prima di riportare lo sguardo sul laghetto delle ninfee. Il feretro di cristallo e oro galleggiò per qualche istante, poi, con drammatica lentezza, s’inabissò silenzioso, portando con se nelle acqua fredde e calme il re e la regina di Molto Molto Lontano.

Arthur sorrise. Sapeva che avrebbe potuto vedere i loro volti ogni volta che voleva, semplicemente guardando nell’acqua calma. Sapeva che erano al sicuro per sempre. E sapeva di aver dato loro una tomba degna del loro nome e della loro fama.

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“Gatto?”
“Si, Vostra Maestà?”

“Gatto…”

“Scusa, Artie” mormorò lui con l’accento spagnolo “Dimmi”

Arthur prese un bel respiro “Lei com’era?”

“Tua zia, intendi?” il ragazzo annuì “Oh, lei era bella. Molto bella. E speciale, una donna come poche. Una grande regina. Si vede che sei suo nipote, sei come lei”

Il re sorrise commosso, ma cercò di rimanere serio “E lo zio?”

“Cocciuto” rispose il Gatto, sorridendogli “Testardo. Impulsivo. La perfetta controparte per tua zia. Era una grande re, molto ammirato e rispettato. Si amavano molto. Devi essere fiero di loro”

Il re si fermò silenziosamente e sorrise triste guardando il piccolo micio arancione che camminava qualche passo di fronte a lui, dirigendosi verso il castello: si sentiva improvvisamente leggero, e fiducioso, nonostante fosse solo alla guida del regno, ma forse il piccolo felino poteva aiutarlo in qualche modo “Gatto?” il micio si girò a guardarlo e Arthur sorrise, cominciando a seguirlo verso la reggia.

“Grazie”

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To my king: “We can’t cry the pain away

We can’t find a need to stay

I slowly realized there’s nothing on our side”

Love, your queen

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Larga la foglia,

Stretta la via,

Voi dita la vostra,

Io ho detto la mia.

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--FIN--

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Tell them it’s me who make you sad,

Tell the the Fairytale Gone Bad.

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N/A: per Monica, solo ed esclusivamente dedicata a lei (e ovviamente alla sua Jo). Ci ho messo un paio di mesi a rifinire e correggere questa one-shot, ma spero sia venuta bene. Grazie, Monica, per sostenermi sempre così tanto. E grazie per la tua meravigliosa storia, da tempo non ne leggevo una tanto bella, anche se devi ancora finirla! Ovviamente tutte le illustrazioni al riguardo sono per te.

Spero vi piaccia. È drammatica (vero), esagerata (vero), lunga (verissimo), ma era un bel po’ di tempo che avevo deciso di scrivere una cosa simile, e ne vado molto orgogliosa. Un grosso grazie a tutti quelli che avranno la pazienza e di leggere e di recensire, se ne avranno voglia.

Danke.

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