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Autore: CharlieBb    01/12/2013    0 recensioni
La mano del ricordo è tesa verso John, pallida, il palmo rivolto verso l’alto in attesa di un contatto che chissà se arriverà.
John vuole toccarlo, vuole farlo davvero. Se solo lo toccasse si renderebbe finalmente conto che è solo un ricordo, un pallido e magro ricordo di ciò che ha avuto e gli è stato portato via così brutalmente da togliergli anche il respiro.
[Pre-slash]
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: come al solito, non mi appartengono; non ci ricavo un soldo bucato, i diritti vanno al MoffTiss e a Conan Doyle. 
Il titolo, invece, è preso dalla canzone "Losing your memory", di Ryan Star. Also, 

Questa shot è stata scritta nei giorni immediatamente successivi alla messa in onda (britannica) di Reichenbach Falls; è rimasta nel pc a raccogliere polvere per anni, non so neanche io il perché. Semplicemente, forse, non mi sembrava abbastanza, e non volevo postarla senza un betaggio. Ancora oggi non è betata ed è rimasta esattamente come il giorno in cui l'ho scritta, ma ho deciso di pubblicarla ugualmente. Spero non sia da buttare, a voi il giudizio. 
Brace yourself, Sherlock is coming... back.



All the best of what we’ve done is yet to come
 
 
A Londra il cielo è grigio, quella mattina. Poche nuvole bianche lo attraversano, lente e pigre, mentre la città sfreccia frenetica sotto di loro.
Oltre il grigio si intravedono alcuni timidi raggi di sole che pallidi e insicuri scendono a illuminare i Londinesi senza poterli riscaldare, o almeno non abbastanza.
È una giornata come un’altra, la vita scorre come le lancette invisibili di un immenso orologio e tutto va bene.
 
C’è un bel palazzo, in centro; uno dei tanti splendidi edifici curati che risplendono austeri in mezzo alla modernità ostentata di una città che si evolve ogni giorno e mai torna indietro. Al primo piano una ragazza sta suonando il suo vecchio pianoforte mentre un gatto rosso tenta di seguire le sue mani sui tasti e fallisce; suona Brahms, le piace Brahms. Molti suoi colleghi del conservatorio preferiscono Mozart, o Beethoven, o Chopin ma lei no, a lei piace Brahms e suona la sua ninnananna mentre qualcuno al piano di sopra passa l’aspirapolvere -sarà mrs. Foster, la vedova gentile che la invita spesso per una fetta di torta e una tazza di tè.
 
Al terzo piano c’è uno studio medico, uno studio di medicina generale gestito da tre dottori che dividono i pazienti e una sola sala d’attesa. C’è un uomo anziano seduto in un angolo; guarda fuori dalla finestra con aria nostalgica e si preme un fazzoletto bianco sulla bocca mentre un sospiro sfugge al suo scarso autocontrollo. Deve farsi misurare la pressione, la sente alta. Non c’è nessuno a casa che può farlo e quindi va dal dottore, almeno un paio di volte a settimana. Soffre di una malattia incurabile, affatto rara e forse piuttosto comune tra la gente, eppure nessun medico è o sarà mai in grado di sconfiggerla davvero. Se solo la sua amata moglie fosse ancora qui lui non si ritroverebbe a morire così lentamente di solitudine, se lei fosse ancora qui lui potrebbe vivere in pace il resto dei suoi giorni e andarsene con il sorriso sulle labbra.
 
C’è una giovane donna, bionda e bella; tiene tra le braccia un bambino assopito. Ha la febbre, probabilmente è solo un raffreddore, ma è sempre bene controllare ai primi sintomi. Stava bene, la sera prima. E questa mattina si è svegliato con la temperatura alta e lei ha dovuto dire al capo che non sarebbe potuta andare al lavoro, e spera solo che non la licenzino perché vivono di questo, lei e il suo bambino, e non può permettersi il lusso di farsi licenziare altrimenti come faranno?
C’è un giovane uomo, il cappotto abbottonato fino al mento; sente freddo, stranamente, tanto freddo e ha una strana sensazione allo stomaco, quasi lo sentisse in preda agli spasmi e si sentisse di rimettere da un momento all’altro. Ha bisogno di un dottore, ha solo bisogno di un dottore e tutto passerà.
 
C’è una vecchina che legge un giornale di gossip e tiene stretta al braccio la borsetta. Non capisce, davvero non capisce come la gente riesca ad andare in giro mezza nuda senza vergognarsi. Non capisce come mai i giornali diano tanta attenzione agli stupidi partecipanti di stupidi giochi televisivi quando ci sono cose molto più importanti e interessanti. Suo nipote non li legge, quei giornali-spazzatura, nossignore. Suo nipote legge il Times, e le riviste scientifiche, ed è intelligente, anche più di lei, e ha solo tredici anni. Ah, buon dio, quest’anca non la smetterà di farle male, ha bisogno che il dottore le dia un buon antidolorifico perché ha tante cose da fare, il suo nipotino verrà a trovarla nel fine settimana e lei deve fare la spesa, e fargli trovare tutti i suoi dolci preferiti. Chissà quanto ci metterà il dottore a finire con la bisbetica mrs. Smith, quella vecchia pettegola.
 
Dietro una delle tre porte chiuse il dottore visita una donna anziana e imponente, alquanto indisponente e praticamente insopportabile, ma lui non può dire nulla a riguardo. Così si limita a visitarla come di consueto, scrupoloso come al solito; le ausculta il respiro con lo stetoscopio, sembra esserci mucosa nei bronchi. Niente di terribile, solo effetti collaterali di un banale raffreddore.
Termina la visita, il dottore, e rassicura la sua bisbetica paziente che no, non è niente di preoccupante; si fidi di me, è solo un raffreddore. Un paio di giorni di riposo e starà benissimo, pensi solo a riguardarsi e non prenda freddo, mi raccomando. No, niente antibiotici, un’aspirina andrà benissimo. Sì, certo, può chiamarmi quando vuole, mi chiami se ha bisogno. Arrivederci, mrs. Smith, buona giornata a lei e si riguardi.
 
La porta si chiude alle spalle della matrona e il dottore sospira stancamente; finalmente è andata via.
Il sole che filtra attraverso le tendine gli dà fastidio agli occhi e allora si avvicina, sbircia fuori dalla finestra solo per vedere la vita altrui sfrecciargli davanti e con un gesto leggero chiude le tende, finalmente. Sono fastidiosi, quei raggi, molesti; lo accecano con la loro luce e non riscaldano nemmeno, non li sente sulla pelle quando impertinenti gliela sfiorano e allora che senso ha? Che senso ha lasciarli entrare se non riescono nemmeno a riscaldarlo dentro? È tutto così grigio, cristo, così grigio e freddo.
Il tempo avrebbe dovuto guarirlo, o così si era detto; non è così che si dice? Il tempo guarisce ogni ferita, sì, è così che dicono tutti, ma hanno torto, torto marcio. Chissà se lo hanno mai provato sulla pelle, loro. Chissà se il tempo ha guarito le loro, di ferite.
 
Bussano alla porta, il dottore si riscuote da quella momentanea debolezza e torna alla scrivania. Dà le spalle alla porta, sistema le carte e lo stetoscopio -dio, quella scrivania è un casino, il regno indiscusso del caos, sì, avanti, avanti.
 
Non capisce perché la gente sia così impaziente, maledizione, un paio di secondi di attesa in più non hanno mai ucciso nessuno e allora perché insistere e bussare così forte a una porta chiusa che tanto si sarebbe aperta da un momento all’altro?
Sorridi, dottore, devi sorridere perché il prossimo paziente è arrivato, devi sorridere anche se ti senti morto dentro perché a nessuno frega un accidente di come tu ti senta.
 
«Si accomodi, sarò da lei tra un secondo.»
 
La porta si chiude, il paziente entra e rimane fermo. Non si accomoda, non risponde. Dio, questa scrivania è davvero pietosa, dovrà rimetterla in ordine sul serio prima o poi o rischierà di morire soffocato dalle sue stesse carte. Sarebbe esilarante, il pensiero riesce quasi a farlo sorridere -quasi, è tutto troppo grigio per sorridere ancora, grigio come quel marciapiede, grigio come- il paziente aspetta, meglio affrettarsi.
Sistema le ultime carte, il dottore; sistema anche lo stetoscopio, lo abbandona in un angolo della scrivania certo che tra poco gli servirà comunque e quindi non avrebbe senso metterlo via.
 
«Come posso aiut-»
 
E ammutolisce.
Dev’essere il sole, devono essere i raggi del sole che filtrano anche attraverso le tendine chiuse -sono bianche, le tendine, è ovvio che i raggi riescano a filtrare. Prima lo riscaldavano, quei raggi, gli piacevano e lo riscaldavano perché prima c’era -adesso gli danno fastidio agli occhi, lo confondono, gli giocano brutti scherzi perché quello non è vero, non può essere vero, e tutto ciò avrebbe dovuto finire tanto tempo prima e allora perché, cristo, perché continua?
 
«Basta.» Si sforza di restare calmo, il dottore, mentre stringe i pugni fino a farsi sbiancare le nocche. «Basta. Basta, ho detto! Perché? Perché continui a farmi questo, dannazione? Perché?! Occristo. Io… io ti avevo mandato via, maledizione, ti avevo mandato via, non volevo più che continuassi a perseguitarmi e allora perché, mi chiedo, ti chiedo, perché continui a farlo, perché continui a venire da me, perché?»
 
«John-»
 
«Tu sei morto, Sherlock, morto! Ti ho visto cadere-» si copre la bocca con una mano, il dottor Watson, per soffocare un singhiozzo che gli spezza la voce. «-ti ho visto cadere giù da quel tetto. Ho portato la tua bara in spalla, ho guardato dentro e c’era il tuo viso, Sherlock, il tuo viso bianco e morto. Ti ho detto addio, Sherlock, l’ho fatto. Me ne sono fatto una ragione. Affanculo quello che dice la mia analista, affanculo il mio avere sempre intorno il fantasma del tuo ricordo per la non accettazione della tua morte, affanculo! Tu sei morto, Sherlock. Tu sei morto, e il tuo ricordo mi perseguita. Mi ha sempre perseguitato, in questi tre fottutissimi anni; mi ha perseguitato e mi ha fatto impazzire, ho creduto davvero di impazzire perché quel vuoto nel petto era così immenso e tu non eri lì. Faceva così male, Sherlock, così male… fa male oggi come ieri, adesso, in questo preciso istante fa male, così male che riesco a malapena a reggermi in piedi, e fino a che non mi lascerai in pace io non potrò mai, mai-»
 
«John, sono-»
 
«-mai e poi mai superarlo, mi hai capito bene? Cristo. Tu sei sempre qui, Sherlock. Sempre con me. In metropolitana, in taxi, al lavoro o al parco, tu ci sei. Stretto nel tuo cappotto scuro, col bavero alzato a coprire il viso e risaltare gli zigomi, con i tuoi occhi intelligenti tu ci sei. Non vai mai via, non mi lasci mai. Quanto ho desiderato che rimanessi, Sherlock… quanto ho desiderato non vederti mai andare via! Ho sempre pensato-», gli viene da ridere al pensiero e allora ride, e si sente pazzo ma poco importa, ha cose più importanti da fare adesso, un fantasma del passato da mandare via. «-ho sempre pensato che avrei passato il resto della mia vita con te. Che saremmo stati gli inquilini del 221b di Baker Street per sempre, tu e io; che sarei invecchiato con te in quell’appartamento con le teste nel frigorifero e fori di proiettile alle pareti. Mi sono sposato, Sherlock, perché credevo di aver trovato la donna che avrebbe potuto farmi dimenticare tutto questo-»
 
«John-»
 
«-mi sono sposato perché ho pensato, ho creduto, che solo riprendendo in mano la mia vita avrei forse ricominciato a vivere.» John sente una lacrima scivolargli sul viso ma non se ne cura, allo stesso modo in cui non si cura di star urlando contro l’eco di qualcuno che lo ha abbandonato molto tempo prima. «Mia moglie mi ha lasciato. Ci ha provato, Mary, oh se ci ha provato! Ci ha provato così tanto a raccogliere i miei pezzi e a rimetterli insieme, ci ha provato con tutte le sue forze ma alla fine non ce l’ha fatta, non quando il tuo fantasma continuava ad aleggiarmi intorno. “Non posso competere con Sherlock Holmes”, ha detto. “Ti voglio bene, John. Ma non posso aiutarti. Io non sono lui”, ha detto, ed è andata via. Mi ha lasciato, Sherlock, ha chiesto il divorzio e solo per il suo buon cuore non mi ha ridotto sul lastrico. Io non posso vivere se continui a starmi attorno così, se continui a guardarmi coi tuoi stupidi occhi grigi che sembrano così reali, non posso. Non posso vivere solo con un tuo ricordo. Non posso vivere senza di te, Sherlock, non ce la faccio, maledizione.»
 
John piange, adesso. Il dottore che nessuno potrà curare.
Tutto quello che negli ultimi tre anni ha cercato di reprimere, di nascondere e chiudere a chiave in un angolo remoto della propria anima adesso torna in superficie e lui, semplicemente, non ce la fa. Non ce la fa a ricacciarlo indietro, non ce la fa a sopportare quell’immenso senso di solitudine che gli strazia il petto e gli viene voglia di urlare, cristo, e scagliare qualcosa contro una parete perché Sherlock lo ha lasciato, lo ha abbandonato e costretto a vivere una vita grigia e vuota e fa così male. Non ce la fa più a trattenere le lacrime e chissene frega dell’orgoglio, può anche permettersi di piangere di fronte al suo fantasma. Di fronte al suo fantasma dall’aria così triste e sofferente.
 
Non parla, il suo fantasma. Se ne sta lì, stretto nel suo cappotto malconcio, e lo guarda con quegli occhi così dannatamente suoi e sembra più magro, in qualche modo sciupato, un po’ emaciato, così diverso da come lo ricordava. E i suoi occhi sono stanchi, e intelligenti, e così vivi. Grigi, come il grigio che John si porta dentro e che mai lo ha abbandonato.
 
«John, sono io.» Sussurra, Sherlock, o il suo fantasma, o il suo ricordo; sussurra quasi avesse paura di udire il suono della propria voce, o paura delle parole che sfuggono alla prigione delle sue labbra. «Sono io, sono qui. Prendi la mia mano, John.»
 
Il dottore scuote la testa, piano, mentre nuove lacrime gli ricoprono il viso e offuscano la vista.
Vorrebbe toccarlo, lo vorrebbe così tanto!, ma se solo allungasse una mano verso quella che lui gli sta tendendo incontrerebbe l’aria, l’aria fredda della stanza e fa così male anche solo pensarci, così male l’effimera illusione di riaverlo lì, concreto, reale. Dio, fa male, fa male al cuore, lo stringe in una morsa e no, non è un infarto, è solo il dolore che si porta dentro e non è mai riuscito a cacciar via. È solo il dolore, e il panico di sfiorare quelle dita fatte d’aria, incorporee, irreali; è il panico che gli attanaglia lo stomaco e lo fa sudare freddo, puro e semplice panico che gli toglie via il respiro e ha bisogno di una busta, dannazione, una busta in cui respirare perché i suoi attacchi di panico sono arrivati e peggiorati negli ultimi tre anni e se non li combatte sul nascere possono diventare molto, molto pericolosi.
 
La mano del ricordo è tesa verso John, pallida, il palmo rivolto verso l’alto in attesa di un contatto che chissà se arriverà.
John vuole toccarlo, vuole farlo davvero. Se solo lo toccasse si renderebbe finalmente conto che è solo un ricordo, un pallido e magro ricordo di ciò che ha avuto e gli è stato portato via così brutalmente da togliergli anche il respiro. Vuole toccare quelle sue dita affusolate e sentirle fatte d’aria, vuole farsene una ragione una volta e per tutte perché lui non sta vivendo, non può vivere se non lo lascia andare.
 
«Prendi la mia mano, John. Ti prego.»
 
Gli aveva detto di sparire, John, gli aveva detto di andare via e smettere di tormentarlo; glielo ha detto così tante volte che ha smesso di contarle. Gli ci erano voluti anni, ma sembrava che alla fine ce l’avesse fatta.
E adesso lui è qui, di nuovo qui, per sempre qui, e per quanto forte John possa provare non se ne andrà mai, tornerà, è tornato, torna sempre. Torna sempre da lui, Sherlock, torna con un ricordo o con lo spirito e fa male.
 
John sospira e chiude gli occhi per un istante, inspira profondamente e li riapre. Ha smesso di piangere. Forse non ha più lacrime da versare.
Il braccio trema mentre lo alza in aria e muove le dita in direzione di quelle di Sherlock; la mano trema così forte da riuscire quasi a spaventarlo e tutto è così surreale, oh, così surreale da sembrare vero. I raggi del sole, il cielo grigio di Londra, l’aria immobile nella stanza.
 
E le dita di Sherlock. Fredde, solide, reali.
 
«Sherl-»
E poi, il buio.
 
*
 
Sherlock lo intuisce prima ancora che accada. Gli occhi di John si dilatano in un’espressione di puro shock, pura sorpresa, e un istante dopo si velano. Non ha ancora terminato di pronunciare il suo nome che li vede rovesciarsi indietro e chiudersi mentre il cervello va momentaneamente in black out.
Riesce ad afferrarlo prima che cada e impatti con il pavimento.
Lo prende da sotto le braccia e sostiene il peso del suo corpo svenuto; facendo attenzione lo adagia lentamente sul pavimento e gli poggia piano la testa sulla moquette scura. Si alza in piedi, Sherlock, e per prima cosa chiude a chiave la porta.
 
Si toglie il cappotto e lo piega in un fagotto imbottito e morbido. Aveva previsto che qualcosa del genere sarebbe potuta accadere, si era figurato nella mente vari scenari, varie possibili reazioni a quella improvvisa rivelazione e ci era andato abbastanza vicino. Non aveva previsto il senso di colpa e la stretta alla gola.
Piano alza la testa di John e sistema il cappotto ripiegato a mo’ di cuscino prima di poggiarla di nuovo. Acqua, ha bisogno di acqua. Dovrebbe esserci dell’acqua, dannazione, c’è sempre, c’è sempre dell’acqua a portata di mano e perché non dovrebbe esserci in uno studio medico? Si guarda intorno in modo frenetico, scandaglia ogni scaffale, ogni mensola, ogni possibile superficie e, oh finalmente!, eccola lì la caraffa.
Si alza in fretta, versa l’acqua in un bicchiere di plastica trovato lì accanto e torna accanto a John, gli si siede affianco. È così pallido, così triste, così spaventato. Sherlock poggia il bicchiere da qualche parte sulla moquette e gentilmente solleva la manica della giacca per poggiare le dita fredde sul polso di John: batte, lento ma batte, dovrebbe battere un po’ più veloce, giusto un po’, così è troppo lento. Ha bisogno d’aria -lui o John, probabilmente entrambi, forse solo John, no, non solo John, anche lui ha bisogno d’aria, di inspirare profondamente e respirare davvero per la prima volta dopo tre anni di fuga ininterrotta.
John, John deve respirare, deve, deve e basta, e così non lo fa molto bene.
 
La camicia, la cravatta, meglio allentarla, forse andrà un po’ meglio, andrà sicuramente meglio perché quella stupida cravatta è stretta e gli blocca il flusso respiratorio già debole.
Le mani gli tremano, è assurdo, come mai tremano?, tremano e sono pallide mentre le dita afferrano il nodo di stoffa blu e lo allentano un po’, un altro po’, giusto un po’ di più. Le dita tremano quando si avvicinano al primo bottone della camicia e sono lente, troppo lente, è tutto come al rallentatore, l’aria stessa sembra cristallizzarsi mentre le sue dita sbottonano lentamente la camicia, sì, così, piano, adesso John respirerà meglio, molto meglio.
 
Gli serve solo un po’ di tempo, tutto qui. John è solo svenuto, non è niente di grave, se non fosse svenuto glielo direbbe lui stesso che un semplice svenimento non è per forza sintomo di qualcosa di terribile. Ma John è svenuto e non può dirglielo, e nonostante lui sappia benissimo che si tratta solo di uno svenimento non riesce a regolarizzare il respiro che sente come spezzato in gola, sente il cuore pulsare nella propria gola, dio, è una sensazione che non ha mai provato prima, non così forte, non così intensa. Il cuore martella, un tamburo disperato e pulsante nel petto, in gola, in ogni singola vena del suo corpo, e lo stomaco fa male, gli viene quasi da vomitare ma perché, perché? Non è malato, non c’è niente che non vada in lui, e non può essere quell’incontro, non può, non è logico che il panico lo assalga al solo rivedere quel viso che tanto gli è mancato, al solo riascoltare quella voce che per trentasei mesi gli ha fatto compagnia dal riflesso di un ricordo.
 
Non è logico, non c’è niente di logico in tutto quello eppure sta accadendo, adesso, e sta accadendo a lui.
 
John deve svegliarsi, deve svegliarsi in fretta o tutto questo trambusto che si porta dentro finirà per ingigantirsi.
Si siede accanto a lui, la schiena contro il muro, il braccio abbandonato sulla moquette, la mano accanto a quella di John, le dita che sfiorano le sue. Deve solo aspettare, ecco tutto. Deve aspettare che John riprenda conoscenza, che apra gli occhi e lo guardi con quello sguardo che non dedica a nessun altro e che lo fa sentire così grande, così vivo e così importante come nessun altro sguardo ha mai fatto. Forse sono gli occhi di John ad essere diversi da quelli delle altre persone, forse è solo perché sono i suoi occhi che quando lo guarda a quel modo riesce a farlo sentire così, qual è la parola giusta?, così unico e vero.
 
Ma sono eufemismi. Sono tutti eufemismi, quelle parole, perché in realtà lui non riesce davvero a spiegare come lo sguardo di John riesca a farlo sentire, non ci riesce, si sforza di trovare le parole giuste ma non sono mai abbastanza, mai abbastanza giuste, mai abbastanza profonde, mai abbastanza vere.
 
Lo ha fatto soffrire molto. Lo ha fatto soffrire molto in quei tre anni, inscenando la sua morte e facendogli credere di averlo abbandonato per davvero. Era necessario, andava fatto. Non avrebbe mai permesso che a John potesse accadere qualcosa di male, mai, e tutto ciò che ha fatto è stato per proteggerlo. John capirà, John capisce sempre.
Pensava che avrebbe trascorso la vita con lui, lo ha detto John, lo ha detto ad alta voce, lo ha detto a ciò che credeva essere solo un fantasma del passato, ed è vero. Riusciva a leggerglielo negli occhi, Sherlock, quando vivevano insieme a Baker Street e correvano in giro per la città a risolvere casi, quando ancora Moriarty non aveva dato avvio al gioco finale. Riusciva a scorgerla nei suoi occhi luminosi e vivi, la certezza che tutto quello non sarebbe mai finito, riusciva a vederlo dietro alle palpebre chiuse quando John dormiva, o nelle sue battute che alle volte non riusciva a capire; lo vedeva in quello sguardo, quello che John voleva forse provare a nascondere ma non riusciva a farlo.
E lo credeva anche lui.
Era stato strano, così strano, incontrare qualcuno che non se la desse a gambe dopo aver scambiato un paio di parole con l’unico consulting detective del mondo, era strano aver incontrato qualcuno che trovasse impressionanti le sue facoltà e capacità, che riuscisse ad ammirare il suo lavoro senza odio e senza invidia. Qualcuno che fosse capace di sopportarlo nei suoi momenti peggiori, in grado di tenergli testa quando diventava insopportabile, in grado di rimanere in silenzio per ore in attesa che lui parlasse ed esponesse la soluzione alla quale era finalmente giunto.
Incontrare John era stato come trovare un amico, uno vero, e quella loro amicizia, quella loro intesa era senza pari. Aveva pensato che tutto quello non sarebbe mai finito, che il 221b sarebbe stato per sempre casa sua, casa loro, e che niente e nessuno avrebbe mai potuto cambiare le cose.
 
Ed è così, è sempre stato così anche se John ne è stato all’oscuro per qualche tempo.
Lui non ha mai avuto la minima intenzione di lasciarlo, non sul serio. Ha dovuto separarsi dal suo fedele blogger ma sapeva fin dall’inizio che sarebbe ritornato, che non avrebbe mai potuto allontanarsi da lui per sempre perché John è l’unico, l’unico per cui valga davvero la pena lottare. L’unico per cui valga la pena ritornare.
Spera solo che non lo abbandoni, non adesso, non dopo tutto ciò che ha passato, non dopo quei tre anni d’inferno; spera che non decida di lasciarlo ora, dopo la finta morte, e la fuga, e dopo aver trovato finalmente il modo di tornare da lui. John non può abbandonarlo, non può, perché allora sarebbe stato tutto vano, ogni sforzo, ogni più piccola contrazione del cuore, ogni battito saltato, ogni respiro spezzato, ogni significativa sfumatura di quel pugno allo stomaco che lo ha colpito su quel tetto e ancora si rifiuta di andar via.
John non può lasciarlo, non dopo averlo cambiato così tanto, non dopo averlo abituato alla sua presenza, dopo essere stato la parte umana di lui quando aveva bisogno di trovarne una.
 
Gli occhi si muovono, dietro alle palpebre chiuse. Probabilmente sta riprendendo conoscenza, dio, fa’ che sia così, fa’ che si svegli, adesso, perché non riesci più a sopportarlo, il tumulto, l’ansia, l’insicurezza e la paura, sì, la paura, il gelido terrore di vederti rifiutato, negato, abbandonato a te stesso dall’unica persona che conti e abbia mai contato nella tua vita più di qualsiasi altra cosa e di chiunque altro.
 
«John…»
Sherlock la sente, la propria voce; la sente uscire in un sussurro spezzato e spaventato che non gli appartiene, mai gli è appartenuto prima d’ora. Ha sperimentato la paura sulla pelle, una volta o due, ma neanche quello era riuscito a spezzare la sua voce sempre ferma, sempre stabile, e allora come, com’è possibile che stia tremando adesso?
 
«Sh-»
E John tenta di parlare, apre le labbra, le muove ma sembra impossibile, una fatica così grande per il suo povero cervello tanto provato, per il suo corpo in stato di shock. Parlare, chissà come si fa, chissà se John se lo ricorda in questo momento. Apri la bocca, John, fai passare l’aria attraverso le corde vocali, sentile vibrare e il suono uscirà. Puoi farcela, John, puoi farcela, devi.
 
«Sherl-»
I suoi occhi si muovono dietro alle palpebre chiuse nel disperato sforzo di riuscire ad aprirle e vedere, vedere di nuovo e forse per la prima volta, vedere il fantasma degli anni passati diventare reale e solido; vedere svanire il dolore, sentire quella voragine al centro del petto ridursi fino a diventare insignificante e sparire per sempre rimanendo solo un ricordo, un brutto e doloroso ricordo, e forse un giorno sembrerà solo un brutto sogno svanito con l’arrivo dell’alba.
 
«Sherlock.»
 
«Sono qui, John.»
 
Riapre gli occhi, John. Finalmente, era ora che lo facesse, era ora che si decidesse a guardarlo e a parlargli e a smetterla di farlo preoccupare nonostante la stupida consapevolezza che di preoccuparsi non ce ne fosse affatto bisogno.
 
Sherlock lo sente. Sente la pelle fredda delle sue dita a contatto con le proprie, sente il suo respiro irregolare, può quasi sentire il cuore che batte come un tamburo impazzito ma il punto è che lo sente, lo sente davvero dopo quei tre anni trascorsi come fossero tre secoli, dopo quei tre anni in cui il ricordo di John gli ha fatto compagnia, incorporeo ma mai sbiadito. Indelebile.
È questo che John è per lui, una macchia indelebile d’inchiostro sul cuore e sull’anima, così radicata che è impossibile anche solo tentare di cancellarla. Non ci è riuscito il tempo, non ci è riuscita la morte.
 
Gli sfiora la mano, Sherlock, ed è così felice che non può fare a meno di stringerla con la propria, è così bello essere di nuovo a casa.
 
«Piano, fa’ piano.» John si mette a sedere e fissa come in trance le loro mani intrecciate. È confuso, stordito, e probabilmente la sua parte razionale è già arrivata alla conclusione che sì, è davvero Sherlock, è davvero lì, non è solo un fantasma –ma c’è ancora una parte di lui che non capisce, si interroga, si chiede come diamine sia possibile tutto quello e forse, il cuore di Sherlock decide di saltare un battito quando il pensiero lo sfiora, forse c’è una parte di John a cui non importa, forse c’è una parte di John che è soltanto felice di riaverlo indietro.
 
«Tu eri morto», John alza lo sguardo sul suo viso e lui non sa che dire. «Eri morto. Ti abbiamo sepolto, ti ho visto nella bara.»
I suoi occhi si spalancano, si fanno lucidi di –cosa? Emozione? Paura? Dolore? Sherlock non è sicuro di quale sia il loro vero significato. Sono lucidi e John sembra aver perso ancora una volta le parole, apre la bocca ma non produce suono e allora la richiude, ci ritenta, il risultato è lo stesso e ha le guance così deliziosamente arrossate che Sherlock non può fare a meno di fissarle e pensare a quanto gli siano mancate.
 
«Lo so.» Non si fida neanche più della sua voce, adesso. «Ti spiegherò tutto, John. Ti spiegherò perché ho dovuto farlo e capirai, capirai ogni cosa.»
 
«Tu… tu eri morto.» John lo ripete, ripete quella parola (morto) come se faticasse a pronunciarla, come se fosse una lama sulla lingua e lo lasciasse a sanguinare in preda a un dolore troppo intenso per essere descritto.
Gli stringe la mano, stringe così forte da far male, così forte da farsi sbiancare le nocche e bloccare a lui la circolazione; stringe e fa male, fa male sul serio, è un dolore così reale e Sherlock lo sente, può capirlo, catalogarlo. Può capire il dolore fisico della stretta, sentire la circolazione che rallenta, la mano che sbianca e si raffredda, può capirlo perché capisce il processo ed è così diverso da quello che sente dentro, così nuovo e incomprensibile, non catalogabile e adesso si sente più tranquillo, perché se lui può comprendere quel dolore fisico adesso John potrà aiutarlo a comprendere il resto come ha sempre fatto, la parte umana per la sua razionalità.
 
John piange.
Prima è solo una grande, grossa lacrima trasparente quella che gli solca il viso e riga le guance rosse, ma a quella ne seguono altre, così tante altre che Sherlock ne ha perso il conto.
John piange in silenzio, e lui non è sicuro che quel tipo di pianto sia la soluzione migliore. Piangere in silenzio ti lascia una sorta di insoddisfazione dentro, come se ci fosse dell’altro che non riesci o non vuoi esprimere e quel qualcosa rischia di rimanere lì, rintanato in un angolo, pronto a saltar fuori nel momento meno opportuno.
Sherlock preferirebbe che John singhiozzasse, forse. Non che la sua compostezza glielo permetterà mai. È un soldato, è inglese.
 
«Ti ho creduto morto per tre anni, Sherlock», John tenta di fermare le lacrime ma sembra un’impresa titanica, troppo sforzo, troppe poche energie. «Tre fottutissimi anni.»
 
«Mi dispiace, John. Mi dispiace così tanto.»
 
Ci sono degli attimi speciali nella vita di ogni persona. Attimi fuggenti, durano un battito di ciglia ed eccoli che svaniscono lasciandosi dietro il profumo del ricordo.
Sherlock non è un sentimentale, non lo è mai stato, non fa semplicemente parte di lui. Ma c’è un istante –un solo, piccolo istante in cui una lacrima riga la guancia destra di John proprio mentre un raggio di sole attraversa il vetro della finestra e gli si posa appena sotto l’occhio, illuminandolo senza accecarlo, e l’aria stessa sembra fermarsi così che lui possa osservare, osservare quell’attimo perfetto che fa già parte del passato e custodirlo per sempre nella memoria, chiuso a chiave in un forziere nascosto in una stanza segreta del suo palazzo mentale.
 
Le braccia di John lo circondano all’improvviso. Gli si getta addosso con una foga così diversa e lontana dalla sua solita aria pacata e mite, le mani che corrono sulla stoffa della giacca e sentono stringono toccano un corpo reale e vivo e vero e non un ricordo fantasma di qualcosa che ormai non c’è più.
Gli poggia una mano alla base della nuca, proprio dove i capelli più corti si rizzano a quel contatto inaspettato; nasconde il viso nell’incavo tra il suo collo e la sua spalla, John, e si lascia andare a quelli che a un primo ascolto sembrano singhiozzi e che invece, lo realizza in seguito, sono il principio di una risata presagio di una crisi isterica.
 
Sherlock si lascia andare ad un sospiro, uno stupido sospiro che potrebbe essere di sollievo o sintomatico di quanto quel gesto inaspettato lo abbia spiazzato –ma no, no, dannazione, è poco umano ma non così poco da non riconoscere la sensazione di sollievo, di un peso che gli opprimeva lo stomaco e adesso si è improvvisamente volatilizzato come se si fosse dissolto nell’aria. È sollievo quel bruciore agli occhi, è sollievo il respiro irregolare, è sollievo quella assurda voglia di dar sfogo ai condotti lacrimali.
È il sollievo che lo muove, adesso; che porta le sue braccia attorno al corpo di John,  al corpo caldo di John scosso da quella strana risata.
 
«Mi sei mancato così tanto.» Sono morto ogni giorno aspettando e sperando che potessi ritornare.
John sussurra e piange e ride e lascia il nascondiglio offertogli dal suo collo per guardarlo negli occhi come se fosse la prima volta, per guardarlo di nuovo adesso dopo tanto, troppo tempo, per poggiare le labbra sulle sue in un bacio di disperato dolore e lacrime amare mentre con le mani gli percorre la schiena e lo stringe, dio, lo stringe a sé  per convincersi che non è un sogno, solo la realtà, solo la realtà.
 
«John…»
La voce gli si blocca, le parole gli muoiono in gola, si rifiutano di venir fuori, di-
 
Ma John lo sa, glielo legge negli occhi. Non ha bisogno che lo dica ad alta voce.
 
Non sono riuscito a vivere solo con un tuo ricordo. Non posso vivere senza di te.
 
«Lo so, Sherlock.» John sorride e si rende conto che quello è il primo vero sorriso dopo tre anni di disperata agonia. «Ti ho stropicciato il cappotto.»
 
Sherlock ride mentre si alzano in piedi. «Lo porterò in lavanderia. Ne ha bisogno, in ogni caso.»
 
«Mi devi una spiegazione, e bella grossa. Facciamo che mi devi anche una cena.» John prende il cappotto per terra e lo porge al suo legittimo proprietario mentre si asciuga le lacrime residue con la manica del maglione. «Non farlo, non fare mai più una cosa del genere o giuro che ti ammazzo con le mie mani, Sherlock Holmes. E non mi importa che tu sia imparentato col Governo.»
 
«Potresti farlo anche solo per dar fastidio a Mycroft, non mi dispiacerebbe.» Saremo gli inquilini del 221b di Baker Street per sempre, John. Solo tu e io, fino alla fine. «Non hai dei pazienti, Dottore?»
 
«Aspetteranno. Ho un paziente che richiede la massima attenzione, e dio non voglia che gli succeda qualcosa se gli nego la dovuta assistenza!» John prende la giacca e scuote la testa. «Dove andiamo?»
 
«Abbiamo un ultimo compito da svolgere prima di tornare a casa.» Sherlock lo guarda negli occhi e vi legge ancora una volta dopo così tanto tempo il brivido dell’avventura. «C’è una casa vuota che ha una finestra con un’ottima visuale*, è proprio quello che ci serve in questo momento.»
 
«Ricordami di comprare il latte, strada facendo.»
 
«Non potrei mai lasciarti tornare a casa senza.» A casa…
 
«No, e se anche lo facessi ti lamenteresti così tanto che dovrei uscire a comprarlo apposta», John scuote la testa e ridacchia. «Dici che a mrs. Hudson verrà un infarto?»
 
«Probabile.»
 
Sherlock si ritrova a sorridere mentre lasciano lo studio sordi alle proteste dei pazienti in sala d’attesa. John fa del suo meglio per non ridere a crepapelle quando spiega frettolosamente che deve fare una visita urgente per un paziente che ha immediato bisogno del suo aiuto.
Scendono in fretta le scale e Londra li accoglie con il suo cielo grigio e i suoi rumori, odori, sapori. Gli autobus corrono per le strade, le auto sfrecciano, i semafori brillano di verde, rosso e giallo nella luce di mezzogiorno mentre John tende un braccio verso un taxi nero che passa di fronte a loro.
Salgono in fretta, Sherlock dà al tassista l’indirizzo e quando incrocia lo sguardo di John scoppiano a ridere come due bambini che hanno combinato qualcosa o che condividono un segreto speciale che nessun altro conoscerà mai.
Il dolore e la paura sembrano solo brutti ricordi mentre la città scorre lenta all’altro lato del vetro e un’aspettativa tutta nuova cresce ogni secondo di più.
 
«Abbiamo una vita intera di crimini irrisolti ad attenderci, John», Sherlock recupera finalmente un briciolo di serietà. «Chissà, forse il meglio deve ancora arrivare.»
 
«Meglio di tutto ciò che abbiamo fatto finora?» John ride e scuote la testa. «Improbabile, ma ti concedo il beneficio del dubbio. Prima di tutto però gradirei una tazza di tè.»

 
*Fin*







*Sherlock fa riferimento alla "Casa Vuota", il racconto originale che vede il suo ritorno. 
 
 
 
 
   
 
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