Capitolo primo
Calma piatta
“C’era una volta un ragazzo di nome
Gianluca, e la cosa che amava più di tutte era il mare.”
Mi ero sempre detto che il mare sarebbe stato il luogo in cui avevo visto la
luce e quello in cui avrei smesso di vederla. Mia madre mi aveva davvero quasi
partorito in mare, perché lei era una donna romantica, e se non faceva un bagno
anche durante la settimana in cui sarei dovuto nascere, non era contenta. Era
in acqua quando le si ruppero le acque, e il fatto è tanto ironico quanto
assurdamente vero. A quel punto mio padre, una bestia di un metro e novanta, la
prese in braccio quasi stesse portando a casa un'enorme trota appena pescata,
la buttò in macchina e la portò fino all'ambulanza che se ne stava appostata
davanti al lido più frequentato, perché sapeva che tanto quella sarebbe
arrivata da loro con tutta la calma del mondo. Se Maometto non va dalla
montagna, la montagna va da Maometto.
L'idea di aver rischiato di nascere in mare era romantica anche per me,
anche se io, di romantico, sembrava non avessi neanche la punta dei capelli.
Quando mia madre mi raccontò di com'ero nato, improvvisamente ogni pezzo sembrò
tornare al suo posto, ogni mio comportamento o voglia o ossessione sembrò
acquistare un senso. Il mio sport era sempre stato il nuoto, la spiaggia era il
solo posto in cui riuscivo a sentirmi in pace con me stesso, d'estate ero
quello che più si divertiva a starsene a mollo in acqua, per ore e ore, nonostante
la pelle si raggrinzisse, nonostante i brividi di freddo, nonostante i continui
richiami esasperati di mia madre. Avevo sempre pensato che il mare mi parlasse,
che ascoltasse i miei monologhi, che chiedesse aiuto o che volesse offrirmene,
ed ero sempre stato attratto da quella voce.
A diciannove anni mi dissi che al mare adesso volevo andarci da solo, senza
che mia madre mi stesse a dire di uscire dall'acqua, senza che mi sentissi
rimproverare ogni qualvolta venissi beccato mentre sgusciavo fuori dal letto in
piena notte per andare a fare un giro in spiaggia in santa pace. Trovai un
compagno del liceo che aveva invitato me e altri tre ragazzi a passare un
mesetto al mare da lui in Salento, come viaggetto post-maturità all'insegna
dell'alcol e del divertimento. Certo, mentre tutti gli altri il viaggetto se lo
facevano all'estero, noi ce ne stavamo chiusi in Italia, ché così non
rischiavamo di spendere troppo. E non era per dire: i miei erano di una
tirchieria particolare, avevano soldi a bizzeffe quando si trattava di comprare
utensili inutili ma che loro trovavano fondamentali e si ritrovavano al verde
se mai io avanzavo una proposta. Ad ogni modo, i soldi per l'aereo me li
lasciarono, probabilmente come premio per il mio 65 alla maturità: secondo il
loro modesto parere, la mia promozione era stata un vero e proprio miracolo.
Credevano che avessi ammiccato all'intera commissione d'esame, dato che erano
convinti che io passassi le giornate ad abbordare ragazze "con quel tuo
charme" che sinceramente ce lo vedevano solo loro. Non avevo ammiccato a
nessuno, ma non ero stato neanche maleducato o menefreghista, al contrario. E
ai miei professori piacevo, avranno messo una buona parola con i commissari
esterni. Ad ogni modo, il mio viaggetto sentivo di essermelo guadagnato, anche
se era a casa di quel rompipalle di Riccardo. Diceva di avere una villetta
indipendente e che al piano terra affittava alcuni appartamenti, mentre lui e
la famiglia se ne stavano al primo piano. Ci invitò a stare in due di quegli appartamenti,
e la proposta entusiasmò tutti, soprattutto perché era gratis.
Quando entrai in aeroporto e adocchiai Valeria e Anna che aspettavano
accanto al distributore automatico, con le loro valigie floreali assolutamente
identiche, mi venne quasi voglia di tornare indietro. Non che le due non mi
andassero a genio, ma io ero fatto in un certo modo, e quando trovavo un
difetto in una persona, quel difetto sembrava lampeggiare sulla fronte della
persona in questione ogni volta che la guardavo in faccia. Non potevo farci
niente, in un modo o nell'altro chiunque riusciva ad infastidirmi, per quanto
carino e gentile fosse. Già solo la troppa gentilezza la trovavo un difetto,
uno dei più fastidiosi.
Quando Valeria agitò la mano nella mia direzione, come se già non fossero
abbastanza evidenti con quelle ridicole valigie, mi lampeggiò il suo difetto,
ormai lampante a chiunque la conoscesse, anche solo di vista: irritabilità.
Poteva essere allegra e carina un minuto prima e perforarti con lo sguardo
l'attimo dopo. Aveva l'arrabbiatura tremendamente facile e difficile da
sbollire.
Poi c'era Anna, che mi salutò con un cenno solo quando le fui a un palmo
dal naso. Lei era la sostenuta, quella che apparentemente non poteva essere
toccata da nulla, quella che preferiva chiudersi in casa a leggersi un libro
piuttosto che fare un giro in città, quella che guardava dall'alto in basso
chiunque tentasse di fare amicizia con lei, perché probabilmente non era alla
sua altezza, o lei era troppo timida per aprir bocca. Eppure sembrava aver
trovato interesse in qualcosa che non fossero i suoi libri, e quel qualcosa
sembravo essere io. Se c'ero io nel suo stesso gruppetto, quella non mi
toglieva gli occhi di dosso, e sinceramente l'avevo capito da me che aveva una
cotta spaventosa, senza che me lo dicesse altra gente. Tutti sapevano che tutti
sapevano di questa sua fissazione, a parte lei. Probabilmente perché neanche si
accorgeva degli sguardi insistenti che mi rivolgeva. E io, come qualunque altro
atteggiamento di chiunque altro, non lo sopportavo. Ma non perché mi sentissi
in qualche modo una spanna sopra agli altri: semplicemente avevo la sensazione
che il mio posto non fosse lì, tra quella gente. Mia nonna diceva che ero un
ragazzo malinconico, e non so quanto potesse essere vero, perché la malinconia
si prova quando senti la mancanza di qualcosa appartenente al passato, e io,
per quanto talvolta mi sforzassi, non trovavo qualcosa che mi mancasse a tal
punto da lasciarmi il mal di vivere così intenso quasi ogni giorno.
Dopo dieci minuti di silenziosa e per loro imbarazzante attesa, fece la sua
comparsa anche Michele, che per quanto facesse il saccente e il professorino,
era costantemente in ritardo, persino più di me. Nonostante quel suo fare da
"Fate fare a me, che sono il piu in gamba",
era una persona simpatica e a posto. Tra i quattro era sicuramente quello che
più apprezzavo e la cui compagnia non mi infastidiva. Si scusò per il ritardo,
disse che la vicina l'aveva trattenuto, ed era la scusa che tirava fuori in
ogni occasione. Mi misi l'auricolare nell'orecchio destro e feci partire la
musica, pur di non stare a sentire la sua voce lamentosa.
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Il viaggio durò poco più di un'ora e mezza, e già ne avevo abbastanza dei
progetti impossibili di Valeria, come quello di visitarci tutte le discoteche
dell'intero Salento o quello di sbronzarci come animali in un pub diverso ogni
sera. Forse non aveva capito che stavamo andando in una località di mare poco
frequentata e che era già tanto se trovava un lido ben fatto. Ma non mi permisi
di intromettermi nei suoi discorsi eccitati: ci pensava già Anna a contraddirla
dicendole che a lei sarebbe bastato un buon libro sotto l'ombrellone. Si
passava da un estremo all'altro. Cercai conforto nello sguardo di Michele, ma
quello sembrava impegnato a scrivere messaggini, e la cosa mi sconfortò
ulteriormente. Stavo pensando che una settimana mi sarebbe bastata, poi avrei
fatto finta di dover tornare a casa per un'emergenza e invece mi sarei spostato
in un'altra spiaggia, da solo. In qualche modo avrei fatto. Intanto mi presi
velocemente una pillola che aiutava a tranquillizzarmi, e riuscii a dormire per
una mezz’oretta.
All'aeroporto di Brindisi c'era già Riccardo che ci aspettava da ben 45
minuti, tanto per essere previdente, e ci invitò a entrare nel suo macchinone
che non ero tanto sicuro potesse già guidare. E per tutto il viaggio sino a
Lecce non fece che farcela a fette su quanto fosse speciale la sua terra e su
quanto fosse divertente la gente e su quanto fosse buono il cibo e su quanto
fosse trasparente il mare, come se non fossero cose che aveva già ripetuto fino
allo sfinimento. Riccardo era iperattivo, chiacchierone, affetta-maroni.
Anche per quel tragitto finii per dormire, e iniziai a chiedermi se non fossero
proprio quei tranquillanti che prendevo a causarmi tanta sonnolenza.
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Il mare seppe stregarmi, dovetti ammetterlo. Una roba del genere
probabilmente l'avevo vista solo in cartolina; mi innamorai a prima vista di
quell'acqua, mi ci volevo buttare seduta stante. La mia prima e unica proposta
della giornata fu: "Molliamo la roba e andiamo in spiaggia". Riccardo
vaneggiò qualcosa sul volerci far conoscere i suoi genitori, ma gli altri mi
erano già appresso. Mi presi le pillole dalla tasca dei jeans e me ne
ingurgitai una dopo aver lasciato la roba in uno degli appartamenti che ci
aveva mostrato Riccardo.
«Piantala di prendere quella roba,» mi fece Valeria muovendo il braccio
quasi a volermi far saltare dalla mano la boccetta.
«Sono antistaminici, cosa vai a pensare?» le risposi per niente garbato,
poi dissi a tutti che sarei andato in spiaggia, e quelli, scandalizzati: «Ma
non ti porti nulla dietro? Un asciugamano, una borsa...» e io risposi con un
semplice: "Tanto non esco dall'acqua finché non fa buio". Detto
fatto, i ragazzi mi videro tornare a casa dopo il tramonto, quando loro avevano
già fatto la doccia e preparato la tavola per la cena.
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Solo il giorno dopo il nostro arrivo, Riccardo ci fece conoscere i due
membri principali della sua "crew" estiva:
si trattava di due gemelli del tutto uguali, tanto che temevo di essermi fatto
di qualcosa e di vedere doppio. Mi dissero i nomi, li dimenticai il momento
subito dopo. Non per niente, ma erano due tipi assolutamente anonimi, l'unico
dettaglio che mi metteva piuttosto in soggezione era la loro altezza, almeno un
metro e novanta ciascuno. Ci salutarono entusiasti e ci invitarono quella sera
stessa a bere qualcosa con tutta la loro crew in un
bar che a quanto avevo capito era l'unico nel raggio di un chilometro e che si
chiamava "Luna Blu". E probabilmente ci saremmo anche andati, se
quella sera a Valeria non fosse venuta una febbre da cavallo dovuta a una
piuttosto violenta insolazione. Dovevo concludere che lei e le creme solari non
andassero troppo d'accordo. Se ne stava lì distesa sul letto dal materasso duro
che le aveva assegnato Riccardo, con la faccia deformata dal dolore, i capelli
castani appiccicati alla fronte e alle guance, e Michele e Riccardo che le
stavano addosso, tanto per farla respirare meglio. Michele si era tirato gli
occhialetti sul naso e aveva detto il solito "Lasciate fare a me",
mentre Riccardo si occupava di bagnarle i polsi con fazzoletti freschi e ci
dava ordini.
«Andate al piano di sopra a chiedere a mia madre un termometro, per
favore,» e non mi spiegavo il perché avremmo dovuto farlo noi quando era lui il
padrone di casa. Probabilmente voleva stare appiccicato come una cozza a
Valeria. Alzai le spalle, feci un cenno ad Anna e insieme salimmo a chiedere il
termometro. Ma una volta su, mi cadde l'occhio sulla porta spalancata che dava
sul balcone e quindi sul meraviglioso panorama: mare scuro e piatto come una
tavola sembrava circondare l'intera casa. Era così vicino, neanche 500 metri.
Terribilmente attraente.
Fu a quel punto che lasciai sola Anna, anche molto volentieri, con
l'intenzione di andarmene in spiaggia e passare buona parte della notte lì.
«Dove stai andando?» il tono confuso di Anna mi costrinse a darle
spiegazioni.
«Faccio un giro in spiaggia,» e la liquidai prima che potesse fermarmi
un'altra volta.
Quel mare sembrava parlarmi, mi sentivo un Ulisse in balia delle sue
sirene. Presi le infradito in mano e sospirai quando la sabbia fresca sembrò
modellarsi sotto i miei piedi. Mi allontanai dal lido illuminato e dalle sue
sdraio che non facevano altro che rovinare il panorama e andai a sedermi non
lontano dal bagnasciuga, in una zona piuttosto buia, dove tutto ciò che potevo
vedere era il mare che brillava colpito dalla luce riflessa della luna. Mi
chiesi come potesse essere così ipnotizzante la luna, che neanche brillava di
luce propria. Era come essere innamorati di una bugia, di una maschera, di
qualcosa che non esisteva per davvero. Dopo una buona mezz'ora passata ad
ascoltare il mare che si muoveva sugli scogli, presi a frugare nelle tasche
esageratamente larghe dei miei pantaloncini, raccolsi tutto ciò che ci avevo
ficcato dentro e accesi la luce del cellulare, ché non vedevo a un palmo dal
naso. Avevo affidato la mia erba e altre robacce a Riccardo perché non era il
caso che me le portassi in aereo, non credo sarebbero rimaste inosservate. Mi
misi il cellulare in bocca per poter riempire per bene la cartina e riuscire ad
arrotolarla senza lasciar cadere neanche un briciolo di erba o tabacco. Mi
dispiaceva rovinare il profumo salmastro che permeava l'aria, ma avevo la
sensazione che l'odore dell'erba che bruciava lo rendesse anche migliore. Presi
il primo tiro senza aspirare, poi iniziai a fumare quasi con foga, e mi sentii
a posto con me stesso quando la vista mi si fece confusa e annebbiata, i bordi
degli scogli tremolanti, l'orizzonte brillante inghiottito dal cielo nero e dal
mare dello stesso colore. Ma quando finalmente
ero lì lì per entrare nella mia estasi personale,
«Quella roba non fa bene, sai?»
Feci un salto laterale simile a quello di una cavalletta, e lo spinello
saltò con me fino ad atterrare sulla sabbia umida e spegnersi. Misi
istintivamente una mano sul petto quando mi resi conto che accanto a me s'era
materializzata un'ombra.
«Chi cazzo sei?» feci d'istinto, senza preoccuparmi del mio linguaggio
colorito. Poteva essere uomo, donna, vecchio o bambino, m'aveva comunque fatto
uscire il cuore dal petto.
«Il mio era solo un consiglio, non hai da scaldarti tanto,» rispose quello
che dalla voce sembrava un ragazzo. Per assicurarmene tirai fuori il cellulare
e gli illuminai la faccia. A quella luce improvvisa puntatagli in volto, si
riparò con un braccio, ma riuscii comunque a vederci più chiaramente: un
ragazzetto sui diciotto, i capelli color carota, le lentiggini scure su naso e
guance e gli occhi che alla luce forte sembravano gialli. Al collo aveva degli
occhialetti da motociclista e addosso una maglia che sembrava azzurra con un
ideogramma giapponese al centro.
«Quando diavolo sei arrivato?» sbottai come una comare indisposta, e quello
mi fece segno di abbassare la luce, ché gli stava dando fastidio.
«Sono sempre stato qui,» disse tranquillamente, e io pensai di avere le
traveggole o di star diventando pazzo. Lo guardai con le sopracciglia
aggrottate, poi scossi la testa, mentre ancora il respiro tentava di tornare
regolare dallo spavento di poco prima.
«Non puoi andare in giro a far prendere certi colpi alla gen-, dove cazzo è finito?!» sbottai ancor prima di
terminare la frase quando mi accorsi di non avere più lo spinello in mano.
«Vedi che succede quando cogli le persone di sorpresa?» chiesi retoricamente
prima di tirare fuori stizzito un'altra cartina e ricominciare daccapo.
«Che acido, per carità,» commentò quello, e io ci misi un po' a ribattere,
visto che ero impegnato a fare altro.
«Cosa hai detto?»
«Che fumare quella roba non ti fa bene.»
Ignorai completamente la sua affermazione e mi accesi il secondo spinello
con tutta tranquillità. Solo quando arrivai a metà mi andò di prenderlo in
giro.
«Ne vuoi un po'»" gli chiesi, tanto per sfottere quel suo perbenismo.
Ma, con mia somma sorpresa,
«Sì, grazie,» rispose, e mi tolse il bastoncino dalle dita per prendere un
solo, lungo tiro e buttare il fumo fuori a occhi socchiusi. Mi restituì il
tutto e si sistemò meglio con le gambe al petto, guardando il mare. Gli buttai
uno sguardo perplesso e tornai a fumare, notando come il filtro adesso avesse
preso un sapore salmastro. Pensai che fosse quel tipo ad avere le labbra tanto
salate da lasciarci l'impronta sul filtro.
«Ti avranno detto una marea di volte di smettere con quella roba,» riprese
il tizio ambiguo, e io scossi la testa. Una marea? Ma come parlava?
«No, non si sono mai permessi. Sanno che comunque non darò ascolto a
nessuno,» gli dissi col mio solito tono neutro. Presi a guardare anche io
l'orizzonte lì dove avrebbe dovuto esserci, e solo dopo un paio di minuti mi
resi conto di essere profondamente osservato. Ma nel momento in cui mi voltai,
il ragazzo accanto a me si girò di scatto verso il mare, anti sgamo come pochi.
«Che problema hai?» gli chiesi snervato, ma quello si limitò ad alzare le
spalle e a ribattere con un'altra domanda, per nulla pertinente.
«Non sei di qui, vero? Quando sei arrivato?»
«Ieri. In teoria dovrei farmi un mese qui, sempre se non mi girano i
coglioni prima.»
«Perché dovrebbero girarti?»
«Sto con un gruppo di idioti.» dissi molto semplicemente, ed era la prima
volta che mi riferivo a loro come degli idioti. Almeno ad alta voce e parlando
con uno sconosciuto.
«Non me ne parlare. Nemmeno io mi trovo bene con la gente di qui. La sera
loro se ne vanno chissà dove a bere e a rimorchiare, e io vengo da solo in
spiaggia ad ascoltare la musica. E' da sfigati emarginati, lo so,» confessò
quello senza troppi problemi, e io feci spallucce per poi dare l'ultimo tiro e
sotterrare il filtro nella sabbia.
«Sì, abbastanza. Ma lo faccio anche io, quindi siamo sfigati in due,» gli
dissi tanto per solidarietà.
«Finalmente qualcuno che non pensa che io sia pazzo. Forse perché lo sei
anche tu,» e fece un risolino a labbra chiuse che sapeva tanto di presa in
giro.
«Piano con le parole, chiunque tu sia,» gli feci, e quello rise di nuovo.
Poi prendemmo a parlare del più e del meno, senza che io avessi la minima idea
di come si chiamasse o di quanti anni avesse. Tutto quello che avevo capito era
che andava in spiaggia ogni sera, che aveva una sorella di vent'anni, che non
amava i luoghi affollati e che sognava di diventare un pilota. E che aveva uno
scooter blu. Poi si arrivò alla questione più interessante, o almeno, quella su
cui due uomini amano confrontarsi.
«Hai la ragazza, tu?»
Pensai a cosa dire, perché un 'no' secco mi sembrava noioso, e quella sera
avevo voglia di fare il buffone. Così, senza motivo.
«Mh, sì, è nel gruppo con cui sto passando le
vacanze,» mentii spudoratamente, tanto per vedere la sua faccia invidiosa.
Perché uno come lui non poteva averla la ragazza, no di certo. Era troppo imbranato,
lo si vedeva dalla faccia. «E tu?»
«No, sto ancora aspettando che una bellissima sirena una notte mi trascini
in mare con lei,» rispose col tono di uno che sta recitando una poesia.
«Aspetta e spera,» dissi sorridendo tra me, e cercai nella tasca il
pacchetto di sigarette. In quel momento, sentii una voce femminile chiamarmi da
dietro le dune.
«Sei tu Gianluca?» mi chiese il tizio accanto a me, e io scossi la testa.
«Vedi qualcun altro? Se non sei tu, devo essere per forza io, no?»
«Ah, io sono Lorenzo, comunque,» e mi allungò la mano. Gli feci una faccia
da “Alla buon'ora!", e gli strinsi appena la mano. Sentii nuovamente
chiamare, e riconobbi quella voce come appartenente ad Anna.
«Sì, sono qui,» feci a voce più alta, e Lorenzo mi tirò una gomitata.
«E' lei la tua ragazza?» mi chiese con tono complice, e già si stava
prendendo troppa confidenza per i miei gusti. Gli dissi di sì sospirando, e
subito dopo, quello si alzò prendendo le infradito in mano. «Vi lascio alla vostra intimità allora. Buona serata!» agitò la mano e se
ne andò verso le stesse dune da cui stava arrivando Anna, ma quella non sembrò
accorgersi di lui.
«Con chi parlavi?» mi chiese quando mi fu accanto, le braccia incrociate al
petto a causa del vento fresco.
«Con un tizio strano. Se n'è appena andato,» dissi con la sigaretta tra le
labbra, mentre tentavo di accenderla a dispetto del vento. Anna sedette accanto
a me in modo da non sporcare i jeans più del dovuto, e istintivamente pensai
che preferivo la presenza del tizio strano di cui sopra. La sigaretta non fece
altro che aumentare le mie vertigini, e ricordo che Anna mi chiamò per farmi
girare e poi mi mollò un bacio sul lato della bocca, nonostante sapessi che il
sapore del fumo la infastidiva parecchio. Provò a baciarmi un'altra volta, e a
quel punto probabilmente ricambiai il bacio. Il resto della serata rimane
ancora oggi un ricordo confuso e sfocato.
***
Ciao!
Questa è una mia vecchia storia che ho voluto riprendere e ampliare. L’avrò
scritta quattro anni fa e l’avevo lasciata incompleta. Ho voluto terminarla
secondo i miei gusti attuali, che sono leggermente differenti da quelli di
allora. Per chi ha provato interesse per questa storia dopo la lettura del
primo capitolo ma non ha voglia di impegnarsi nel seguirla perché già sente che
saranno parecchi capitoli, non si preoccupi. Questo è quello che io chiamo un
racconto breve. Come uno di quei racconti che non si dilungano troppo e che
alla fine hanno una morale. Prediligo i dialoghi veri e propri e quelli
interiori, do poco spazio alle descrizioni, ma spero comunque che gli
avvenimenti non si sviluppino in modo troppo affrettato.
Le recensioni sono gradite e utili affinché possa migliorare di volta in volta
:) Se volete farmi delle domande specifiche, questa è la mia pagina autore su facebook: https://www.facebook.com/mirokiaEFP?fref=ts
Grazie mille per aver letto!
Mirokia