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Autore: dilpa93    05/12/2013    11 recensioni
“Le famiglie felici si somigliano tutte, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”
Lev Tolstoj
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Nuovo personaggio, Richard Castle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
- Questa storia fa parte della serie 'Christopher Matthew Beckett'
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“Le famiglie felici si somigliano tutte, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”
Lev Tolstoj


 

 
Non si erano detti nulla da quando avevano lasciato le mura del distretto.
Erano stati due giorni frenetici.
In ascensore lei gli aveva preso la mano, intrecciando le dita con le sue. Non aveva alzato lo sguardo verso di lui, non aveva incrociato i suoi occhi e non gli aveva sorriso. Gli aveva solo preso la mano lasciandola unicamente una volta arrivati all’auto. Anche allora, dandogli le chiavi della macchina, non aveva parlato, non si era giustificata con un ‘sono stanca’, e dal canto suo Rick non le aveva domandato niente, si era messo al volante e aveva guidato sotto le luci accecanti della sfavillante New York.
In quell’abitudine che si era ormai consolidata in lui dopo anni, teneva fissa la mano sul cambio e ancora una volta quella di Kate si era posata sulla sua mentre lei continuava distrattamente a guardare fuori dal finestrino.
Tenendole aperto il portone, l’aveva vista sorridere gentile al portiere entrando nel palazzo, poi il suo viso si era fatto nuovamente inespressivo. Entrati nel loft l’aveva guardata dirigersi con controllata velocità verso la camera da letto.
Lui aveva lasciato le chiavi nel portaoggetti sul mobile accanto alla porta, si era tolto la giacca abbandonandola su uno degli sgabelli che contornavano il piano ad isola della cucina e poi, cercando di riordinare le idee, si era allentato il nodo alla cravatta che aveva messo quella mattina prima di un importante incontro alla casa editrice. Non aveva avuto voglia di tornare a casa a cambiarsi e al termine della riunione, così com’era, aveva raggiunto gli altri al 12th.
Adesso si trova a pochi passi da lei, affacciato alla camera da letto. Ama guardare Kate in quella veste così casalinga. Nella loro casa smette improvvisamente di essere una detective e di lei resta solo la semplice quanto straordinaria e speciale donna.
Kate si toglie gli orecchini riponendoli nel portagioie. Fa cadere la collana con lentezza sul ripiano, ascoltando il dolce e lieve tintinnio della catenina a contatto con il legno.
Rimuove le forcine lasciando finalmente i capelli liberi dalla costrizione dello chignon nel quale erano rimasti intrappolati per tutto il giorno. Passa le dita tra le onde castane provando un certo sollievo ed è allora, sentendole ricadere leggere sulle spalle, che si accorge di Rick. Distoglie lo sguardo, non vuole che fissandola possa carpire cosa sente o il perché di tanta ansia e stanchezza. Ma in quel momento non è necessario per lui guardarla negli occhi.
“È da quando abbiamo identificato il cadavere di quel ragazzino che sei strana. Da quando Ryan ha detto che c’era una corrispondenza con un bambino scomparso nel 2000.” Esordisce pacato, cercando di mantenere integro quel clima di apparente calma.
 
Erano stati chiamati per un caso di omicidio.
“Uomo, caucasico, circa quarant’anni”, aveva detto Lanie.
Quell’uomo caucasico era Joseph Mardell, 43 anni. Ucciso da un colpo d’arma da fuoco. Il corpo giaceva nel salone del suo appartamento, lungo la Lexington Avenue, su di una poltrona stile vecchio western, la posa composta. Sembrava quasi dormisse se non fosse stato per quella bruciatura sulla tempia destra e il sangue raggrumato che era colato fino a raggiungere la guancia.
Le indagini preliminari avevano condotto alla sua casa di montagna.
La perquisizione della baita, situata nel mezzo dei boschi, poco più in alto del fiume, aveva portato a risvolti inaspettati. Un'intera stanza era riempita di foto appese malamente con del nastro adesivo alla parete. Tra il volto di un bambino, ripreso da diverse angolazioni, erano presenti immagini raffiguranti dettagli di appartamenti e quartieri.
Quando avevano scoperto il nome del bambino, l’FBI era stata immediatamente informata. Gli agenti della sezione specializzata nel rintracciare persone scomparse si stavano occupando della sparizione di un bambino di sei anni, Jonatan Mills, scomparso dalla sua casa la settimana passata. Nonostante i loro mezzi non erano riusciti a trovare alcun indizio utile che li portasse dal bambino o dal rapitore stesso. Ma era evidente che il destino, o il karma, avesse altri progetti per Mardell che sembrava essere riuscito, fino a quel momento, a restare nell’ombra e a farla franca.
La detective e Castle avevano parlato con Julie Mills, sorella maggiore di Jonatan. Era lei che, nonostante la sua giovane età, si occupava del fratello da quando tre anni prima i genitori erano venuti a mancare in un incidente stradale e la zia, che fino all’inverno passato li aveva tenuti con sé nella sua casa di Baltimora, aveva avuto un crollo nervoso.
Non riusciva a ricordare nulla di quella notte, solo di essersi svegliata, forse per l’afoso caldo di quel luglio, di essersi girata e riaddormentata. Poi le era tornato alla mente un odore strano, un odore che lei aveva definito blu come le acque scure e torbide nel profondo dell’oceano.
Odore di tabacco e pini.
Avevano già setacciato la zona intorno alla baita, ma non quella più scoscesa, lungo le sponde del fiume, unico punto in cui sorgeva una fitta pineta.
Lì, tra terra e rocce, ben nascosta da cespugli e arbusti, avevano trovato una galleria.
Vi si erano addentrati, cauti, e avevano sentito la voce ormai roca ed esausta di Jonatan chiedere aiuto.
Disidratazione, qualche lieve graffio e un bello spavento, ma per il resto stava bene. Ma nelle grinfie della terra, nell’oscurità circondata da radici e argilla, altro era venuto alla luce.
Il corpo di un altro bambino.
 
“Sai, a volte ho come l’impressione che tu riesca a leggermi nel pensiero...” risponde lei, restando a guardarsi nello specchio quasi cercando di riconoscersi nell’immagine che vede riflessa.
“Noto i tuoi sguardi, è tutto quello di cui ho bisogno... di solito, ma non oggi. Kate, parla con me, per favore. Cosa ti preoccupa?”
“Io non... niente, n-non...  È solo che oggi ho visto il turbamento e la tristezza sul viso di quei genitori quando ci hanno aperto la porta. Ho visto la disperazione negli occhi di quella donna dopo averle detto che avevamo trovato il corpo del figlio sepolto nei boschi, e quando ci ha fatto entrare nella sua cameretta tutto era immacolato. Le lenzuola pulite, i giochi al loro posto. L’orsacchiotto poggiato al cuscino, seduto sul copriletto. Le tapparelle alzate per far entrare la luce del sole, non c’era polvere, tutto perfettamente pulito e preservato. Quando siamo entrati mi è parso di tornare nel passato. Hanno fatto in modo che in quella stanza il tempo si fermasse, così gli sembrerà sempre di avere il loro bambino accanto.
Sanno che lui non potrà tornare, non più, e... ed è come se si aggrappassero all’immobilità di quella stanza per riuscire ad andare avanti. E questo non... non è giusto. Non li ha aiutati e non li aiuterà a proseguire la loro vita, non cambierà quello che è successo.”
Rick la guarda pensieroso, poggiato allo stipite della porta. Non si muove, ruota quasi impercettibilmente gli occhi per osservare ogni sua curva e linea mentre gli si avvicina.
“Vieni”, sussurra. Gli sfiora le dita e, come legata a lui da una corda invisibile, lo trascina con sé verso il divano.
Si siede a gambe incrociate. La schiena contro il morbido bracciolo. Lui fa lo stesso, di fronte a lei.
Gli prende la mani, così grandi rispetto alle sue, giocando con le dita, soffermandosi sull’anulare sinistro immaginando già quando ad adornarlo ci sarà il metallo freddo della fede che si scambieranno.
“Io non ti ho mai detto una cosa, una cosa che immagino sia piuttosto importante.” Si schiarisce la voce, umettandosi il labbro superiore prima di continuare. “Voglio dire, non credo cambierà nulla tra noi il fatto che tu lo sappia o meno, ma sento che è giusto.”
Lui le stringe forte la mano, un tocco deciso che le infonde calore e amore, invitandola a mettere da parte la paura e ad aprirsi.
“Lo sapevi che negli anni ’80 il numero di bambini scomparsi si aggirava attorno ai 50.000? Sembrano tanti rispetto alle notizie che arrivano a noi. Solo del 5% veniamo a conoscere la storia, il che è pressoché assurdo. Cos’ha quel 5% in più rispetto agli altri bambini?”
Rick la fissa immobile, non distogliendo lo sguardo dai suoi occhi, sentendo le mani della donna raffreddarsi sempre di più, probabilmente a causa del disagio o del turbamento che quel racconto le provoca. Non riesce a capire dove voglia arrivare, ma non trascorre molto tempo prima che la sua curiosità venga soddisfatta.
“Mio fratello Christopher non rientrò mai in quella piccola percentuale. Era il 1984. Aveva otto anni quando scomparve. Io ne avevo cinque. Mamma e papà ci avevano portato al luna park, avevamo insistito tanto, soprattutto Chris. Era l’ultimo giorno, poi avrebbero smontato tutto e sarebbero partiti alla volta di Staten Island. Ho pochi ricordi di quel giorno, come se fossi sott’acqua e non riuscissi a vedere nulla nitidamente, ma ricordo quanto ci eravamo divertiti e la risata di mio fratello. Si, la sua risata era così bella, uguale a quella di nostra madre. Poco prima di andare via avevamo chiesto di poter far un ultimo giro sulla giostra. Volevamo sederci sulla carrozza, ma era già occupata, ed era tardi per aspettare e salire al giro successivo. Il buio stava scendendo rapidamente, le luci brillavano nell’oscurità della sera. Siamo corsi sulla pedana, io ero troppo piccola per riuscire a salire sul cavallo da sola. Christopher non se ne curò e andò sull’altro lato della giostra. Papà non si era sentito molto bene, così era venuta sopra con noi solo nostra madre. Mi aveva aiutata a salire sul cavallo bianco dalla criniera corvina... Era il mio preferito.”
Castle resta in silenzio ad ascoltarla. Rammaricato per come sa andrà a finire la storia, ma lieto di scoprire il lato bambinesco di Kate.
“Io guardavo papà e lo salutavo allegra. Ricordo che dopo qualche giro i suoi occhi si erano spalancati e riempiti di terrore. A gran velocità ci aveva raggiunti sulla giostra, ma di Chris non c’era già più traccia.
Avevano chiamato subito la vigilanza, la polizia era arrivata in pochi minuti. Ma lui non si trovava.”
“Nessuno aveva visto niente? Com’è possibile che lo abbiano portato via così?” Se lo stava domandando da quando aveva capito ciò che doveva essere successo alla fine di quella giornata.
“Per giorni mia madre si era domandata la stessa cosa, incolpando se stessa, e anche io mi sentivo in un certo modo responsabile. Era dovuta stare accanto a me, se non fossi salita o se mi fossi messa vicino a Chris senza impuntarmi su quello stupido cavallo, forse lui non sarebbe...”, quel fiume di parole si ferma all’improvviso e Kate riprende il controllo di se stessa. “In ogni caso, alla fine era giunta ad una conclusione. L’avevo sentita mentre ne parlava con mio padre, in camera. La porta era solo accostata e io a volte mi rannicchiavo lì fuori, ad ascoltare di nascosto i discorsi su quella faccenda ‘da adulti’.”
“Qual era stata la conclusione?”
“La musica era alta, le stesse quattro note ripetute all’infinito. Ancora oggi non posso non odiare quella assurda e lagnosa melodia. Anche se lui avesse strillato e pianto, chi avrebbe fatto caso ad una bambino che fa i capricci alle giostre? Chi avrebbe mai creduto che quell’uomo o quella donna non fosse il genitore?
Nonostante questo si ripeteva spesso che lei avrebbe dovuto sentirlo, lei era sua madre. Lei avrebbe dovuto sentirlo.
Papà ha sempre cercato di farle capire che non era colpa sua, ma era difficile.
Così per i primi mesi anche loro avevano lasciato ogni cosa com’era. Non mi era permesso entrare in camera di mio fratello, prendere le sue cose, i suoi giocattoli. Tutto doveva restare esattamente come lui lo aveva lasciato. Quando sarebbe tornato niente sarebbe dovuto essere diverso da come lui lo ricordava. Ma con le settimane quel ‘quando’ si tramutò in un ‘se’, e alla fine i miei capirono che non sarebbe più ricomparso. Avrebbero sempre avuto quella speranza nel cuore, ma noi come famiglia ci stavamo sgretolando. Tutto venne messo in scatoloni e venne alzata una parete per non vedere più la porta di quella camera che ormai non portava più indietro ai tempi felici, ma conduceva all’inferno nel quale eravamo piombati da quella sera. Dopo qualche tempo cambiammo casa... Tutto questo”, prosegue prima che lui abbia il tempo di dire qualsiasi cosa, “per dirti che non sempre rimanere attaccati al passato aiuta.”
“In un certo senso io sto facendo lo stesso con la stanza di Al.” Ammette con tono quasi colpevole gettando un rapido sguardo in direzione di quella camera.
“Ma tu, con Alexis, è diverso. Lei c’è, lei tornerà qui, verrà a trovarci ed entrare in quella stanza non sarà un peso, non sarà doloroso, sarà un modo per ripercorre i momenti felici passati qui, per tuffarsi nella sua infanzia, e questo vale per lei quanto per te. Se passandoci davanti dovessi sentire nostalgia potrai sempre chiamarla. All’interno di quella camera si respira gioia, si respirano i bei momenti trascorsi tra padre e figlia. Non è lo stesso... Il tuo atteggiamento e quello di quei genitori, non è lo stesso.
Per mia esperienza posso dirti che loro non avranno mai più indietro la loro vita. Quel bambino era tutto il loro mondo. È come se chi lo ha rapito gli avesse voluto precludere ogni altra possibilità di essere felici. Avevano puntato tutto sul suo futuro, lui era il loro futuro e adesso non hanno più nulla. Era tardi allora per avere un altro bambino e lo è anche adesso, non hanno nessun altro a cui pensare se non loro stessi, ma saranno troppo impegnati ad ignorarsi, ad incolparsi a vicenda per l’accaduto, a punirsi con il silenzio e con gli sguardi come hanno evidentemente fatto in questi anni. Oggi, su quel divano, vicini, sembravano a disagio, non si sono mai scambiati uno sguardo o un gesto di conforto. Noi invece... c’ero io, abbiamo tirato avanti, ricordando ad ogni ricorrenza la memoria di Chris, riuscendo dopo anni a sorridere guardando le vecchie polaroid e ripensando alle nostre marachelle da bambini. Ma loro... Quell’uomo non ha distrutto solo una vita, ma tre.”
“Kate, io-”
“Non dire nulla, non ancora, ti prego.” Lo supplica trattenendo quelle lacrime che sente pulsarle negli occhi facendoglieli bruciare.
“D’accordo”, la rassicura, “posso dirti solo che ti amo?”
Annuisce, accettando quella manifestazione d’amore, benché entrambi sappiano essere solo una mera consolazione a seguito di quel racconto.
Si sporge verso di lei, la accoglie tra le sue braccia stringendola. Lei gli si accoccola al petto, incastonando poi la testa nell’incavo del suo collo per inebriarsi con il suo profumo.
Ripensa a Julie, a quella ragazza che avrebbe compiuto ventun’anni ad ottobre, nonostante non le si sarebbero dati più di quindici, sedici anni. Gli occhi grandi, di un verde scuro, smerigliati, segnati da pesanti occhiaie e dal rossore probabilmente dovuto dal pianto. Le dita sottili e affusolate, tenute poggiate sulle cosce, che tremavano incessantemente nonostante l’evidente sforzo da parte sua di tenerle ferme. E nella testa le risuonano le sue parole ‘Vedete, io sono una sinestetica. Definisco odori, suoni, persone attraverso percezioni sensoriali. Nel mio caso, uso i colori.’
Fa un ultimo respiro profondo prima di parlare di nuovo.
“Anche Chris usava la sinestesia”, ammette scavando in quel doloroso passato, sempre stretta al corpo di Rick. “Come nostra nonna. Per lui io ero il rosso. Il rosso dell’alba estiva. Me lo diceva spesso, quando mi vedeva giù di morale, quando facevo i capricci. Me lo ripeteva e io mi calmavo. Mi manca sentirmelo dire... Mi sono accorta di quanto fosse bello quel suo dono solo quando non ha potuto più usarlo.”
“Beh, secondo Julie Mills io sono arancione, come il tramonto.”
Ripensa a quando glielo aveva detto il giorno prima.
 
La più grande paura di Julie era che le portassero via il fratellino. Poteva sentire ancora quella domanda rimbombargli nella testa. “Non me lo toglieranno vero? Quando lo troverete, potrà ancora vivere con me?” Domanda a cui era toccato proprio a lui rispondere dopo che Kate sembrava rimasta come pietrificata davanti a quelle parole. “Non c’è motivo per cui potrebbero separarvi. Non devi preoccuparti per questo.”
Avrebbe voluto poterla rassicurare dicendole ‘lo troveremo e tutto tornerà come prima’, ma sarebbe stato come raccontarle due bugie, una dietro l’altra. Anche lui stava ormai perdendo le speranze di ritrovarlo, e sicuramente nulla sarebbe più stato come prima.
Julie aveva annuito ringraziandolo, mormorando, poco prima di essere accompagnata da un agente nella sala break, “Sa signor Castle, lei è arancione. Arancione come il tramonto.”
 
“Vedi, sono lo ying per il tuo yang. Tu alba, io tramonto.”
E per la prima volta da quella mattina la vede sorridere, sorridere davvero, come solo lei sa fare.
“Sai”, riprende Kate dopo qualche secondo, “a volte penso che lui sia ancora vivo, da qualche parte qui a New York. Magari l’ho persino incontrato, così, per caso, e non sono stata in grado di riconoscerlo. Pensi sia possibile? Pensi che Chris possa davvero essere là fuori?”
 
E mentre quella domanda riempie di parole il silenzio del loft, in una zona periferica della vecchia Manhattan, sotto la pesante acqua scrosciante dal cielo grigio, un ragazzo, ormai uomo, cammina lento. Le mani in tasca, il cappuccio tirato sulla testa a proteggere i capelli castani. La pioggia fredda gli carezza il profilo scorrendo poi lungo il collo.
Mark è il suo nome, eppure, senza saperne il motivo, sente che non deve essere sempre stato quello. Sono anni ormai che tenta invano di ricordare, da quando quella che aveva imparato a chiamare mamma era venuta a mancare. Da quando aveva scoperto di non essere suo figlio.
Da quando avevano cominciato a riaffiorare brevi flash della sua vita passata...
Forse da qualche parte qualcuno conosce la sua vera storia.
Forse, prima o poi, anche lui la conoscerà.
 
 
  
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