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Autore: MJBlack    05/12/2013    3 recensioni
[AU!1930] [Loki!Dancer]
Non voleva mai fare l’amore – perché era questo che era diventato per me - nei pochi giorni che precedevano la prima di un suo spettacolo. Almeno non con me. Avevo accettato questa sua doppia vita: da una parte c’era il ballerino che deve farsi amare dal pubblico, in ogni modo, e dall'altra il ragazzo appassionato di libri e musica jazz. Io li amavo entrambi.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Loki, Sif, Thor
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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Personaggi: Thor, Loki; (accennati: Odino, Sif )
Rating: Arancione
Genere:, Malinconico, Romantico, Sentimentale, Triste.
Parole: +3100
Avvertimenti: Slash, AU, Incompiuta
Beta: Un grande bacio a ZiaEnne,che è stata stramente veloce questa volta (♥), e a neversaythree che è ottima a dare consigli!
Note: I nomi sono stati modificati (come sempre LOL) quindi troverete un Thor che viene chiamato Tristan, un Loki chiamato Lawrence e una Sif chiamata Silvia. 
 

Dear old Southland.

L’orchestra parte.
Il sipario si alza.
Lo spettacolo ha inizio.

Attirò subito l’attenzione di tutta la platea.
Con la sua comparsa sembrò quasi che il tempo si fosse fermato, che gli strumenti avessero rallentato il ritmo della musica per far assimilare bene la sua presenza sul palco.
Nessuno riusciva a togliergli gli occhi di dosso.
Nessuno, nemmeno io.

L’azienda per cui lavoravo era nata come nient’altro che una piccola bottega che riparava e vendeva auto, non lontano dal centro di New York. Era uno di quei negozi che non puoi fare a meno di fermarti a vedere. Il colore delle pareti era ocra e il pavimento così soffice da poter camminare a piedi nudi senza problemi. Tutto dava l’impressione di essere a casa, dando ai clienti un senso di appartenenza. Mio nonno si occupava di tutto: dal venderle al comprarle, dall’aggiustarle al rottamarle. Il locale era appartenuto a suo padre, lui aveva solo provveduto a rimetterlo a nuovo con i pochi soldi della sua eredità. Trattava tutti con rispetto e gentilezza, era famoso per non perdere mai la pazienza.
Non spese mai un soldo di tutto quello che guadagnava. Aveva grandi piani, grandi idee; ma gli servivano prima di tutto dei soldi. Nel momento in cui questi cominciarono ad essere più che sufficienti, cominciò ad assumere dipendenti. Nel 1904 nacque la “Odynson Engine Company”. Quando lui morì, tutto passò a mio padre. Quel piccolo negozietto divenne la sede principale dell’impero della nostra famiglia e perse tutto il calore familiare per cui era famoso.

Io ancora dovevo nascere ma avevo un percorso da seguire.

Ero arrivato a Londra per lavoro. Bisognava stringere un grosso affare con un’azienda inglese e mio padre mi aveva affidato il compito di chiudere il contratto nel minor tempo possibile. Avevano già pianificato tutto, lui e gli altri azionisti; io dovevo solo presentarmi alla riunione e firmare un paio di carte per ottenere qualche sedile di pelle a buon prezzo. Avevano organizzato ogni secondo del mio tempo:
Ore 18:42 arrivo a Londra.
Ore 19:16 liberazione camera al Chelsea Cloisters London.
Ore 20:07 appuntamento con Silvia Anderson nella hall dell’albergo.

Silvia era una di quelle assistenti dal viso angelico che ti affibbiano per farti fare un giro turistico della città. In verità l’unica cosa che volevano farti visitare era l’interno delle sue mutandine; decisamente un ottimo modo per cercare di addolcire le trattative.
Conoscevo questo trucco così bene da rattristarmene.
Conoscevo questo trucco così bene da sfruttarlo a mio favore.

Cenammo nella sala privata del ristorante dell’hotel. Le sedie erano color verde prato, creavano un contrasto con i colori chiari delle pareti e delle tovaglie. Lei parlava di affari, intervallando una percentuale di vendite ad uno sbattere di ciglia, io mi limitavo a bere dalla coppa di champagne, che mi occupavo a mantenere sempre piena.
Se avessi voluto parlare d’affari e comportarmi da perfetto Odynson tutta la serata, avrei preferito uscire con uno dei miei dipendenti, almeno avrei potuto scegliere io dove andare. Sperai che la serata prendesse una piega divertente, intrigante; magari come seconda tappa del nostro tour avrei trovato un casinò.

Mi portò invece al Royal Opera House.
Davano Giselle.
E lui era Albrecht.

Si muoveva facendo sfigurare tutti gli altri ballerini sulla scena.
Si muoveva e tutti in platea trattenevano il fiato.
Si muoveva e non riuscivo a smettere di fissarlo incantato.

Pelle perfetta, candida, nivea. Creava un magnifico contrasto con il colore scuro dei capelli.
Aveva due smeraldi al posto degli occhi, sempre aperti e fissi verso il pubblico.
Non guardava nessuno.
Non guardava nessuno, eppure guardava tutti.

Era perfetto.

Un fiocco di neve che danzava nell’aria.

Gli feci recapitare un mazzo di rose bianche nel camerino.
Bianche come il costume che indossava.
Bianche come il colore della sua pelle.
Bianche come la neve.

Tornai lì la sera dopo, e quella dopo ancora. Scoprii il suo nome senza troppa difficoltà. Lawrence Launter. Sognavo questo nome ogni notte. Gli avevo dato vita nei sogni, gli davo una voce. Non lo avevo mai sentito emettere un fiato, parlava solo tramite la danza. Quando tutta la compagnia ringraziava gli spettatori, si limitava ad inchinarsi o ad osservare i fiori che gli portavano direttamente sul palco, quasi sempre mandati da me. Non lo avevo mai visto al di fuori di quel teatro, ma era come se lo conoscessi da una vita. Avevo capito che adorava le gardenie, odiava i giacinti. Gliene avevo fatti recapitare un mazzo sul palco e lui aveva storto il naso. La sera seguente mandai dei gigli, per farmi perdonare.

Era stato facile sgattaiolare dietro le quinte. La porta d’ingresso, poco sorvegliata, dava direttamente su due corridoi, uno che andava verso sinistra e uno diritto: il primo portava al palco, il secondo era un agglomerato di archi aperti che conducevano direttamente a vani riempiti solo di costumi di scena e specchi per il trucco. C’era solo un camerino privato, con su scritto il nome della prima ballerina della compagnia. Era un via vai continuo di persone: ballerini, addetti alla scena, assistenti si alternavano per entrare o uscire da una stanza all’altra.

« Mi scusi, cerco Lawrence Launter »

Un uomo mi lanciò un’occhiata incuriosita che io ricambiai. Aveva dei simpatici baffoni rossi, come i suoi capelli. Ma la cosa che mi attirò di più fu la sua mole: aveva una vita larga quanto quella di un piccolo ippopotamo. Mi chiesi se riuscisse a passare per tutte le entrate presenti. Spostò gli occhi da me alla cartellina che aveva in mano, facendo cenno a qualcuno nella stanza di fronte a lui.

« Cosa vuoi Vernon? »

Uscì in corridoio non indossando nulla, se non un accappatoio verde aperto sul davanti che ricadeva leggero sui fianchi. La sua voce era come l’avevo sempre immaginata, calda e sottile. Il tipo di voce con cui incantare una folla o una sola persona, un’amante da deliziare durante le notti. Sperai di poter ascoltare parole di questo genere pronunciate da lui, ancora e ancora, fino a che la sua voce non sarebbe stata così provata da non riuscire a ripeterle a nessun altro.
Si avvicinò a quell’uomo e, ascoltato le sue parole sussurrategli direttamente nell’orecchio, ridacchiò e si girò nella mia direzione. Non guardava un pubblico in quel momento, io ero l’unico oggetto del suo sguardo. Io, io e nessun altro.

Prese i fiori dalle mie mani, sfiorando le mie dita, e si presentò. Lo disse con tanta semplicità e raffinatezza da far sembrare che fosse stato un nobile a parlare. Quando gli dissi il mio nome sussurrò un estasiato “Oh, Tristan!”. Mi sentii quasi mancare un battito nel sentire come lo pronunciava, era perfetto. Mi chiese se fosse stato un disturbo aspettarlo fuori, in modo da rendersi presentabile; io gli risposi che, per i miei gusti, sarebbe potuto uscire anche “vestito” in quel modo. Mi sorrise e si voltò, verso il vano dove prima si trovava.
Non si fece aspettare. Indossava un trench coat nero, che lo copriva quasi completamente, rendendo impossibile vedere cosa portasse al di sotto, con una sciarpa di seta verde intorno al collo. Lo osservavo avvicinarsi a me fumando, appoggiato alla Cadillac nera noleggiata al mio arrivo in città; mi prese la stecca dalle mani e se la portò alle labbra, soffiandomi, poi, in faccia una leggera nuvola di fumo. Fu quello il momento in cui decisi che avrei fatto di tutto per convincerlo a farmi passare la notte nel suo letto.

Passeggiamo per Hyde Park quasi tutta la serata; l’aveva scelta lui come meta. Sembrava il posto perfetto per lui, tutto quel verde non faceva altro che ricordare il perfetto verde silvia dei suoi occhi. Mi descrisse le case della città in cui era nato e cresciuto con suo padre, in Galles. Mi parlò del padre, che ostinatamente cercava di farlo rinunciare a ballare e della madre, che aveva cercato in tutti i modi di appoggiare le sue scelte. Mi raccontò di quando questa passione era nata, di quando i suoi sogni si erano trasformati in realtà. Lo lasciai parlare, non lo interrompevo mai. Era stato muto per così tanto tempo che ora volevo solo sentire la sua voce.

Poi ci fermammo sotto un gazebo e Lawrence cominciò a danzare per me.

C’era della musica in lontananza. Musica jazz, musica che non si sarebbe mai sognato di ascoltare se non fosse stato incantato dal magnifico spettacolo che aveva davanti. Si era tolto delicatamente il cappotto dalle spalle, lasciandolo ricadere per terra ed ora i suoi movimenti erano molto più fluidi. Non era quel tipo di ballo da teatro in cui mostra solo la purezza del mondo; erano mosse sciolte, libere da alcun tipo di vincoli. Mosse che seducevano e sembravano intimarmi di prenderlo in quel preciso istante, lì tra le verdi foglie che avrebbero celato la nostra vista e la musica che avrebbe sovrastato i nostri gemiti.

« La nostra compagnia condivide tutto. Il sesso fa parte del tutto »

Nell’immaginarlo a letto con un altro ragazzo con cui, oltretutto, aveva in comune l’amore per il palco, si insinuò nella mia mente una forma violenta di rabbia. Anzi no, non era rabbia. Ciò che provavo andava oltre la violenta irritazione. Si dice che la gelosia sia un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre; solo in quel momento, mentre guardavo quegli splendidi occhi così verdi brillare solo per me, capii cosa intendesse davvero Shakespeare.

La musica cessò, ma per noi fu come se i musicisti non avessero mai smesso di suonare.

Riuscire a trattenere i miei impulsi in quel parco.
Riuscire ad uscire da tutto quel verde e tornare tra il grigio dei palazzi.
Riuscire a non toccarlo troppo nel taxi.
Riuscire a non premerlo sulla porta appena entrati in casa sua.

Viveva in un bilocale nel cuore di Covent Garden: pavimenti in parquet, mobili di legno su misura e grandi finestre che permettevano di godere della splendida vista sui vivaci edifici del quartiere. Una parete del soggiorno era occupata da libreria che raggiungeva il soffitto, per arrivare ai volumi posti più in alto si doveva usare una scala di legno, posta proprio di lato ad essa. Il resto della stanza era composto da un vecchio divano e quattro sedie intorno ad un tavolino rotondo, sul quale era posto, in un vaso, una delle composizioni che avevo mandato poche sere prima, quello di gardenie, per precisare.

Sulle pareti erano appesi diversi quadri raffiguranti strabilianti rappresentazioni astratte, in cui colori caldi e freddi si scontravano creando fantastici contrasti, aumentando la bellezza dell’opera. Un piccolo caminetto, inserito nel muro, dava alla casa un tocco più caldo, più familiare. Su quella che doveva essere la scrivania, era posizionata una quantità esorbitante di tomi, e un grammofono tenuto con la massima cura.
Tavolo, pavimento ed ogni altra superficie piana a disposizione, era stata occupata da altri libri o confezioni di dischi in vinile, vuote o piene.

Prima di stenderlo sul letto, fui costretto a buttare qualche volume a terra. Tuttavia, ben presto altri, nascosti sotto le lenzuola, presero il loro posto. Chinò la testa indietro, offrendomi la candida pelle del collo.
Quel pallore così niveo mi faceva impazzire.
Avevo voglia di lambirla.
Morderla fino a vedere del rosso sgorgare e creare contrasti con quel pallore.
Lasciare segni così indelebili che si sarebbe ricordato di me ogni volta che si sarebbe guardato.

Feci scivolare la mano sul suo ventre piatto, prima di tirargli i pantaloni con un grugnito frustrato. I preliminari durarono poco: lui miagolava nel mio orecchio, io avevo il cavallo dei pantaloni troppo tirato per permettermi di rallentare.
Era mio.
Mi apparteneva.
Era sotto di me, con il mio sesso che si faceva spazio tra le sue carni.
Più spingevo, più lo sentivo stringere le gambe intorno a me. Più le stringeva intorno a me, più io volevo spingermi violentemente in lui.

Era quello il mio posto: tra le sue cosce, a gemere il suo nome e fargli urlare, a sua volta, il mio.
 
*
 
 
L'amore? Non si cerca. Non si aspetta. Non si sceglie. Nasce per caso, quando meno te lo aspetti. Arriva e basta. E lo può fare nel giorno più triste, nel periodo più buio, o addirittura quando hai perso le speranze e non lo desideri più. Lui è così, non avvisa mai.
Fabio Volo.
 
Non ho mai capito quando, precisamente, mi sono innamorato di lui. Forse quando abbiamo attraversato Londra, durante una nevicata, e non potevo fare a meno di pensare che sarebbe stato bellissimo, nudo e glabro, nella bianca neve; forse quando mi ha lasciato assistere alle prove del suo nuovo spettacolo, e mi ritrovai a scoparlo contro il muro di uno dei pochi camerini ancora vuoti. Forse, invece, mi sono innamorato di lui subito, durante quel suo primo spettacolo.

Pian piano, settimana dopo settimana, cominciai a frequentare il suo appartamento così spesso che la mia stanza in hotel era diventata inutile. Dormivo da lui, mangiavo da lui, uscivo con lui.
Non amava la confusione creata dalle grandi folle, preferiva la pace delle mura in cui viveva. Nonostante questo, dopo ogni spettacolo usciva con la sua compagnia, passando la notte nei locali della Londra notturna. Alcune volte mi chiedeva di andare con lui, altre non ne faceva parola, così restavo a casa ad aspettare il suo ritorno. Spesso, alla luce del mattino, vedevo segni sul suo corpo che non avevo lasciato io. In quei momenti, sentivo dentro di me nascere sentimenti che non avevo mai provato prima con nessun altro, tranne lui.

Non voleva mai fare l’amore – perché era questo che era diventato per me - nei pochi giorni che precedevano la prima di un suo spettacolo. Almeno non con me. Avevo accettato questa sua doppia vita: da una parte c’era il ballerino che deve farsi amare dal pubblico, in ogni modo, e dall’altra il ragazzo appassionato di libri e musica jazz. Io li amavo entrambi.

In casa aveva tutte le opere di Baudelaire; in molti casi aveva perfino due copie: una da collezione, una dalle pagine gialle che sfogliava sempre. Se era di buon umore, ripeteva ad alta voce i suoi passi preferiti, molte volte senza nemmeno farci caso. Sapeva suonare il piano, ma nel suo appartamento non c’era lo spazio per metterne uno. Gli chiesi come mai non si trasferisse. Indicò una finestra, più grande delle altre, al centro del soggiorno. Per la prima volta misi a fuoco ciò che si vedeva al di fuori di essa, e realizzai che quella vista valeva più di un qualsiasi appartamento, più grande, lontano da lì.
Quando credeva che non lo guardassi, metteva un disco di Armstrong sul grammofono e cucinava, ancheggiando, a tempo con la musica. Appena tornavo a portata di vista, smetteva immediatamente.

Non ebbi mai il tempo di scoprire la ragione di questo suo comportamento, così schivo, nei miei confronti.
 
*
 
Ricevetti una chiamata, quella chiamata. Mentre la voce parlava, mi sentii mancare il terreno sotto i piedi. Abbandonai completamente il progetto - che portavo avanti da un anno, ormai - per potermi recare da lui il più in fretta possibile. Niente era più importante, se non avessi avuto lui con cui condividerlo, neanche i soldi. Ma lui, lì, non mi voleva.

Le bianche pareti erano uguali in tutti locali all’interno dell’edificio. I pazienti erano pochi, molti invece i visitatori. Io ero tra questi ultimi. La gamba era stata rotta in cinque punti: con la terapia, forse avrebbe ripreso a camminare, ma con la danza aveva chiuso. Per sempre.
Si era distratto. Quella sua maniacale concentrazione era venuta a mancare per un istante. Un unico, breve istante ma era stato sufficiente per distruggerlo completamente. Non fisicamente, ma psicologicamente.

Era diventato un usignolo a cui avevano negato la possibilità di creare dolci melodie: vuoto, senza uno scopo.

Riuscii ad entrare nella sua camera una sola volta: era steso nel letto, con la sua ala spezzata tenuta ferma ed immobile.
Spostava lo sguardo ogni volta che cercavo i suoi occhi; non voleva vedermi. Mi chiese chi mi avesse informato e la ragione per cui fossi tornato. Sapeva che non avrei lasciato Londra così facilmente, che non avrei lasciato lui così facilmente. Prima di partire gli avevo ricordato che sarei stato via solo poche settimane, al massimo. Gli proposi perfino di venire con me ma, naturalmente, lui rifiutò.

Dopo quell’incontro, disse all’infermiera di non farmi entrare nella sua stanza.
Disse all’infermiera di non informarmi su cosa gli era accaduto.
Ero intenzionato ed essere un qualcosa di più di uno qualunque, nella sua vita, quindi la resa non era un’opzione tollerabile.
Ma, in quel momento, l’unica cosa che volevo fare era aiutarlo. Andare avanti, passo dopo passo, insieme. Assistere quando la sua ala si sarebbe aggiustata e lui sarebbe tornato a volare. Non avrebbe più accarezzato l’aria come faceva prima, i dottori dissero che era impossibile, ma era già qualcosa.

Non mi restava altro che aspettare.
Aspettare che cambiasse idea.
Aspettare che avesse intenzione di farmi entrare, finalmente, nella sua vita.
Aspettavo lui.
Aspettavo qualunque cosa.

Quando lo rividi, erano passati quasi due anni.

Avevo deciso di restare a Londra. Avevo acquistato un bilocale vicino al centro. Non era molto grande, ma aveva tutto quello di cui avevo bisogno. Con tutti i miei risparmi, avrei potuto restare in albergo fino alla fine dei miei giorni, ma non era quello che volevo. Vivere in un hotel significava che, prima o poi, sarei dovuto partire; io intendevo rimanere, invece. Aprii un negozietto che si occupava della vendita di libri e dischi e cercavo di tirare avanti senza usare i soldi tenuti sul mio conto in banca. Avevo un gran da fare, tra carte da revisionare e le lettere da evitare di mio padre. Ero andato avanti. Nello stesso tempo, tuttavia, ero rimasto fermo e lui continuava ad occupare ogni mio pensiero.

Si presentò al negozio: completo elegante, scarpe di vernice, la stessa sciarpa verde del nostro primo incontro. Non sarebbe sembrato essere cambiato di una virgola, se non fosse stato per gli occhi. Un tempo erano pervasi dalla voglia di conoscere, di sapere, di leggere dentro di te i tuoi più reconditi segreti; ora erano due pupille vuote. Non avevo idea di come mi avesse trovato.

« Hai qualcosa di Baudelaire? »

Mille pensieri mi passarono per la mente: mi aveva cercato o era stato solo caso, fato o destino, quello di rivederci? Aveva pensato a me, in tutto questo tempo, come io avevo avuto la sua figura impressa nella mia mente? Volevo essere l’unica cosa a cui pensava appena sveglio, e l’ultimo pensiero prima di andare a dormire. Volevo essere tutto ciò che lui era per me, se non anche di più.

Quella sera, chiusi per la prima volta il negozio in anticipo.
   
 
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