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Autore: umavez    08/12/2013    3 recensioni
Alle amiche, quando ricordavano tutte insieme i tempi passati – che per loro arrivavano a malapena a tre anni addietro -, propinava come scusa che era piccola quando l’amore l’aveva colta, e l’aveva colta totalmente impreparata, e che a quindici anni ci si innamora un po’ di tutto e di tutti, e che, comunque, ogni singola ragazza di Konoha attraversava la fase “Sasuke”, e che quindi non aveva nessun motivo per vergognarsene.
(…)
Del resto Sasuke, nonostante i due anni trascorsi, continuava a significare tutto per lei. Ma quella volta si era premurata di nasconderlo bene a tutti. Anche a lui.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ino Yamanaka, Naruto Uzumaki, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha, Un po' tutti | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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È il mio primo tentativo di scrivere una storia più lunga di un solo capitolo, e non so davvero come andrà a finire. È una cosa abbastanza leggere anche se non del tutto spensieratissima e fluff, ma la mia mente partoriva solo idee macabre, e allora ho deciso di voltare pagina!  Naturalmente parla di adolescenti e non, ma non di scorribande scolastiche e astiosi rapporti tra gang e anzi, nonostante parli di adolescenti, direi che la scuola sarà ben poco presente come ambiente. E inoltre beh, il titolo non è farina del mio sacco, ma di Noam Chomsky, e credo che il senso del titolo si capirà solo verso gli ultimi capitoli. O forse non si capirà perché non sarò stata in grado di farlo capire, ma almeno ci ho provato T.T
Buona lettura a tutti, spero possa piacere!
 
 
 
 
Verdi idee senza colore dormono furiosamente
 
 
 
 
Al CaldoCaffè  
 
 
 
 
 
Appena entrati, si apriva immediatamente un grande spazio. Al primo passo ci si rendeva conto che il pavimento era in parquet, e che l’ambiente era caldo e confortevole. Un quasi invisibile scalino sulla sinistra, degno avversario di qualsiasi cameriere o membro dello staff e il più noto antagonista di chiunque si volesse indebitamente intrufolare dietro al bancone, portava, appunto, dietro al bancone, che percorreva in lunghezza tutto il lato sinistro della stanza, e alla fine di questo vi era, esattamente come appena entrati, un altro invisibile scalino con la stessa identica funzione, anche lui stato chiamato con appellativi poco cordiali nel corso degli anni. Il banco in questione era in semplice legno levigato e rivestito, e  dietro questo si poteva vedere un numero imprecisato di scaffali e mensole, anche questi rigorosamente in legno, su cui si mostravano un numero altrettanto imprecisato di bottiglie.
Dando un’occhiata alle prime file, un osservatore esperto avrebbe potuto notare qualità di whisky e whiskey, di scotch e burbon, di prelibatissimi cognac e di costosissimi champagne. Salendo di scaffalatura, poi, si passava alle grappe, agli alcolici più forti, e ad una serie di bottiglie trasparenti che, a meno che non ci si fosse soffermati a leggere attentamente ogni etichetta, sarebbero risultati irriconoscibili.
Nel bel mezzo di questa diramazione di scaffali, era stato lasciato un posto libero per un orologio abbastanza grande da poter essere letto senza difficoltà da tutti coloro che erano seduti nella sala. All’inizio del bancone era presente la cassa, e spostandosi più avanti si arrivava poi alla postazione della birra. C’erano cinque ottime birre artigianali da poter prendere alla spina, un’ottima spillatrice, e un odore di malto ragguardevole. Poi, per finire, una serie di sgabelli.

Tutto questo se, appena entrati, si guardava a sinistra.

Andando invece sulla destra, si apriva nel muro una grande finestra, che si affacciava sulla strada principale, proprio come la porta d’entrata del locale. Poi, arrivati all’angolo della sala, che corrispondeva all’esterno all’angolo della strada, si iniziava a percorrere l’altro lato lungo della stanza, seguiti a vista da un’altra immensa scaffalatura, questa volta interamente ricoperta di vini. Erano bottiglie diverse, vigneti diversi, tipologie diverse, ma il vino era tutto ciò che dava a quell’immensa sala un’atmosfera meravigliosa, e le bottiglie continuavano quasi fino al soffitto, le scaffalature interrotte di tanto in tanto da un quadro in esposizione, o da una lavagna con su scritti i nomi dei vini che quel giorno sarebbe stato possibile ordinare anche solo al bicchiere o non in bottiglia, oppure da specchi con attaccate su vecchie etichette d’un vino di un’ottima annata o di una birreria che aveva fatto la storia.
Sempre sul lato destro, in fondo alla sala, un quadrato di pavimento rialzato di qualche scalino era solito fungere da palco per qualche gruppo musicale che veniva ad esibirsi nel locale. Nel mezzo, tavolini e sedie creavano quel suggestivo labirinto contraddistinto dai diversi tipi di seggiole presenti, dalle diverse forme dei tavoli, e dai diversi colori del legno.
Sempre sul fondo della sala, accanto al piccolo palcoscenico improvvisato, degli scalini sembravano portare ad un ipotetico piano superiore. In realtà, salito qualche gradino, si apriva un pianerottolo con due porte, una a destra e una a sinistra, ospitanti rispettivamente il bagno delle donne e per le persone invalide, e quello degli uomini. Proseguendo a salire si arrivava, dopo nemmeno una decina di gradini, ad un’ampia uscita sulla sinistra che portava ad uno spaziosissimo cortile interno, mentre sulla destra, continuando a salire, si sarebbe arrivati alla cucina.
 
Questo era il luogo in cui si trovava Sakura in quel momento. E nonostante fosse il compleanno di Ino, nonostante l’immensa sala interna fosse stata riservata solo per loro, nonostante ci fosse un gruppo – scelto da Ino – a suonare musica live appositamente per loro, Sakura trovava tutto estremamente noioso.
 
Diede un’occhiata dietro al bancone, intravedendo il proprietario del locale indaffaratissimo. Genma, a guardarlo bene, sembrava essere l’abitudine in persona. Indossava sempre magliette uguali, con l’unica differenza del colore, e se un giorno non si fosse accorta della montagna di stuzzicadenti abbandonati sul piano interno del bancone, spesso invisibile al cliente, avrebbe pensato che quello che aveva in bocca fosse sempre lo stesso, mai cambiato e miracolosamente mai consumatosi. Anche la bandana intorno alla testa, legata in modo bizzarro e tale da lasciare il segno del nodo in piena fronte a fine giornata, non variava mai molto. I golf, addirittura, si suddividevano solamente in quelli con il collo a V, e quelli a girocollo.
 
Questo era Genma: l’abitudine. E lui stesso era colui che l’odiava più di tutti, l’abitudine e la routine. Per quello aveva deciso, anni addietro, di aprire quel locale. A Konoha, detto mano sul cuore, non c’era mai stato molto da fare, e il suo sito naturale che la confinava in mezzo alla campagna non aiutava di certo l’evasione. E Genma, fin da piccolo, non aveva fatto altro che abituarsi alle abitudini di Konoha, a quella cittadina modestamente grande dove nessuno aveva mai pensato di fare nulla di nuovo, perché a dirla tutta, ancora detto con mano sul cuore, a Konoha si viveva benissimo così come era.
 
Era un luogo meraviglioso, tranquillo, con l’essenziale e con poco o niente di bizzarro, ma con tantissime persone, e con tanta, tantissima cordialità. Era il paese ospitante del mondo intero a detta di molti, e chi ci metteva piede una volta non poteva fare a meno di tornarci una seconda, e chi, coraggioso, tornava una terza, magari per provare il panino venduto dal banchetto in piazza il sabato mattina, o magari per gustarsi, nel bel mezzo della calura estiva, la brezza che arrivava sulla montagna poco lontana, non poteva fare a meno di chiedersi se non fosse stato il caso di comprarsi una casa.
 
Ma le generazioni cambiano in fretta, e la società, i servizi e gli svaghi gli corrono dietro. La stessa generazione di Genma aveva cominciato a sentir dolore ai piedi nel calzare quotidianamente le scarpe strette della cittadina che si crogiola nel sogno di essere un paesotto di campagna, e i locali e le attività avevano cominciato a rinnovarsi.
 
Senza ostruzionismo da parte degli abitanti, senza lamentele su quanto i giovani d’oggi non si sappiano accontentare di quello che hanno, senza sentire per strada “Ai tempi miei c’era la guerra, non pensavamo ai bar”.
 
Perché Konoha, oltre ad essere speciale di per sé, rendeva speciali le persone.
 
Genma, Raido, un’intera generazione di ragazzi aveva cambiato Konoha, l’aveva modernizzata, l’aveva resa adattabile a tutte le occasioni, tanto da poter ospitare qualsiasi tipo di evento, e quel locale era il frutto migliore caduto dall’albero: perché nessuno meglio di chi odia la quotidianità, sa come romperla.
 
Nonostante la scelta del nome fosse stata messa in discussione parecchie volte e cambiata altrettante volte – Genma puntava su “Bar-collo”, mentre Raido e il resto dello staff per un più sobrio CaldoCaffè (nome che fu infine scelto come unico e irreversibile dopo una rissa tra Genma e Raido che aveva portato ad un braccio rotto e ad un paio di costole incrinate), il locale aveva riscosso un discreto successo, e Sakura in primis ne era entusiasta. Aveva passato così tante di quelle serate nel locale di Genma, amico di suo zio, che avrebbe potuto chiudere gli occhi e descriverlo nei minimi dettagli, sapendosi anche orientare tra i tavoli a luci spente.
 
Eppure – Sakura sospirò pesantemente, ripensandoci – la serata era davvero tra le più noiose a cui avesse mai assistito. Era il ventitre settembre, la scuola era ricominciata da un paio di settimane, e faceva troppo freddo rispetto alla media stagionale. Per quello si trovavano nell’immensa sala interna, quella sera, e non nel cortile.

Ino aveva cominciato a ridere dalle sette della sera, e nonostante non fosse stata sempre attenta e vigile, Sakura era quasi certa di non averla mai sentita smettere fino a quel momento, se non a piccoli tratti per poter mandare giù un boccone veloce e un sorso di vino.
 
Del resto il locale non era dei più giovanili di Konoha, e più che un bar da shottini, drink e luci stroboscopiche, prediletti dalla maggior parte degli adolescenti, quello sembrava essere più un wine bar da degustazioni, e forse, pensò Sakura, non era la location più adatta per un compleanno. Ma dare la colpa al locale non funzionava, almeno non per lei. Per lei era come una seconda casa, con un divano vecchio ma ancora comodo su cui dormire e una coperta e un cuscino lasciati lì accanto pronti per l’uso.
 
Forse, ipotesi per lei più probabile, era colpa delle tantissime persone che vi vagavano in quel momento.
 
Le conoscenze di Ino comprendevano, mediamente, quasi tutte le persone tra i sedici e i ventiquattro anni di età, e una buona, buonissima parte di quelle immense conoscenze, avevano deciso di riunirsi, quel giorno, sotto espresso e irrifiutabile invito di Ino, in quel locale, nel suo locale.
Non che fossero l’antipatia fatta persona, no. E anzi, doveva ammettere che, a differenza delle sue aspettative, tutti sembravano andare d’accordo con tutti, e il numero di gruppi isolati e di musi lunghi – compreso il suo – era ridotto a cifre ad un numero, e di gran lunga sotto il numero sette. E nonostante non fossero tutti sopportabilissimi, il vociare allegro di tutti loro con la musica in sottofondo avrebbe dovuto rilassarla, più che infastidirla.
 
La risata di Ino tornò teatrale alle suo orecchie coprendo le ultime parole cantate dal gruppo prima di un accordo finale di chitarra. Applaudì insieme a tutti gli altri, Ino posò il drink sul tavolo e applaudì fiocamente anche lei, mantenendo incredibilmente intatta la conversazione che stava mandando avanti con Tenten da almeno venti minuti.
 
Si alzò, e zigzagando tra un tavolo e l’altro arrivò al buffet, disposto su una serie di tavolini attaccati gli uni agli altri proprio davanti al bancone. Finito l’applauso, le luci divennero più soffuse, partì musica più leggera, e il vociare si abbassò. Sakura, senza farsi troppi problemi, si attardò davanti ad ogni singolo piatto di prelibatezze della madre di Ino, roba da far invidia al più  costoso dei catering, riempiendo il suo piatto abbondantemente.
 
Scivolò di nuovo tra le sedie e si sedette accanto ad Ino. Lei la guardò di sfuggita e le sorrise. Sakura sorrise con già mezza bruschetta al pomodoro in bocca, e quel gesto le costò troppa della sua attenzione: quando la metà dei pomodorini rimasti sulla fetta di pane caddero rovinosamente, fece appena in tempo ad allargare le gambe e ad evitare che i pantaloni bianchi messi per l’occasione si impataccassero irrimediabilmente.
 
Gettò un occhio attento sul resto degli invitati. Quando incrociò il viso divertito di Hinata che a tratti le lanciava occhiate strampalate capì di essere stata vista, ma non se ne curò. Sorrise di rimando posando la bruschetta sul tavolo, ormai vuota, e alzandosi cautamente dalla sedia, tenendo le mani unte di olio a debita distanza da se stessa, biascicò:
 
« Ino, bado in bagno. »
 
Ino si voltò per guardarla, forse per la prima volta da un’ora, e notando il pastrocchio che aveva combinato assunse una delle tante espressioni con cui era solita comunicarle il disappunto. L’alcool che aveva ingerito comunque la rese meno spaventosa del solito.
 
« Sei un impiastro. » si sentì dire mentre già si avviava tra i tavoli per raggiungere le scale. Salì pochi gradini fino alla porta del bagno delle donne, sulla destra, facendo finta che le ballerine appena comprate per l’occasione non le avessero fatto male nemmeno un po’, e con il gomito tirò giù la maniglia, evitando di insozzare di olio anche tutto ciò che la circondava. Aveva finito di masticare il boccone che aveva in bocca appena in tempo per salutare altre due ragazze presenti nel bagno. Anche loro non delle più simpatiche, ma quella sera stranamente apprezzabili. Uscirono subito dopo la sua comparsa, e Sakura si ritrovò da sola nel bagno.
 
Se avesse dovuto fare una critica a quel luogo, sicuramente non avrebbe potuto farla sul bagno, che sembrava mantenere gli standard di pulizia dell’hotel a cinque stelle più quotato del mondo. Tutto questo perché ra risaputo che Raido fosse germofobico e maniaco delle pulizie, e se proprio c’era una cosa che non sopportava, era lo scarso igiene nei bagni dei bar.
 
Per questo il bagno la mise ancor più a disagio.
Passò le mani sotto il rubinetto dell’acqua, e questa iniziò a scorrere automaticamente. Le lasciò a mollo per un bel po’, perché sua mamma le aveva ben insegnato che l’olio non si manda di certo via con una sciacquata lapidaria. Prese il sapone dalla bocchetta del distributore, stranamente sempre piena, e sfregò con forza le mani l’una contro l’altra insinuandosi tra tutte le dita. Alzò lo sguardo sullo specchio di fronte a lei, ricontrollando se la base del suo trucco fosse ancora in piedi o sembrasse solo una tela in via di scioglimento.
 
Tolse le mani da sotto il rubinetto e l’acqua si fermò. Le sgrullò preventivamente sopra al lavandino, avviandosi poi verso la carta per asciugarsele. Senza neanche pensarci, dopo aver bagnato il primo foglio di carta, lo accartocciò e lo lanciò verso il secchio, vicino alla porta d’ingresso al bagno che aveva lasciato sbadatamente aperta.
 
Quando vide la palla di carta rotolare verso il pianerottolo senza essersi avvicinata neanche lontanamente al cesto dell’immondizia, Sakura sentì il cuore battere forte, e capì che quello sarebbe potuto essere il suo mondo meraviglioso di evasione. Avrebbe passato il resto della serata, che sperava essere agli sgoccioli, a cercare di centrare il secchio, e con tutta la carta che c’era a disposizione, non si sarebbe dovuta preoccupare di come trascorrere le successive due ore.
 
Si voltò girando di poco su se stessa e prese un altro foglio di carta assorbente. Senza nemmeno usarla per finirsi di asciugare le mani, la accartocciò in quattro e quattr’otto e tentò nuovamente il lancio. Anche questo, come Sakura aveva previsto, fallì.
 
 
 
°°°
 
 
 
Fu dopo averne lanciati una decina, e dopo aver centrato il cesto solamente una volta, che decise di provare la maggiore delle sue prove, e chiuse gli occhi. Sorrise inspiegabilmente, e si schiarì la gola, sempre inspiegabilmente. Lanciò la pallina di carta. Il rumore che fece sul pavimento fu inconfondibile. Poi, qualcun altro schiarì la gola a sua volta.
 
Sakura aprì gli occhi e posò entrambe le mani sulla sua bocca dopo aver emesso un gemito un po’ sorpreso e dopo che i sensi di colpa ebbero cominciato ad invaderle il corpo per il macello che aveva combinato.
 
Sasuke, comunque, non sembrava arrabbiato.
Era lì, in piedi, sulla soglia della porta, circondato da cartacce, qualcuna delle quali lo superavano e finivano nel pianerottolo dietro di lui. Aveva indosso, come al solito, una maglietta verde petrolio con su scritto, sulla sinistra, il nome del locale, e intorno alla vita era stretto il solito grembiule con due grandi tasche davanti, in cui i camerieri erano soliti mettere cavatappi, monete per dare il resto ai clienti, e una miriade di altre cose che Sakura non sapeva.
 
« Avrei raccolto tutto! » disse alzando un po’ la voce quando lo vide sparire giù per le scale, per ricomparire dopo qualche secondo con una scopa e con un raccogli immondizia. Sakura arrossì fino alle punte dei piedi, già rosse per il dolore delle scarpe, e temette che anche i pantaloni bianchi, visto tutto il suo eccessivo calore corporeo, sarebbero potuti diventare rossi.
 
« Per informazione, » le disse mentre già aveva cominciato a raccogliere le prime cartacce, « l’ultima lanciata era questa qui. » concluse, toccandola col piede prima di raccoglierla e buttarla nel secchio in mezzo a tutte le altre.
 
Sakura ridacchiò, perché il tono di Sasuke era allegro e sfinito tanto quanto il suo.
 
« Scusami, non mi ero accorta che eri qui. » disse poggiandosi al muro con una spalla e incrociando le gambe, mentre un dito si avvicinava alla bocca per rendere l’unghia accessibile a tutta la sua fila di denti divoratori.
 
« Ho notato. » le rispose, posando poi la scopa e il raccogli immondizia vicino al secchio e appoggiandosi come poco prima aveva fatto lei stessa, allo stipite della porta con una spalla. Sasuke portò una mano al voltò e strofinò stancamente le dita sugli occhi, sospirando di fatica.
 
« Non era mia intenzione disturbarti, » continuò senza guardarla, ancora con le dita che cercavano in un modo o nell’altro di rivitalizzare lo sguardo « ma hai lasciato la porta aperta, e poi ti sei messa a gettare cose per terra. »
 
« Ma no! Non stavo buttando cose per terra! » Arrossì ancor di più allo sguardo ovvio di Sasuke. Si schiarì nuovamente la gola e si staccò dalla parete, scrociando le gambe, ancor più nervosa di prima e con due unghie di meno.
 
« Solo che...»
« Ti annoi? » fu la soluzione che lui le propose, concludendo la sua frase lasciata a metà. Sakura fece un check up della serata, ripercorrendo passo passo tutte le tappe, e sentendo l’ennesimo applauso venire dalla sala interna, sentì l’esaurimento salire dal livello sopportabile fino ad uno a malapena tollerabile.
 
« Già. » ammise, gettando occhiate distratte alle sue scarpe nuove e cominciando a dondolare infantilmente a destra e a sinistra come un bambino piccolo.
 
« Ino organizza le cose sempre troppo in grande. » Sakura annuisce, e sospira pesantemente.
« E non è neanche il suo diciottesimo. »
 
Sasuke sorride un poco prima di riassumere il volto impassibile ma stranamente cordiale che aveva, volto che però si distorse un po’ nell’esasperazione quando sentirono provenire dalla sala interna non il solito applauso, ma il rumore inconfondibile di vetri rotti.
 
Sasuke riacciuffò la scopa e il raccogli immondizia, le fece un cenno lapidario con la testa, e se ne tornò di là.
 
 
 
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Nonostante il gran baccano proveniente dalla sala interna, Sakura se ne stava ancora chiusa in bagno, stavolta con la porta accuratamente chiusa, e si crogiolava nel pensiero che qualsiasi disastro fosse capitato là fuori, quella sarebbe potuta essere l’occasione giusta per i proprietari di cacciare i più ubriachi dal locale, o almeno l’opportunità per un più che giusto ammonimento e invito a porre fine alla serata. Guardò istintivamente il polso sinistro ricordandosi solo dopo che Ino le aveva vietato categoricamente di indossare l’orologio, perché a parer suo, quel pezzo di seconda mano di ingranaggio non si intonava con il suo outfit, e anche perché “ci sono i cellulari per quello, chi porta più gli orologi al giorno d’oggi?”.
 
Si decise ad uscirne solo per dare un’occhiata all’ora. Aprì cautamente la porta e scese lentamente le scale che la separavano dalla sala sforzandosi di non poggiare con troppa forza il piede sul gradino, altrimenti le ballerine non avrebbero mancato di ricordarle che erano lì, in attesa, ad aspettare un suo passo pesante per ferire ulteriormente i suoi piedi martoriati.
 
Arrivata infine sul luogo del misfatto, Naruto la travolse.
 
Naruto Uzumaki, altro cameriere: il ragazzo più disastroso del mondo. Sakura avrebbe potuto scommettere tutto il suo patrimonio non ancora ereditato che Naruto c’entrasse qualcosa nello sfortunato evento successo poc’anzi, direttamente o indirettamente. Stava camminando all’indietro in quel momento mentre parlava con qualcuno dietro al bancone, e non si era accorto di lei, ferma sullo stipite delle scale.
 
« Sakura-chan! » le disse quando si voltò.
 
« Naruto-baka. » rispose con tono drammatico. « Sai cosa è poggiato sugli scalini, in questo momento? » aggiunse qualche secondo dopo. Naruto si portò una mano tra i capelli e sorrise.
« Il mio dannatissimo sedere, Naruto-baka! Perché non stai un po’ più attento a dove metti i- ahi! »
« Suvvia, Sakura-chan, » rispose lui. Le aveva preso una mano e l’aveva rialzata di colpo con un movimento che non sembrava essergli costato fatica. « Non ti ci mettere anche tu per favore, è già successo un macello! Guarda. »
 
Naruto le indicò il bancone del bar e tutta la zona limitrofa, che comprendeva gran parte del banchetto di cibo e di pavimento.
 
« Kiba ha aizzato il suo cane pulcioso contro di me, e quella bestiaccia è saltata sul bancone e ha fatto cadere almeno una decina di bicchieri. Metà sono sul pavimento, » glielo indicò con un dito, « e gli altri sono finiti nel cibo. »
 
Sakura si sentì mancare.
 
« Il cibo? Il cibo è pieno di frammenti di vetro? » portò le mani sulle guance ad assumere una posa melodrammatica. « Perché proprio sul cibo?! »
 
Naruto le diede due pacche sulla spalla, e si dileguò su per le scale. Rimase immobile qualche secondo ad osservare la marea di bruschette che non avrebbe più potuto mangiare. Poi Sasuke entrò nel suo campo visivo, anche lui diretto su per le scale dietro di lei. Si spostò un poco di lato per farlo passare  e lui la guardò.
 
Lo seguì con gli occhi e notò il modo estremamente innaturale con cui si fermò di colpo davanti alla porta del bagno delle donne e controllò, allungando il collo frettolosamente, che non fosse saltato fuori dal nulla un altro cimitero di carta assorbente sul pavimento.
 
Sakura si schiaffò una mano in faccia dalla vergogna e tornò a sedersi.
 
 
 
 
°°°
 
 
 
Sasuke Uchiha era suo amico da almeno dieci anni, così come Naruto Uzumaki e come molte altre persone che in quel momento si trovavano nella sala, a digiuno, e in attesa del dolce. Si erano conosciuti quando lei aveva sette anni, appena entrata alle scuole elementari, e Naruto e Sasuke frequentavano la terza.
 
Il caso aveva fatto sì che Sasuke, appena trasferitosi da una città vicina, fosse capitato di casa accanto a Naruto e che i due, dopo l’odio profondo che ancora balzava fuori in rare occasioni, fossero diventati amici inseparabili, o come le piaceva dire quando li prendeva in giro, pappa e ciccia.
 
Per quanto fosse ormai suo amico, Sakura era sempre stata certa che se non fosse stato per l’esuberante carattere tipico di ogni Uzumaki sulla terra, lei e Sasuke non si sarebbero rivolti parola se non per salutarsi la mattina e per congedarsi la sera, e magari per le solite frasi di cordialità.
 
Ma con il passare degli anni e con la vicinanza forzata, era accaduto che tutti e tre, in mezzo a quel gruppo, non fossero poi così distanti dall’essere un trio.
 
Sakura sorrise mentre giocherellava con lo stuzzicadenti con il grasso del prosciutto che aveva scartato e lasciato sul piatto, e arrossì di colpo quando ripensò alla cotta stratosferica che due anni prima aveva avuto per Sasuke Uchiha.
 
Perché Sasuke Uchiha era bellissimo.
Come già detto, più grande di due anni, aveva appena iniziato l’università, e frequentava come studente part-time perché, a differenza delle più rosee aspettative di vita, i genitori di lui erano morti quando aveva nove anni, cioè quando si era trasferito a Konoha. Così dall’età di sedici anni si era instaurato in quel bar come cameriere, o coma barman, a seconda delle occasioni, e senza dar fastidio ad anima viva o senza causare troppo scalpore negli animi degli abitanti e soprattutto delle abitanti di Konoha, se ne stava per i fatti suoi, a fare quello che poteva, e cavandosela egregiamente.
 
E la cotta era stata una conseguenza abbastanza prevedibile del suo aspetto fisico. Aveva capelli nerissimi che facevano pendant con gli occhi, e che stonavano in maniera meravigliosa con il candore della pelle, e se vogliamo trovare qualità su qualità, Sakura poteva giurare di aver capito perché esistesse il detto “altezza, metà bellezza” solo dopo averlo visto.
 
Proprio come il locale, trovare difetti fisici a Sasuke era come cercare un ago nascosto in uno di tutti i pagliai del mondo, mentre trovarne di caratteriali risultava un po’ più semplice. Visto l’umore non sempre dei migliori e la tendenza a volersene stare spesso da solo o in compagnia, sì, ma in silenzio, Sasuke sarebbe potuto sembrare uno di quei vecchietti burberi seduti per tutto il giorno all’angolo della strada che si divertono ad abbassare il giornale che stanno leggendo violentemente e all’improvviso, proprio mentre qualcuno sta passando, per mettergli paura.
 
Ma non lo era in realtà, e Sakura, e soprattutto Naruto, lo sapevano bene. Era la persona più semplice che conoscevano, tranquilla e, al contrario di tutta quella impassibilità, stranamente sensibile, come strane erano tutte le sue manifestazioni di affetto, che solitamente erano mal interpretabili.
 
Ma quel suo carattere particolare aveva incrementato la cotta, invece che diminuirla.
 
Alle amiche, quando ricordavano tutte insieme i tempi passati – che per loro arrivavano a malapena a tre anni addietro -, propinava come scusa che era piccola quando l’amore l’aveva colta, e l’aveva colta totalmente impreparata, e che a quindici anni ci si innamora un po’ di tutto e di tutti, e che, comunque, ogni singola ragazza di Konoha attraversava la fase “Sasuke”, e che quindi non aveva nessun motivo per vergognarsene.

Anche Sasuke stesso, del resto, ne era al corrente. E come riuscire a nasconderglielo, se solo con uno sguardo riusciva a mandarla in tilt e con un solo saluto le toglieva la facoltà della parola?

La sua cotta era sempre stata di dominio pubblico, ma si era convinta a rinunciare quando, dopo aver tentato invano per mesi approcci imbarazzati e inesperti, non era riuscita ad ottenere nulla. Per non parlare della prova schiacciante del disinteresse dell’altro che le amiche, in ogni conversazione e ad ogni occasione buona, si premuravano di ricordarle: “Sakura-chan, Sas’ke sa benissimo cosa provi per lui, e se tu gli interessassi veramente avrebbe già fatto il primo passo, visto che ha anche la consapevolezza di andare a colpo sicuro!”.

Lasciò cadere lo stuzzicadenti nel piatto e diede un’occhiata ai suoi pantaloni bianchi, ancora miracolosamente lindi ed intatti. Strinse le mani intorno alle cosce e iniziò a far tamburellare le dita al ritmo del cuore, che aveva preso a battere velocemente.
Del resto Sasuke, nonostante i due anni trascorsi, continuava a significare tutto per lei. Ma quella volta si era premurata di nasconderlo bene a tutti. Anche a lui.
 
  
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