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Autore: Trick    10/12/2013    2 recensioni
La nonna dice che è meglio avere paura ogni tanto che non averne mai, ma io non lo conoscevo, questo bambino, così mi ha raccontato la sua storia.
Si chiamava Umberto.

Primavera 1944: Umberto ha otto anni e una bicicletta con cui andare a prendere le uova da rivendere in bottega. Fa freddo, c'è la nebbia, ma lui non ha paura.
Più o meno.
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Note dell'Autrice: Questa storia riposava nei meandri del mio hard-disk da un po' troppo tempo. Non è una storia di particolari pretese, dico sul serio. Forse è una storia piena di errori storici e castronerie fuori misura di cui mi scuso in anticipo, ma avevo iniziato a scriverla poco dopo il terremoto in Emilia e non avevo più voglia di guardarla prendere la polvere. La storia che ho cercato di raccontare non è una vera storia – nel senso che nessuno mi ha mai raccontato che qualcosa del genere sia davvero accaduto. È accaduto di simile, quello sì, ma non questo.
Un'annotazione un pelo più tecnica: non so parlare il fiorentino, quindi mi scuso per il tentativo (e ringrazio Emme per l'aiuto). E tutta la storia è... è un po' provincialotta per mia scelta. Volevo fare un esperimento.
(:


*


A nessuno in particolare,
perché le storie di paese sono per tutti,
non per qualcuno e basta.


Né la nebbia né la paura





Mi chiamo Samuele e ho otto anni.
Quest'anno è venuto il terremoto. Io non lo sapevo cos'è era il terremoto, ma poi il mio papà me l'ha spiegato. È una cosa che fa la terra quando s'arrabbia, e poi inizia a scuotere e ti butta giù tutte le cose che tieni in casa, e tu devi correre forte forte, sennò ti cade tutto addosso.
Il mio amico Francesco ha detto che può cadere anche il tetto e se non sei svelto ti casca addosso e muori, ma io non ci credo mica che la mia casa viene giù e muoio. Quando è venuto il terremoto, e io non sapevo cos'era perché ero ancora piccolo e andavo in seconda elementare, il mio papà s'era messo a urlare e mi ha tirato giù dal letto e siamo corsi veloci veloci fuori, e c'era la mamma che urlava più di papà e la mia sorellina, che si chiama Ilaria ed è molto piccolina, le piangeva in braccio. Io pensavo che voleva il ciuccio, ma il ciuccio non c'era.
Il terremoto faceva molto rumore, come quando passa il treno e il nonno mi porta a vederlo alla stazione. Lui faceva il ferroviere quando non era ancora il mio nonno, e dice che il treno è sempre bello. A me piace il treno, ma il terremoto non mi è piaciuto, perché si muoveva tutto e non c'era più la luce, e a me il buio non piace, anche se la mamma dice che sono grande e il buio non fa niente, perché è solo buio.
Però lì al buio urlavano tutti, e a me non è piaciuto, perché ho preso paura e mi sono messo a urlare anche io, ma non lo dico ai miei amici perché non voglio che mi prendono in giro. C'erano le cose che venivano giù, e papà mi teneva stretto stretto mentre scendevamo dalle scale, e la mamma gli diceva che non vedeva e che se cadeva c'era Ilaria in braccio, e lei è piccola e si fa male.
Io mi sa che piangevo, e a un certo punto stavo cadendo, ma c'era papà che mi ha tenuto in piedi e siamo andati fuori, ma c'era buio anche fuori e io sentivo la gente che urlava e Ilaria piangeva, e mi sa che piangeva pure la mamma, ma non lo so, perché non ci vedevo niente.
Papà non piangeva, però mi stringeva la mano fortissimo fortissimo.
Il nonno è uscito con la luce dell'emergenza, quella che tiene sempre nel cassetto quando non c'è corrente, e c'era la nonna con la vestaglia che è andata subito dalla mamma. Diceva che era il terremoto, e io non sapevo cos'era il terremoto, ma adesso so che mi sta antipatico perché ci ha fatto piangere tutti.
Poi il mio papà ha detto che dovevamo andare in piazza, perché in piazza non c'erano cose che ti cadevano addosso, ma io gliel'ho detto che avevo paura e non ci volevo andare, e lui ha detto che era già finito. Allora sono andato anch'io, perché il mio papà queste cose le sa, solo che non era mica finito davvero. La nonna ha detto che il terremoto ha fatto il furbo ed è venuto due volte, solo che eravamo già fuori e c'era la signora Angelina con noi, ma parlava in fretta e aveva Oscar che abbaiava.
Io ho avuto paura lo stesso.
In piazza c'era la luce e tanta gente, solo che poi ho visto che non c'era più il nostro castello, e c'era tutta la piazza piena di polvere.
A me piaceva il castello. Aveva l'orologio, ma poi è caduto sotto le pietre e adesso non ce l'abbiamo più. Siamo rimasti fuori fino a quando è venuto il sole, e io non ero mai stato fuori quando arrivava il sole, e quello mi è piaciuto, perché io non lo sapevo che veniva su piano piano. Ci siamo seduti sul marciapiede e abbiamo aspettato tanto ma proprio tanto, e la gente veniva, veniva e veniva, e secondo me non ci capiva molto nessuno di tutta quelle gente che veniva.
Io avevo ancora paura che tornava il terremoto e la nonna ha detto che conosceva un altro bambino che diceva di non avere paura, ma alla fine ce l'aveva e ha stretto i denti fin quando non gli è passata.
La nonna dice che è meglio avere paura ogni tanto che non averne mai, ma io non lo conoscevo, questo bambino, così mi ha raccontato la sua storia.
Si chiamava Umberto.


*


Umberto aveva otto anni. Era nato nel '36 e sapeva far bene di conto perché era figlio di bottegai, quindi sulla sua età non sbagliava mica: ne aveva già otto, di anni, e ne avrebbe fatti nove di lì a un paio di mesi, il giorno di San Michele Arcangelo. Aveva le gambe secche e lunghe come le spighe di grano e il naso aquilino di suo zio Quinto, che era quarto di sette figli e non si capiva per quale motivo l'avessero chiamato Quinto. Umberto si era convinto che sua nonna, a differenza di lui, non fosse per niente brava a far di conto e avesse sbagliato a contare i figli.
In realtà, lo zio Quarto se l'era preso il fiume quando non aveva nemmeno sei anni. Era stato tirato a fondo da un mulinello mentre sguazzava un po' troppo distante dalle sponde e non lo avevano ripescato che a sera inoltrata. Quando Umberto andava al fiume con i suoi fratelli più piccoli, suo padre gli raccontava di aver visto un bambino andare giù, un sacco di tempo prima che venissi al mondo te, ma non gli aveva mai detto che quel poverino fosse lo zio Quarto che la nonna s'era scordata di contare.
Quel lunedì di aprile faceva uno di quei freddi che avrebbe piegato le zampe di un toro, ma suo padre diceva che la gente della piazza doveva mangiare anche col freddo, soprattutto col freddo, e le uova dal signor Vittorio andavano prese e portate in bottega prima delle otto.
Nonostante il clima e la nebbia mattutina, Umberto era felice che fosse lunedì, così Franco avrebbe potuto accompagnarlo. Suo padre faceva il barbiere, e lo sapevano tutti che i barbieri al lunedì tenevano la serranda abbassata. Una volta aveva domandato a Franco perché il lunedì e non il giovedì o il sabato, e l'amico si era limitato a scrollare vagamente le spalle.
«Non so mica» gli aveva risposto. «E sì che crescono pure di lunedì, di questo son proprio certo».
Franco aveva la sua stessa età, ma la punta dei suoi capelli stopposi sfiorava appena il mento di Umberto. Era piccolo e tozzo, con le gambe corte e rotondette e un sacco di acciacchi sparsi per il corpo. Aveva l'asma, aveva la bronchite, aveva male alle articolazioni... a sentir sua madre, pareva avesse avuto perfino la peste. E a forza di sentirla, in effetti, se ne era convinto perfino lui.
La vecchia bicicletta del padre di Umberto era talmente alta che arrivava al pelo ai pedali. Se avesse dovuto pedalare Franco, non si sarebbero nemmeno mossi dalla bottega: l'amico, invece, si arrampicava sul sellino di cuoio e teneva il sedere indietro, in modo che di tanto in tanto Umberto potesse accomodarsi sulla punta. Era una fatica boia, e non lo avrebbe mai negato, ma pur di avere compagnia per il tragitto Umberto sudava volentieri.
Quel giorno, con quel freddo che avrebbe ammazzato i tori e pure i figli di barbieri e bottegai, Franco era uscito di casa tutto avvolto nelle lane di sue nonne da sembrare un pupazzo. Umberto aveva solo le braghe corte con i calzettoni tirati su, perché sua madre diceva che cresceva troppo in fretta e non si faceva mai in tempo a comprargli roba nuova.
«Ma sei scemo?» aveva detto a Franco. «C'è freddo, ma non siamo mica a Natale».
Mentre si aggrappava al cannone della bicicletta e si issava sul sellino, Franco boccheggiò in risposta che c'aveva l'asma, la bronchite, il male alle articolazioni e la peste. Umberto aveva riso e aveva dato una forte prima pedalata. Le mani paffute di Franco si erano strette ai suoi fianchi magri, e la gigantesca bicicletta aveva iniziato a sfrecciare lungo le vie del paese.
La fattoria di Vittorio stava a soli quattro chilometri – e con quella nebbia sarebbero potuti essere perfino due, uno, cento metri... sarebbero stati comunque troppi. Il cestello di vimini attaccato al manubrio sobbalzava a ogni buca della strada, e quando si avviarono verso la campagna sterrata, Umberto temette di vederselo saltar in terra di colpo.
«Senti, Berto...» gli disse d'un tratto Franco. «Ma te non c'hai paura?».
«Di che?».
«Eh, mia mamma ha detto che hanno visto i tedeschi di là dal fiume. Han detto che stanno lì, adesso, e che facciamo se li becchiamo?».
Umberto rimase zitto. Anche i suoi genitori parlottavano spesso di questo o quel tizio che aveva visto i tedeschi, ma era sempre gente che li aveva solo visti, e chissà dove, poi, e si era detto che finché li avesse solo visti gente che non conosceva non ci sarebbero stati problemi.
Lui non ne aveva mai visto uno. Aveva visto i fascisti, quelli sì, e qualche anno prima venivano pure a prendersi da mangiare da suo padre, ma erano sempre stati gentili e non era mai successo niente. Suo padre si era fatto la tessera, e pure il padre di Franco. Non avevano mica fatto come quel matto di Giovanni che faceva il postino, che s'era rifiutato e ne aveva prese di santa ragione. L'aveva fatta anche lui, alla fine, e Umberto aveva sentito suo padre dire a sua madre che tanto valeva iscriversi subito al Partito. Non aveva voglia di prendersi le botte, lui.
«A me i fascisti non hanno mai fatto niente».
«Ma hanno detto che i tedeschi non sono fascisti. Dicono che urlano sempre, sai? È colpa della loro lingua».
«Non può essere una lingua che urla» lo contraddisse Umberto. «Se urlano, è perché gli va di urlare, mica perché parlano solo urlando».
«E come fai a saperlo, te?».
«Ne ho visto uno» mentì d'istinto. «Un sacco di tempo fa. Non urlava e non faceva paura. Era come un fascista, solo... più tedesco».
«Non è vero che l'hai visto».
«Ti dico di sì. E non faceva paura, quindi smettila di chiedermi se c'ho paura pure io, perché tanto non ce l'ho. E poi, se anche incontriamo i tedeschi, che ci fanno? Prendono solo gli ebrei, e noi non siamo mica ebrei. Te sei forse ebreo? Non mi pare».
«Dario era ebreo».
Umberto fece una smorfia irritata. Dario faceva Asti, di cognome, e si diceva che i cognomi di città portavano sfortuna. Non sapeva nemmeno dove fosse, Asti, perché in geografia aveva sempre preso dei brutti voti, ma gli bastava tenere a mente che portava sfortuna. A Dario aveva portato un sacco di sfortuna. Dicevano che erano venuti a prenderli di notte, ma lo dicevano tutti molto piano, e dopo pochi giorni della famiglia di Dario non volle parlare più nessuno. Era simpatico, Dario, ed era il più bravo della loro classe. Lui sì che sapeva dov'era Asti.
«Mio padre dice che prendono anche i partigiani» continuò a lamentarsi Franco con voce afflitta. «A me fanno paura pure loro».
Umberto frenò di colpo. Ci mancò poco che Franco non gli rovinasse addosso e non perdesse l'equilibrio. Si girò per rivolgere all'amico un'occhiata severa e alzò l'indice a mo' di monito.
«Lo sai che quella parola non va detta. Ce l'hanno detto tutti di non dirla mai. La gente poi parla e pensa che conosci anche te dei partigiani, e allora sì, vengono i fascisti a chiederti se li conosci davvero, e te menti finché ti pare, Franco, ma tanto ormai l'hai detta, la parola. Fa' come dice mio padre: te tagli i capelli e se loro ti chiedono di tagliarglieli, glieli tagli bene e gli fai lo sconto, così se ne vanno contenti. E se vengono da me e mi comprano il prosciutto, io glielo taglio sottile sottile e sto attento a farlo bene».
«Ma noi per chi dobbiamo tifare?».
«Ma che domande stupide che fai sempre» lo liquidò Umberto, riprendendo a pedalare di buona lena. «A volte sei proprio stupido. Non è mica la finale dei Mondiali di pallone, questa».
Rimasero in silenzio per parecchi minuti. Di tanto in tanto, Franco tossicchiava e si lamentava per il male al sedere, ma Umberto lo ignorava e pedalava più forte. Superarono i filari di pere che costeggiavano la strada che portava all'argine del fiume e presto s'inizio a vedere il profilo della stalla di Vittorio in lontananza.
«Dai che siamo arrivati» gli fece forza nell'ultimo tratto.
Stavano quasi per raggiungere l'aia del cortile, quando Franco prese a dimenarsi di colpo. Umberto strinse i freni di colpo e la ruota posteriore scivolò sulla ghiaia. Perse il controllo della bicicletta e caddero entrambi a terra. Fu una caduta terribile: Umberto riuscì ad attutire un poco la botta allungando le mani sui sassi, ma la gamba gli rimase incastrata in mezzo al cannone. Cacciò un alto strillo acuto per il male. Franco era cascato all'indietro ed era atterrato malamente sul sedere, rimanendo a bocconi nella polvere con il respiro mozzato.
«Accidenti a te, Franco» sbottò rabbioso Umberto, mentre sfilava la gamba e la muoveva con attenzione per controllare che non si fosse fatto troppo male. Si era sbucciato il ginocchio sinistro e aveva rovinato i pantaloni. «Mia madre mi ammazza. Franco, ti vuoi alzare?».
Ma l'amico restava a terra, con il petto che si alzava e si abbassa rapidamente e le mani appoggiate sulla pancia grassottella.
«Mi sono fatto male...».
«Te lo faccio vedere appena ti tiri in piedi, il male» incalzò mentre s'alzava. «Ti sei messo a muoverti come--».
«Sta' giù!» lo avvisò in fretta, rigirandosi a fatica su un fianco e sollevando la testa verso la casa alla loro sinistra. «Ma non hai visto la camionetta? Proprio là, ferma davanti alla stalla».
Umberto seguì lo sguardo dell'amico. Parcheggiata di fianco al Landini verde, c'era un furgoncino scoperchiato tutto nero e lucido. Una delle galline di Vittorio era riuscita a saltare sul sedile anteriore. Il ragazzino aggrottò pensieroso la fronte e si passò una mano fra i capelli.
«Dici che se l'è comprato lui?» domandò incuriosito. «E che se ne fa di una roba così?».
Franco gli si affiancò e scrutò con le palpebre strette la strana vettura. Sulla sua faccia rotonda si fece largo uno spaventato lampo di comprensione. Afferrò con durezza il braccio sudato di Umberto e prese a strattonarlo.
«Sono i tedeschi! Sono i tedeschi!». Si sbrigò a rialzare la bicicletta e guardò l'amico, che era rimasto immobile sul ciglio della strada. «Umberto, andiamocene!».
Ma Umberto arrangiò un sogghigno sarcastico e incrociò le braccia.
«Non fare lo scemo. Che ci fanno i tedeschi da Vittorio?».
«E che ne so, io? Ma quella non è mica una roba da campagna! Per favore, Berto, torniamo in paese...».
«Devo prendere le uova per mio padre».
«Ma ci sono i tedeschi!».
«Non c'è nessun...».
Dalle porte aperte della stalla si levarono delle grida improvvise che fecero sobbalzare entrambi i bambini. Era un vociare caotico e distante, ma urlavano talmente forte che a Umberto quasi pareva di essere a un passo da loro. Nel cortile comparvero due uomini con un'uniforme scura e con un grosso fucile appeso alla schiena. E fu lì, tutto d'un tratto, che Umberto capì d'aver paura di loro.
«Raus! Schnell!» gridava il più alto di loro. «Wo ist das Schwein?».
«B-Berto...».
Umberto afferrò la bicicletta e la trascinò fino al bordo del fosso, facendo attenzione a nascondere bene il sellino fra l'erba alta. Si stese fra le sterpaglie e allungò il collo verso il cortile della casa, mentre Franco affondava il volto fra le braccia e iniziava a piagnucolare.
«Piantala, cretino» gli disse. «Non fare rumore».
Uno dei due ufficiali stava spintonando un uomo attraverso il portone del fienile. Sebbene la nebbia del mattino fosse ancora bassa e il sole non fosse sorto del tutto, Umberto riuscì a distinguere il profilo segaligno del signor Vittorio. Teneva le mani sulle nuca e gridava quanto i tedeschi.
«Non capisco quello che mi dite! Io non la so, la vostra maledetta lingua! Non la so!».
Gli sferrarono un calcio rabbioso con la punta di ferro degli stivali e Vittorio crollò a faccia in giù sulla ghiaia, gemendo di dolore.
«Du hast was ausgelassen!».
Un altro grido, un altro calcio, Vittorio rantolò di nuovo.
«N-non lo so... n-non so c-cosa volete...».
«Wo ist der verflucht Partisan!?».
Sul volto pallido del signor Vittorio comparve una luce di comprensione. Sollevò debole una mano e fece loro un cenno nervoso.
«P-partigiani...?» ripeté a mo' di conferma. «P-partigiani, ho capito. Qui non ci sono, non ci sono... nein partigiani, nein partigiani...».
Il tedesco più alto lo colpì alla nuca e fece atterrare la suola dello scarpone sulla punta delle dita dell'uomo a terra. I due bambini trattennero il fiato, incapaci di muoversi. I soldati si scambiarono uno sguardo d'intesa, poi uno dei due – quello che non aveva colpito il signor Vittorio, quello che Umberto riteneva il più gentile – rientrò nel fienile. Lo sentirono gridare nella sua lingua aspra, e pochi secondi più tardi lo videro spingere una donna che si dimenava terrorizzata, con i capelli scuri davanti al volto e la voce alterata dal pianto.
«È sua moglie» commentò Umberto. «Quella che alla domenica canta per la Messa».
A Umberto la signora Maria era sempre piaciuta. Era una donnina mite e modesta, con il capo sempre coperto e un sorriso gentile sulle labbra sottili. Non c'era stata una sola volta in cui fosse andato a prendere le uova senza tornarsene indietro con una raviola di marmellata in tasca. Era proprio brava, la signora Maria, a far le raviole. Quando arrivava il freddo ci metteva dentro pure le castagne. Ma a lui piaceva pure il signor Vittorio, anche se lo prendeva in giro perché era alto e secco come un fuso e sembrava un airone dei canali.
Umberto si abbassò di più fra l'erba lunga del canale e voltò il capo verso l'amico.
«Speriamo se ne vadano in fretta».
Franco lo guardò spaventato attraverso uno spiraglio fra le dita paffute.
«D-dovevamo andar via prima...».
«Sì, così vedevano pure noi...» lo ammonì duramente. «Dobbiamo solo aspettare che vanno via e poi ce ne torniamo in paes--».
Lo sparo di fucile che spezzò il silenzio della campagna gli mozzò il fiato in gola. Franco cacciò uno strillo e affondò la faccia nel terriccio umido, ma le sue grida vennero coperte da un secondo sparo. Umberto restò immobile, con gli occhi sgranati, i polmoni gelidi e il cuore impazzito. Il boato aveva sollevato uno stormo di tortore. Non si sentiva che il loro tipico coo-croo-coo.
I due bambini rimasero fermi.
Coo-croo-coo.
Franco si coprì le orecchie con le mani. Umberto conficcò le unghie nel terreno e serrò gli occhi.
Coo-croo-coo.
Rimasero nel fosso per un tempo che parve a entrambi infinito. Ormai erano scivolati talmente in basso – loro e la bicicletta – che Umberto riusciva a sentire l'acqua fredda del canale entrargli nelle scarpe e gonfiargli i calzettoni di lana. Fu attraversato da un brivido di gelo e ritrasse d'istinto le gambe. Poi udirono il roco rombare di un motore, il suono delle ruote che grattavano la ghiaia, e la camionetta nera uscì dal cortile e si avviò verso il viale sterrato, lontano dalla casa, dal fosso, dalle tortorine che facevano ancora coo-croo-coo... Umberto trovò il coraggio di alzare la testa solo dopo diversi minuti.
«Berto, sta' qui!».
«Non possiamo mica stare qui fino a Natale!».
«No, no, no... io sto qui, non vengo, non ci vengo là fuori, sto qua...».
Si lasciò alle spalle l'acuto frignare dell'amico e si arrampicò lungo la sponda, artigliandosi alle erbe più lunghe e puntellandosi nel fango con le scarpe. Pensò che i suoi pantaloni dovevano essere diventati uno straccio, a quel punto. Ora sì che sua madre lo avrebbe accoppato. Quando riuscì a rimettersi in piedi, si passò una mano sulla faccia per levarsi un po' di terra dalla fronte e scrutò in direzione del cortile.
Il signor Vittorio e sua moglie – quella carina, quella che a lui piaceva tanto, quella brava con le raviole di castagne – erano ancora lì, stesi sulla ghiaia, fermi. Umberto si mordicchiò il labbro inferiore.
«F-forse... forse hanno bisogno di aiuto».
Non ci credeva molto, ma crederci era già qualcosa. Si chinò sul fosso per afferrare il braccio di Franco e lo costrinse a seguirlo. Dovette tirare con tutte le proprie forze per convincere l'amico ad alzarsi. L'unico punto della sua faccia senza terriccio era la scia bianca lasciata dalle sue lacrime.
«Andiamo a casa...».
«E se hanno bisogno?».
Franco scosse cocciuto la testa.
«No, non ce l'hanno... gli hanno sparato».
Umberto lo ignorò e si avviò verso il cortile a passi lenti. Si avvicinò con cautela, posando un piede dopo l'altro e guardandosi intorno alla ricerca di altre divise nere, altre camionette, altra gente che parlava strano e teneva i fucili sulla schiena. C'erano solo un paio di galline che sbattevano nervose le ali.
Riconobbe il grosso cagnone di Vittorio accucciato davanti alla porta di casa e aspettò che gli corresse incontro come sempre. Il cane non si mosse, così Umberto portò due dita alla bocca e fischiò. Il cane continuò a non muoversi e al bambino tornò il brivido di qualche minuto prima lungo la schiena.
Erano rimaste solo le tortorine e il loro coo-croo-coo e le galline con le ali che frusciavano.
Si accorse dei rigagnoli rossicci che scorrevano fra i sassi del cortili solo quando fu a qualche metro dal signor Vittorio. Avevano sparato eccome, quei due tedeschi, ed era strano realizzarlo solo in quell'istante.
Non aveva l'audacia di avvicinarsi oltre.
«S-signor Vittorio?».
L'uomo era fermo quanto lo era il suo cane. Umberto sentì il disperato bisogno di piangere, di scappare, di pigliare la dannata bicicletta lasciata nel fosso e pedalare fino a casa, da sua madre, a farsi sgridare per i pantaloni rotti e sporchi...
«B-Berto...».
Umberto sobbalzò e si girò di colpo. Franco si tormentava le mani e non faceva che tirare in su con il naso.
«B-Berto, andiamo via».
L'altro ragazzino annuì, ma anziché voltare le spalle al fienile continuò a camminare. Si tenne a distanza dalla donna, perché con la coda dell'occhio aveva notato che le mancava mezza faccia – era sempre stata una faccia graziosa, quella della signora Maria, e Dio solo sapeva come facesse Umberto a non vomitarle accanto, ora che non ce l'aveva più.
«Berto!» lo chiamò ancora Franco. «Ti prego!».
Qualcosa nell'ombra del fienile si mosse all'improvviso e Umberto saltò indietro, spaventato, con la bocca aperta in un grido senza suono e le mani e i piedi e tutto il resto che tremavano troppo.
«C-chi c'è là?» domandò con forza, abbassando la voce nella speranza di sembrare più grande – più adulto, meno spaventato. «Chi sei?».
«Chi c'è dove?» pigolò Franco, aggrappandosi al suo braccio e strattonandolo con decisione. «B-Berto, chi c'è?».
La risposta che si levò da dentro il fienile arrivò loro come ovattata, ma l'uomo che uscì dall'ombra era fin troppo vero. Alto e magro, aveva un faccione tondo e un occhio fasciato, e si muoveva a stenti appoggiato alla parete di legno.
«Ma siete dei bimbetti» disse loro in un soffio. Poi vide i due corpi stesi sulla ghiaia e chinò mortificato il capo. «O se'r mondo 'ndasse come deve... porelli, pure questi».
Franco e Umberto si guardarono in tralice. Lo sconosciuto non sembrava armato, ma aveva una parlata strana che nessuno dei due aveva mai sentito.
«Io lo so cosa sei, te» proruppe con improvviso impeto Umberto, incrociando le braccia al petto con una smorfia stizzita. «Te sei un partigiano. Gli hanno sparato per colpa tua».
L'uomo si lasciò scivolare su una cassetta di legno abbandonata fuori dal fienile con un gemito di dolore, intrecciò fra loro le dita e gli rivolse un'occhiata mesta.
«Eh, già. Mi chiamo Ferruccio. Vengo da un paesello che si chiama Fucecchio, vicin'a Firenze. E te che mi pari sape' tutto, lo sai in dove ll'è Firenze?».
Umberto dovette scuotere la testa, perché in geografia era sempre stato un gran asino – e non sapeva né dove fosse Firenze, né Fucecchio né Asti né che fine avessero fatto Dario Asti e tutti i suoi parenti. Ma sapeva dov'erano in quel momento, nel cortile di Vittorio e della Maria morti, con Franco che gli tremava a fianco e quel tizio che parlava strano davanti. Non gli piaceva nemmeno un po', stare lì.
«Sta un po' più di giù di qua» gli spiegò Ferruccio da Fucecchio, ma l'unica cosa alla quale Umberto riuscì a pensare fu quanto stupido fosse quel nome.
«E perché sei venuto qui?».
«Perché è qui che ci stanno tutti i mi 'ompagni. Di là dal fiume».
«Ma sei qui, non dall'altra parte».
«M'hanno 'olpito la scorsa settimana e m'hanno portato da loro». Indicò brevemente i due corpi a terra e scrollò la spalla. «Non l'avevo mai visti. Ma Cecco diceva che erano de' nostri, che non era la prima volta ch' aiutavano uno di noi...». Calciò un sacco con un moto rabbioso. «O che bastardi, i tedeschi».
Si sollevò in piedi, un po' storto e traballante, tenendo una mano premuta su un fianco. Franco si nascose dietro le spalle dell'amico. Ferruccio lo guardò e arrangiò un sorriso gentile.
«O bischero, 'un ti sparo mica».
Poi rise. Era una risata strampalata quanto il suo modo di parlare e la sua faccia tonda e il suo nome, bassa e roca, cupa. Strideva nel silenzio come il suono dei vetri che si rompono, e a Umberto parve tutto fuorché una risata serena.
«Vittorio mi aveva detto che c'era un ponticello per anda' di là» continuò Ferruccio. «Mi sapete di' a quanti chilometri? Devo anda' via in fretta».
Umberto arricciò il naso.
«No, non te lo dico. Questi sono morti perché c'eri tu. Non è giusto».
Sul volto pallido dello straniero calò un'ombra cattiva.
«Sono stati i nazisti, bambino. È questo che non è giusto».
Il ragazzino non era intenzionato a demordere.
«Mio padre ha detto che chi aiuta i partigiani finisce male».
Ferruccio schioccò la lingua.
«E allora il tu babbo sopravviverà alla guerra. Te non lo so. Te mi pari uno che c'ha voglia di ficcare il naso nella roba degli altri».
«Ero qui per le uova. Dovevo portarle in bottega».
«Piglia 'ste uova e va' a casa in fretta, te e l'amico tuo. E non dire che m'hai visto, non dite quello che avete visto, sennò finite nei guai».
Franco emise un gemito strozzato, ma Umberto rimase impassibile.
«Dove vai?» domandò nel vedere l'uomo avviarsi verso la strada sterrata.
Venne ignorato. Ferruccio zoppicò fino al corpo della signora Maria e si chinò su di lei con aria dolente. Le voltò il capo insanguinato, sospirò affranto e le chiuse l'unico occhio rimasto. I suoi polpastrelli si macchiarono di rosso.
«Era una brava donnina... brava gente, tutt'e due. Mi spiace tanto».
«Ti ho chiesto dove vai».
«A cerca' il mio ponticello» replicò con una punta di ironia Ferruccio. «Te 'un tu me lo vo' di'... vedi che me lo trovo, a forza di camminare».
Franco e Umberto rimasero a guardarlo raggiungere a passi minuscoli lo sterrato. Una folata di vento primaverile soffiò fra i rami degli alberi e scompigliò loro i capelli.
«Quello non arriva nemmeno fino all'argine. Guarda come va tutto storto...» commentò Umberto.
«È un partigiano» mormorò titubante Franco. «Lascialo andare, così noi torniamo a casa...».
L'altro ragazzino tornò a guardare la signora Maria e ripensò con tristezza alle sue deliziose raviole. Realizzare all'improvviso che era morta – lei e Vittorio e pure il grosso cane – fece nascere nella sua testa una decina di nuovi pensieri e nuove idee e nuove constatazioni da tenere a mente. Non aveva mai visto nessuno morire. Aveva visto uno che era morto, una volta, uno zio di sua madre che era già vecchio quando lui era ancora piccolo, ma non c'era sangue, non c'era nessuno senza più la faccia. La morte era davvero una cosa tanto cattiva? Era qualcosa alla quale non aveva mai pensato davvero. Brava gente, tutt'e due, aveva detto Ferruccio. Solo che erano morti, alla fine, e Umberto era certo che fosse proprio un brutto modo di morire per due persone così brave. Guardò ancora in direzione dell'uomo che incespicava seguendo il corso del canale.
Lui, quella guerra, continuava a non capirla. Sapeva solo che doveva mettersi sotto al tavolo quando sentiva passare gli aerei e che la gente di piazza, che fosse brava o meno, doveva comunque mangiare e le uova andavano prese e portate in bottega. Non sapeva dove fosse Firenze, non sapeva un sacco di cose.
«Ehi!» gridò a Ferruccio. Non sapeva nemmeno per quale motivo lo stesse facendo, ma lo fece lo stesso. «C'è la mia bicicletta nel fosso lì vicino. Prendila te, sennò non ci arrivi mica al ponticello. E quando sei sceso nella golena del fiume, va' sempre a sinistra».
L'uomo si voltò con aria sorpresa. Umberto lo osservò cercare la bicicletta con lo sguardo, ma quando fu il momento di tirarla fuori, si piegò in due e rimase chinato con un braccio stretto al ventre.
«Eh, ma che scemo... quello dura poco pure con la mia bici» si lamentò Umberto.
Decise di colpo di correre verso di lui, con Franco alle costole come un'ombra tremolante, e insieme aiutarono Ferruccio a raddrizzare la bicicletta e a salirci sopra. L'uomo sembrava faticare parecchio ed era sempre più cereo.
«Come ti chiami?».
«Umberto».
L'uomo storse il naso.
«Come il re? Bella sfortuna».
«Meglio Umberto di Ferruccio da Finocchietto di Firenze».
Ferruccio gettò indietro il capo e scoppiò in una grassa risata. Allungò una mano per scompigliargli i capelli, ma Umberto si ritrasse con aria indignata.
«Va' via, prima che mi pento e mi riprendo la bici».
Lo guardarono ondeggiare per il primo tratto, procedendo talmente male da far credere a entrambi che sarebbe caduto subito. Ma Ferruccio non cadde, continuò a pedalare nella foschia fino a quando non ne fu completamente avvolto, e di lui si sentì solo un quieto trillare di campanello in lontananza.
«Perché gli hai dato la tua bici?».
«Non lo so».
«Ma ora ci tocca andare a piedi».
Umberto scrollò le spalle.
«Te c'hai l'asma, l'artrite, la peste...» ribatté. «Ma stai comunque bene. Sai chi è che sta male? Quei due là».
Franco rabbrividì.
Camminarono fianco a fianco con le mani affondate nelle tasche e il viso basso. Nessuno dei due disse più nulla lungo tutta la via del ritorno. Di tanto in tanto, Franco mormorava qualcosa nel bavero della giacchetta, ma Umberto lo ignorava e affrettava il passo.
Voleva solo tornare a casa.
Trovarono una bicicletta, tempo dopo.
Molto tempo dopo, quando si seppe che la guerra era finita e che i partigiani erano arrivati fino al nord; quando sentirono dire dalla radio che avevano preso il Duce e che l'Italia era fuori dalla guerra, che gli aerei non sarebbero più passati e nessuno sarebbe più morto. Umberto aveva quasi undici anni ed era rimasto senza bicicletta da quel giorno di aprile in cui si sentì tanto matto da dare la propria a un tizio con un nome assurdo di cui non voleva saper niente.
Ma nell'estate del '45, una mattina afosa come tante altre, Umberto trovò davvero una bicicletta appoggiata davanti alla saracinesca della bottega di suo padre. Riconobbe la vernice scrostata, il campanello trillante, il cestino di vimini che non stava mai al suo posto... e aveva perfino le gomme gonfiate da poco.
   
 
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