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Autore: Ale_R    15/12/2013    0 recensioni
Due bambini e un'infanzia da ritrovare.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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C’era una volta, in un paese lontano, un bambino di nome Cele che aveva perso tutto: non aveva più i genitori e nemmeno un amico.
 
Anni prima viveva in una piccola città insieme alla famiglia e a Carlotta, sua sorella minore. Erano quelli giorni molto felici nel quale il bambino, che allora frequentava la prima elementare, sentiva dentro sé un’immensa gioia e allegrezza; la piccola villetta nella quale abitava era sempre piena di gente e di suoi piccoli compagni di classe: sembrava quasi impossibile, in un simile ambiente, sentire il vuoto interno dato dalla solitudine: ma tutto è destinato a finire.
Una sera, quando Cele era a cena da zia Maria, la piccola villetta prese fuoco consumando al suo interno la gioia, i ricordi e la vita del bambino al quale fu negato di vederne i resti; i genitori e la piccola Carlotta, che aveva da poco compiuto il primo anno di vita, erano spariti mangiati dalle fiamme lasciando il piccolo Marcello solo e ripieno di un pesante senso di colpa per aver accettato, quel giorno, di andare a mangiare dalla zia.
“Se fossi rimasto a casa” pensava spesso “sarei in Paradiso con mamma e papà”.
Ma non riusciva a finire quel pensiero che già grosse lacrime scendevano dal suo volto rosso.
Per qualche giorno rimase a casa della zia che però, vedendolo sempre muto davanti al camino, decise di mandarlo lontano, in campagna, dove avrebbe potuto vivere con i nonni e tentare di crearsi una nuova vita.
“L’aria diversa gli farà bene e distraendosi potrà sopportare più facilmente il dolore” pensava nei momenti in cui lo vedeva fissare le fiamme
Quando gli fu proposto di allontanarsi dalla città si sentì ancora più triste perché, oltre ad aver perso tutto, ora doveva anche abbandonare i luoghi in cui era stato felice, ma accettò capendo che, pur essendo ancora piccolo, rimanere lì gli avrebbe fatto solo male.
 
Il giorno della partenza Cele era immobile in stazione sapendo che, nel momento in cui il treno fosse partito, sarebbero passati anni prima che avrebbe rivisto la città.
Zia Maria gli posò una mano sulla testa come per assimilare la sofferenza: dolore troppo grande per un bambino di appena sei anni, poi si abbassò per essere al suo livello e lo guardò negli occhi tentando uno sguardo coraggioso che però si perse in quelli vuoti del nipote..
“Marcello! Marcellino mio! Lo sai vero che ti voglio bene?”
“Certo zia.”
“Desidero che ti allontani da qui perché stare con i nonni in campagna ti aiuterà. Lo sai che non voglio il tuo male? Se non fossi certa che questa scelta sia la migliore non l’avrei portata fino qui?”
“Sì zia. Anch’io ci ho pensato e ho deciso che voglio andare da nonno Mario e nonna Miriam per un po’.”
Sorridendo entrambi si dettero la mano e salirono sul mezzo: la zia lo avrebbe solo accompagnato per quell’oretta, ma poi sarebbe tornata in città.
 
Il viaggio non fu molto lungo, ma per tutta la durata Cele rimase con lo sguardo fisso fuori dal finestrino per vedere le cose passare: non aveva molta voglia di parlare dato che, anche se aveva accettato, gli faceva male lasciarsi tutto alle spalle, zia Maria nel frattempo fingeva di leggere, ma dentro sé conosceva perfettamente il combattimento interno del nipote e, ogni tanto, gli lanciava un veloce sguardo per leggere quegli occhi  riflessi nel finestrino e, ogni volta, vedeva la stessa espressione di dolore.
 
Sceso in stazione il bambino abbracciò i nonni che non vedeva da alcuni mesi e salutò la zia, unico ricordo della città.
Dopo essere arrivato alla casa dei nonni entrò nella camera da letto che sarebbe stata la sua e subito notò una cosa strana: due letti.
Il nonno entrò dietro lui con la piccola valigia che Cele si era portato dietro con i pochi ricordi della città.
“Questa era la camera di tua madre sai? Abbiamo deciso di dartela perché era quella che ti apparteneva di più.”
”Capisco.” Disse con voce tremante e leggera, come solo un bambino riesce ad averla: ”Perché due letti?”
“L’altro è di Albert, è il figlio dei vicini; ha la tua stessa età sai? I genitori sono partiti per qualche giorno e hanno deciso di lasciare il bambino qui per non fargli fare un viaggio lungo diverse ore. Adesso è fuori.”
“Ma nonno, avete due stanze per gli ospiti, perché ci avete messo nella stessa camera?”
“Siete entrambi piccoli ed avete la stessa età, penso sia giusto che vi facciate compagnia”
Il bambino annuì, ma dentro sé non condivideva il fatto che doveva dividere la stanza, di sua madre tra l’altro quindi sua di diritto, con un altro.
Lasciò la valigia ancora piena e chiusa su una sedia e si mise a guardare fuori dalla finestra: il Sole, lentamente, stava scomparendo dietro la montagna, in lontananza si vedeva una figura uscire da un gruppo di alberi e avvicinarsi alla casa
“Sarà Albert?”
Subito lo guardò da lontano per capire che persona fosse: era un normale bambino di sei anni, castano e di carnagione abbastanza chiara. Camminava con passo strano e, finché non raggiunse la casa, Cele non gli tolse gli occhi di dosso, poi si avvicinò al letto e sentì piccoli passi avvicinarsi alla camera.
“Ciao. Devi essere il nipote di Mario e Miriam.”
“Sì sono io. Mi hanno detto che invece tu ti chiami Albert.”
Il bambino castano si avvicinò al letto e trasalì appena sentì nella bocca dell’altro il proprio nome.
“Sì.” Vedendo la sedia con la valigia ancora chiusa gli chiese se avesse bisogno di aiuto, Cele rispose negativamente, poi si allontanò dalla camera cupo.
Non riusciva a capire cosa non andasse: Albert sembrava un bambino con cui poteva facilmente legare, eppure non riusciva a fidarsi e ciò gli impediva di costruire una buona amicizia; aveva sempre avuto un carattere molto solare, ma le cose erano cambiate dopo la morte dei genitori.
“Cele vieni qui.” Nonna Miriam lo stava chiamando dalla stanza nella quale cuciva: il bambino si avvicinò e la guardò: “Hai conosciuto Albert?” Il bambino annuì con la testa. “È un bravo bambino sai? Spero che diventiate amici.”
Cele non riuscì a trattenersi e scoppiò a piangere triste spiegando che non ci riusciva:  sentiva dentro sé qualcosa che non andava: “È normale” spiegò la nonna “adesso ti senti molto solo e hai paura di creare legami affettivi perché ne hai visti sparire molti.”
“Cosa devo fare?”
“Dai ad Albert una possibilità e senza nemmeno accorgertene sarete amici.”
 
Un pomeriggio Cele era al margine del bosco per cercare differenti tipologie di foglie, poco lontano Albert faceva lo stesso sperando, in questo modo, di conquistarne l’amicizia; Cele non aveva rifiutato poiché aveva deciso che era giusto dare al bambino una possibilità dato che, la morte dei genitori, non era stata causa sua e quindi non doveva viverne le conseguenze.
Vedendo che si era fatto tardi e che il Sole era tramontato lasciando nel cielo poca luce, Cele decise di tornare a casa per arrivare prima di sera; si voltò per chiamare Albert, ma notò che era solo:  subito balenò nella sua mente l’idea di correre da nonno Mario per chiedere aiuto, ma capì che sarebbero tornati nel bosco che era notte. Entrato fece pochi passi spaventato, ma deciso a trovare quello che ormai considerava un amico: notò in alto una foglia rossa e decise di seguirla, poi una marrone e così via dietro a quel suo strano gioco che lo portava lontano dalla paura.
“Forse anche Albert ha fatto questo strano gioco? Può essere?”
Guardando a terra notò che vi erano dei piccoli passi che sembravano freschi.
“È lui! Sarebbe divertente seguirli come se fossi un piccolo detective e allo stesso tempo lo troverei!”
Fece poca strada verso la direzione scelta, ma poi si arrese a terra stanco: si sentiva un bambino che voleva fingersi grande: ma non lo era; ma proprio quando oramai la tristezza e la solitudine l’avevano preso si ricordò le parole della mamma quando giocavano assieme ed egli falliva: erano sempre parole dolci e felici, parole che lo rincuoravano e, proprio perché amava la madre, si rialzò e cominciò a camminare seguendo quelle orme.
Mentre le seguiva, giocando nuovamente foglia dopo foglia, capì che era proprio quel pensiero, vivere come se fosse un gioco, che lo stava salvando: voleva bene ai suoi genitori, a sua sorella, ma camminare all’interno di quel bosco, in cerca di un amico, cercando di usare l’immaginazione, portava l’ansia e la paura ad un livello basso ed egli era felice! Non aveva più provato una simile tranquillità e gioia da dopo che era rimasto solo, proprio perché da quel momento aveva smesso di giocare: si era chiuso in un guscio e aveva rifiutato ogni contatto con il mondo esterno, cercando di essere adulto per sopravvivere, ma ora, che aveva riscoperto la bellezza del gioco avrebbe ricominciato ad essere ciò che era: un bambino.
Senza nemmeno accorgersene iniziò a versare lacrime di gioia, di allegrezza, felice di sentire nuovamente la tranquillità dentro di sé. Felice che il gioco l’avesse salvato.
“Aiuto! Aiuto!”
Cele riconobbe la voce di Albert e iniziò a correre verso di lui; ma non riusciva a  vederlo, iniziò quindi a chiamarlo spaventato, ma allo stesso tempo felice di averlo trovato.
“Albert, dove sei?”
“Cele! Amico mio, sono qui. Sono caduto in una fossa e credo di essermi rotto un piede!”
Subito Cele corse dall’amico e lo trovò in un buco poco profondo, salto dentro e lo prese sotto braccio.
“Riesci a camminare?”
“Sì! Se mi aiuti penso di sì.”
Lentamente Cele prese la strada di casa seguendo le orme finché fu fuori dal boschetto, in quei momenti con Albert sentì quanto avesse ragione la nonna: erano diventati amici.
Avvicinandosi a casa vide proprio lei fuori preoccupata, ma, appena lì vide, subito gli corse incontro abbracciandoli con forza.
 “Dai nonna. Va tutto bene.”
Subito li fece entrare in casa e accomodare nella sala, poi sparì per tornare poco dopo in compagnia del nonno: vedendone la faccia Cele ebbe paura di uno scapaccione, ma poco dopo lo vide sorridere e, sollevato, il bambino ricambiò.
Subito Albert iniziò a raccontare di cosa era successo, di essersi addentrato nel boschetto mentre cercava delle foglie, di aver poi visto una volpe e di averla seguita fino a perdersi, di come era poi scivolato e poi portato fuori di lì: infine si addormentò sul sofà sfinito.
Il nonno lo prese e lo portò in camera seguito da Cele e dalla nonna che, dopo una carezza ad entrambi, uscì dalla camera lasciandoli soli.
Il bambino scese dal letto e si avvicinò a quello di Albert, gli dette un bacio e corse al suo letto raggiante.
 
Il giorno dopo il dottore annunciò ai bambini che tutto andava bene, che era solo una slogatura e che da lì a poco più di un mese avrebbe di nuovo potuto giocare, insieme a Cele che, alla notizia, fu ricolmo di gioia.
Proprio il gioco gli aveva ridato la gioia di vivere, la città gli mancava e la sua famiglia anche, spesso ripensava alla loro morte e le lacrime erano lì, sempre presenti, ma quando i nonni gli chiesero di restare a vivere lì non rifiutò convinto che, anche grazie ad Albert, la vita avrebbe tornato a sorridergli.
 
 
 
 
   
 
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