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Autore: Yoko Hogawa    16/12/2013    10 recensioni
Questo era l'amore di Sherlock, e John sapeva riconoscere dai piccoli gesti quanto grande quell'affetto fosse in realtà.
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Desclaimer: tutti i personaggi di questa fanfic non mi appartengono, sono stati creati da Arthur Conan Doyle e, successivamente, presi in prestito da Steven Moffat e Mark Gatiss, che godono immensamente della nostra sofferenza. Io non prendo soldi nel scrivere queste fanfic anche perché, in caso contrario, probabilmente sarebbe già il mio lavoro.
 
Note: dovrei decisamente trovarmi altri hobbies, soprattutto perché sta per uscire la terza serie e io non sono pronta, fisicamente e psicologicamente.
Tornando a noi: questa è una cosina di Natale che mi è venuta in mente per non pensare alla serie in arrivo (sono io o sembra un parto?). Ultimamente l’ispirazione è quella che è (grazie tante, BBC =___= ), infatti è saltata fuori una cosina corta e piena di cliché... Ora come ora ho la profondità emotiva di un microonde, e me ne scuso in anticipo.
 
La dedico al mio personale Fight Club sherlockiano che rimarrà anonimo, dato che “la prima regola del Fight Club è che non si parla mai del Fight Club” ;D
 
Auguro, a chi vorrà intrattenersi, una buona lettura ed un felice Natale ♥
 
P.S.: chiedo un enorme scusa a tutte le persone che hanno commentato alcune delle mie ultime fic e a cui non ho risposto. Purtroppo ho avuto, insieme alla mancanza di tempo, anche una mancanza di voglia quando il tempo lo avevo ^^’’’ non credo che rimedierò, ma cercherò di fare la brava in futuro.


 
 
 
 
 
 
 
Quando John Watson aveva sentito il telefono di Sherlock suonare, quella mattina alle sei e dodici, sapeva già chi fosse al primo squillo. Dopotutto non erano molte le persone che telefonavano a Sherlock ancora prima che il sole sorgesse, ed eliminato suo fratello Mycroft – che non avrebbe rinunciato all’unico carboidrato della giornata e alla lettura del Times per niente al mondo – ne rimaneva solo una.
Lestrade.
Lestrade non contattava mai Sherlock se il motivo non era un caso – precisamente, un caso abbastanza complicato da attirare l’attenzione del consulting detective – e soprattutto non prima che cominciasse il suo turno, ovvero alle otto. Di certo John non era una mente geniale come l’uomo che gli dormiva affianco, ma ancora prima di aprire gli occhi sapeva già che era successo qualcosa di particolarmente brutto e grave da tirare Greg giù dal letto e che, di conseguenza, loro due non avrebbero avuto la giornata libera.
Buona Vigilia anche a te, Londra.
Si stupì di come fosse riuscito a fare quel ragionamento nel giro dei tre secondi che impiegò Sherlock a tirare fuori il braccio dalle coperte e rispondere alla chiamata, la voce roca e lievemente gravata dal sonno appena interrotto.
John, per tutta risposta, si rigirò dando le spalle sia a lui che al telefono.
« Sherlock Holmes » rispose il detective, allungando la mano che non reggeva il cellulare sulla nuca di John, passando le dita fra i suoi capelli corti. Ovviamente sapeva che non stava più dormendo.
John non reagì al gesto ma ascoltò attentamente la conversazione telefonica. Nel silenzio della stanza poteva tranquillamente sentire l’eco della voce di Lestrade e riusciva, bene o male, a seguire il discorso. Quando sentì distintamente le parole “cadavere”, “Tamigi” e “riva”, si preparò psicologicamente ad una mattinata all’insegna dell’acqua e del gelo. Londra non perdonava in quel periodo dell’anno.
Sentì Sherlock chiudere la conversazione con un assenso e la sua mano fra i propri capelli tornò a muoversi piano. John mugugnò, un po’ per la piacevolezza del gesto e un po’ per esprimere il proprio disappunto sull’ora improponibile della convocazione.
« Dove? » borbottò successivamente, le parole ovattate dal piumone sotto al quale era ben rintanato.
« Canary Wharf » rispose Sherlock. « Vieni? ».
Per un istante, fu tentato di dirgli di no. Di rimanere al caldo sotto al piumone pensando al modo migliore per dargli il regalo che aveva comprato per lui da quasi un mese, e che rimaneva da allora al sicuro nella tasca del suo giaccone.
Ma non poteva lasciarlo solo, no?
« Certo » disse dunque.
 
 
Il freddo delle sette era tagliente sulla piccola porzione di viso lasciata scoperta fra sciarpa e berretta, una di quelle con il paraorecchie e le treccine di lana, che Sherlock aveva catalogato come maledettamente simile alla trama dei suoi maglioni natalizi. Aveva il naso congelato ed era sicuro di avere almeno dieci dita, quando era uscito di casa, mentre ora, nonostante avesse i guanti e le mani infilate nelle tasche del giubbotto, ne sentiva sì e no tre. Non c’era nebbia ma l’aria era statica sotto le nuvole grigie e gonfie nel cielo invernale. Si prospettava neve e John ne sarebbe anche stato felice, se non fosse stato per la mano mozzata che giaceva nel bel mezzo del cantiere navale vicino a Westferry Circus, a Canary Wharf.
Gli occhi di Sherlock si erano illuminati, appena l’aveva vista. Per lui era come risolvere l’enigma del Gatto di Shrödinger senza aprire la scatola. Un caso da otto, gli aveva sentito sussurrare prima che partisse in quarta verso il rimasuglio del cadavere – o presunto cadavere – e a quella vista John aveva anche sorriso, contento di vederlo così preso nonostante il freddo gelido. Ma Sherlock Holmes non era mai stata una persona amante del caminetto acceso e del relax, dopotutto. Anzi.
Certe volte, John ancora si chiedeva com’era finito a condividere la sua vita con lui – in tutte le accezioni possibili del termine.
« Sembra che Babbo Natale abbia portato a Sherlock il regalo in anticipo » si sentì apostrofare da Lestrade, che gli si avvicinò con le mani affondate nel cappotto e una sciarpa a coprirgli il collo fino al mento: « non lo vedevo così esaltato dal caso dell’uomo nel portabagagli ».
« Dimentichi che quella era tutta un’orchestrazione di Mycroft. E che non l’ha risolto » disse John a sua volta, soffiando nell’aria una nuvoletta di fiato condensato.
Greg ridacchiò a labbra strette. « Mi dispiace di avervi tirato giù dal letto la mattina della Vigilia ».
John fece spallucce. « Non fa niente. È il tuo lavoro, così come lo è il nostro. La criminalità non ha orario, anche se apprezzerei molto che si prendesse una pausa almeno per Natale » ironizzò.
Lestrade rise di nuovo.
Passarono in silenzio alcuni istanti, osservando Sherlock mentre scrutava la mano mozza centimetro per centimetro con la sua lente di ingrandimento, inginocchiato per terra sul cemento. Finché Greg non riprese parola.
« Allora, hai dato il regalo a Sherlock? » domandò, abbassando inconsciamente la voce, come se il diretto interessato potesse sentirli da quella distanza.
Altrettanto inconsciamente, John si rigirò in mano la piccola scatolina di velluto blu che portava sempre con sé, nella tasca del giubbotto.
Lo aveva fatto d’istinto. Senza pensare. Aveva visto quelle fedi d’argento nella vetrina di un gioielliere a Portobello Road, uno dei tanti giorni di shopping pre-natalizio a cui Sherlock aveva rinunciato più che volentieri, e non aveva potuto resistere all’impulso di comprarle. Erano perfette, semplici ma non banali, importanti ma non vistose: due semplici fasce d’argento lucido, con una piccola riga opaca che scorreva nel mezzo e faceva tutto il giro, adatte ad una donna come ad un uomo.
Era rimasto davanti a quella vetrina per quasi un’ora, guardando quei due cerchi argentati come incantato, indeciso se entrare e comprarli o girarsi ed andarsene. Alla fine era entrato, salutato cordialmente dal commesso che doveva averlo visto imbambolato lì davanti per tutto il tempo, e aveva chiesto di poterle vedere.
Fra le sue mani erano sembrate ancora più belle.
A Sherlock non piacevano certe cose. Non glielo aveva mai detto chiaramente, ma John ne era a conoscenza anche senza chiedere.
Sherlock non era una persona che dava valore alle cose materiali, ai simboli – come gli anelli – che le persone indossano per mostrare al mondo la rispettiva appartenenza. Non era un uomo che credeva nei vincoli, come il matrimonio o il fidanzamento. Aveva messo in chiaro una volta, quando John aveva espresso la sua intenzione di scrivere sul blog che la tanto chiacchierata relazione sentimentale fra loro era divenuta realtà, che non dava peso a ciò che la gente pensava o supponeva. Sherlock era semplicemente una persona che sapeva, e sapere era sufficiente.
Sapeva di amare John ed era sufficiente. Sapeva che John lo amava a sua volta ed era sufficiente. Non avevano bisogno di annunci e festoni, gli aveva detto, quando erano a conoscenza di cosa fossero l’uno per l’altro.
Ma John le aveva desiderate così tanto, quelle fedi, fin da quando era piccolo e guardava di nascosto la vera nuziale di sua madre riflettere la luce in uno sfarfallio d’oro. Il simbolo per eccellenza da mostrare al mondo. Qualcosa da indossare con un sorriso e sì, con la consapevolezza che la persona amata ne portava una uguale, che una parte simbolica di lui sarebbe stata sempre con Sherlock, così come il contrario.
Un piccolo anello d’argento che simboleggiava una promessa.
Non la Promessa, quella con la “p” maiuscola. Sherlock non voleva sposarsi e a John andava bene così.
Semplicemente una promessa, la sua: la promessa di amarlo sempre. Niente “finché morte non ci separi”, niente giuramenti per l’eternità, frasi fatte sulla bocca di tutti; solo quello: solo loro.
Alla fine, sfidando la sorte e la probabilità che a Sherlock non sarebbero piaciute, le aveva comprate. Si era provato subito la sua e aveva chiesto alle clienti presenti nel negozio di provare l’altra, finché non ne aveva trovata una con le dita abbastanza magre e affusolate da somigliare a quelle di Sherlock e sapere, così, la misura giusta da prendere. Il commesso gliele aveva messe nella scatolina di velluto blu che ora, di fianco a Lestrade, si rigirava continuamente fra le dita.
« No » rispose a Greg, sospirando piano: « non so se gli piaceranno. Non è il tipo. Certe... formalità non gli interessano ».
« Potrebbe stupirti » replicò però l’ispettore con una scrollata di spalle: « Dio solo sa quanto è cambiato da quando ti conosce, John. A volte penso che farebbe tutto, per te ».
« Non esagerare » disse il dottore con un sorrisetto divertito sulle labbra che nascondeva però la speranza che quelle parole, in fondo, fossero veritiere. Lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per Sherlock. Per proteggerlo, per renderlo felice. Ormai era divenuto la sua vita, il suo nuovo centro di gravità, e così come non poteva sminuire l’amore e l’affetto che provava per lui, non poteva nemmeno mettere dei paletti a ciò che avrebbe fatto se solo Sherlock lo avesse chiesto.
Nei limiti del legale. E del buon senso.
« Non esagero » continuò imperterrito Lestrade, riservandogli un’occhiata di sbieco.
John gli sorrise sinceramente. Erano pochi gli amici come Greg che poteva vantarsi di avere.
« Tu piuttosto, cosa pensi di fare per Natale? » domandò a cuor leggero, con l’unico scopo di fare conversazione mentre Sherlock continuava a parlare da solo e a raschiare sporcizia da sotto le unghie della mano mozza.
Greg aveva giusto cominciato a spiegargli i suoi piani per il Natale, che prevedevano due settimane di ferie in cui sarebbe stato davvero irraggiungibile, fine del mondo o meno, che l’attenzione di John fu attirata da una delle persone – curiosi, probabilmente – affacciate alla balconata panoramica di Westferry Circus, parecchi metri sopra di loro. Non riusciva a vedere bene da così lontano, ma sembrava quasi che tenesse in mano qualcosa e la stesse puntando verso il basso – cioè verso di loro – e non sapeva nemmeno, data la distanza, se mirava ad un obiettivo preciso o meno.
Solo quando la folla intorno all’individuo cominciò a scappare in tutte le direzioni si accorse che reggeva in mano un’arma da fuoco, probabilmente una pistola.
Il suo primo pensiero andò a Sherlock. Anche il suo primo sguardo andò a Sherlock, ancora accovacciato accanto al reperto, impegnato in un soliloquio che nessuno stava ascoltando. Ormai le parole di Lestrade si erano perse, completamente zittite dal battito animalesco del proprio cuore nelle orecchie, e l’unica cosa che fu in grado di fare, oltre che a sporgersi con il busto e scattare in avanti, fu urlare il suo nome.
« SHERLOCK! ».
Dicono che certe cose accadano nel giro di pochi secondi ma che, dal proprio punto di vista, quei pochi istanti sembrino ore intere da quanto sono numerosi ed importanti i dettagli che il cervello registra. John conosceva la verità di quelle parole; aveva vissuto molte volte il lunghissimo istante che separa la quotidianità dall’assurdo, la realtà dal trauma. Quel ticchettio d’orologio più lungo di un secondo che inevitabilmente pretende un prezzo e si porta via qualcosa di te, accompagnato dal silenzio.
Lo aveva vissuto in Afghanistan, quando un ribelle gli aveva sparato. Lo aveva vissuto a Londra, quando Sherlock si era buttato.
Lo stava rivivendo anche ora.
Sherlock alzò lo sguardo nel sentire la voce di John, puntando gli occhi chiari verso di lui mente tutto intorno l’aria veniva squarciata dal primo colpo di pistola. Sembrò più che altro lo scoppio di un petardo, data la lontananza del tiratore, ma poco importava: tutto ciò che voleva John era raggiungere Sherlock, proteggere Sherlock; ogni suo muscolo gli gridava di correre verso di lui e gettarglisi addosso, frapporsi fra Sherlock e i proiettili.
E così fece.
Fu su Sherlock ancora prima che lo stesso detective potesse capire cosa stesse succedendo e lo inchiodò a terra, coprendolo quasi completamente con il proprio corpo e facendogli scudo dai proiettili. Nel frattempo anche i poliziotti avevano cominciato a sparare, urlando per farsi sentire dai colleghi sopra il rumore infernale delle armi, ma ignorando qualsiasi grido John serrò gli occhi, pronto a sentire, da un momento all’altro, il dolore esplosivo di un proiettile entrargli nella carne. Sherlock, sotto di lui, stava disperatamente cercando di invertire i ruoli, alzandosi da quella posizione accucciata e sicuramente scomoda per uno alto come lui, ma John fu irremovibile e non si spostò, facendo orecchie da mercante agli urli e alle imprecazioni di Sherlock che nemmeno sentiva completamente. Il rumore delle esplosioni era semplicemente troppo forte.
Finalmente, così com’era cominciata, la sparatoria terminò. Fu lunghissimo l’istante di teso silenzio che ne seguì, l’aria immobile e quasi solida, infranta solo dai respiri pesanti dati dalla paura e dal pericolo improvviso. Persino Sherlock si era calmato e, sotto di lui, rimaneva in ascolto.
John aprì finalmente gli occhi, incontrando i folti ricci del compagno. Inspirò un po’ del loro profumo, che conosceva a menadito, e, pensando di essere finalmente al sicuro, alzò gli occhi.
L’ultima cosa che vide, fu un uomo con la divisa della polizia brandire un tubo di ferro contro di lui e caricare il colpo come se tenesse in mano una mazza da baseball.
Poi, il buio.
 
 
Quando riprese conoscenza, la prima sensazione fu di galleggiare.
Leggerezza. Come quel senso di fluttuazione dopo una birra di troppo, quando si è brilli ma non ubriachi, e si percepiscono ancora tutti i contorni della vita senza le sue sfumature più sgradevoli.
Provò a girare il capo. Poggiava su qualcosa di morbido e ricoperto di plastica. La parte sinistra della testa faceva male quando la appoggiava contro quello che doveva essere un cuscino, o un materassino, e sentiva una leggera sensazione di nausea, così smise di muoverla.
La seconda cosa che percepì, fu il forte odore di disinfettante. E fu quello a fargli capire dove si trovava.
Ospedale.
Solo dopo aver formulato questo pensiero aprì finalmente gli occhi. Fra le ciglia vide un famigliare soffitto bianco illuminato da neon e l’intelaiatura di acciaio delle tendine verdi che separavano un letto dall’altro.
Ospedale, sì. Precisamente, pronto soccorso.
Aveva la gola secca e la bocca impastata. Gli avevano fatto indossare uno di quei odiosi camici di carta e, di suo, portava ancora solo i pantaloni e le calze. Nessuna mascherina per l’ossigeno, almeno, ma l’ago di una flebo era inserito nella vena all’interno del gomito, attaccato con del nastro adesivo medico alla pelle delicata del sottobraccio. Soluzione salina, probabilmente.
Cos’era successo?
« John? ».
Quando finalmente trovò ogni parte di sé stesso che con l’incoscienza aveva perso, girò lo sguardo in direzione della voce che aveva pronunciato il suo nome. Incontrò molto presto la chioma brizzolata e gli occhi scuri di Lestrade, seduto su di una sedia di plastica, francamente ridicola, al suo capezzale.
« Greg... » rispose John, la voce rauca.
Quello sorrise. « A quanto pare hai la testa dura, amico mio ».
« Cos’è successo...? » balbettò, chiudendo gli occhi all’improvviso dolore pungente alla tempia.
Fu in quel momento che la memoria si decise a collaborare con lui. Ricordò la sparatoria in modo vivido, quasi reale, Sherlock sotto di sé che urlava per liberarsi dalla sua presa ed ebbe il flash di un poliziotto che correva verso di loro con qualcosa in mano.
« Ti ricordi cos’è successo? » domandò poi Lestrade. John riaprì piano gli occhi combattendo l’onnipresente senso di nausea.
Trauma cranico. Poteva scommetterci.
« Qualcosa... » rispose dunque: « gente che spara, più che altro ». Poi, come se una scossa elettrica gli passasse attraverso il corpo, con una punta di agitazione nella voce chiese: « dov’è Sherlock? Sta bene? È ferito? ».
Greg, al suono della sua voce, alzò le mani facendogli segno di rimanere tranquillo. « Sherlock non è qui » gli disse: « è a Baker Street, sotto sorveglianza ».
John aggrottò le sopracciglia. « Sorveglianza? ».
Il poliziotto si lasciò sfuggire una risatina. « non ha un graffio, te lo assicuro. Oddio, forse una mano un po’ malandata, ma è colpa sua ».
Il sopracciglio del dottore si alzò, l’espressione interdetta.
« La sparatoria è stata causata dai responsabili dell’omicidio della donna a cui apparteneva la mano che abbiamo trovato a Canary Wharf. L’avevano uccisa, depezzata ed immersa in una colata di cemento fresco. Oh, tranne la mano, ovviamente » cominciò a spiegare: « sfortunatamente, uno dei due colpevoli era un poliziotto ed era presente sulla scena del crimine durante le indagini. Il suo complice ha sparato dalla veduta panoramica di Westferry Circus mentre lui, preso dal panico, ha provato ad attaccare Sherlock... centrando te. Con un tubo di ferro » disse. « Sei svenuto all’istante. Ci siamo preoccupati parecchio ».
Le parole di Greg lo aiutarono a richiamare alla memoria la scena con più particolari. Si ricordava bene dell’uomo con la divisa da poliziotto che gli veniva incontro con un tubo di ferro e lo colpiva dritto in testa.
« E Sherlock? » domandò.
« Beh... Sherlock lo ha quasi ammazzato di botte » gli rispose Lestrade, l’espressione più seria: « sono serviti quattro uomini per tenerlo fermo, altrimenti lo avrebbe ucciso sul serio. Era fuori di sé ».
Il pensiero, in realtà, gli scaldò il petto e gli fece piegare le labbra in un lievissimo sorriso. Chissà perché non faticava ad immaginarsi Sherlock in preda ad un attacco d’ira – lo aveva visto arrabbiato così tante volte che ormai non si disturbava nemmeno più a contarle – ma sapere che aveva avuto quella reazione a causa sua era... rincuorante.
Si schiarì la voce cercando di nascondere il sorrisetto, che Lestrade aveva sicuramente notato.
« Cos’hanno detto i medici? » domandò dunque, cambiando argomento. Ora che sapeva che Sherlock stava bene poteva stare tranquillo e pensare ad uscire di lì il prima possibile.
« Ti hanno fatto una TAC mentre dormivi. Non ci sono fratture, fortunatamente, ma sospettano un lieve trauma cranico. E hai... la faccia un po’ gonfia. E blu » gli disse: « ma tutto sommato ti è andata bene » aggiunse.
« Già... almeno si spiega il dolore » commentò il medico, alzando il braccio per schermarsi gli occhi dalla luce. « Spero che non mi tengano in osservazione, voglio tornare a casa ».
« Vado a chiamare qualcuno » disse Greg e, scostando la tenda verde, uscì in cerca di un’infermiera.
 
 
Alla fine la diagnosi era stata proprio “trauma cranico lieve” e, nonostante il medico di turno in neurologia avesse insistito più volte perché John rimanesse in osservazione almeno per la notte, l’affollamento dell’ospedale aveva involontariamente dato una spinta alle motivazioni di John. Inutilmente aveva tentato di convincere il puntiglioso medico di essere un medico a sua volta; era in grado di capire da solo come doveva comportarsi con un trauma cranico – non era di certo la prima volta – così, dopo svariati minuti di discussione, il zelante neurologo si era arreso e lo aveva dimesso.
Era ormai sera e la Vigilia di Natale stava giungendo al termine. Greg si era offerto di accompagnarlo a casa e John accettò subito, dato che non aveva voglia di tornare a casa in taxi. Ne approfittò con un sorriso di ringraziamento facendosi l’appunto mentale di invitare Greg a casa loro per capodanno – omicidi permettendo. Magari potevano dare un party o qualcosa di simile, dato che ormai non avevano organizzato nulla per la Vigilia... doveva parlarne con Sherlock.
A quel pensiero, la mano di John scivolò subito nella tasca del giubbotto in cerca della scatolina con dentro gli anelli. Ormai era diventato un gesto abituale, cercarla con la mano e lasciar correre il polpastrello del pollice sulla sua superficie vellutata, ma quella volta dovette rinunciare alla sensazione.
La scatolina non c’era più.
« Cazzo ».
Greg, fermo ad un semaforo, lo guardò con la coda dell’occhio. « Cosa c’è? ».
« Gli anelli... non ci sono più » disse John, tastandosi tutte le tasche in suo possesso nella speranza che li avesse solo spostati e non se lo ricordasse più. Non la trovò da nessuna parte.
La piccola scatolina blu era sparita, e le fedi d’argento con lei.
« Cazzo » ripeté John, sbuffando e lasciando andare la testa contro il sedile.
« Forse li ha trovati qualcuno in ospedale » ipotizzò Lestrade.
« Oppure li ho persi a Canary Wharf quando mi hanno scambiato per una palla da baseball. In quel caso sarebbe impossibile trovarli ».
« Vuoi tornare indietro? Magari li ha trovati qualche infermiera e li hanno fra gli oggetti smarriti, o qualcosa di simile ».
John pensò per qualche istante all’offerta di Lestrade. Il semaforo sarebbe tornato verde in pochi secondi e dopo sarebbe stato difficile fare inversione per tornare al King’s College Hospital. Anche se li avesse persi in ospedale, le probabilità di riaverli erano vicine allo zero. Erano semplici fedi, non vi erano incisi né nomi né date... senza contare che era tardi e Sherlock lo stava aspettando a casa. Era già passata da parecchio l’ora di cena, e tornare indietro per due stupidi anelli che avevano un’alta possibilità di finire in fondo ad un cassetto non gli pareva il caso.
Dopotutto, non erano nemmeno costosi. Dopotutto, a Sherlock non sarebbero nemmeno piaciuti.
Era solo la sua smania di romanticismo che lo aveva spinto a comprarli.
« No » disse dunque John: « ti ho già rubato troppo tempo, ed è anche la sera della Vigilia. Andiamo a casa ».
Ma, quando scattò il verde, Lestrade fece una brusca inversione in mezzo all’incrocio – una di quelle da ritiro immediato della patente – e imboccò al contrario la strada che aveva appena percorso.
« Greg, ti ho appena detto che– ».
« Ti ho ignorato » lo interruppe Lestrade. « Non mi interessa se sei convinto che a Sherlock non piaceranno, e non mi interessa nemmeno che potresti avere anche ragione, conoscendolo; torneremo comunque all’ospedale e chiederemo se li hanno trovati. Così non avrai motivo per pentirti quando, in futuro, ci ripenserai » disse.
John scosse la testa con fare incredulo, sorridendo.
« E comunque non ho niente di meglio da fare » aggiunse il poliziotto.
 
 
Alla fine la sfortuna aveva avuto la meglio. All’ospedale non avevano trovato alcun anello e l’infermiere che aveva svestito John al suo arrivo in ospedale gli confermò che nelle tasche della giacca non c’era niente se non un fazzoletto ed il cellulare.
Ringraziando, erano tornati in macchina e si erano di nuovo diretti verso il 221B.
Il tragitto passò in silenzio, riempito solo dal notiziario alla radio che parlò della sparatoria di quella mattina. John mandò un messaggio a Sherlock per avvisarlo che stava tornando a casa ma non si stupì quando non ottenne risposta. Conoscendolo, stava sicuramente passeggiando avanti e indietro per il salotto, oppure suonando il violino davanti alla finestra dello stesso, ignorando completamente il mondo esterno e, dunque, anche il proprio telefono cellulare.
Arrivarono a Baker Street in meno tempo del previsto. Greg frenò con dolcezza davanti al portone scuro del 221B ed aiutò John a scendere dall’auto, facendogli da sostegno fino alla porta. Si offrì di accompagnarlo di sopra ma l’ex soldato, probabilmente in una punta di orgoglio, gli disse che poteva farcela da solo con l’aiuto del corrimano.
Greg annuì. Dopodiché lo salutò, augurandogli buon Natale, e ripartì alla volta del proprio appartamento.
Osservando l’auto argentata di Lestrade andarsene, John sospirò.
Non voleva ammettere di essere deluso, ma lo era.
Ci aveva sperato. Per dieci minuti aveva creduto davvero che gli anelli fossero rimasti in ospedale a causa di un errore stupido. Se li portava addosso da quasi un mese, dopotutto, ci si era affezionato. Forse non valevano molto, non erano nemmeno d’oro, ma nel profondo di sé stesso nutriva la speranza che a Sherlock piacessero, che avrebbe accettato di portarne uno come simbolo della loro tanto combattuta unione, qualcosa che avevano faticato tanto per ottenere e che alla fine avevano trovato quasi per caso.
Non si poteva mai sapere.
Ma ora, il pensiero di non averli più con sé gli lasciava addosso un senso di malinconia. La tristezza di un’occasione persa e la sensazione di aver smarrito qualcosa ancora prima di capire se fosse importante o meno.
Con un sospiro, appoggiato di peso al portone d’ingresso per impedire al mondo di girare troppo velocemente, estrasse le chiavi dalla tasca e le usò per entrare in casa. Subito il caldo dell’androne lo accolse e John sorrise piano, togliendosi il berretto e la sciarpa.
Non fece in tempo a fare il primo passo in direzione delle scale che la porta al piano di sopra si spalancò e Sherlock scese i gradini correndo, in uno sventolio di vestaglia blu e pantaloni di pigiama.
« Sher– » cominciò John, ma non fece in tempo a completarne il nome che il compagno gli prese la testa fra le mani, delicatamente, e cominciò ad osservare il livido bluastro che gli colorava tempia a sopracciglio sinistro, sfiorandolo appena con le dita.
« Qual è la diagnosi? » domandò, irrequieto: « trauma cranico, a giudicare dal fatto che sei già a casa. Lesione cutanea sopra la tempia sinistra con esteso ematoma sub cutaneo ma non cerebrale. Sicuramente ti hanno consigliato di rimanere in osservazione per una notte e tu hai rifiutato. Idiota » si rispose da solo, cominciando piano a staccare il cerotto bianco che copriva il taglio fra i capelli.
« Grazie, ti amo anch’io » ribatté John con ironia. « E non staccare il cerotto ».
« Ti hanno messo dei punti? ».
« Un paio » rispose. « Tu stai bene? ».
Sherlock lo guardò come se avesse detto l’ennesima idiozia. « Certamente » rispose poi, come se fosse ovvio.
John sospirò. « Greg mi ha detto che ti sei lanciato in un match di pugilato, oggi » incalzò.
« Baritsu » lo corresse Sherlock: « ...o almeno doveva esserlo. Credo di aver lanciato pugni alla cieca per un po’. Un match scadente, per altro, molto a senso unico » e inclinò l’angolo delle labbra in un sorrisetto beffardo.
John chiuse gli occhi e scosse piano il capo. Una lieve ondata di nausea gli fece capire che era meglio non farlo più.
« Ti aveva colpito » disse poi il detective, il tono e l’espressione più serie: « eri a terra, svenuto, e sanguinavi. Mi sono accertato che respirassi ancora e poi non ho più avuto controllo delle mie azioni » si giustificò.
John alzò gli occhi per guardarlo e sorrise. Non si sarebbe mai abituato alla sincerità disarmante di Sherlock; era sempre franco con tutti, nel senso che non si faceva problemi a dire alle persone ciò che pensava di loro, ma fra loro, in quell’ambito della loro relazione che John vedeva in modo così romantico e personale, l’estrema schiettezza di Sherlock assumeva un’altra tonalità, altre sfumature. Diventava il modo di Sherlock di essere franco e trasparente.
E John lo amava anche per questo.
Stava per dirglielo, ma Sherlock lo anticipò di nuovo.
« Comunque è stato un caso deludente. I colpevoli sono comparsi subito, ancora prima che potessi dedurre che uno di loro era un agente di polizia, e per cosa? Paura di essere scoperti. Doveva pensarci prima di depezzare la moglie che li aveva scoperti a letto insieme » commentò, mettendosi al suo fianco e portandosi il suo braccio sinistro attorno alle spalle, per dargli sostegno. « Un caso da otto si è trasformato in un misero tre ».
John ridacchiò. « Non credo che una sparatoria in pieno giorno sia solo un tre » commentò.
« Lo è. Dov’è finito il brivido della caccia? Noioso » rispose Sherlock, aiutandolo, un gradino alla volta, ad arrivare fino al piano di sopra.
Lo accompagnò in salotto, dove le luci dell’albero di Natale e il camino acceso erano le uniche fonti di luce. Un tepore soffuso avvolgeva l’ambiente e, caso strano, la cucina era al buio ed il tavolo immacolato. Il violino, invece, era fuori dalla custodia e appoggiato precariamente sul bracciolo della poltrona di Sherlock.
Stava suonando. John si fece mentalmente i complimenti per aver indovinato.
« Ti accompagno in camera » disse Sherlock, indicando con la testa la porta della loro camera.
« No » lo fermò però John: « è la Vigilia, voglio stare un po’ con te ».
Il sopracciglio di Sherlock si sollevò. « Hai un trauma cranico, John. Hai bisogno di riposo ».
« Posso riposarmi anche davanti al fuoco, Sherlock, non devo dormire per forza » gli rispose il dottore.
Lo aiutò a togliersi il giubbotto e le scarpe poi, facendo attenzione a non urtare il tavolinetto, lo accompagnò fino al divano e lo tenne stretto mentre vi si stendeva, appoggiando la testa pulsante e dolorante sul cuscino con la bandiera inglese. Sherlock andò poi a recuperare il plaid dalla poltrona rossa, che spiegò sulle gambe di John.
Amava osservare Sherlock in quei momenti di gentilezza, così rari, in cui si prendeva cura di lui senza che John dicesse una parola. Sherlock era sempre stato bravo nel capire di cosa John avesse bisogno, rendendo così qualsiasi frase inutile e superflua. Certe volte John si chiedeva perché non lo facesse più spesso, perché non preparasse il tè o andasse a prendere il latte nonostante glielo ripetesse regolarmente almeno dieci volte ogni mese, ma era giunto alla conclusione che, per Sherlock, quelle erano cose inutili; cose che accettava, se erano gli altri a farle per lui, ma su cui non avrebbe sprecato tempo se avesse dovuto farle per se stesso – Dio non voglia farle per gli altri.
Solo quando esse diventavano una necessità allora il consulting detective si attivava, diventando più servile. Certo, nel suo modo particolare e silenzioso, ma John, conoscendolo, sapeva che quella era la sua idea di gentilezza e il suo modo di prendersi cura di lui in un momento in cui John non sarebbe stato in grado di prendersi cura nemmeno di se stesso. Questo era l’amore di Sherlock, e John sapeva riconoscere dai piccoli gesti quanto grande quell’affetto fosse in realtà.
« Accendo la TV? » gli chiese una volta essersi assicurato che fosse coperto bene. Sul tavolino campeggiava l’ultimo numero di Science aperto su di un articolo di psicologia forense, lasciato lì la sera precedente e che Sherlock doveva ancora finire di leggere.
Era troppo distratto per leggere, prima? Troppo preoccupato? Per lui, magari? Una piccola parte del suo cervello gli diceva che stava facendo dei pensieri ridicoli, ma un’altra parte di sé godeva della sensazione di essere così centrale nella vita di Sherlock, così importante da distrarlo, cosa immane per uno come Sherlock.
Dovette controllarsi per non sorridere troppo. « No » gli rispose poi: « sto bene così ».
Sherlock, dall’alto del suo metro e ottantacinque, annuì. Si sedette ai piedi del divano, accanto a John, e appoggiando la schiena alla seduta raggiunse con le dita affusolate il giornale, riprendendo la lettura da dove si era interrotta il giorno precedente.
John, in silenzio, lo osservò leggere.
Nella stanza regnava la quiete, ma non era pesante, imbarazzante. Era anzi una calma gradevole, tiepida, la tranquillità di due persone a cui non servono lunghi discorsi per sentirsi vicine. Molte persone sottovalutano il silenzio e la pace che può donare.
Sarebbe stato un ottimo momento per dargli il suo regalo. Per tirare fuori la scatolina blu e fargli vedere gli anelli, cogliere la sua reazione, aspettare la sua risposta. Allora non sarebbe importato se lo avesse indossato o no: sarebbe stato comunque un momento perfetto e degno di essere ricordato.
Il piccolo sorriso che gli inclinava le labbra diventò una smorfia di pacata tristezza.
« Ti avevo comprato un regalo » disse, dal nulla. Non si preoccupò di averlo interrotto mentre leggeva; come gli aveva più volte ribadito anche Sherlock, era perfettamente in grado di fare due cose contemporaneamente.
« Lo so » fu la sua risposta.
John rimase interdetto.
Ovviamente, si disse poi, l’avrà dedotto da... chissà, le occhiate che lanciavo al giubbotto o i maglioni che ho scelto di indossare da quando l’ho comprato.
« Temo di averlo perso, però » continuò, sottovoce.
« So anche questo » gli rispose Sherlock.
Questa volta, John aggrottò le sopracciglia in un moto di incredulità.
« In che senso? » chiese.
Sherlock sospirò teatralmente. « Davvero, John. Tu guardi ma non osservi. A quest’ora chiunque se ne sarebbe già accorto, con o senza trauma cranico » disse e, senza nemmeno guardarlo, alzò la mano sinistra.
All’anulare di quella stessa mano, una sottile ed elegante fascia d’argento circondava il suo anulare. L’anello – quello che John aveva comprato, proprio quello – era adagiato fra le sue dita pallide e affusolate come se fosse stato fatto appositamente per quel motivo, creato apposta per quelle dita.
John aprì la bocca per dire qualcosa ma dalle sue labbra non uscì niente. Non sapeva nemmeno cos’avrebbe potuto dirgli, tant’era la sorpresa.
« Dove... Come...? » balbettò, stupito.
« Ho trovato la scatola a terra dopo che ti hanno portato via in ambulanza. Poteva essere caduta solo a te » spiegò.
« Credevo... » cominciò poi John: « credevo che non credessi a certe cose ».
« Quali cose? » domandò Sherlock, gli occhi ancora puntati sull’articolo.
« Agli anelli... alle promesse » gli disse.
« Non credo all’istituzione del matrimonio, o del fidanzamento » gli rispose Sherlock: « ai tradizionalismi senza senso e al simbolismo pro-forma ».
« Questo è simbolismo pro-forma ».
« No, non lo è » ribatté Sherlock, abbassando la rivista e voltando il capo verso di lui. « Se lo fosse, perché li avresti comprati? » domandò.
John abbassò gli occhi, pensando a quale sarebbe stata la risposta migliore da dargli.
« Speravo... » disse poi: « ...che l’avresti indossato ».
« Perché? » lo incalzò Sherlock.
« Perché rappresenta la mia promessa. E un monito » disse.
Sherlock inclinò il capo. « Quale monito? ».
« Quell’anello è la mia promessa di amarti per come sei, sempre. Ma è anche un avvertimento per chiunque osi mettere gli occhi su di te: sei proprietà privata » ammise, candidamente.
Sherlock sollevò l’angolo delle labbra in un sorrisetto consapevole. « Ed è per questo che l’ho indossato » disse.
John lo vide poi girarsi completamente verso di lui ed estrarre dalla tasca della vestaglia la scatolina di velluto blu che si era portato dietro per quasi un mese. La aprì e dentro, assicurato sulla seta bianca, il secondo anello d’argento aspettava solo qualcuno che lo indossasse.
John lo prese. Se lo rigirò un istante fra le dita e, con un ultimo sorriso soddisfatto, lo fece scivolare al proprio anulare sinistro. Non faceva lo stesso effetto dell’argento sulla pelle di Sherlock, ma era comunque una delle cose più belle che aveva mai visto e, da quel momento, anche una delle più preziose che possedeva.
Tornò a guardare Sherlock, che come sempre era arrivato alla fine prima di lui e lo aveva aspettato sulla linea del traguardo. Lo guardava con le labbra piegate in un sorrisetto arguto ma, sotto al sarcasmo, John riuscì a scorgere la dolcezza di quello sguardo.
Gli accarezzò la guancia con la mano sinistra e Sherlock, socchiudendo gli occhi, inclinò il capo verso di essa.
« Te lo prometto » gli sussurrò.
E il loro bacio fu la cornice perfetta per il rintoccare della mezzanotte di Natale.
 
 
 
 
 
 
Fine ~
   
 
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