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Autore: yuki013    17/12/2013    1 recensioni
"Suo padre, mentre sbrogliava la fitta rete di maglie, lo aveva chiamato accanto a sé per dargli un buffetto sulla guancia. Rin aveva riso e si era messo a rincorrere i gabbiani con passi malfermi, osservando il cielo grigio e gonfio di pioggia che non accennava a cadere. Sua madre poi lo aveva chiamato con le braccia larghe e il pancione in bella vista, tanto che Rin aveva immaginato che ad aspettarlo ci fossero due paia di braccia." [Warning: death!fic]
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Gou Matsuoka, Rin Matsuoka
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E insomma, ho passato circa un mese a rimuginare sul fatto che questa storia potesse finire anche qua - perché  il fandom è un posto felice e pieno di p0rn e in un certo senso mi dispiaceva rompere quest'atmosfera pacata con una death!fic. Poi però l'ho riletta e qualcosa deve avermi convinto. Idek. Incolpate il Lato Oscuro del fandom per avermi trascinato verso l'angst, questo è quanto.
Buona lettura~


Titolo: A place where grow old
Wordcount: 1579
Personaggi: Matsuoka Rin, Matsuoka Gou
Rating: PG
Generi: drammatico
Avvertimenti: death!fic, angst
NdA: per la Free! Notte Bianca @free_perlatrama, autofill sul prompt "Rin/Gou, death!fic, restare da soli con se stessi”.




Il telefono di Rin squilla per la terza, quarta volta forse. Si stropiccia gli occhi e mette a stento a fuoco il nome sul display, facendo scattare lo sportellino con un clac sordo.
«Rin, ti rendi conto di che ore sono?»
«Mamma, ne abbiamo già parlato. Non ho intenzione di venire.»
«Rin Matsuoka, mettiti un completo pulito e muoviti a-» Rin riaggancia e spegne il cellulare, senza darle il tempo di finire la frase. Per telefono ha avvertito la pesantezza nella voce di sua madre, la commozione trattenuta a stento e mille cose che a Rin non ha mai detto – sua madre è forte, è una roccia, e qualche parola sgarbata di suo figlio non basta a buttarla giù. Gou ha preso da sua madre, solida e ferma come un albero piantato sul cuore del mondo.
Rin richiude gli occhi alle dieci e ventuno. Stringe il cuscino fra le dita, e l’odore di caffè che proviene dal balcone dei vicini gli ricorda che per qualcuno è iniziato un altro giorno.



Nei suoi ricordi, quelli che tiene solo per sé e dei quali non parla neanche con i suoi amici quando escono tutti insieme per bere qualcosa, ci sono fotogrammi distinti, attimi di una vita normale e serena che Rin ha memorizzato perfettamente e rivisto e corretto fino ad avere l’assoluta certezza di averli ricostruiti per intero e nel modo più fedele possibile. Uno di questi ha per protagonista suo padre, che insieme ad un collega districava una per una le grossi reti da pesca che usavano per lavorare. Rin era andato ad osservarlo con sua madre, che stava seduta su una barca capovolta a qualche metro di distanza. Il suo pancione enorme sembrava una bolla sul punto di scoppiare, e spesso Rin posava le mani e la guancia contro il suo vestito per sentire scalciare la sorellina, oppure insisteva perché facessero il bagno assieme e lei gli lasciasse insaponare l’enorme rigonfiamento. Il dottore –Rin lo aveva sentito– aveva detto che Gou sarebbe arrivata entro metà mese, ed essendo già alla fine di Aprile sentiva l’aspettativa farsi strada in lui con forza.
Suo padre, mentre sbrogliava la fitta rete di maglie, lo aveva chiamato accanto a sé per dargli un buffetto sulla guancia. Rin aveva riso e si era messo a rincorrere i gabbiani con passi malfermi, osservando il cielo grigio e gonfio di pioggia che non accennava a cadere. Sua madre poi lo aveva chiamato con le braccia larghe e il pancione in bella vista, tanto che Rin aveva immaginato che ad aspettarlo ci fossero due paia di braccia.
Rin non sa se sia normale ricordare un evento accaduto quando aveva poco più di un anno, e delle volte si chiede se non lo abbia semplicemente sognato. A questo ricordo si sommano però i flashback della manina minuscola di Gou nella sua sul letto di sua madre in ospedale, di suo padre che scattava loro una fotografia e diceva a Rin che non c’era motivo di piangere perché non le avrebbe fatto del male – “sei il suo fratellone” gli aveva detto più avanti, “lei conta su di te e tu devi proteggerla, perché lei è preziosa ed è la bambina più bella che ci sia”. Rin aveva annuito e le aveva dato tutti i suoi giochi, tutti, nessuno escluso. Aveva diviso pure la culla con lei, in quell’età nella quale avrebbe dovuto iniziare a dormire nel suo lettino e non voleva farlo. Non per i suoi genitori, ma per non lasciare Gou da sola. Era stato parecchio soddisfatto quando sua madre aveva spostato la culla della sorellina nella sua cameretta. Un altro ricordo riaffiora, quello del suo braccio oltre le sbarre della culla, della mano sulla fronte di Gou che dormiva serena. Delle sue dita che scostavano i capelli rossicci e delle sue labbra che sussurravano uno stentato “ii-ccha” che Rin aveva sentito benissimo. Quel pomeriggio dei suoi tre anni, mentre Gou dormiva, lui aveva pianto a lungo senza motivo fra le braccia di sua madre. Quando si era calmato lei gli aveva preparato una tazza di latte alla fragola, e poi lui l’aveva aiutata a preparare il biberon per Gou quando si era svegliata piangendo.
Se si sofferma a pensare, quasi tutti i ricordi che Rin ha di Gou risalgono alla loro infanzia, a quel periodo che si ferma a qualche mese prima della sua partenza per l’Australia. A quando ha smesso di accompagnarla a scuola la mattina perché voleva correre, a quando ha iniziato a rifiutare di fare il bagno insieme perché era una cosa da mocciose, a quando le ha detto che doveva andarsene in un’altra stanza perché lui voleva i suoi spazi. Pensandoci con il senno di poi si sente una merda per essere stato così stronzo e cattivo con lei, ma allo stesso tempo sa di non aver potuto fare diversamente, e questo attenua un po’ i sensi di colpa. Solo quello per non essere stato più gentile, tutto il resto rimane dentro di lui come una massa nera che di notte, come un pesce intrappolato nelle maglie di una rete, lo tiene sul fondo e non lo fa dormire.



Se si concentra, nella penombra e nel silenzio della sua stanza interrotto solo dal sobbollire della caffettiera elettrica, riesce ancora a sentire il rumore delle macchine e il bip costante che lo tiene aggrappato al bordo del letto come un naufrago tra lo sciabordio delle correnti. Ricorda lo schermo e le linee che si abbassavano e alzavano, il liquido nelle flebo che ogni tanto faceva le bollicine e il rumore del respiratore collegato al viso di Gou. Sforzandosi ricorda che sua madre piangeva da qualche parte, fuori dalla stanza. Per ricordare il viso di Gou però non deve impegnarsi, perché ce l’ha presente come se lo avesse davanti fisicamente, e non in una foto che tiene sul comodino – quella scattata da Haru durante le vacanze estive, dove lei sorride nel suo costume rosso fragola e lo abbraccia di spalle. Dopo quello scatto lui l’aveva presa in braccio e l’aveva lanciata in acqua, lei per dispetto lo aveva tirato dal piede e si erano ritrovati tutti in acqua a gareggiare per chi nuotasse più in fretta fino alla boa. Rin si preme le tempie con il pollice e il medio di una mano e ricaccia indietro il nodo che gli chiude la gola, mandando giù l’ultimo sorso di caffè amaro. Il notiziario di metà mattina del trentuno gennaio è uguale a quello del trenta, e sarà uguale a quello del primo di febbraio. Niente di importante in tv, sui giornali o nelle strade. L’universo implode solo nella testa di Rin.



Accanto alla prima lapide, sulla collina di Iwatobi, adesso ce n’è un’altra. Tutt’attorno è pieno di mazzi di fiori lasciati lì quella mattina da chi è andato a porgere i suoi omaggi per l’anniversario – sbirciando fra i bigliettini Rin trova anche la calligrafia pulita di Rei che a nome suo e degli altri lascia brevi ma sentite parole di commiato. Sorride tristemente Rin, consapevole che almeno loro hanno capito. Sua madre ha lasciato un mazzo di rose rosse, e Rin è sicuro che siano sue perché lo fa ogni anno, da quando le portava in ospedale a Gou nei giorni in cui era in coma. Se l’immagina sua madre, forte come la roccia nei suoi capelli mogano tenuti stretti da uno chignon mentre poche lacrime le scendono giù dagli occhi, il massimo contegno sul suo viso e nei suoi atteggiamenti. Gou era forte come sua madre, sì.
Quando si siede a gambe incrociate sul terriccio e inizia a parlare al vento, vomita fuori tutto quello che si è tenuto dentro in quell’anno. Tutte le esperienze, gli allenamenti, le selezioni per i campionati del mondo, nuove conoscenze, due donne con le quali non è andata bene, un gatto che ha raccolto e che vive a casa di Seijuurou, le tasse, la primavera che deve arrivare. Racconta annuendo e facendo pause, come se lì ci fosse sua sorella a rispondergli e interromperlo per saperne di più, e prima che se ne renda conto il sole sta tramontando e lo stelo dell’ibisco che tiene fra le dita si è rovinato per il troppo rigirarselo fra le mani.
Prima che se ne renda conto sta piangendo e urlando con i pugni sulla terra riscaldata dal sole, urla che non riescono più a raggiungere Gou e che muoiono nel rosso della sera come i pesci nelle reti dei pescatori, preghiere di scuse che lei non ascolterà mai – lo sa che mi dispiace, lo sa, ma anche se continua a ripeterselo questo non cambia il fatto che non potrà più vederla sorridere né piangere né ridere né stare al mondo, con i bellissimi capelli rossi agitati dal vento dell’estate e le guance sporche di zucchero a velo e le mani appiccicose che si stringevano forte nelle sue. Rin urla tutto quello che non è riuscito a dirle, per il sesto anno di fila, anno dopo anno, sperando che lei ascolti. Che qualcuno ascolti e glielo riferisca. Che il vento porti ogni sillaba da lui pronunciata ovunque lei si trovi.
Rin ci spera come spera in pochissime cose nella sua vita. Quando ha esaurito tutte le lacrime che aveva pensa ancora al pancione di sua madre, alla minuscola vita che si teneva aggrappata al mondo con tutte le sue forze – e Gou è forte, gli balena in mente, e la voragine che lo inghiotte si fa un po’ più luminosa. Soltanto un po’, ma è abbastanza per un altro anno.
   
 
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