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Autore: Marlene Ludovikovna    17/12/2013    0 recensioni
Questa fanfiction partecipa al contest 'ONIRONAUTA' indetto dal gruppo facebook 'Le ragazze e i ragazzi della porta accanto (Efp website)
***
"La mia è un'anima vagante, senza una vera meta."
Hazel si ritrova in un Eden dalle false speranze, con persone che ostentano una felicità inesistente e celano un'infelicità a loro non concessa dietro a delle espressioni metalliche e prive di vita.
Lì trova Desmond, tra tutte le persone vestite di bianco lui è vestito di nero, viene considerato pazzo, strano, malato. Lui è l'unico l' a cui viene concesso il dolore in tutte le sue forme esplicite.
Desmond la guiderà, tra le stanze vuote che per Hazel significano solitudine e che tanto teme, tra vite infinite in una dimensione onirica, ma per Hazel terribilmente reale.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note d'autrice: Questa fanfiction partecipa al contest "Onironauta" indetto dal gruppo facebook I ragazzi e i ragazzi della porta accanto (link: 
https://www.facebook.com/groups/203193706521620/). 

GIUDICI UFFICIALI:

 Žanna Aleksandrovna Metanovahttp://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=213374
 Malaria Efp: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=434498
Lori Liesmithhttp://www.efpfanfic.net/viewuser.php?action=favstor&uid=74834#favstor
Mery Scrittricedistorie (Vella): http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=237708



Lo spazio, illuminato da un bianco accecante, e vuoto intorno a me; così tanto che mi sento perduta come mai sono stata. 
Sbatto le palpebre un po' di volte sentendomi vuota o forse troppo piena. 
So di non essere più nella mia stanza, non sono sdraiata sul mio letto, non sono coperta dal piumone. 
Il profumo del tè mi avvolge ancora, però. 
 Alzo lo sguardo lentamente, ponendo ai miei occhi dai toni cangianti la vista immensa di un cielo azzurro e luminoso e il sole accecante. Sento l'aria pulita nei polmoni, ma non riesco a sentirmi libera nonostante tutto quello che ho intorno mi invita a supporre ch'io lo sia. 
Mi sento avvolta come da una nebbiolina che mi offusca la mente e soprattutto non so come sono arrivata qui. 
Sono persa, ma ho come la sensazione di esserlo sempre stata e per la prima volta potrei trovare la via giusta; non sarebbe stato difficile, non in un posto come questo in cui la strada sembrava una e una sola. 
Guardandomi intorno, immersa nei colori sgargianti mi sento estranea a tutta questa bellezza.
Ai fiori di glicine, ai prati immensi. 
Camminando sento l'erba dal colore intenso solleticare i miei piedi nudi. 
Sollevo il mio vestito bianco, lasciando scoperta la pelle come se la stessi donando al calore della luce. 
Io sono nella luce, è il mio pensiero nel momento in cui chiudo gli occhi domandandomi dove sono e come ci sono arrivata. 
Ha la dimensione di un sogno, ma tutto è così vivido. 
 Arrivo verso l'entrata del paese; c'è un'insegna enorme in ferro battuto che dice 'Benvenuti ad Hallaway'. 
Sembra una goccia di sangue in un infinito bianco, quell'insegna decadente dove tutto è perfetto. 
Ciò che vedo sono case tutte uguali e colorate, quelle che rappresentano l'idillio di vita perfetta, di famiglia perfetta, con i bambini che giocano nel parco fuori con il cane. 
Mi arriva la palla lanciata da una bambina con un vestito bianco come il mio; gliela riporto. 
Sento di nuovo l'erba sotto i miei piedi. È piacevole; potrei stare così per sempre. Sdraiata sull'erba, guardando il cielo limpido. 
Resto immobile ad osservare i bambini giocare. 
Riesco ad intravedere nei loro sguardi qualcosa di artefatto, di metallico. La serenità spensierata solita alla loro età è presente solo in parte; anzi, sembra artificiale. Come se fossero costretti a dimostrare gioia e spensieratezza perché è quello che ci si aspetta da dei bambini. 
Il sentimento disumanizzante di chi è costretto ad essere felice nonostante non lo sia davvero. 
Il sentimento disumanizzante delle persone a cui viene negata la tristezza. 
Anche i sorrisi hanno qualcosa di finto, malato. 
Quella che deve essere la madre dei bambini esce sulla veranda a chiamarli. 
Jen, Parker, venite in casa! Non lo dice con un tono duro, ma semplicemente con una voce meccanizzata. Lei ha lo stesso sguardo dei suoi figli e ho paura di intravedere in lei qualcosa di mio. 
Mi sento invasa da una sensazione di tristezza, come se quello che è loro negato si fosse infuso in me. 
È tutto così vivido, ma so che non è reale. Lo so. 
Salve, serve aiuto? Domanda la donna. Anche lei, come me - come tutti -, ha un vestito bianco. 
Salve. Dico trasognata. 
Lei mi guarda aggrottando le sopracciglia, come se si aspettasse una riposta. 
Su, andate dentro... Dice ai bambini, poi torna a guardarmi. 
Vuoi entrare? Chiede lei con un sorriso. 
Mi viene da piangere, perché in tutta quella allegria sento inflitta una irrimediabile sofferenza. E guardandomi intorno noto che molti mi stanno guardando e sono tutti vestiti di bianco, come i bambini e la donna. 
Mh. Sì, grazie mille... Certamente. Rispondo cercando di sorridere. 
Lei annuisce e mi apre la porta. 
Entro. 
La casa è una delle tante. Una di quelle case impersonali, arredata con mobili dozzinali. Lì dentro si vedono i segni di una vita familiare, ma ci vuole attenzione per capire quanto essa alla base sia infelice.
Percepisco tutti i sentimenti che aleggiano stantii in quella casa, come se mi appartenessero e ne vengo invasa. 
Chiudo gli occhi. 

Sono seduta su un letto matrimoniale dentro una stanza dalle pareti bianche e poco arredata. 
Non so come io ci sia arrivata, non so perché sono vicina ad un uomo che non ho mai visto in vita mia. 
Sento che mi sta parlando, ma non lo ascolto. 
Parti di una conversazione avuta con la moglie riaffiorano nella mia mente. 
Mio marito è molto, molto malato... 
Ti accompagno in camera sua, ha chiesto di vederti... 
Ricordo una punta di vergogna intrisa nello sguardo della madre, della moglie. 
Non le ho nemmeno chiesto come si chiama, penso ingenuamente. 
Perché... Perché sei costretto a letto? Chiedo all'uomo. 
Il volto è incorniciato da capelli neri come il carbone, negli occhi è presente una scintilla di vita che mi appare nuova, inesplorata. 
Sorride, calmo. 
Sai perché sei qui, Hazel? Domanda con voce calda e ruvida, ma al contempo racchiudente una dolcezza inaspettata. 
Sai il mio nome... Sussurro posando il mio sguardo verso il basso. 
Sì... Sai perché sei qui? 
Sì, sto... Sto sognando. 
Esatto. Annuisce, sempre con quel sorriso velato sulle labbra. 
Guardo verso il soffitto; vedo un cielo immenso, con qualche nuvola bianca. 
... Lo vedi anche tu, vero? Domanda l'uomo. 
Sì. Rispondo, venendo colta da una strana, limpida e istantanea sensazione di benessere. 
Il sorriso aleggia perpetuamente sulle sue labbra. 
Chi sei? Chiedo osservandolo. 
Un uomo molto malato che ha bisogno di te.
Lascia... Lascia che io mi goda il mio sogno. Dico. 
Non posso. Non sei nella tua vita, non può esserci sofferenza qui. 
Lo guardo con le sopracciglia aggrottate, alzandomi.
Ma c'è e tu lo sai. Ribatto. 
Sì che lo so. Sono stato l'unico a cui è stato concesso di realizzarlo e a dir la verità non ne so la ragione nemmeno io. 
Silenzio. 
Riesco ad assaporare tutte le sensazioni provate da quest'uomo.
Scorgo un'intensità dentro di lui, pari a quella dei movimenti continui della natura. Il sole, i rami degli alberi fustigati dal vento che si muove incontrastato sulla superficie terrena. Semplicemente guardando gli alberi fuori dalla finestra la mia mente viene attraversata dalla visione di immense praterie. E vedo tutto dal punto di vista di un'aquila, libera di volare negli immensi cieli. 
Sento l'uomo alzarsi. 
Qualunque cosa tu stia per fare, ti prego, portami con te. Supplico voltandomi. 
Noto che è vestito tutto di nero. Perché a lui è concessa la tristezza, a lui è concesso di avere una vita più colorata possibile e tutti questi colori, intrecciandosi, mescolandosi diventano uno solo. 
Guardo verso il basso; adesso anche a me viene concessa la tristezza. 
L'uomo sorride bonariamente. 
Mi chiamo Desmond. Dice. 
Questa affermazione potrebbe non avere senso da sola, ma s'incastra perfettamente nel quadro per intero. 
Ho la visione esterna del mio corpo addormentato, del buio. 
Poi torna la luce. 

Cammino scalza per un corridoio dalle pareti diroccate. 
Al mio fianco c'è lui, l'uomo che soffre nel suo inconquistabile paradiso. 
Desmond. 
Ora che mi è permesso il nero riesco a comprendere la crudeltà che c'è nell'ostentazione di una gioia inesistente e - nel momento in cui il sentimento opposto non viene concesso - proibita. 
Anzi, ancor più nascosta e per loro, inconquistabile. 
Come per me lo è un luogo felice, senza sofferenze. 
So cosa stai pensando. È l'affermazione dell'uomo che cammina al mio fianco. 
È alto, ha un cappotto nero, uno sguardo assorto in un nulla infinito, in cui io non riesco a vedere niente, ma che probabilmente per lui ha un significato incredibile. 
Mi guarda negli occhi, con il suo sorriso che dà l'idea di un perenne ottimismo, nonostante tutte le avversità. 
Trascorro brevemente tre momenti della mia vita. 

Voglio suicidarmi, mi odio; non ce la faccio. Nel momento in cui fisso il bicchiere d'acqua e le pillole realizzando che sarebbe stato l'ultimo non voglio che sia così. Perché nonostante la mia vita sia misera voglio viverla del tutto, perché forse se morirò mi sarò persa il momento più bello.  

E cosa ci sarà dopo? Domando tra le lacrime. 
So che Ian sa cosa dirmi, ma non parla; resta immobile, fissandomi. 
So che Ian sa che la strada finisce qui, non c'è nessuna alternativa. 

Sul balcone godo di dei momenti di piacevole quotidianità. 
Quelle che posso vedere da qui sono le vite degli altri, e in questo momento mi appaiono tutti così felici. 
Si insinua una domanda nella mia testa. 
Perché non posso esserlo anch'io? 
Ogni volta ho la sensazione che ad attendermi ci sarà sempre una stanza vuota. Sarà sempre lì, ad aspettarmi. Non importa la fatica che potrò fare, l'impegno che potrò metterci. 
Quella stanza sarà sempre lì.


Ed è proprio una stanza vuota, quella in cui entro accompagnata da Desmond. 
Sento l'infelicità avvolgermi del tutto, come una coperta. Sento caldo, come se stessi per soffocare. 
Lui si sofferma a guardare in alto, di nuovo verso il soffitto. 
Io questa volta non vedo niente; i suoi sentimenti viaggiano in una dimensione a me sconosciuta. 
Tu credi nella reincarnazione, Hazel? Domanda assorto. 
Aggrotto le sopracciglia. 
No. 
Perché? 
Perché è assurdo. 
Mh. Sorride lui. 
Afferra dolcemente la mia mano, guidandomi. 
C'è una porta che conduce ad un'altra stanza, lì tutto diventa improvvisamente chiaro come se la nebbia presente prima, non ci fosse più. 
Sono sempre stata così triste? Domando con voce involontariamente acuta, strozzata dal pianto. 
Lo siamo entrambi... Risponde. 
Percepisco come se volesse aggiungere qualcos'altro, ma poi il suono si ferma, proprio sul più bello, forse.
Io sono atea. Affermo, guardando verso il soffitto. 
Nessuno sta parlando di religione. Obbietta lui, sempre con gli occhi rivolti all'insù. 
Ma tu sei... 
Non importa, non importa. Mi interrompe lui con aria serena. 
 La stanza si trasforma. 
Non è più una stanza vuota, ma è nuova. Questo sì.
Solo che nonostante lo sia non riesco a sentirla come inesplorata, perché ho come la sensazione di... 
Smettila! Trilla una ragazza entrando in una stanza. Ride; è felice. 
Ha un abito da sposa bianco e immacolato con uno strascico lunghissimo e ornato di ricami; è bellissima. 
Vicino a lei c'è un ragazzo dall'aria affascinante, come se rappresentasse il mondo pieno di ideali d'amore e di passioni che lei ha sempre voluto. 
Lui la aiuta a mettersi la tiara di diamanti, mentre lei viene attraversata da un lampo di tristezza. 
E io e Desmond siamo lì; nella stanza, ma i due non ci vedono. 
Non è suo marito. Commenta Desmond, di fianco a me. Per lui è come guardare un film. 
E come lo sai? Chiedo io. 
Tu sei lei, lei è te. 
Una frase semplice, struggente come una lama tagliente conficcata in pieno petto.  
Scoppio a ridere, quasi per nervosismo. 
... Ma lei è così... Bella. Dico meravigliata. 
Desmond mi squadra scherzosamente.  
Tu sei così, i capelli sono uguali... Dei fili dorati e bellissimi, no? E poi guardala bene. 
Sì, sono io. 
Sì. Mi fa eco lui. 
Chi è suo marito?
La risposta entra insieme ad un uomo dall'aria furiosa. 
Evangelina! Urla fissandola con rabbia. 
Lei - io - ha un aria mortificata e gli occhi colmi di lacrime. 
Io non... Sussurra. 
Senti, Carl. Noi.... Si intromette l'altro tra i due. 
Tu levati, figlio di buona donna! 
Quante altre volte hai visto questa scena? Chiedo angosciata, risentendo i sentimenti di Evangelina dentro di me. 
Tante, tante volte. In questa stanza viene riprodotta  sempre la storia di Evangelina. Mi piace la sua storia è romantica, anche se alla fine viene ripudiata e disonorata. 
La sua voce calma copre gli strilli di Evangelina, di suo marito e dell'amante. 
Mi sento offesa dall'indifferenza con cui tratta... Me
Lui si chiama George. Affermo, senza sapere perché mi sia venuto da dirlo. 
Sì, George Affel. 
Già. Sussurro. 
Il mio sguardo e quello immenso di Desmond si incontrano scatenando in me delle sensazioni inconsce, che non riesco ad identificare. 
Eternità. 
Portami in un'altra stanza. Dico, con un'entusiasmo del tutto nuovo. 
Va bene, andiamo. Accetta lui con gentilezza. 
Avrei potuto anche chiedergli di andare sulla luna e lui avrebbe risposto nello stesso modo. 
Mi guardo intorno; immersa in una dimensione onirica consapevole che quelle vite siano mie e che non vede l'ora di scoprirle. 
Al contempo mi inquieta l'idea di aver già vissuto, ma la sola e pura curiosità prevale su una paura inconscia. 

La mia anima è un'anima vagante, senza meta.  

Tu sei un dio o qualcosa di simile? Chiedo quando giungiamo in una stanza nuova, e sempre bianca. 
Quel bianco smette di darmi angoscia, per aprirsi all'ignoto, facendolo diventare esaltante. 
No, no. Nessun dio. Solo l'uomo che ha scoperto la più grande piaga in un perfetto idillio e che viene additato come pazzo. Ironizza in un modo così realista che non so cosa rispondere. 
Adesso siamo in un posto strano. 
Pavimenti di legno, tavoli bassi con vassoi di tè, tele ondeggianti dai colori rosati. Dal rosa, all'arancio, al rosso più intenso. 
Come quello delle labbra della ragazza che fa dei giochi strani con i ventagli davanti a me. 
Li fa svolazzare nell'aria, dimostrandone una padronanza assoluta e una grazia che mai potrebbe appartenermi. 
Eri una splendida geisha del Giappone feudale, gli uomini erano incantati da te. 
Come mi chiamo? Domando ingenuamente. 
Lui ammicca. Lo sai. 
Satsuki. Sussurro. 
Sorride. 
La geisha davanti a me mi dà un effetto ipnotico; ci sediamo entrambi per terra a gambe incrociate. 
I tessuti ondeggiano davanti a noi, insieme al magnifico corpo di Satsuki. Non posso essere io. 
Potrei restare a guardarla per ore e non esserne mai annoiata. 
Desmond sembra essere del mio stesso avviso, così ci perdiamo tra i movimenti armonici della geisha, tra lo svolazzare dei ventagli... E i profumi d'incenso, di tè, di legno antico. 
Li sento subito miei e mi evocano ricordi crudeli. 
La ragazza bellissima davanti a me, con i suoi capelli corvini che sferzano l'aria seguendo i movimenti leggiadri del corpo, ha sofferto. 
Chiunque meriti di essere considerato vivo, ha sofferto. Il punto è trovare la propria forza, Satsuki l'ha fatto. Afferma Desmond.
E Evangelina? 
Si è suicidata. 
Io ho... 
Sì, so che volevi, ma hai promesso di trovare la tua forza. 
Sì. 
Segue una pausa di silenzio in cui ci limitiamo a vivere il ricordo. 
Evangelina è tua moglie, vero? Dico lasciando che le parole scorrano velocemente, come il fruscio delle foglie autunnali. Io sono tua moglie, in quest'altra realtà. In questo mondo parallelo in cui tutto dovrebbe essere migliore il corpo di lei è stato depositato. 
Tutte le vite che sono state già vissute vengono lasciate qui, con una piccola parte di una misera anima. 
Non serve che mi venga spiegato, non so perché, ma lo so.
Per la seconda volta da quando l'ho visto, nel suo sguardo la sofferenza prevale. E so per certo che quella sofferenza è eterna. Come quella di Satsuki, come quella di Evangelina. Come la mia. 

Sono in un altro posto ancora e questa volta mi viene risparmiata la visione della stanza bianca. 
È un cumulo di macerie distrutte dalle bombe, quelle su cui camminiamo io e lui. 
Il fatto che ci sia permesso di vestire di nero - di soffrire - ci dà la forza di continuare a camminare, camminare e camminare. 
Arriviamo ad un promontorio da cui si vede una spiaggia. 
Si respira un aria polverosa, grigiastra e mortifera. 
Quella non è solo infelicità, è distruzione dell'essere umano. 
Vediamo tutti i soldati già stabilitasi nella spiaggia camminare vicino a noi a passo spedito, ma sfiniti dalle fatiche a cui sono stati sottoposti. 
Ai lati della strada ci sono dei cadaveri e io non oso avvicinarmi. 
Tutto ciò mi riempie di un'angoscia tale che devo girarmi. 
Guardo il mare. 
È mosso, d'un colore inquieto. Tra il verde scuro tendente al blu e il grigio. 
Come i miei occhi. 
Io e Desmond siamo gli unici che si soffermano ad ammirare il paesaggio, perché è l'unico modo che abbiamo per distrarci da quella devastazione che io non voglio accettare e che lui conosce benissimo. 
Inizio a sentire le gocce di pioggia sulla mia pelle nuda, ma non ho freddo. 
La tristezza torna da me, come una vecchia amica. 
... E io dove sono in tutto questo? Domando. 
Lui indica un punto, sempre con la solita aria serena, ma cercando di non guardarmi in faccia. 
Un cadavere tra i cadaveri ammucchiati in mezzo alla strada. 
Muoio sempre. Le lacrime scendono calde sul mio viso, mescolandosi alla pioggia. 
Forse dovremmo andare, sta iniziando a piovere. Dice lui mantenendo lo sguardo dritto verso l'orizzonte. 
Sorrido malinconicamente. 
Non importa, mi piace la pioggia.
Chiudo gli occhi abbandonandomi ad una rasserenante oscurità. 
Vorrei vedere tutte le vite che ho vissuto, tutte quelle che vivrò, ma torno sulla mia. 
Ho di nuovo l'impressione di vedermi dormire; questo sogno è così vivido che inizio a pensare di non essermi mai addormentata sul serio. 
Però, la pioggia continuo a sentirla. Ancora e ancora. 
E anche i passi dei soldati, e lo scroscio delle onde. 
Un'altra volta, altre mille volte.
All'infinito.

 

Angolo Autrice.

Come al solito in ritardo e all'ultimo riesco a consegnare la fic per questo concorso.
L'ho scritto in parte durante una giornata di merda, infondendovi tutti i miei sentimenti di tristezza e robe simili. AHAHAH.
Ho deciso di trattare questo tema perché mi interessa la reincarnazione, le origini delle religioni (pur essendo io non credente) e perché volevo narrare una storia strana e in cui ci fosse un elemento storico.
Non a caso, Anni Venti (Evangelina), Giappone Feudale dell'800 (Satsuki), Seconda Guerra Mondiale (ragazza francese morta di nome Claudine cosa che non ho esplicato, ma chissenefrega lol).
Spero vivamente che io non abbia vaneggiato in questa storia che nonostante la stanchezza ho cercato di curare al massimo provando a trasmettere tutte le sensazioni possibili.
Fatemi sapere, se volete tramite una recensione se la storia vi è piaciuta. *w*
Un bacio e alla prossima;

Marlene
   
 
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