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Autore: Agapanto Blu    18/12/2013    18 recensioni
Osservai l’auto fare retromarcia e poi mi voltai verso la scuola. Prima di entrare, però, lanciai un’occhiata verso l’alto: il moro non c’era più ma il biondino sì e continuava a fissarmi come se fossi stato la promessa vittima di un film horror.
Quando Mathieu decide di rivelare al padre la sua omosessualità spera in un aiuto per risolvere la confusione e la paura nella sua testa, nonostante i suoi non ci siano mai stati per lui. L'ultima cosa che il ragazzo si aspetta è di essere cacciato per questo e iscritto alla Chess Academy, una scuola maschile molto esclusiva in Inghilterra.
Ma è qui che arriva il peggio, perché nella scuola esistono due soli colori, o bianco o nero, e le vie di mezzo vengono brutalmente soppresse.
Mathieu non vuole questo, non vuole essere un sovversivo e non vuole lottare, certo non vuole l'oppressione che sente addosso e spesso pensa di chinare la testa e smettere di resistere.
Sarebbe facile, quindi perché non farlo? Semplice: perché gli occhi di Gregory, ragazzo spigliato e decisamente ribelle, sono troppo azzurri.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Scolastico
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Oppure no?

 
Circa sessantasei anni prima dell’Epilogo…
 
Questa me la pagherà, oh se me la pagherà!
Si alitò sulle mani più e più volte nel tentativo di scaldarle. Non importava che avesse un paio di guanti senza dita sopra un paio di guanti normali, non faceva differenza; non importava quante maglie, quanti maglioni e quante giacche, o quanti berretti e quante sciarpe. Aveva freddo. Sempre. E sempre lo avrebbe avuto.
Scosse la testa per scacciare il ricordo inopportuno di quella notte, la notte in cui aveva capito davvero cosa fosse il freddo, in cui aveva pensato di lasciar perdere e in cui aveva supplicato per un aiuto che non era arrivato proprio da nessuno. La notte più brutta della sua vita, in pratica.
Alzò lo sguardo sulla strada e la scrutò in entrambi i sensi, ma senza trovare ciò che cercava. Ennesimo sospiro.
Decisamente, me la pagherà.
L’usciere dell’hotel gli rivolse uno sguardo dubbioso, palesemente incerto se chiedergli cosa stesse facendo o se fare ciò per cui era pagato in sostanza, ossia fingere di non vedere.
Ryan sospirò. Se uno solo di quelli si fosse degnato di ascoltare la propria coscienza, sua madre sarebbe stata in galera e punto e chiuso. Non incolpava suo padre di non aver mai mosso un dito per lui, quel pover’uomo era a malapena cosciente di essere al mondo tra una bottiglia e l’altra di superalcolici, ma sua madre era una strega e lui non l’avrebbe mai perdonata. Non che avrebbe più avuto tante occasioni di parlarle.
Il braccio pulsava dolorosamente dove le schegge di vetro erano ancora piantate nella carne. Dopo avergli tirato contro qualsiasi oggetto possibile e averlo fatto finire per terra a tenersi il corpo ammaccato da libri e vasi e altro, la sua cara mammina era passata ai calici da vino di suo padre e aveva ben deciso di spaccargliene uno sul volto. Se avesse alzato il braccio un secondo più tardi, la sua bella faccia sarebbe diventata una bella metà faccia. Ma la differenza tra sua madre e la Chess era che da sua madre era molto più facile scappare.
 
La spinse via con tutta la forza che trovò e si alzò in piedi, una mano stretta al braccio sanguinante. Per un attimo guardò le nuove ferite, poi la faccia di sua madre, rossa di rabbia, quindi decise.
“Vaffanculo.” le sibilò contro prima di darle le spalle e correre alla propria stanza.
La sua camera era la matrimoniale poiché, visto che sua madre si rifiutava di dormire con suo marito, lui avrebbe dovuto dividerla con suo padre. Padre che trovò seduto sul letto, una mano tra i capelli e l’altra penzolante tra le cosce ma saldamente aggrappata al collo di una bottiglia.
“Te ne vai?” chiese l’uomo, il tono un po’ biascicato che indicava la sbronza imminente.
Ryan chiuse a chiave la porta alle proprie spalle e raggiunse la propria valigia, ancora da disfare dopo la Chess.
“Sì.” disse solo.
“Dove?”
Ryan strinse i denti. Era ovvio che non lo sapesse! Ancora non era nemmeno fuori dall’hotel! Ma era così fottutamente stanco di prenderle ovunque stesse, alla Chess o a casa o all’estero quando viaggiava con i suoi o perfino in vacanza. Era stanco di dover raccattare suo padre ubriaco e di dare la colpa a dei farmaci inesistenti davanti ai giornalisti, di dover buttare i cocci –se ne aveva la forza– di ciò che sua madre gli aveva tirato contro, di dover rovinare la propria vita per rendere felici persone che odiava con tutto il cuore. Era stanco e basta.
“Tua madre non ti manderà la tua roba…” continuò suo padre, ignorando la rabbia con cui il figlio si stava vestendo e il silenzio alla sua ultima domanda.
“Come se mi importasse.” sibilò Ryan in risposta afferrando saldamente il proprio borsone.
E dieci minuti dopo, il tempo di una telefonata veloce, era fuori dall’hotel, fuori dalla sua vita e fuori dalla sua famiglia.
 
Tremò, ma strinse i denti e finse di non sentire il panico che montava nel suo petto. Non aveva mai patito il freddo fino alla notte in cui la Williams non l’aveva gettato nella neve a lasciare che rischiasse l’assideramento. Adesso, il minimo spiffero riportava la sua mente a quella notte e lo terrorizzava.
Portò una mano all’avambraccio ferito e lo strinse con tutta la forza che aveva, chiedendosi quanto tempo avesse prima che il sangue venisse assorbito da tutti gli strati e facesse la sua comparsa sulla manica in una bella macchia saltante all’occhio. Allora sì che sarebbe stato fantastico vagare per città senza una meta o un tetto o un soldo. Vai, Ry: così si fa.
Ryan sospirò, pronto ad accogliere gli insulti della sua mente, ma prima che potesse farlo un taxi si fermò davanti all’hotel e lasciò uscire dalla sua portiera l’unica persona che avesse il potere di farlo sentire un minimo meglio.
E invece di fargliela pagare, l’unica cosa che Ryan volle fare nel vederla fu tirarsi un pugno nei denti.
“Oh Dio, Lucy!” esclamò, terrorizzato, quando vide la ragazza mettersi sulle spalle un borsone di forma particolare dalla cui chiusura…precaria…penzolava malamente la manica di un golfino.
Lucille Gray ignorò la sua paura per sorridergli, corrergli incontro, lasciar cadere il borsone e abbracciarlo con tutta la forza che possedeva. Ryan non riuscì ad accantonare il pensiero di quello che la sua ragazza aveva fatto, ma finse di farlo per un attimo mentre le avvolgeva le braccia alla vita e alla schiena e nascondeva il visto nella massa morbida e luminosa dei suoi capelli fatti di boccoli castani striati di miele. Lucille era diventata ancora più bella in quegli anni in cui non si erano parlati, si era alzata e il suo petto si era ammorbidito, la sua figura era diventata più femminile, ma le labbra e il profumo e quei maledetti occhi verdi come l’erba a Maggio che gli avevano fatto perdere la testa erano rimasti gli stessi in ogni minimo dettaglio.
“Lucy, mi dispiace…” sussurrò Ry stringendola ancora di più, “Mi dispiace, non ho pensato prima di chiamarti! Dio, se l’avessi saputo, non l’avrei mai fatto! Tu non sai quanto vorrei poter tornare indietro, io…”
“Ehi!” Lucille si staccò giusto il necessario per spostare le mani dalla schiena alle guance di Ryan quindi gli rivolse il più luminoso dei propri sorrisi mentre cercava di fargli sentire quel calore che, lo sapeva, la sua famiglia gli aveva portato via. “Va tutto bene, d’accordo?” provò a rassicurarlo, “È andata così, ma non è colpa tua!”
“Sì, certo…”
“Sì, te lo giuro!” lo rimproverò lei mettendo a tacere il suo borbottio offeso. Lucille sospirò sapendo che convincere il suo ragazzo sarebbe stata un’impresa, quindi fece scorrere il dorso della mano sotto il suo occhi, cancellando con noncuranza una lacrima fuggitiva. “Ryan, io non credo che saremo gli unici, sai?” Ry aggrottò la fronte a quelle parole, ma lei annuì, convinta anche se tristemente. “Ci sono cose…che non si possono dimenticare, capisci? E la Chess, come la Checkers, è tra queste. Io non…” scosse la testa, alla ricerca delle parole, “Io non sarei più riuscita a guardare in faccia i miei, a svegliarmi la mattina e trovarmeli davanti fino a sera. Lo so che è finita, ma lo stesso ogni volta che li guardo, vedo le persone che mi hanno rinchiusa per mesi in quel posto, vedo i bastardi che hanno rinchiuso mio fratello in quell’inferno per quattro anni e che hanno contribuito a farci finire il mio ragazzo.” sospirò al ricordo di suo padre che chiacchierava con la madre di Ryan di come la Chess fosse perfetta per ragazzi come i loro, “Anche se tu non mi avessi chiamata, Ry, me ne sarei andata lo stesso, prima o poi. Non posso dimenticare quello che ci hanno fatto, né posso perdonarli. E so che non sarò l’unica, so che un sacco di ragazzi torneranno a casa e scopriranno di vedere le proprie famiglie…in modo troppo diverso per accettare di restare con loro.”
Ryan sorrise, mesto.
“Come fai ad esserne sicura?” chiese, piano.
“Ne sono sicura perché sono stata all’Inferno e l’ho visto.” rispose lei, senza esitazione.
Niente da fare, nessuno avrebbe mai sconfitto Lucille Gray. Ryan, quindi, si arrese e sospirò poi però la guardò con serietà.
“E adesso che facciamo?” chiese.
Erano due adolescenti senza un soldo, senza un familiare disposto ad aiutarli e senza neanche un diploma, ma in compenso provvisti di due influenti famiglie determinate a distruggere loro la vita. Avevano proprio tante prospettive davanti a loro.
Per un attimo Ryan vide la sua stessa preoccupazione negli occhi della sua ragazza, ma lei era troppo tenace per mostrarla.
“Ho visto un ponte carinissimo venendo qui, sai?” scherzò, riuscendo addirittura a strappare ad entrambi un mezzo sorriso.
“Beh, certo, c’è anche il ponte, ma io pensavo a qualcosa…con più muri, ecco.”
Ryan sollevò lo sguardo, sorpreso, e Lucille si voltò di scatto quando una voce nota li raggiunse. Sotto lo sguardo sgomento dei due piccioncini, la testa di Greg sporgeva, munita di sorrisetto soddisfatto, dal finestrino del taxi che aveva appena accostato al marciapiede.
“Che diavolo ci fai tu qui?” esclamò Ryan, sgomento. Non dirmi che anche lui…!
“Disattiva la modalità mamma chioccia, Ry: non sono scappato di casa, io.” lo prese in giro il biondo aprendo la portiera ma senza scendere, “Forza.”
Lucille aggrottò la fronte.
“Cosa vuoi fare?” chiese.
“Affitto una casa e vi ci lascio, cosa vuoi che faccia?” sbuffò il biondo, fintamente offeso, “Tu a casa non vuoi tornare e Ryan sono io che non voglio che torni alla sua: non restano tante opzioni, no?”
Lucille e Ryan si scambiarono un’occhiata, ma il freddo era notevole e così raccolsero i propri bagagli e salirono sul taxi mentre Greg dava un nuovo indirizzo.
“Quando hai cercato una casa?” chiese Lucille, confusa, scivolando in mezzo per permettere al fidanzato di sedersi accanto a lei, che rimase così tra lui e il fratello.
“Quando hai iniziato a strillare contro papà perché non ti lasciava raggiungere Ry.” ammise Greg con un sorriso gentile, poi si sporse verso l’amico, “Ah, mi raccomando: niente sesso prima del matrimonio, eh? Te l’affido, ma me la devi rispettare e…”
“Ti ricordo che finché io non faccio sesso con lei, tu non puoi fare sesso con nessuno.” lo interruppe Ryan.
Greg esitò solo un attimo.
“La casa è a due minuti da qui: mi raccomando, ho letto che andare a letto con il partner è il modo migliore per scaldarsi, sì sì, e oggi fa taaaaanto freddo!”
Ryan scoppiò a ridere ma Lucille aggrottò la fronte.
“Dovrei sapere di cosa state parlando?” chiese.
I due ragazzi si scambiarono un’occhiata.
“Naaaaaah!” risposero poi all’unisono.
 
Circa sessantatre anni prima dell’Epilogo…
 
Ryan chiuse la porta alle proprie spalle ed esitò, guardandosi attorno come temendo un’aggressione da un momento all’altro.
Lucille, entrata un attimo prima di lui, si voltò per guardarlo con confusione.
“Va tutto bene?” gli chiese.
Lui aggrottò la fronte.
“La casa è nostra?” ribatté, dubbioso.
Lucille scosse la testa, esasperata, ma annuì.
“Sì, amore, l’abbiamo definitivamente comprata.” lo rassicurò con un sorriso, ma lui continuò a fissarla con sospetto, come se non si fidasse di lei.
“Il conto non è in rosso?”
“No, amore, non lo è.” sospirò la ragazza, pur mantenendo la calma.
“Mi hanno preso?” chiese ancora Ry, sempre più insospettito.
“Sì, amore, ti hanno preso e sei il nuovo insegnante di scienze sociali alla neo-fondata Chess Academy. Mi dici che cos’hai?” Lucille si piantò le mani sui fianchi e quando si piantava le mani sui fianchi, non c’era santo che tenesse.
Ryan scosse la testa.
“C’è qualcosa che non quadra. Va tutto troppo bene.” borbottò, “Dove diavolo sono finiti i tuoi genitori e soprattutto dove diamine è finita mia madre?!”
Lucille scoppiò a ridere, ma fu una risata un po’ falsa, forse la prima della sua vita. Una parte di lei, comprendeva fin troppo le paure che Ryan stava in quel momento esagerando. In tre anni, non c’era stato nulla che non si fossero dovuti sudare duramente, mai una volta che le loro famiglie non fossero intervenute per dar loro tanto ma tanto da penare. Certo, Gregory e gli altri erano stati un aiuto prezioso, ma era comunque stata durissima.
“I miei sono impegnati a costruire bambole voodoo con le sembianze di mio fratello e del suo promesso sposo, se può farti sentire meglio.” disse invece, scacciando i brutti pensieri con un sorriso e posando piano la mano sulla pancia appena distesa del quarto mese, “E tua madre starà cercando un modo, nel suo antro spettrale, di trarre a sé sua nipote per renderla l’erede universale di tutte le sue ricchezze.”
Bastò l’accenno all’imminente matrimonio di Mathieu e Gregory e alla bimba che Lucille portava in grembo per riaccendere la luce e il sorriso sul viso di Ryan che le si accostò e posò una mano sulla sua pancia, facendola scorrere fino a trovare il punto dove la piccolina in questione stava scalciando leggermente.
“Bah, al diavolo quei vecchi bacucchi, vero amore?” chiese alla bambina inginocchiandosi a terra per portare il viso davanti alla pancia della moglie, “Non ci servono e non ci fanno paura. Tanto noi abbiamo la mamma, loro ci fanno un baffo!”
Lucille rise e scosse la testa poi allungò la mano ad accarezzare il volto del ragazzo che aveva sposato un anno prima, nel bel mezzo di una notte di Febbraio con suo fratello a testimoniare per lei e il fidanzato di Greg a testimoniare per Ry: quattro ragazzi, neve per riso, un bouquet di fiori finti e due piccole fedi di rame. Il matrimonio più bello che potesse sognare.
“Ti amo tanto, lo sai?” gli chiese, le lacrime agli occhi nel vedere il suo volto e nell’accarezzare le piccole cicatrici sull’avambraccio, ricordo del giorno in cui era scappato di casa, lasciate scoperte dalla maglietta a maniche corte.
Ryan era cambiato. Gli stessi occhi scuri, gli stessi capelli castani, ma la pelle più chiara e lo sguardo, a sorpresa, più felice: non importava quanto avesse le guance scavate, quante preoccupazioni gli facessero aggrottare la fronte ogni giorno e quante lacrime avesse versato con lei di notte quando non avevano idea di come avrebbero fatto anche solo a trovare il coraggio di alzarsi il giorno dopo. Era felice perché per una volta nella sua vita prendeva le sue decisioni da solo, faceva ciò che era la sua anima a chiedere e accettava ciò che ne arrivava con il sorriso.
“Lucille,” la rimproverò lui, diventando serio, “non ho mai dimenticato tutto ciò che hai fatto per me, né l’amore che mi porti. Ma tra i due, sono io quello che ama di più perché, se tu non esistessi, io sarei come un’equazione senza uguale.”
“Un’equazione senza uguale?”
“Una sfilza complicata di numeri e lettere senza un fine che non riusciranno mai a trovare una soluzione per se stessi.”
Lucille sorrise.
“Quindi io sono il tuo uguale?” chiese.
Ryan si tirò su e la baciò poi si staccò appena per sorriderle.
“No, tu sei la mia soluzione.”
 
Circa sessantatre anni e venti minuti prima dell’Epilogo…
 
Walter salutò Larry e uscì dalla biblioteca.
Quel vecchio pazzo di Lar avrebbe messo a posto quei volumi polverosi da solo, era il nuovo insegnante di inglese della Chess quindi poteva occuparsene. Lui, in fondo, era solo l’infermiere responsabile di quella scuola e il suo compito, al massimo, era di occuparsi dell’infermeria –che faceva davvero schifo, a riprova di quanto poco fosse fregato ai precedenti occupanti di curare gli allievi–.
Errore che qui non sarà ripetuto., si ripromise, tra sé e sé, mentre si dirigeva verso le scale. Aveva finito la laurea triennale di infermeria, adesso avrebbe studiato tramite internet per il corso di medicina e si sarebbe recato in facoltà solo per le lezioni pratiche e per gli esami. Sapeva che sarebbe stata dura, ma la Chess era più importante. Quella scuola, ristrutturata e aperta di nuovo con un’amministrazione e un corpo docenti totalmente diversi, era il riscatto di tutti coloro che ci avevano passato anni dentro ed era la seconda possibilità per quelli che, come Greg e Mat e Ryan, ne erano usciti troppo cambiati per tornare alla loro vita di prima.
Walt sapeva di essere fortunato, era l’unico entrato nella Chess di sua spontanea volontà e non per ordine dei suoi. Anzi, la vera battaglia con la sua famiglia l’aveva dovuta combattere per convincerli a lasciarlo rimanere là nonostante le punizioni corporali: i suoi genitori e suo fratello avrebbero voluto portarlo via, ma lui aveva deciso di restare e di combattere da dentro, con i suoi amici. Adesso, dopo tre anni, la sua famiglia aveva accettato anche quel secondo colpo di testa e Walter gliene era dannatamente grato.
Mentre saliva le scale verso il quinto piano, incrociò Scott che correva giù, ma non fece in tempo a chiedergli cosa avesse che era già sparito. Pace, i ragazzi della Chess non avrebbero potuto dire che il loro insegnante di educazione fisica non era un tipo atletico.
Scrollò le spalle e riprese a salire, sbirciando di volta in volta dalle porte dei vari piani per controllare gli ultimi lavori. Arrivato a destinazione, entrò e si fermò sulla soglia ad ammirare.
“Immagino potesse andarci peggio.” commentò guardando le pareti con la vernice di un azzurro tenuissimo ancora fresca.
Il biondo al centro del corridoio annuì, ma non si mosse, continuò a dargli le spalle e a fissare il lavoro appena concluso con le mani sui fianchi e un pennello gocciolante liquido sui pezzi di giornale stesi a terra.
Walter scosse la testa con un sospiro, ma si staccò dall’ingresso per raggiungere l’altro.
“Come saranno felici i ragazzi di sapere che le loro stanze sono state dipinte addirittura dal preside!” scherzò fermandosi accanto all’amico.
Questi rise e si voltò verso di lui.
“Credimi, Walter,” disse Alex, sorridendo e fissandolo come un monello con quei suoi occhi semi-nascosti dallo spettinato ciuffo di nuovo tinto di blu, “saranno felici e basta.”
 
E questa è veramente la…
FINE





 

Davvero, questa volta. Fine, per tutti. Per Mat, per Greg, per Ry, per Lucille, per Walter, per Alex, per Scott e per Larry. Fine per voi, fine per me.
Ho sempre detto che credo nei vostri consigli e che sono disposta a scrivere, se c'è qualcosa che vi interessa: lady_poe, mi hai chiesto cosa fosse successo a Ry e spero davvero di averti accontentata :)
Per l'ultima volta in questa storia,
ciao ciao!
Agapanto Blu
  
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