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Autore: Merkelig    18/12/2013    4 recensioni
Il luogo è ignoto. Il tempo anche. Le persone stesse non hanno nome. perché, alla fine, i nomi non contano. Non contano i titoli, i fregi, i riconoscimenti. Non quando ormai non resta praticamente nient'altro per cui lottare.
Dal testo:
"[...] Guardai la bambina, ancora immobile al suo posto.
Non sapevo perché fosse rimasta lì.
Non faceva altro che fissarmi.
Con occhi che si ingigantivano e che alla fine mi fagocitarono.[...]"
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’aria era satura di fumo. Dall’asfalto scolorito e smangiato dalle esplosioni si levava una polvere finissima, sottile e infida come la cipria. La polvere si infilava agilmente in ogni interstizio scoperto, sotto la tuta, sotto il mio casco, fino ad appiccicarsi sulla mia pelle nel tentativo di contagiarmi con l’aspetto pallido e malato che tutti i superstiti della zona dovevano aver assunto dopo anni e anni di esposizione. Gli scarti tossici nell’aria superavano il sistema di filtraggio della visiera e mi entravano nel naso, nella bocca, tentando di ostruirmi la gola e i polmoni. Tentando di contaminarmi dall’interno.

Tossii.

Spalle alla pietra mi affacciai dal basamento di una colonna al centro della piazza. Della statua restava a malapena la targa affissa alla pietra

 

Il silenzio era agghiacciante.

 

L’unica traccia rimasta degli uomini che, oltre a me, erano sopravvissuti, erano delle cifre verdognole che lampeggiavano debolmente davanti alla mia visuale. Il bio innesto di potenziamento collocato al di sotto del mio zigomo sinistro non rilevava altre forme di vita.

 

Obbedendo inconsapevolmente al mio addestramento, corsi al portone più vicino e salii d’un fiato due rampe di scale. Raggiunsi un appartamento a caso ed entrai.

Quella che una volta doveva essere stata la casa di qualcuno, ora era soltanto una arida piattaforma a cielo aperto. Se tendevo l’orecchio potevo quasi udire l’amarezza e il dolore di quelle anime senza nome, perdute in un giorno qualsiasi, un anno qualsiasi.

 

 

xxx

 

 

Un rumore.

Mi voltai di scatto e incrociai un paio d’occhi vitrei.

Sulla soglia, una bambina con il volto scavato per la fame, i vestiti a brandelli, i capelli ridotti a un groviglio informe. E degli occhi scuri così profondi, così grandi. Per contenere l’immensità di tutto quello che aveva visto.

 

Fu un attimo.

 

Stupidamente, avevo dato le spalle all’ampia breccia nel muro che doveva essere stata una finestra.

Un sibilo. Un fruscio appena accennato.

Feci appena in tempo a scartare di lato che una lunga freccia si piantò a fondo di fronte a me.

Rapidamente, schiena alla parete, cercai a tentoni il grilletto.

<< Il reparto di fanteria leggera. Il sottoreparto armato ad arco. >> fu ciò che il bio innesto mi trasmise.

<< Porca puttana.>> fu ciò che pensai io.

Non sarebbe stato facile cavarsela, poco ma sicuro.

 

Non avevo idea di cosa fare. Di come comportarmi. Un sottile velo d’ansia aveva appannato i miei sensi. Il tecno condizionamento per il momento teneva a bada la paura che sentivo attecchire dentro di me ma sapevo che presto essa sarebbe cresciuta troppo e che alla fine avrei perso il controllo.

Guardai la bambina, ancora immobile al suo posto.

Non sapevo perché fosse rimasta lì.

Non faceva altro che fissarmi.

Con occhi che si ingigantivano e che alla fine mi fagocitarono.

Non so per quanto tempo rimasi senza muovermi, quasi senza respirare.

Per quanto rimasi in una sorta di limbo.

Il tempo doveva essersi fermato.

So solo che all’improvviso ne riemersi, di botto.

Come se mi fosse stata data una scarica.

 

Mi alzai in piedi.

 

- Arciere!

 

Gridai.

 

Un’ altra freccia. Uno strale di purissimo acciaio.

 

- Arciere! – ritentai – devo parlarti!

 

Lui non rispondeva. La sua mira si stava aggiustando.

 

- Ascoltami!

 

Un dardo si portò via qualche goccia del mio sangue.

 

<< Al diavolo! >> pensai.

 

Chiusi gli occhi e uscii allo scoperto.

 

 

xxx

 

 

Mi ritrovai su una stretta piattaforma di cemento, che minacciava di crollare da un momento all’altro.

Poco più sotto, l’arciere mi teneva sotto tiro con la sua arma.

Accanto alla tuta da combattimento, nero pece, che portava, riuscivo a distinguere un fucile da precisione e la faretra con gli strali, che scintillavano pericolosamente.

Non mi servì la bio vista per distinguere i suoi occhi, di un azzurro incredibile, sottolineati dal trucco ornamentale che distingueva il suo popolo.

Il suo sguardo era gelido.

 

- Ascoltami. – portai le mani all’altezza delle spalle, per dimostrare di non avere cattive intenzioni.

- qui con me c’è una bambina sopravvissuta. Possiamo salvarla se tu ora…

 

Non riuscii a pronunciare nient’altro. La freccia mi aveva trapassato lo sterno da parte a parte, senza lasciarmi possibilità di scampo.

 

Caddi al suolo senza emettere neanche un gemito.

 

 

ooo

 

 

Salii le scale senza fretta. Il soldato che avevo colpito pochi secondi prima non avrebbe potuto sopravvivere ancora per molto. Era improbabile che scappasse.

 

Ciononostante, incoccai prima di affacciarmi.

 

Mi avvicinai con i sensi all’erta. La bambina mi osservava senza mostrare emozioni. Voltai l’angolo e mi preparai a mirare un qualunque bersaglio, ma non c'e n’erano. Quattro passi più avanti, giaceva il soldato che avevo trafitto.

 

Con un calcio allontanai il fucile. Poi, con la punta di uno stivale, lo girai e gli puntai l’arma al viso.

 

Attesi immobile, ma lui non si mosse.

 

Attivai di malavoglia il bio sensore che mi informò del decesso. Riposi la freccia e, ginocchio a terra, mi chinai per permettere al bio sensore impiantato nella mia pupilla sinistra di riconoscere la piastrina di riconoscimento, alla base della nuca.

 

Maledetto casco.

 

Posai l’arco e rimossi il casco dalla testa del cadavere. Una cascata di finissimi capelli neri mi scivolò tra le dita.

 

Mentre l’ hard disk posto sotto il cervelletto lavorava per decodificare la piastrina e immagazzinare i dati, io sostenni pazientemente la nuca del soldato.

 

Una giovane donna, dai tratti caucasici. Un viso sbarazzino, con le labbra grandi e chiare. Gli occhi, verdissimi, appena socchiusi. Il viso sembrava disteso. Lontano.

 

Un bip mi informò del lavoro concluso. Posai delicatamente il capo della giovane a terra e mi rialzai, raccogliendo l’arco. Se il mio cervello percepì e registrò quel leggero tremore che mi prese le mani in quel momento non ne serbò memoria. Lo catalogò sotto “risposta emotiva controproducente alla sopravvivenza” e lo spazzò via.

 

Mi voltai e me ne andai.

 

 

 

 

 

 

 

  
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