«A
domani. Promesso.»
Peeta
mi regala un ultimo, rassicurante sorriso, uno di quelli che di
solito hanno l'eccezionale potere di calmarmi, di riportarmi ad uno
stato di quiete che non credevo avrebbe mai più potuto
appartenermi.
Sorrido a mia volta, un poco rincuorata, e lo osservo arrabattarsi
tra il controllore ed il piccolo bagaglio a mano mentre sale sul
treno che lo porterà nel Distretto 4, da Annie. Io non me la
sono
sentita di seguirlo.
Peeta
sta continuando a salutare con la mano me e gli altri pochi amici
fermi sulla banchina; a parte Effie, melodrammatica come al solito,
nessuno si profonde in stucchevoli e lacrimosi addii. Al contrario.
Io me ne sto rigida al mio posto, lo sguardo fisso sulla nuvola di
riccioli biondi che mi guarda teneramente da dietro il finestrino del
convoglio in movimento. Haymitch ha messo su quella sua tipica
espressione incollerita che con gli anni ho imparato a ricondurre
alla cosiddetta astinenza forzata impostagli da
Effie, e ha
l'aria di uno che non desidera altro che tornarsene al sicuro della
propria casa, magari con una bottiglia di whisky o due in mano. Il
treno ad alta velocità è ormai scomparso
all'orizzonte e ho la mano
ancora levata verso l'alto in segno di saluto.
«Odio
davvero,
davvero,
davvero tanto gli addii»,
squittisce enfaticamente Effie asciugandosi gli angoli degli occhi
imbrattati di un ombretto verde pisello, la sua più tipica
smorfia
addolorata sulle labbra dipinte d'arancio. Haymitch la guarda come se
le fosse spuntata un'enorme pustola tra gli occhi, segno che sta per
dire qualcosa di sprezzante.
«Il
ragazzo sarà di ritorno domani sera. Domani sera,
per la
miseria»,
bofonchia arcigno,
allungando una mano verso la tasca del cappotto alla disperata
ricerca della sua fidata fiaschetta e ritraendola subito dopo essersi
ricordato che qualsiasi tipo di bevanda che non sia acqua tonica gli
è stata sequestrata appena cinque ore fa, quando Effie ha
fatto la
sua comparsa alla porta della sua villa con dieci valigie alla mano e
l'aria di chi ha intenzione di tornarsene a casa dopo veramente
tanto, tanto, tanto
tempo.
Sospiro
stancamente, sopportando a stento l'irritante battibecco tra Haymitch
ed Effie che mi accompagna fino al cancello d'ingresso del Villaggio
dei Vincitori.
Nonostante
tutte le arene siano state demolite dopo la ribellione, questi
insulsi Villaggi sono ancora al loro posto, degli inutili
appezzamenti perlopiù disabitati che ci ricordano
costantemente a
chi erano destinati. Haymitch non ha un'altra casa perciò
vive
ancora qui, e Peeta ha voluto seguire le sue orme, installandosi
nell'edificio contiguo. Come una volta. Io ho esitato a lungo prima
di prendere una decisione definitiva. Inizialmente pensavo di
ricostruire la mia vecchia casa al Giacimento. Peeta non era sicuro
che riportare in vita un pezzo di passato tanto importante avrebbe
giovato alla mia salute già di per sé precaria.
Ci sono volute
innumerevoli e aspre discussioni prima che gli dessi ragione.
Saluto
con un cenno della testa Effie e Haymitch, che spariscono all'interno
dell'abitazione di quest’ultimo tra strilli oltraggiati e
burberi
vilipendi senza degnarmi della minima attenzione. La porta
scricchiola, e noto che il pomello ha bisogno di una generosa
lucidata. Da quando ho fatto ritorno nel 12 e vivo da sola mi
è
difficile occuparmi delle faccende domestiche. Non mi si addice.
Preferisco di gran lunga passeggiare nei boschi. La mia casa
è
lasciata un po' al suo destino. Appendo il pesante giaccone
sull'appendiabiti all'ingresso, poi avanzo nel piccolo spazio buio
che porta alla cucina vuota. Trovo un cestino colmo di fragranti
pagnotte ancora fumanti e un mazzolino di fiori sul tavolo,
più un
biglietto.
Tornerò prima che tu abbia il tempo di sentire la mia mancanza.
Peeta
e la sua dolcezza infinita. Arrossisco un po', come faccio sempre
dopo una delle sue dimostrazioni d'affetto nei miei confronti.
Afferro un panino e lo sbocconcello a piccoli morsi, poi inspiro a
lungo il profumo del Prato, delle nostre primule, delle margherite e
dei denti di leone, sentendomi per un attimo in pace con me stessa.
È
incredibile come siamo riusciti a rivivere dopo tutto ciò
che è
successo. Ritornare alla vita, uscire dalla depressione che ci ha
colpiti entrambi, inesorabilmente.
Io
ho Peeta. Lui ha me. Ci apparteniamo come le stelle appartengono al
cielo.
E
Haymitch ha sempre avuto ragione. Nemmeno vivendo altre cento vite
riuscirei a meritarlo. Ma lui non mi ha mai dimostrato di essersi
pentito della sua scelta di rimanere al mio fianco. Ha superato il
depistaggio. Ha deciso di tornare da me. Non mi ha
mai detto
che mi ama. Ma in qualche modo riesco a farmi bastare questo nostro
strano legame. Siamo amici? No, non lo siamo. Non siamo nemmeno
amanti, però.
Non
lo so, cosa siamo.
Di
notte viene spesso a trovarmi, un po' per aiutarmi a scacciare gli
incubi, un po' per il semplice desiderio di sentire l'uno il calore
dell'altra sulla pelle. È così bello dormire
abbracciati. Non sono
mai stata una grande amante delle romanticherie, ma Peeta mi ha
insegnato ad apprezzare tutto ciò che la vita ha da
offrirci. Mi ha
insegnato come si ama. Ha insegnato l'amore proprio a me, alla
maledetta Ghiandaia Imitatrice che ha portato alla morte chiunque
è
entrato in contatto con lei. A me, che ho lasciato che migliaia di
innocenti morissero al posto mio. Convivo quotidianamente con i sensi
di colpa; sono qualcosa che non mi abbandonerà mai
finché vivo. E
quando succede, quando sento che la tormenta è sul punto di
tornare
a travolgermi, Peeta è qui. Per abbracciarmi, per
rassicurarmi. Ma
ora Peeta non c'è. Sono da sola con il mio dolore. Mi avvio
verso il
soggiorno trascinando fiaccamente i piedi, la mancanza di sonno che
inizia a farsi sentire. Tasto con delicatezza le mie occhiaie.
Ripesco dal cassetto di un piccolo mobile del salotto una crema alle
erbe di mia madre, infilandomela in tasca.
Sae
deve essere passata a dare una spolverata mentre ero fuori. La mia
libreria non è stata mai così lustra, il tavolino
mai così
impeccabilmente pulito e privo della più piccola impronta
digitale.
E poi lo vedo. Il libro che io e Peeta abbiamo scritto subito dopo la
guerra. Quello che racchiude la storia delle persone che abbiamo
amato e che ameremo per sempre. I miei piedi sembrano quasi muoversi
di loro spontanea volontà verso lo scaffale, e quasi non mi
accorgo
di aver afferrato il libro tra le mani. Mi avvicino lentamente alla
poltrona posta accanto allo scoppiettante fuocherello che qualcun
altro ha acceso prima del mio arrivo, sedendomici con delicatezza.
Inizio a sfogliare le pagine pregne dell'inchiostro della mia penna e
dei meravigliosi colori di Peeta. Mi scontro con una miriade di volti
che mai dimenticherò. La mia sorellina Prim. La piccola Rue.
L'indimenticabile Cinna, Thresh, Boggs, Mags. Finnick... Finnick.
Oggi Peeta è andato a casa sua. A trovare sua moglie Annie e
il
figlio che non ha mai conosciuto. Che non ha mai potuto conoscere per
colpa mia. Mia. Mia perché ho proseguito
la mia fuga dalle
rose di Snow senza curarmi dei miei compagni di squadra, spinta da
una missione che io stessa avevo ideato senza gli ordini di nessuno.
Ho lasciato che il mio amico morisse davanti ai miei occhi. Una
lacrima calda bagna la mia guancia prima che possa cercare di
impedirle di sottrarsi alla mia volontà.
È
per questo che non sono partita con Peeta. Avevo paura – ho
paura. Ho vergogna d'incrociare gli occhi verdi di Annie, occhi che
di certo sarebbero stati colmi di accusa e di odio e di rammarico.
Perché non ho impedito che il suo Finnick, il mio
amico
Finnick, venisse brutalmente ucciso per mettere in
salvo
me. Chiudo di scatto il libro, costringendomi a mantenere la
calma. Ma non ce la faccio. Svito velocemente il tappo del
contenitore della crema, ne spremo un pugno sulla mano e la spalmo
con movimenti circolari sulle tempie e sul petto. Mia madre si
raccomanda sempre di non esagerare con le dosi. Non so per quanto
dormirò. Corro al piano superiore, le mani che
già tremano
incontrollabilmente. Mi infilo nel letto sfatto, artigliando con le
unghie il pesante piumone e raggomitolandomici stretta. Affondo i
denti nel tessuto, le voci nella mia testa che si fanno sempre
più
forti.
Urlano.
Sono
incatenata al suolo. Il mio cuore palpita troppo, troppo velocemente.
L'aria sa di fumo e cenere. Finnick barcolla verso di me nel suo
completo da tributo con il numero 4 cucito sul petto, trascinandosi
dietro brandelli della sua stessa carne. Il suo sangue zampilla da
ogni dove, il viso stravolto da una smorfia di dolore insostenibile,
negli occhi verde-oceano la delusione più cocente, una
delusione
mista ad un risentimento che mi colpisce dritta al petto, vicino al
cuore. Vado a fuoco.
«Katniss.»
Finnick mi sta implorando. Sta tendendo una mano nella mia direzione
senza potermi raggiungere, gli occhi umidi di lacrime di sangue.
«Katniss, perché non mi aiuti?»
Voglio
urlargli che non posso, che sono imprigionata e che sto bruciando, ma
la voce mi ha abbandonata. Finnick mi guarda ancora, singhiozzando
leggermente.
«Katniss,
Annie e mio figlio mi stanno aspettando... Aiutami a tornare da
loro.»
Il
fuoco dilania i miei tessuti, mentre vengo costretta a guardare gli
ibridi di Snow artigliare ogni centimetro della pelle di Finnick, che
mi urla qualcosa che non riesco a decifrare. Stiamo per morire
entrambi, credo. Il fuoco brucia sempre di più.
«Katniss,
io vi ho salvato la vita.»
Il
volto di Finnick, reso irriconoscibile dagli squarci, si contorce in
un'espressione di assoluta sofferenza. Poi accade qualcosa. Dove un
attimo fa scrutavo gli ultimi stralci della bellezza ormai perduta
del mio amico, due occhi di un verde stupefacente, diversi ma uguali
a quelli di Finnick, mi osservano smarriti.
L'ultima
cosa che le mie orecchie riescono a distinguere, prima che l'aria
stessa esploda, è il pianto disperato di un neonato.
«Shh.
È solo un incubo. Shh.»
«Finnick...
Finnick, scusami, scusami, io...»
«Katniss,
va tutto bene. Finnick è... Finn sta bene, è in
ottima forma.»
«Finnick,
perdonami... ti prego...»
«Annie
si sta prendendo cura di lui. L'ho visto. Non preoccuparti,
Katniss.»
«Ti
ho ucciso io!»
Un
paio di forti e calorose braccia mi circondano protettive. Prima che
possa dire o fare qualsiasi cosa Peeta mi sussurra di calmarmi, e
avverto il tocco della sua fronte sulla mia, imperlata di sudore. I
suoi occhi azzurri mi scrutano nel buio della mia camera da letto, e
mi chiedo quando sia stata l'ultima volta che li ho visti
così
tristi.
«È
finita. Va tutto bene.» No, non va tutto bene.
«Non
finirà mai. Io... È colpa mia»,
gracchio a fatica, le guance di
nuovo inondate di lacrime. Peeta scuote la testa, stringendo la presa
sulla mia vita. È come se in questo momento lui fosse tutto
ciò che
mi resta per cercare di sopravvivere. La mia àncora di
salvezza. Ma
questa volta non riuscirà a convincermi della mia innocenza.
«Ho
distrutto una famiglia, Peeta. Una e chissà quante
altre.» La mia
voce si affievolisce, fino a morire del tutto.
«Pensi
sia morto per te?» Il tono duro della sua voce mi sbalordisce
nell'immediato. «Perché se lo pensi, ti sbagli di
grosso.» Peeta
si sistema meglio sul materasso intonso dei miei pianti, incrociando
il mio sguardo. «Finnick sapeva a cosa andava incontro. Lo
sapeva
benissimo, e ha voluto combattere nella speranza di un futuro
migliore per il suo bambino. Non è morto per te,
Katniss. E
anche se lo avesse fatto, non hai da fartene una colpa,
perché è
stata una sua decisione. Finnick era intelligente. E determinato.
Come me, con la semplice ma fondamentale differenza che lui aveva il
completo controllo del suo cervello e dei suoi sentimenti.»
Mi
costringo a richiudere la bocca, troppo stordita per replicare.
«Finnick non era che la legna da ardere
di un fuoco acceso
contro il governo di Capitol. Un combattente. Capisci? Smettila di
piangere sul latte versato e guarda avanti, guarda al mondo che siamo
riusciti a creare con le nostre forze e grazie al coraggio dei nostri
caduti.»
Forse
capisco solo ora cosa sia vero e cosa sia falso.
Amo
un nuovo Peeta, un curioso miscuglio tra il gentile ragazzo del pane
e lo sprezzante giovane manovrato dal veleno degli aghi inseguitori.
È un Peeta meno ottimista, e più realista.
È capace di aprirmi
schiettamente gli occhi, ma in modo positivo. Ha perduto parte
dell'innegabile delicatezza che un tempo lo contraddistingueva, ma
non per questo è meno amabile. E forse nelle sue parole
c'è tutto
ciò che ho sempre avuto bisogno di sentirmi dire. Nessun
inutile
fronzolo, nessuna affettata parolina di conforto. Solamente la
verità.
«Quindi
noi... noi cosa siamo, Peeta?» domando, incerta. Un piccolo
sorriso
mesto si dipana sulle sue labbra.
«Lo
sai, Katniss.»
Mi
stringe ancora di più, baciandomi il collo. Solo il collo.
Non si
azzarda mai ad andare oltre. Poi, come un lampo, la risposta si forma
dentro di me.
Ceneri.
Nda.
Salve a tutti! Premetto che trovo la conclusione di questa one-shot
totalmente insensata e slegata dal resto. Non lo so, boh. A voi i
giudizi.
Ci
avviciniamo a Natale ** e io mi diverto un mondo a scrivere queste
storie un po' lugubri, mi diverto assai :3
Non
ho nulla da dire, tranne che è probabile che passi le
vacanze
natalizie davanti al pc a scrivere, per la sfortuna di ogni singolo
abitante(?) di Efp.
Bon,
se non ci “vediamo” prima.. Tanti,
tanti, tanti
auguri di buone feste a tutti voi che mi leggete e mi
lasciate
quelle dolci recensioni <3
Lov
iu oll.
Mo'
me ne vado. Au revoir, Lilies.