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Autore: Lilies    18/12/2013    4 recensioni
Io ho Peeta. Lui ha me. Ci apparteniamo come le stelle appartengono al cielo.
Haymitch ha sempre avuto ragione. Nemmeno vivendo altre cento vite riuscirei a meritarlo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Effie Trinket, Finnick Odair, Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Rebirth (Peeta/Katniss)'
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«A domani. Promesso.»
Peeta mi regala un ultimo, rassicurante sorriso, uno di quelli che di solito hanno l'eccezionale potere di calmarmi, di riportarmi ad uno stato di quiete che non credevo avrebbe mai più potuto appartenermi. Sorrido a mia volta, un poco rincuorata, e lo osservo arrabattarsi tra il controllore ed il piccolo bagaglio a mano mentre sale sul treno che lo porterà nel Distretto 4, da Annie. Io non me la sono sentita di seguirlo.
Peeta sta continuando a salutare con la mano me e gli altri pochi amici fermi sulla banchina; a parte Effie, melodrammatica come al solito, nessuno si profonde in stucchevoli e lacrimosi addii. Al contrario. Io me ne sto rigida al mio posto, lo sguardo fisso sulla nuvola di riccioli biondi che mi guarda teneramente da dietro il finestrino del convoglio in movimento. Haymitch ha messo su quella sua tipica espressione incollerita che con gli anni ho imparato a ricondurre alla cosiddetta astinenza forzata impostagli da Effie, e ha l'aria di uno che non desidera altro che tornarsene al sicuro della propria casa, magari con una bottiglia di whisky o due in mano. Il treno ad alta velocità è ormai scomparso all'orizzonte e ho la mano ancora levata verso l'alto in segno di saluto.
«Odio davvero, davvero, davvero tanto gli addii», squittisce enfaticamente Effie asciugandosi gli angoli degli occhi imbrattati di un ombretto verde pisello, la sua più tipica smorfia addolorata sulle labbra dipinte d'arancio. Haymitch la guarda come se le fosse spuntata un'enorme pustola tra gli occhi, segno che sta per dire qualcosa di sprezzante.
«Il ragazzo sarà di ritorno domani sera. Domani sera, per la miseria», bofonchia arcigno, allungando una mano verso la tasca del cappotto alla disperata ricerca della sua fidata fiaschetta e ritraendola subito dopo essersi ricordato che qualsiasi tipo di bevanda che non sia acqua tonica gli è stata sequestrata appena cinque ore fa, quando Effie ha fatto la sua comparsa alla porta della sua villa con dieci valigie alla mano e l'aria di chi ha intenzione di tornarsene a casa dopo veramente tanto, tanto, tanto tempo.
Sospiro stancamente, sopportando a stento l'irritante battibecco tra Haymitch ed Effie che mi accompagna fino al cancello d'ingresso del Villaggio dei Vincitori.
Nonostante tutte le arene siano state demolite dopo la ribellione, questi insulsi Villaggi sono ancora al loro posto, degli inutili appezzamenti perlopiù disabitati che ci ricordano costantemente a chi erano destinati. Haymitch non ha un'altra casa perciò vive ancora qui, e Peeta ha voluto seguire le sue orme, installandosi nell'edificio contiguo. Come una volta. Io ho esitato a lungo prima di prendere una decisione definitiva. Inizialmente pensavo di ricostruire la mia vecchia casa al Giacimento. Peeta non era sicuro che riportare in vita un pezzo di passato tanto importante avrebbe giovato alla mia salute già di per sé precaria. Ci sono volute innumerevoli e aspre discussioni prima che gli dessi ragione.
Saluto con un cenno della testa Effie e Haymitch, che spariscono all'interno dell'abitazione di quest’ultimo tra strilli oltraggiati e burberi vilipendi senza degnarmi della minima attenzione. La porta scricchiola, e noto che il pomello ha bisogno di una generosa lucidata. Da quando ho fatto ritorno nel 12 e vivo da sola mi è difficile occuparmi delle faccende domestiche. Non mi si addice. Preferisco di gran lunga passeggiare nei boschi. La mia casa è lasciata un po' al suo destino. Appendo il pesante giaccone sull'appendiabiti all'ingresso, poi avanzo nel piccolo spazio buio che porta alla cucina vuota. Trovo un cestino colmo di fragranti pagnotte ancora fumanti e un mazzolino di fiori sul tavolo, più un biglietto.

Tornerò prima che tu abbia il tempo di sentire la mia mancanza.

Peeta e la sua dolcezza infinita. Arrossisco un po', come faccio sempre dopo una delle sue dimostrazioni d'affetto nei miei confronti. Afferro un panino e lo sbocconcello a piccoli morsi, poi inspiro a lungo il profumo del Prato, delle nostre primule, delle margherite e dei denti di leone, sentendomi per un attimo in pace con me stessa.
È incredibile come siamo riusciti a rivivere dopo tutto ciò che è successo. Ritornare alla vita, uscire dalla depressione che ci ha colpiti entrambi, inesorabilmente.
Io ho Peeta. Lui ha me. Ci apparteniamo come le stelle appartengono al cielo.
E Haymitch ha sempre avuto ragione. Nemmeno vivendo altre cento vite riuscirei a meritarlo. Ma lui non mi ha mai dimostrato di essersi pentito della sua scelta di rimanere al mio fianco. Ha superato il depistaggio. Ha deciso di tornare da me. Non mi ha mai detto che mi ama. Ma in qualche modo riesco a farmi bastare questo nostro strano legame. Siamo amici? No, non lo siamo. Non siamo nemmeno amanti, però.
Non lo so, cosa siamo.
Di notte viene spesso a trovarmi, un po' per aiutarmi a scacciare gli incubi, un po' per il semplice desiderio di sentire l'uno il calore dell'altra sulla pelle. È così bello dormire abbracciati. Non sono mai stata una grande amante delle romanticherie, ma Peeta mi ha insegnato ad apprezzare tutto ciò che la vita ha da offrirci. Mi ha insegnato come si ama. Ha insegnato l'amore proprio a me, alla maledetta Ghiandaia Imitatrice che ha portato alla morte chiunque è entrato in contatto con lei. A me, che ho lasciato che migliaia di innocenti morissero al posto mio. Convivo quotidianamente con i sensi di colpa; sono qualcosa che non mi abbandonerà mai finché vivo. E quando succede, quando sento che la tormenta è sul punto di tornare a travolgermi, Peeta è qui. Per abbracciarmi, per rassicurarmi. Ma ora Peeta non c'è. Sono da sola con il mio dolore. Mi avvio verso il soggiorno trascinando fiaccamente i piedi, la mancanza di sonno che inizia a farsi sentire. Tasto con delicatezza le mie occhiaie. Ripesco dal cassetto di un piccolo mobile del salotto una crema alle erbe di mia madre, infilandomela in tasca.
Sae deve essere passata a dare una spolverata mentre ero fuori. La mia libreria non è stata mai così lustra, il tavolino mai così impeccabilmente pulito e privo della più piccola impronta digitale. E poi lo vedo. Il libro che io e Peeta abbiamo scritto subito dopo la guerra. Quello che racchiude la storia delle persone che abbiamo amato e che ameremo per sempre. I miei piedi sembrano quasi muoversi di loro spontanea volontà verso lo scaffale, e quasi non mi accorgo di aver afferrato il libro tra le mani. Mi avvicino lentamente alla poltrona posta accanto allo scoppiettante fuocherello che qualcun altro ha acceso prima del mio arrivo, sedendomici con delicatezza. Inizio a sfogliare le pagine pregne dell'inchiostro della mia penna e dei meravigliosi colori di Peeta. Mi scontro con una miriade di volti che mai dimenticherò. La mia sorellina Prim. La piccola Rue. L'indimenticabile Cinna, Thresh, Boggs, Mags. Finnick... Finnick. Oggi Peeta è andato a casa sua. A trovare sua moglie Annie e il figlio che non ha mai conosciuto. Che non ha mai potuto conoscere per colpa mia. Mia. Mia perché ho proseguito la mia fuga dalle rose di Snow senza curarmi dei miei compagni di squadra, spinta da una missione che io stessa avevo ideato senza gli ordini di nessuno. Ho lasciato che il mio amico morisse davanti ai miei occhi. Una lacrima calda bagna la mia guancia prima che possa cercare di impedirle di sottrarsi alla mia volontà.
È per questo che non sono partita con Peeta. Avevo paura – ho paura. Ho vergogna d'incrociare gli occhi verdi di Annie, occhi che di certo sarebbero stati colmi di accusa e di odio e di rammarico. Perché non ho impedito che il suo Finnick, il mio amico Finnick, venisse brutalmente ucciso per mettere in salvo me. Chiudo di scatto il libro, costringendomi a mantenere la calma. Ma non ce la faccio. Svito velocemente il tappo del contenitore della crema, ne spremo un pugno sulla mano e la spalmo con movimenti circolari sulle tempie e sul petto. Mia madre si raccomanda sempre di non esagerare con le dosi. Non so per quanto dormirò. Corro al piano superiore, le mani che già tremano incontrollabilmente. Mi infilo nel letto sfatto, artigliando con le unghie il pesante piumone e raggomitolandomici stretta. Affondo i denti nel tessuto, le voci nella mia testa che si fanno sempre più forti.
Urlano.


Sono incatenata al suolo. Il mio cuore palpita troppo, troppo velocemente. L'aria sa di fumo e cenere. Finnick barcolla verso di me nel suo completo da tributo con il numero 4 cucito sul petto, trascinandosi dietro brandelli della sua stessa carne. Il suo sangue zampilla da ogni dove, il viso stravolto da una smorfia di dolore insostenibile, negli occhi verde-oceano la delusione più cocente, una delusione mista ad un risentimento che mi colpisce dritta al petto, vicino al cuore. Vado a fuoco.
«Katniss.» Finnick mi sta implorando. Sta tendendo una mano nella mia direzione senza potermi raggiungere, gli occhi umidi di lacrime di sangue. «Katniss, perché non mi aiuti?»
Voglio urlargli che non posso, che sono imprigionata e che sto bruciando, ma la voce mi ha abbandonata. Finnick mi guarda ancora, singhiozzando leggermente.
«Katniss, Annie e mio figlio mi stanno aspettando... Aiutami a tornare da loro.»
Il fuoco dilania i miei tessuti, mentre vengo costretta a guardare gli ibridi di Snow artigliare ogni centimetro della pelle di Finnick, che mi urla qualcosa che non riesco a decifrare. Stiamo per morire entrambi, credo. Il fuoco brucia sempre di più.
«Katniss, io vi ho salvato la vita.»
Il volto di Finnick, reso irriconoscibile dagli squarci, si contorce in un'espressione di assoluta sofferenza. Poi accade qualcosa. Dove un attimo fa scrutavo gli ultimi stralci della bellezza ormai perduta del mio amico, due occhi di un verde stupefacente, diversi ma uguali a quelli di Finnick, mi osservano smarriti.
L'ultima cosa che le mie orecchie riescono a distinguere, prima che l'aria stessa esploda, è il pianto disperato di un neonato.


«Shh. È solo un incubo. Shh
«Finnick... Finnick, scusami, scusami, io...»
«Katniss, va tutto bene. Finnick è... Finn sta bene, è in ottima forma.»
«Finnick, perdonami... ti prego...»
«Annie si sta prendendo cura di lui. L'ho visto. Non preoccuparti, Katniss.»
«Ti ho ucciso io!»
Un paio di forti e calorose braccia mi circondano protettive. Prima che possa dire o fare qualsiasi cosa Peeta mi sussurra di calmarmi, e avverto il tocco della sua fronte sulla mia, imperlata di sudore. I suoi occhi azzurri mi scrutano nel buio della mia camera da letto, e mi chiedo quando sia stata l'ultima volta che li ho visti così tristi.
«È finita. Va tutto bene.» No, non va tutto bene.
«Non finirà mai. Io... È colpa mia», gracchio a fatica, le guance di nuovo inondate di lacrime. Peeta scuote la testa, stringendo la presa sulla mia vita. È come se in questo momento lui fosse tutto ciò che mi resta per cercare di sopravvivere. La mia àncora di salvezza. Ma questa volta non riuscirà a convincermi della mia innocenza. «Ho distrutto una famiglia, Peeta. Una e chissà quante altre.» La mia voce si affievolisce, fino a morire del tutto.
«Pensi sia morto per te?» Il tono duro della sua voce mi sbalordisce nell'immediato. «Perché se lo pensi, ti sbagli di grosso.» Peeta si sistema meglio sul materasso intonso dei miei pianti, incrociando il mio sguardo. «Finnick sapeva a cosa andava incontro. Lo sapeva benissimo, e ha voluto combattere nella speranza di un futuro migliore per il suo bambino. Non è morto per te, Katniss. E anche se lo avesse fatto, non hai da fartene una colpa, perché è stata una sua decisione. Finnick era intelligente. E determinato. Come me, con la semplice ma fondamentale differenza che lui aveva il completo controllo del suo cervello e dei suoi sentimenti.» Mi costringo a richiudere la bocca, troppo stordita per replicare. «Finnick non era che la legna da ardere di un fuoco acceso contro il governo di Capitol. Un combattente. Capisci? Smettila di piangere sul latte versato e guarda avanti, guarda al mondo che siamo riusciti a creare con le nostre forze e grazie al coraggio dei nostri caduti.»
Forse capisco solo ora cosa sia vero e cosa sia falso.
Amo un nuovo Peeta, un curioso miscuglio tra il gentile ragazzo del pane e lo sprezzante giovane manovrato dal veleno degli aghi inseguitori. È un Peeta meno ottimista, e più realista. È capace di aprirmi schiettamente gli occhi, ma in modo positivo. Ha perduto parte dell'innegabile delicatezza che un tempo lo contraddistingueva, ma non per questo è meno amabile. E forse nelle sue parole c'è tutto ciò che ho sempre avuto bisogno di sentirmi dire. Nessun inutile fronzolo, nessuna affettata parolina di conforto. Solamente la verità.
«Quindi noi... noi cosa siamo, Peeta?» domando, incerta. Un piccolo sorriso mesto si dipana sulle sue labbra.
«Lo sai, Katniss.»
Mi stringe ancora di più, baciandomi il collo. Solo il collo. Non si azzarda mai ad andare oltre. Poi, come un lampo, la risposta si forma dentro di me.
Ceneri.



Nda. Salve a tutti! Premetto che trovo la conclusione di questa one-shot totalmente insensata e slegata dal resto. Non lo so, boh. A voi i giudizi.
Ci avviciniamo a Natale ** e io mi diverto un mondo a scrivere queste storie un po' lugubri, mi diverto assai :3
Non ho nulla da dire, tranne che è probabile che passi le vacanze natalizie davanti al pc a scrivere, per la sfortuna di ogni singolo abitante(?) di Efp.
Bon, se non ci “vediamo” prima.. Tanti, tanti, tanti auguri di buone feste a tutti voi che mi leggete e mi lasciate quelle dolci recensioni <3
Lov iu oll.
Mo' me ne vado. Au revoir, Lilies.

  
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