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Autore: vex194    22/12/2013    2 recensioni
“Mi hai trovata” mormorò, tenendo lo sguardo fisso sulla superficie metallica davanti a lei, affondando le mani nelle tasche della giacca.
“Ti troverò sempre” rispose lui, mantenendo – come lei - lo sguardo fisso davanti a sé.
Le porte si aprirono con un piccolo suono di un campanellino e, prima di entrare, Emma sorrise. Un sorriso sincero, sollevato, spontaneo e anche con una punta di quella che sembrava essere felicità.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Henry Mills, Killian Jones/Capitan Uncino
Note: Movieverse, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Not Forget Me


New York. 8.336.697 abitanti. Tra tutti questi, c’era anche Emma Swan.

Donna dal passato difficile e complicato, con un presente stabile e con un futuro tutto da costruire, pezzo dopo pezzo, insieme all’unica persona che sarebbe stata con lei per sempre, aiutandola a credere il sé stessa e nelle sue capacità. No, non i suoi genitori che l’avevano abbandonata sul ciglio della strada nel bel mezzo del Maine, no. Era suo figlio. Suo figlio che,  nonostante Emma avesse pensato di dare in adozione, solo per dargli una miglior possibilità di vivere una vita felice e serena, aveva tenuto con sé, amandolo più di ogni altra cosa al mondo, più della sua stessa vita. Quando l’aveva tenuto in braccio, proprio pochi secondi dopo la fine di quel dolore che sembrava interminabile e che pareva spezzarla in due, aveva sentito un calore sullo stomaco e fu investita dall’emozione più forte e sconvolgente che lei avesse mai provato in vita sua. Il caldo corpicino di quell’esserino ancora sporco, si dimenava buffamente tra le braccia di Emma e, quando il piccolo gemito del bambino le arrivò alle orecchie, aveva capito. Aveva capito che quello sarebbe stato suo figlio e non quello di qualcun altro. Lei sarebbe stata sua madre e si sarebbe impegnata per essere una brava mamma.

Si era ripromessa di essere un buon genitore, anche senza un uomo accanto a supportarla nelle sue scelte, o in qualsiasi altra cosa. L’unico che voleva al suo fianco, Emma, era il suo bambino.

Henry.

New York. 8.336.697 abitanti. Tra tutti questi, c’erano anche Emma Swan e suo figlio Henry.

Erano le otto e un quarto precise quando la sveglia digitale iniziò a suonare una canzone che stavano trasmettendo alla radio preferita di Emma, che lei stessa aveva pre impostato come musica da risveglio mattutino. La bionda si alzò dal letto caldo e morbido, beandosi della visione che la finestra della sua camera le dava. Manhattan si estendeva di fronte a lei, pronta ad accoglierla per una nuova giornata, che avrebbe passato interamente con Henry, in quando la domenica “proibiva” ai ragazzini di andare a scuola.

Emma si stiracchiò per bene ogni parte del corpo, indolenzita dal torpore del sonno disturbato dalla radio-sveglia e, quando quest’ultima segnò le otto e venti, si alzò in piedi, andando a svegliare Henry, che dormiva beato nella sua cameretta, proprio a fianco a quella di Emma.

La mattinata sembrava essere partita bene. Emma preparava la colazione – attenta a non dare fuoco alla cucina, in quanto non era una grande cuoca – mentre Henry dava l’acqua alle piante di fronte alla porta finestra che dava sull’ampio balcone.

Si misero seduti sul tavolo posto in mezzo alla stanza, dopo che Emma apparecchiò con uova strapazzate, toast troppo bruciacchiati, succo d’arancia e la solita cioccolata con una buona quantità di panna montata sopra, di rito la domenica mattina.

“Mamma... hai dimenticato qualcosa” disse Henry, dopo aver “brindato” con sua madre, accorgendosi però subito della mancanza di qualcosa. Qualcosa di davvero importante e irrinunciabile.

“Giusto. La cannella”

Emma si alzò e si diresse verso il bancone della cucina, recuperando il piccolo barattolo dal coperchio forato per far scendere meglio la profumata polvere sulla soffice panna montata. All’improvviso, mentre i due facevano serenamente colazione, qualcuno bussò energicamente alla porta d’ingresso. Emma ed Henry si guardarono per qualche secondo sospettosi, finché il bambino non parlò.

“Aspettiamo qualcuno?”

“No” rispose automaticamente Emma, alzandosi per andare a vedere chi fosse che usava tutta quella forza per bussare ad una porta, alle otto e mezza del mattino. Di domenica.

Quando aprì, scordandosi completamente di guardare dallo spioncino, rimase confusa. Davanti a lei c’era un uomo che, non appena la vide – in tenuta da casa, con tanto di pantofole col pelo – sorrise, mormorando melodicamente il suo cognome.

“Swan”

Emma non sapeva cosa fare, a parte pensare a quanto fosse ridicolo l’abbigliamento di quell’individuo. Un lungo cappotto che sembrava essere stato sottratto a Nick Fury dello S.H.I.E.L.D., pantaloni di pelle che neanche negli anni ’80 erano visti di buon occhio, una camicia scollata che lasciava intravedere una buona porzione del petto, stivali improponibili e logorati, vari anelli pacchiani sulla mano destra e su quella sinistra... beh, quella sinistra non c’era. Al suo posto vi era... un uncino?

“Finalmente” continuò lui, cercando di avvicinarsi, ma Emma lo fermò prima che potesse fare anche solo un passo in più verso di lei.

“Ti conosco?” domandò lei, guardinga.

Se conosceva quel tizio, molto probabilmente se ne sarebbe ricordata. Qualcuno che andava in giro vestito in quel modo non si dimenticava facilmente.

“Senti, ho bisogno del tuo aiuto. È successo qualcosa di terribile. La tua famiglia è in pericolo” disse l’uomo, estremamente convinto.

Emma scossa la testa impercettibilmente, per poi rispondere e mettere fine a quella conversazione con quello sconosciuto dall’abbigliamento assurdo.

“La mia famiglia è proprio qui – disse, pregando che Henry tenesse il suo sedere ancorato alla sedia e continuasse la sua colazione – Chi sei?” domandò poi la bionda, guardandolo di traverso, facendo cadere l’occhio sull’uncino.

Che fosse finto? Eppure luccicava come se fosse realmente di metallo. Un brivido la percorse.

“Un vecchio amico” disse semplicemente lui, sorridendo nostalgico e in modo quasi tenero.

Invece che migliorare, quella situazione, stava semplicemente peggiorando.

“So che non puoi ricordare – disse lui, guardando negli occhi la donna che aveva di fronte con un’intensità che mise Emma a disagio – ma posso farti ricordare” concluse.

E, arrivato a quel punto, tutto accadde in pochi secondi. La mano dell’uomo afferrò Emma per la nuca, affondando le dita nei lunghi capelli biondi e lisci, attirandola verso di sé, appoggiando le sue labbra contro quelle della donna. Quel contatto durò poco, forse due secondi o tre, giusto il tempo per far capire a Emma quello che stava accadendo, per farle percepire il calore e la morbidezza della bocca dello sconosciuto su di lei. Si liberò immediatamente da quel contatto, rifilando all’uomo una ginocchiata nelle parti basse, con tanto di spinta consecutiva, che lo fece finire dolorante contro al muro.

“Ma che diavolo stai facendo?” esclamò Emma scioccata, con il cuore che le batteva in gola.

“Ho rischiato. Dovevo provare” gemette lui, intendo a riprendersi dalla botta violenta che Emma gli aveva dato.

“Proverai le manette della polizia” ringhiò Emma, arretrando di qualche passo, rientrando con tutto il corpo dentro alla sua abitazione.

“So che può sembrare una pazzia, ma devi ascoltarmi. Devi ricord-“ e prima che l’uomo potesse concludere il suo discorso da pazzoide dai gusti nel vestiario particolarmente discutibili, Emma gli sbatté la porta in faccia, tornando da suo figlio.

“Chi era quello?” le domandò tranquillamente Henry.

“Non ne ho idea” rispose lei, ancora sconvolta da quello che era appena accaduto.

Nella sua vita, nessuno aveva bussato alla sua porta e l’aveva baciata in quel modo. Era stato... strano, ma non era di certo quello il momento di fantasticare. Voleva capire. Chi era quel tizio? Cosa voleva? Come faceva a conoscere lei e cosa sapeva della sua famiglia? Mentre queste domande le martellavano il cervello, si accomodò di nuovo a tavola, perdendosi in sé stessa e nei suoi pensieri rivolti a quello sconosciuto.

“Qualcuno deve aver lasciato aperta la porta di sotto” mormorò, andando a prendere un bicchiere di succo d’arancia, facendolo scorrere fresco lungo la gola, lasciando da parte i suoi dubbi e i suoi pensieri.

_________

Il lunedì era sempre stato una tragedia, per qualsiasi abitante del pianeta, nessuna esclusione. Il lunedì era il segnale che la settimana stava rincominciando, che la vita stava andando avanti e che la monotonia sarebbe tornata a farsi sentire. La vita di Emma era sempre stata monotona in quegli anni. La luce del mattino le segnalava l’inizio di una nuova giornata, fatta di colazioni e corse per arrivare a scuola in orario, in modo che i professore non sgridassero Henry per la sua poca puntualità. Eppure quel lunedì mattina, nell’aria newyorkese, c’era qualcosa di diverso. Qualcosa che Emma riusciva a percepire sul suo corpo, coperto dal suo cappotto rosso e i guanti di pelle nera. Stava tornando dalla scuola di Henry – anche quella mattina era arrivato in perfetto orario, fortunatamente – e, mentre guardava le persone macinare metri sui marciapiedi affollati di New York, c’era un innesto dentro di lei che le diceva di fermarsi un attimo e dare un’occhiata attorno a lei. Central Park era come sempre un bel vedere. Gli alberi si innalzavano e le loro foglie dalle sfumature invernali coloravano il paesaggio reso vivo da quelle persone mattiniere che avevano il coraggio di correre con i pantaloncini a metà polpaccio e una felpa che arrivava sotto al sedere. Era in quel momento che la sua mattinata cambiò il percorso pianeggiante che stava percorrendo.

Era a soli due alberi di distanza, appoggiato con nonchalance alla corteccia chiara e, quando Emma si diresse in quella direzione, camminando con passo svelto e fin troppo deciso, lui si raddrizzò accennando appena un sorriso, che forse stava tra il malizioso e il sincero.

Era ancora lui. Lo sconosciuto della mattina prima. Lo sconosciuto che l’aveva vista e baciata come se nulla fosse, scombussolandola per tutte le seguenti ventiquattro ore.

“Io non ci credo!” esclamò Emma, ponendosi davanti a lui, tenendo a freno le mani che pizzicavano, un chiaro segno della sua estrema voglia di dargli un pugno su quel suo bel faccino, o almeno un bel ceffone.

Bel faccino? Emma, non è un bel faccino, ma un pazzoide che avrebbe bisogno di una lezione di stile. La mente della donna stava divagando completamente.

L’uomo, dal nome ancora ignoto per altro, cercò di parlare, ma la voglia di imporre di Emma non glielo permise.

“Hai solo un dannato minuto per dirmi cosa vuoi, poi scatta la telefonata alla polizia”

Emma scandì bene le parole, sperando che il tizio di fronte a lei capisse bene la situazione. Doveva sfruttare bene quel minuto a sua disposizione, dopodiché l’avrebbe fatto sbattere in prigione, così che non se ne sarebbe andato più in giro per New York ad attirare l’attenzione per i suoi strani vestiti.

“Un minuto? Non credo che mi basti, Swan. C’è molto da dire e...” la mano di Emma gli si parò di fronte.

“Non ho tempo. Sii veloce, sintetico e non dire nulla di assurdo. Potrebbe finire estremamente male questa cosa”

Non era assolutamente vero che non aveva tempo, il suo turno a lavoro iniziava alle tre e mezza del pomeriggio, ma quelle erano informazioni che lo sconosciuto non avrebbe mai saputo.

“E’ successo qualcosa alla tua famiglia” disse lui, assumendo un’espressione molto seria.

Emma alzò gli occhi al cielo. Di quale dannata famiglia stava parlando? La sua unica famiglia, cioè Henry, era a scuola che stava facendo probabilmente matematica, sbagliando certamente il novanta percento dei calcoli.

“Tutta la mia famiglia è rappresentata da mio figlio. Possibile che tu non l’abbia capito?” domandò esasperata Emma, girando su sé stessa e dando le spalle all’uomo.

Voleva andarsene e non vederlo più, ma probabilmente lo sconosciuto non era della stessa idea, in quanto la seguì fino ad una delle tante panchine libere di tutto il parco. New York era così grande, perché ce l’aveva con lei e con la sua fantomatica famiglia di cui lei non sapeva niente?

“Sto parlando dei tuoi genitori” continuò lui, sempre con quel tono serio che, alle orecchie di Emma, risultava sempre più ridicolo.

Emma si fermò sui suoi stessi passi, trovandosi a pochissima di stanza dal corpo di lui.

“La mia famiglia mi ha abbandonata, okay? Non ho avuto un padre, né tantomeno una madre a cui importasse di me. E ora, se non ti dispiace, vorrei non rivedere più la tua faccia”

Detto ciò, Emma aumentò il passo, lasciando che l’uomo la guardasse allontanarsi da lui, diventando sempre più piccola in quella grande città che era New York.

“Non sai quanto ti sbagli, Emma” mormorò l’uomo, lanciando un ultimo sguardo alla bionda, ormai di spalle e lontana da lui.

__________

Martedì, mercoledì, giovedì e venerdì. Era stata una settimana d’inferno per Emma e quel pirata – o almeno era come si definiva lui, quel Killian Jones o Hook, o chi diavolo fosse – non era stato d’aiuto. C’era da stare dietro ad Henry, aiutarlo nei compiti di cui lei non capiva molto, specialmente storia – non era mai stata una buona studentessa – e poi il lavoro, la casa, le faccende e quel tizio che faceva? Le diceva che era la figlia di Biancaneve e il Principe Azzurro e che lei era la Salvatrice. Che aveva perso la memoria per colpa di una maledizione lanciata da Peter Pan – Peter Pan, dannazione! – e che lei era l’unica a poter sistemare le cose.

Emma lanciò malamente lo straccio con cui stava pulendo il bancone della cucina dentro la lavandino, appoggiando la mani al limite del marmo e sospirando pesantemente. Henry era rimasto a casa di un suo compagno di scuola, così da poter fare i compiti insieme e poi giocare un po’, così lei si era ritrovata a casa da sola. Il venerdì era sempre un giorno morto, quasi peggio del lunedì, così si era preso un giorno libero da lavoro. Si girò, osservando persa l’arredamento del suo appartamento. Guardò, guardò e guardò ancora, sbuffando di nuovo, snervata da quella improvvisa smania di trovare qualcosa da fare. Forse avrebbe potuto fare un dolce per fare una sorpresa ad Henry, un bel ciambelline fatto da lei lo avrebbe fatto felice, molto più di quando lo comprava già bello che pronto, alla bottega a qualche isolato da lì.

Andò a cercare il computer, decisa a trovare una ricetta che non fosse troppo complicata da mettere in atto e, prima che aprisse la pagina internet e digitasse una sola parola sulla tastiera bianca e consumata, bussarono sgraziatamente alla porta.

Emma indurì la mascella.

Una sola settimana e lei già sapeva come lui bussava alla sua porta.

“Che vuoi, Killian?” domandò scostante lei, aprendo di getto la porta.

Chi poteva essere se non quell’irritante uomo che lei si rifiutava di chiamare Hook nonostante lui insisteva sul fatto che lei era solita chiamarlo in quel modo?

“Sai, è davvero strano sentirti pronunciare il mio nome, ma devo ammettere che... è più piacevole di quanto pensassi” rispose, dondolandosi sui suoi orridi stivali appuntiti, sorridendo malizioso.

“Cosa. Vuoi”

Parole scandite, quasi a denti stretti, furono quelle di Emma.

“Darti questa”

Da una tasca della giacca che Emma, seriamente pensava, fosse stata rubata a Fury, tirò fuori una piccola boccetta di vetro. All’interno vi era un liquido luminoso, quasi fluorescente, che emanava una luce quasi magica di colore lilla. Emma si sporse in avanti, aguzzando lo sguardo e osservando curiosa la boccetta che Killian – dannazione, era il suo nome, perché non usarlo, invece di quello stupido soprannome? – e poi tornò con gli occhi su di lui, sempre sospetta.

Quando c’era lui nei dintorni, non era mai completamente tranquilla, era sempre sul chi va la. Come poteva essere rilassata in presenza di un tizio che aveva un uncino al posto della mano?

“Cosa sarebbe questa roba? Una pozione magica?” gli domandò ironica, sorridendo divertita della sua battuta, che lui – però – sembrò non apprezzare.

“Potresti anche ridere. Era divertente” borbottò ancora lei, ritenendosi quasi offesa dalla mancanza di umorismo dell’uomo.

“Non era affatto divertente. Questa è davvero una pozione”

Killian passò la boccetta davanti al viso stanco di Emma, facendole muovere velocemente quei due grandi occhi verdi. Per un attimo lui si soffermò su di essi, beandosi di quel colore così vivo e luminoso.

“E dove l’avresti presa? Da Mago Merlino?”

“Non sono affari che ti riguardano” rispose lui, con tono grave.

Si era creato un silenzio ingombrante, tanto che Emma afferrò quella piccola fiala con la mano destra e se la portò davanti al naso, aprendola e respirandone l’odore, trovandolo inesistente. L’aspetto di quel liquido, però, era strano e non proprio rassicurante.

“E... a cosa servirebbe?” domandò lei, mordicchiandosi il labbro inferiore incerta.

“A farti ritornare la memoria, mi sembra piuttosto ovvio”

Si scambiarono un veloce sguardo e, in un gesto completamente dettato dall’istinto, Emma tirò su il piccolo tappo di vetro e mandò giù l’intero liquido, lasciando che Killian la guardasse, senza muovere un dito. O un uncino.

Quando anche l’ultima goccia finì giù per la gola di Emma, tutto le sembrò normale. La sua casa era normale. I suoi mobili erano normali. Lei era normale. E anche lui lo era, per quanto potesse esserlo. All’improvviso, una valanga di immagini - tutte insieme, confuse, intense, vivide e veloci - la passarono davanti come un treno impazzito. La boccetta sfuggì dalle mani di Emma cadendo sul pavimento e frantumandosi su di esso. Lei, ancora in fase di ripresa, alzò gli occhi verso Killian e lo guardò con sollievo.

“Hook” mormorò.

Emma chiuse gli occhi, immergendo le mani nei capelli e tirandoli all’indietro, facendosi sopraffare da quella marea di emozioni che le stavano andando addosso.

Ora ricordava tutto e per tutto, si intende tutto. Nulla escluso.

“Swan? Tutto okay?”

Prima che lui potesse fare un altro passo, Emma si girò e lo guardò, vedendolo davvero dopo tanto tempo.

“Sì, a parte lo shock mentale che ho appena subito. Quella maledetta boccetta mi ha fiondato addosso la mia vita in una frazione di secondo, friggendomi il cervello” continuò lei, abbassando le mani sui fianchi coperti dalla maglia a collo alto che sovrastava la gonna nera che indossava.

Hook restò sulla soglia della porta, osservandone i movimenti e beandosi della sua figura, soffermandosi sulle sottili gambe fasciate da dalle calze dello stesso medesimo colore del resto dei suoi abiti.

“Dove sono?” domandò improvvisamente lei, avvicinandosi di molto passi, forse troppo, in quanto si ritrovò davvero, davvero vicino a Hook.

Riconobbe quell’aroma di rum che lo caratterizzava e riconobbe le sue labbra, su cui posò lo sguardo per qualche secondo, risollevandolo poi di nuovo su di lui, incrociando i suoi occhi.

Erano sempre stati così blu?

“Nella Foresta Incantata”

Emma annuì energicamente. Indossò la sua giacca rossa, infilò un paio di stivaletti con uno pseudo tacco, i guanti e prima di oltrepassare la soglia, rimase qualche secondo di fronte alla porta. Di fronte a Hook, che la guardava in ogni suo gesto, assimilando i suoi movimenti, incidendoli nella memoria.

Quando la maledizione li aveva colpiti e li aveva catapultati nella Foresta Incantata, dopo quella serie di addii pieni di lacrime amare, aveva mantenuto le sue parole. Non c’era stato giorno in cui non l’aveva pensata. Ogni giorno, per un anno, finché non avevano trovato un modo per trovarla e lui l’aveva trovata. Aveva viaggiato per tutti i reami, per tutte le città, fino ad arrivare a New York, setacciandola fino al vomito.

Perché era lui che la doveva trovare e che l’avrebbe trovata sempre. Perfino in un altro mondo.

“Andiamo a prendere Henry e poi decidiamo il da farsi” propose lei.

“Come desideri, mia signora”

Hook fece un leggero inchino e la fece passare, lasciandola andare verso l’ascensore con passo sicuro. Schiacciò il pulsante - con le dita coperte dai guanti pesanti - che si illuminò di un arancione fluorescente e, quando il pirata fu abbastanza vicino a lei da poterla sentire, lo disse.

“Mi hai trovata” mormorò, tenendo lo sguardo fisso sulla superficie metallica davanti a lei, affondando le mani nelle tasche della giacca.

“Ti troverò sempre” rispose Hook, mantenendo anche lui lo sguardo fisso davanti a sé.

Le porte si aprirono con un piccolo suono di un campanellino e, prima di entrare, Emma sorrise. Un sorriso sincero, sollevato, spontaneo e anche con una punta di quella che sembrava essere felicità.

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Era bastato un bacio. Un semplice bacio sulla fronte del piccolo Henry e anche lui, come per magia – come per magia? Seriamente? – era tornato quello di prima, il bambino che credeva che lei fosse la Salvatrice e che potesse risolvere quella situazione. E anche Emma lo credeva. Lo sapeva.

Henry sembrava così entusiasta di aver recuperato la memoria, così tanto che già stava progettando un super piano per il salvataggio della sua famiglia, che era incastrata nella Foresta Incantata. Gli aveva anche dato un nome: “Operazione Delta – Salvataggio Famiglia”. Camminarono lungo i marciapiedi, fino ad arrivare al maggiolone giallo di Emma, dove lei fece salire prima suo figlio e poi si prese qualche momento per guardare Hook, che già l’aveva preceduta.

I loro occhi si incontrarono, incatenandosi a vicenda. Emma si protese verso di lui e gli sfiorò le labbra con le sue. Fu un contatto leggerissimo, quasi inesistente forse, ma bastò per farli felici entrambi.

“Grazie” sussurrò Emma, ancora sulle labbra del pirata.

Lui non disse niente, la osservò soltanto, girando attorno alla macchina, aprendo lo sportello del passeggero, pronto a salire su quella che lui riteneva una stupida scatola di latta.

“Andiamo a salvare il mondo?” chiese ironico.

Emma sorrise.

“Andiamo”

Come poteva realmente credere che la vita che aveva vissuto da un anno a quella parte fosse realmente la sua? Era stato tutto troppo calmo e, nonostante i continui rischi a cui lei e tutta la sua famiglia erano sottoposti, lei amava la sua vita.

Emma accese il motore e, con la voce di Henry e lo sguardo di Hook che l’accompagnavano, guidò verso casa, pronta a salvare la sua famiglia.

 

 

 

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Vado di super fretta, ma dovevo postarla, visto che questa sera non ci sarò.

Ho iniziato a scrivere One-Shot su questi due e, con ogni probabilità, non mi fermerò più. Arriverò ad un punto in cui scriverò anche una long, ne sono certa.

Non succede nulla di che, rispetto alla shot che avevo precedentemente scritto, esplorando il mondo di questi due sotto in altro punto di vista. IfYouKnowWhatIMean.

Qui siamo a New York e ho solo ipoteticamente messo nero su bianco quello che potrebbe accadere, mettendoci anche la boccetta che Hook da Emma di fronte alla centrale di polizia – ovviamente ho cambiato ambientazione, ma solo per esigenza di copione – e anche la scena della macchina. Sono sicura che sapete a quale foto mi riferisco. Ho fatto indossare a Emma anche gli stessi vestiti u.u

Bene, me ne vado perché sono in super ritardissimimissimo, ma probabilmente mi rivedrete presto, magari con qualcosa di più... caliente.

Quanto sono simpatica LOL

   
 
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