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Autore: KrisJay    23/12/2013    9 recensioni
"«La tua amica, prima, ti ha chiamata Bella. È un diminutivo?» chiede, cambiando completamente discorso.
«Sì, è così che mi chiamano i miei amici.»
«Posso chiamarti così anche io?»
Mi viene da ridere e da piangere allo stesso tempo. «Non sei mio amico.» gli faccio notare.
«Ma potrei diventarlo. Dammi una chance.»"
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Another Story

Non è di certo la storia più adatta a questo periodo di feste, ma questa nuova idea mi è entrata in testa e non voleva andare via, in nessun modo. Così l’ho scritta, di getto, e ci tenevo moltissimo a condividerla con voi.
Spero che vi piaccia. Se invece ho toppato alla grande e fa completamente schifo, non esitate e scrivete tutto quello che pensate nelle recensioni. Non mi offendo mica! :)
Con questa OS vi mando i miei migliori auguri di Buon Natale e di felice anno nuovo! Come sempre, mangiate fino a scoppiare e infischiatevene della dieta… c’è sempre tempo dopo le feste per smaltire la ciccia in più ;)
A presto, un bacione e un abbraccio immenso.

 

 

 

Another story

 
 

Bella

Continuo a rigirare tra le dita quel sottile stick di plastica, ripetendo all’infinito nella mia testa una sola e breve frase.
Non è possibile.
Ma per quanto lo ripeta, in diverse esclamazioni ed imprecazioni, non posso cambiare l’ordine delle cose. Le due sottili linee blu apparse da pochi minuti stanno gridando in chiare parole “Sei incinta, rassegnati!”
Come posso rassegnarmi!, vorrei urlare. Sembra facile a dirlo, ma non lo è per niente a farlo.
Non quando vivi a Chicago per lavoro e, a parte la tua coinquilina che è diventata anche la tua migliore amica, non hai nessun parente o familiare a cui chiedere aiuto. Loro vivono a chilometri di distanza da me, a Seattle, e non mi sembra una mossa saggia chiamarli e sganciare la bomba. Non sanno neanche che sono fidanzata! A parte il fatto che non lo sono…
Dio, che pasticcio. Che grande e schifoso pasticcio!
Sento il panico che comincia a farsi strada dentro di me e capisco di aver bisogno di aria pulita. Stare chiusa dentro il minuscolo bagno di casa mia non aiuterà la mia claustrofobia.
Nel giro di pochi minuti mi trovo fuori casa, nelle tasche dei jeans ci sono solo le chiavi ed il cellulare, oltre al test di gravidanza ovviamente. Non voglio che, mentre io sono fuori casa, Beth torni e lo trovi in bella vista sul tavolo della cucina.
Meglio nascondere per un po’ il corpo del reato.
Non guardo veramente dove sto andando, quindi mi meraviglio un po’ quando noto di essere arrivata nei pressi di un parchetto. L’estate è arrivata ma non fa ancora eccessivamente caldo, quindi è normale vedere una marea di bambini che gioca e corre urlando. Tra un paio di anni anche io sarò una di quelle mamme che portano i loro bimbi a giocare…
Scuoto la testa, scacciando via il pensiero. È troppo presto per pensare a queste cose! Non ho la più pallida idea di quello che devo fare, non posso già mettermi a fantasticare sul futuro del mio bambino.
Trovo una panchina libera, isolata dal resto dei giochi, e mi ci lascio cadere sopra. Riprendo il test dal nascondiglio che gli ho trovato mentre venivo qui, ovvero la tasca dei calzoncini, e ricomincio a farlo girare tra le dita.
Un bambino. Non era nei miei programmi avere un bambino proprio adesso, non ho neanche un ragazzo con cui creare una famiglia… eppure, ecco che mi ritrovo ad affrontare questa nuova avventura, da sola. Ho paura, tanta, non sono in grado di crescere un figlio con le mie sole forze. I figli si fanno in due, ed in due devono essere cresciuti… non è così che dice il detto?
Beh, per quanto riguarda la prima parte c’è un bel fondo di verità. Ero insieme a qualcuno quando questo bambino è stato concepito… ma non era nei programmi che rimanessi incinta. È stato un caso, un errore! Non sono stata attenta. Non siamo stati attenti.
Come la prenderà lui, quando saprà che aspetto suo figlio? E poi, glielo devo proprio dire? Siamo stati insieme una volta sola, in un momento di semplice debolezza, e non ci conosciamo nemmeno. O almeno, io so solo il suo nome… se non lavorassimo nello stesso studio, non saprei neanche della sua esistenza.
Se non fosse stato per il nostro capo, che di punto in bianco ha deciso di far lavorare me ed il mio ‘collega’ su un caso delicato, molto probabilmente avrei continuato a pensare di Edward Cullen come se fosse stato una delle tante leggende metropolitane che girano nelle grandi città.
Poi, un giorno, mi ritrovo ad entrare nel suo ufficio, che si trova al sesto piano rispetto al mio che si trova invece al secondo, e faccio la sua conoscenza. È un uomo alto, piacente, di bell’aspetto… ma per me è finito tutto lì. Non sono quel genere di ragazza che mischia la vita privata con il lavoro, eppure nel giro di poche ore tutto il mio mondo mi è crollato addosso. Le mie convinzioni, i miei ideali… puf! Tutto svanito in un battito di ciglia.
Abbiamo cominciato a lavorare al caso, scambiandoci opinioni e pareri e cercando di elaborare insieme una difesa adeguata; mano a mano che approfondivamo il problema, e di conseguenza la nostra conoscenza, mi sono resa conto che Edward è davvero uno degli avvocati più in gamba dello studio – si merita davvero di lavorare al sesto piano piuttosto che ai piani bassi come me; me lo merito, dato che sono ancora alle prime armi ed ho ancora molta strada da fare. È intelligente, preciso, quel tipo di persona che si sofferma molto nei particolari e li esamina con accuratezza.
Ed è molto bravo a circuire le persone, quando ci si impegna.
Eravamo rimasti in ufficio fino a tardi, quando ormai tutti erano andati via e l’unica persona presente nell’edificio era la guardia notturna. È stato in quel momento che è avvenuto il fattaccio: non so bene qual è stato il momento in cui la mia forza di volontà è venuta meno, fatto sta che nel giro di pochi minuti ero seduta sulla sua scrivania, seminuda, mentre Edward mi scopava con foga.
Quello è stato l’unico episodio, non ne sono avvenuti altri; ho anche smesso di vederlo non appena il nostro caso fu archiviato, ed è stato meglio così a dirla tutta. Non ci parlavamo neanche, a parte le uniche volte in cui eravamo costretti a dire qualcosa per via del nostro lavoro. È stato davvero meglio così, e non ne ero affatto dispiaciuta.
O lo ero, almeno fino a qualche giorno fa, quando il sospetto di una gravidanza si è fatto strada nella mia mente. Ho un ritardo di dieci giorni, cosa che non mi è mai accaduta negli ultimi anni, da quando ovvero il mio ciclo è diventato regolare e preciso come un orologio. E visto che prima di Edward non ho avuto nessun contatto stretto con l‘altro sesso, e vista anche l’assenza di un fidanzato, il padre del mio bambino è senz’ombra di dubbio lui.
Sono incinta di sei settimane, secondo i miei calcoli. Troppo pochi per far sì che la pancia faccia già la sua comparsa, ma abbastanza per rendere tutti i miei cibi preferiti spazzatura al mio olfatto.
Guardo di nuovo il test di gravidanza, come per sperare che in questo modo, magari, le due lineette possano cambiare colore e dirmi così che si tratta solo di un falso allarme. Ma non è la mia giornata fortunata, questa.
Le linee blu restano lì, a farsi beffe di me, e questo mi fa scoppiare a piangere senza indugi.
 

-
 

Sono nel mio ufficio e non faccio altro che mangiarmi le unghie dal nervoso. Davanti agli occhi ho una relazione che dovrei rettificare e consegnare entro la pausa pranzo ma che, in realtà, non ho nemmeno toccato. C’è una tazza di tè, lì accanto, l’unica cosa che non mi faccia rivoltare lo stomaco soltanto ad annusarla, ma è intatta. Stamattina ho la testa da tutt’altra parte.
Passato il week-end a pensare e a pensare, mi sono finalmente decisa a farmi avanti e confessare tutto a Edward. Oh, diciamo che Beth ci ha messo il suo carico da novanta e mi ha costretta a comportarmi così, se non volevo ritrovarmi presto vittima della sua ira.
È il padre del mio bambino, ha tutto il diritto di sapere che mi ha messa nei guai e che nel giro di pochi mesi ci sarà una nuova vita di cui prendersi cura. Non voglio mica avere delle pretese su di lui, voglio solo che sia un padre presente. Mi basterebbe questo, per il resto riuscirò a cavarmela bene anche da sola. Spero.
Lancio una rapida occhiata all’orologio del computer. Sono appena le undici e trenta. È troppo presto per sganciare la notizia? Aspetto? No, forse è meglio se ci vado adesso, prima di cambiare idea.
Mi alzo in piedi, afferro la mia tazza di tè ed esco dal mio ufficio, incamminandomi verso gli ascensori. Salgo al sesto piano e, titubante e con il cuore che mi batte a mille, vado verso l’ufficio di Edward. Lui ha una segretaria, rispetto a me, quindi prima di poter entrare devo chiedere a lei il permesso. Come all’asilo.
La ragazza, bionda e con le labbra rifatte, mi scruta in malo modo arricciando le sopracciglia tatuate. «Ha un appuntamento, signorina Swan?»
Scuoto la testa. «No.» aggiungo poi, stringendo forte la tazza tra le mani. Potrei romperla da un momento all’altro, così allento di poco la presa.
Lei sorride, da vera stronza. «Mi dispiace, il signor Cullen è in riunione e non può parlarle adesso.» civetta.

Chissà se cambia idea se le dico che aspetto un figlio da lui, penso, ma mi trattengo dal dirlo. «Può dirgli che sono passata e che ho bisogno di parlargli con urgenza? Mi trovo al secondo piano, Risorse Umane.» snocciolo con chiarezza, poi me ne vado prima di aspettare una sua risposta, qualsiasi essa sia stata.
Dopo un’ora circa, quando ho finalmente cominciato a leggere quella benedetta relazione e ho sgranocchiato un paio di cracker per evitare la nausea, il telefono suona. Rispondo prontamente, ma in tono annoiato. «Swan.»
«Isabella, cos’è che devi dirmi di così importante da costringerti a salire fino al mio ufficio?» la voce leggermente seccata di Edward raggiunge il mio orecchio. In sottofondo sento un frusciare di carte, chiaro segno che sta lavorando. Lavora anche durante la pausa pranzo? Questo non lo sapevo… o forse avrei dovuto aspettarmelo.
«Non sarei mai salita se non fosse stato così urgente, Edward.» ribatto piccata, gettando sulla scrivania un pezzetto di cracker mangiucchiato. «Possiamo incontrarci per… parlare? È davvero importante.» aggiungo.
«Se vuoi ripetere l’esperienza dell’altra volta basta che sali, senza chiedere. Lascerò la porta aperta
Disgustoso. «No, preferirei di no. Possiamo parlare?»
Lo sento sbuffare, e il fruscio finisce di colpo. «Se proprio insisti… lo conosci il ‘Bel Ami’
Certo che lo conosco, passo davanti a quel locale ogni giorno per venire qui, e ci ho pranzato più di una volta. «Sì.»
«Aspettami lì tra mezz’ora e chiedi di Edward Cullen, c’è sempre un tavolo prenotato a mio nome.» dice prima di sbattermi il telefono in faccia.
«D’accordo.» borbotto, abbassando la cornetta. Edward Cullen ha sicuramente qualche problema di personalità, è completamente diverso dalla persona che ho conosciuto io… ma è identico alle leggende metropolitane.
Bah, ci rinuncio a capirlo.
Raggiungo il ‘Bel Ami’ e prendo posto al tavolo prenotato per Edward cinque minuti dopo la fine della telefonata. Non ha senso aspettare in ufficio, rischiavo di farmi venire un coccolone. Qui, invece, sono circondata da persone ed è più facile tenere sotto controllo la mia ansia.
La mezz’ora passa, e passano altri quindici minuti prima che il grande Edward Cullen faccia la sua comparsa. Si toglie la giacca strada facendo e la sistema sullo schienale della sedia prima di prendere posto a tavola, il tutto senza salutarmi e senza mostrare il minimo segno che mi abbia notato. Allunga la mano per prendere la bottiglia di vino bianco e ne versa un po’ nel suo bicchiere, il cipiglio che ha sulla faccia non sembra dare segno di volersene andare.
«Ti sei già servita?» domanda, guardandomi finalmente in faccia.
Annuisco, senza dire nulla. Stringo tra le dita il sottile stelo del bicchiere: non potrei bere alcolici, e non ho alcuna intenzione di farlo. È solo un gesto per farmi mantenere la calma.
«Allora, Isabella, parliamo. Cosa devi dirmi?» Edward distoglie lo sguardo da me e comincia a scorrere con gli occhi i piatti stampati sul menu. Non avrà più molta voglia di mangiare quando sentirà quello che ho da dire.
«E’ accaduta una cosa, dopo che siamo stati insieme…» mi schiarisco la gola dato che ho il tono di voce basso come quello di una bambina. «Aspetto un bambino, Edward. Il padre sei tu.»
Ecco, ho fatto esplodere la bomba.
Lui solleva gli occhi dal menu e mi guarda, sbigottito. Io ricambio il suo sguardo senza mostrare nessun segno di debolezza, almeno di questo sono sicura. Continuo a guardarlo, e cerco di tenere da parte l’ansia per la risposta che riceverò da lui.
«Sei… sicura che sia mio?» è quello che ricevo, e da una parte mi aspettavo una frase simile.
Sospiro, imbronciando le labbra. «Sì, Edward, sono sicura. Non sono fidanzata e non vado a letto con il primo che mi capita… a parte te, ovviamente. È tuo.»
«Dite tutte così!» ribatte.
«Beh, che tu ci creda o no, questa è la verità.»
Edward inspira forte dal naso e si tira indietro, poggiando completamente la schiena contro la sedia. È pensieroso, chissà cosa gli sta passando per la testa in questo momento. Mi piacerebbe molto saperlo… o forse no.
Alla fine torna a guardarmi e si sporge verso di me, nonostante ci sia un tavolo a separarci. «Isabella, non è che stai cercando di incastrarmi? Che il tuo bambino è un bastardo e che quindi stai cercando di salvarti le penne?» domanda, e al sentirla non ci vedo proprio più.
«Se fossi stata un altro tipo di persona sì, ti avrei incastrato, ma purtroppo non lo sono. Visto che quello che porto dentro è anche figlio tuo ho pensato che dovevi esserne messo al corrente, e se non credi alle mie parole sono pronta a fare il test del DNA, non ho niente da nascondere.» riprendo fiato, sbattendo la mano sul tavolo. «Ma a quanto pare mi sono sbagliata, non ti interessa sapere di questo bambino. Ce la caveremo benissimo da soli, staremo bene.» afferro la borsa e mi alzo in piedi, preparandomi a tornare in ufficio.
Edward sembra scosso, mi guarda come se avesse davanti agli occhi un mostro cattivo. «Isabella…» balbetta.
«Buon pranzo, Edward. Spero che tu ti ci possa strozzare!» faccio cadere il bicchiere di vino sulla tovaglia prima di sgattaiolare via, verso la porta dei ristorante.
Solo quando sono fuori mi fermo, e lascio cadere qualche lacrima.
 

-
 

Da allora è passato un mese, ed in questo arco di tempo sono accadute molte cose: la mia nausea si è intensificata, tanto da non farmi quasi toccare cibo e farmi perdere tre chili abbondanti; ho avuto la prima visita dal ginecologo ed ho scoperto che è tutto a posto, il piccolo è sano ed è grande più o meno come un fagiolo; Beth ha assunto il ruolo di protettrice della mia gravidanza e di zia acquisita, quella che vizierà il mio fagiolino insomma; infine, sto evitando Edward come la peste.
Ogni volta che lo incontro nell’androne del nostro studio cerco di svignarmela il prima possibile per paura che possa vedermi o, nei casi più estremi, dirmi qualcosa. Qualche volta c’è quasi riuscito: si è avvicinato a me, passandosi in modo nervoso la mano tra i capelli mentre teneva nell’altra la valigetta, ma fortunatamente c’è sempre stato qualcuno che si è messo in mezzo e mi ha dato il tempo necessario per andare via.
Per quale motivo mi ha cercata, poi? Quel giorno al ‘Bel Ami’ mi ha fatto capire per bene che per lui, questo bambino, non esiste proprio. Voleva forse accertarsi che mi fossi, che ne so, sbarazzata di lui?
Hei, Isabella, come va? Hai abortito?
Il solo pensiero di far del male al mio piccolo mi fa venire la nausea.
Quella c’è sempre, poi, non c’è alcun bisogno di cercarla.
«Buttato via tutto?» è così che mi accoglie Beth, spaparanzata comodamente sul divano a due posti del nostro salotto. Io torno a sedermi sulla poltrona e cerco di riprendere il filo del film che stiamo guardando, cercando di non pensare alla nausea e all’ultima tappa in bagno della giornata.
«Non c’è più niente qui dentro.» protesto debolmente, massaggiandomi lo stomaco. «Perché la gravidanza deve essere così… vomitevole?»
«Perché non c’è gusto, altrimenti, se le cose vanno tutte lisce come l’olio.» mi guarda e mangia una patatina. Beata lei, che può mangiare di tutto senza preoccuparsi di rimetterla sul pavimento dopo cinque minuti. «A parte gli scherzi, vuoi qualcosa? Sei pallida come un cadavere! Ti preparo un tè, una tazza di latte…»
«No, preferisco di no, ma grazie. Credo che tra un po’ andrò a stendermi…» mormoro, posando una mano sulla fronte. La testa comincia a dolermi, e visto che vorrei non prendere farmaci nel mio stato è meglio andare a dormire. Mi farà bene senz’altro.
«Come vuoi. Sai che sono qui, se hai bisogno di qualcosa.» sussurra, sorridendo.
Ricambio il suo sorriso. «Lo so.»
Lei è l’unica persona su cui possa contare, qui a Chicago. Edward è off-limits, vista la sua avversione verso questo bambino, ed i miei genitori vivono lontano; loro non sanno nemmeno che, tra qualche mese, li renderò nonni. Forse comunicherò loro la notizia solo quando mi ritroverò in preda alle doglie e con le acque rotte.
Mamma, papà, indovinate un po’? Sto per partorire!” ci rimarranno secchi, poverini.
Alla fine il mal di testa vince e decido di andare in camera. Do la buonanotte a Beth, che rimane in salotto a guardare Joseph Fiennes che amoreggia con Gwineth Paltrow. Beata lei.
Mi sono assopita da poco, dopo aver finalmente trovato una posizione che da pace al mio stomaco sofferente, quando Beth bussa alla porta e la socchiude. «Bella, c’è un gran bel pezzo di manzo in salotto che vuole parlare con te.» mormora.
Sollevo la testa, infastidita. «Chi è?»
«Boh, ma non farlo aspettare ti prego! È un bel modo per rifarsi gli occhi!» ridacchia, e mi lascia sola.
Un paio di minuti dopo la raggiungo in salotto, dove scopro che si trova in compagnia di Edward e che gli ha pure offerto da bere. Ma dico, è pazza? E lui che ci fa qui?
Mi rendo conto di aver parlato ad alta voce quando è lui, a rispondere. «Volevo sapere che fine avessi fatto. Da diversi giorni non vieni in studio e, sai…» scrolla le spalle, come se fosse ovvio quello che sta dicendo. «Stai bene?» aggiunge.
Incrocio le braccia al petto, sentendomi tutta d’un tratto vulnerabile e troppo esposta. «Ho avuto dei fastidi allo stomaco, per questo non ero al lavoro. Ma sto bene.»
«Posso… fare qualcosa?» chiede, senza smettere di guardarmi.
«Non puoi fare niente, quindi puoi anche andare via.» faccio per voltarmi per tornare in camera quando Beth mi ferma, urlando.
«Ma no! Resta qui, Bella, e parlate! Sono io quella che me ne vado, sono di troppo!» mi da un bacio sulla guancia e sussurra “Non fare casini!” in tono acido prima di nascondersi in camera sua.
Scuoto la testa, passandomi una mano sulla fronte. Sento subito le mani di Edward posarsi sulle mie spalle, il suo respiro che si infrange contro la mia mano. «Va tutto bene? Che hai?» domanda, premuroso.
«Ho mal di testa.» borbotto.
«Vieni a sederti, dai.»
Mi accompagna al divano e mi ci fa sedere, prendendo poi posto al mio fianco. Provo una strana sensazione, al momento, nel stargli accanto sapendo quello che pensa di me. Non ha senso. Mi da dell’approfittatrice e quando decido di gettare la spugna lui… lui mi viene a trovare e vuole sapere come sto.
Ha davvero dei problemi di personalità!
«Che ci fai qui, Edward?» chiedo, ancora una volta. Evito di guardarlo, però, è molto meglio fissare il decoro a fiori del divano.
«Voglio rimediare. So di averti dato un impressione sbagliata di me, ma… mi hai colto di sorpresa quel giorno. Pensavo che mi stessi prendendo in giro, e non mi piace che la gente si prenda gioco di me.» sospira. «Ma poi ho capito di star sbagliando, e che tu eri sincera. Sono un avvocato, quindi capisco quando qualcuno mi sta mentendo o no… e tu non mentivi. Non stai mentendo. Voglio chiederti scusa, quindi, e voglio starti accanto qualsiasi cosa succeda.»
Mi decido a guardarlo, soffermandomi più del dovuto sui suoi occhi chiari. Sono così belli, ma sono anche intensi, profondi. Mi incutono timore, quindi smetto di osservarli.
Posso davvero fidarmi di lui? Non è che mi pianterà in asso proprio quando ho più bisogno di una certezza, di un punto fermo a cui aggrapparmi? Mi ha già delusa una volta, non voglio che lo faccia di nuovo.
«La tua amica, prima, ti ha chiamata Bella. È un diminutivo?» chiede, cambiando completamente discorso.
«Sì, è così che mi chiamano i miei amici.»
«Posso chiamarti così anche io?»
Mi viene da ridere e da piangere allo stesso tempo. «Non sei mio amico.» gli faccio notare.
«Ma potrei diventarlo. Dammi una chance.» nel suo tono percepisco la speranza, la speranza di poter essere qualcosa per me.
È questa speranza che mi fa annuire, facendolo entrare così nella mia vita.
 

Edward
Bella è entrata nella mia vita come un fulmine a ciel sereno, all’improvviso. Non sapevo neanche che lavorasse nel mio stesso studio fino a quando il capo non ha deciso di farci lavorare insieme.
È giovane e ancora un po’ inesperta in questo campo, mi dice balbettando che lavora qui da poco più di un anno ma che si sta impegnando per migliorare. Sono le stesse parole che mi ha comunicato il capo quando mi ha annunciato che avrei lavorato con un avvocato delle Risorse Umane.
E’ brava, intelligente, in gamba. Farà molta strada, ma bisogna dargli ancora del tempo.” così mi ha detto, e ammetto di non essere stato molto convinto su di lei. Ma ho cambiato completamente idea non appena ha fatto la sua comparsa sulla soglia del mio ufficio.
Sono rimasto colpito da lei, una giovane brunetta dal fisico minuto ma con le curve al punto giusto. Mi sono soffermato più tempo del dovuto a rimirare il suo fondoschiena, lo ammetto, ma sono rimasto affascinato nel notare come lavorava la sua testa. Mi è piaciuta.
E mi ha attratto a tal punto che, alla fine del nostro lavoro, non ho perso tempo a farla mia sulla mia scrivania. È piaciuto anche a lei, me lo ha fatto capire in diversi modi. Come dimenticare le sue unghie che mi graffiavano la schiena mentre pompavo dentro di lei, e i suoi ansiti di piacere e mugolii che si infrangevano sul mio orecchio?
Da adesso in poi non li dimenticherò più.
Bella aspetta un figlio da me, un figlio che mai mi sarei aspettato arrivasse in questo momento, così delicato per la mia carriera, e che all’inizio non volevo. Ho capito sin da subito che mi stava dicendo la verità e che non mi stava prendendo in giro, lo capivo dai suoi occhi. Era un libro aperto, impossibile sbagliarsi. Ma ho comunque dubitato delle sue parole perché non volevo accettare questa realtà. Le ho dato della poco di buono, cosa di cui mi sono pentito due secondi dopo averlo detto.
Mi ci vedete a fare il padre? Io, che non ho tenuto tra le braccia nemmeno i miei nipoti appena nati per paura di far loro del male? Non sono in grado di badare a un neonato, sono bravo solo nel mio lavoro.
Mi sono pentito di quello che avevo combinato, e ho cercato di rimediare. Bella a lavoro mi ha evitato come poteva, e non potevo che darle ragione: mi sarei evitato anche io, se potevo farlo. Ho cercato più volte di avvicinarmi a lei e di chiederle scusa, di chiederle se potevo starle accanto per il bambino, ma se stai per diventare socio di uno studio legale c’è sempre qualcuno che ha da dirti qualcosa, rovinando i tuoi piani, e così ogni mio tentativo è andato in fumo.
E alla fine ho fatto a modo mio. Ho scoperto dove abitava, sono andato da lei, le ho parlato. Mi sono preoccupato non vedendola arrivare in studio, ho pensato che stesse male e che fosse accaduto qualcosa al bambino. Ma lui stava bene, era sua madre quella che risentiva delle nausee quasi incessanti. Mia sorella non scherzava, quando diceva che ti scombussolavano peggio di un terremoto.
Adesso va un po’ meglio: Bella riesce a mangiare senza dover rimettere tutto dopo cinque minuti; il bimbo cresce, e una piccola sporgenza sul ventre di sua madre ci fa capire la sua presenza. Sto cominciando ad abituarmi all’idea di diventare padre: ho trentadue anni, sono abbastanza maturo per esserlo… o almeno, lo spero.
La mia famiglia, così come quella di Bella, non sa ancora nulla di questo bambino. So già che i miei lo adoreranno, così come adorano i figli di mia sorella, ma vorrei aspettare ancora qualche tempo prima di comunicar loro la notizia.
Viviamo insieme da un paio di mesi a questa parte. Gliel’ho proposto una delle tante sere in cui la andavo a trovare a casa sua; la sua coinquilina, una specie di tsunami in forma umana, trovava sempre una scusa per lasciarci da soli. Io la trovavo divertente, Bella invece non la pensava allo stesso modo.
È stato strano ritrovarsi a vivere con qualcuno dopo anni di solitudine: ho dovuto cambiare qualche mia abitudine, ma per tutto il resto non ho nulla di cui lamentarmi. Anzi, vivere insieme a Bella mi ha aiutato a conoscerla meglio. Non stiamo insieme, ma agli occhi altrui sembra che lo siamo. Una coppia che sta per avere un figlio, questo sembriamo. Però Bella ce l’ha ancora con me, è sempre un po’ schiva nei miei confronti… e come darle torto? Ma ce la sto mettendo tutta per rimediare, e per renderla felice.
Ho scoperto che è una ragazza umile, gentile, e anche molto timida. Arrossisce quasi per ogni cosa, e mi piace vedere le sue gote che si colorano all’improvviso. La rendono più bella, dolce. Ho un debole per questo suo particolare.
Mi innervosisco ogni volta che compie qualcosa che non mi aspetto che faccia.
Ad esempio, ho deciso di creare un fondo cassa per la casa, per acquistare tutto quello che può servirci durante il giorno; ci ho aggiunto anche un extra, di mio, per le eventuali spese in vista dell’arrivo del piccolo. Lo controllo ogni tanto, ed a parte i soldi utilizzati per la spesa non manca mai nulla. Sono quasi intatti. Non li utilizza per farsi un regalino, o per andare a divertirsi… no, non li tocca mai. Se fosse stata un’altra ragazza a quest’ora avrebbe già svuotato il mio conto in banca, approfittandosene… ma stiamo parlando di Bella, e lei mette la sua parte di soldi per la spesa e utilizza gli altri solo in caso di bisogno.
Adesso che non deve più pagare la sua parte di affitto potrebbe permettersi un piccolo extra di tanto in tanto, ma non lo fa mai. Ha comprato solo un paio di scarpette di lana, bianche, per nostro figlio, e basta. E non mi ha detto niente. Se non le avessi viste per caso, sul mobile della camera, non saprei nulla della loro esistenza.
È una lettrice accanita, chi l’avrebbe mai detto? Non pensavo che una ragazza così delicata amasse la lettura horror: nasconde un animo da serial killer dietro il suo bel faccino. E le piace molto il cinema. Il suo attore preferito? Joseph Fiennes.
Alcune volte mi ritrovo a guardarla dormire, durante la notte. È sempre voltata su un fianco, con un braccio sotto la testa e l’altro ripiegato sul materasso. Le accarezzo la pancia, ogni tanto, non credendo ancora che lì dentro ci sia il mio bambino. Mio figlio, il mio piccolo. Ha cominciato da poco a muoversi, sembra un pesciolino che nuota in un acquario.
Sto cominciando a volerle bene, e questo mi spaventa un po’. Penso che sia a causa del bambino, ma forse mi sbaglio: forse c’è qualcosa di più, ma non ne sono certo. Ho paura di domandarmi cos’è che mi lega così tanto a lei, a parte nostro figlio.
 

-
 

«Molto probabilmente mi terranno in tribunale tutto il giorno, farò tardi. Sei sicura di farcela da sola?» la osservo un po’ in ansia, stando sulla soglia del suo ufficio.
Qualche giorno fa Bella non è stata bene, ha avuto qualche dolorino al basso ventre ed entrambi ci siamo preoccupati per nostro figlio; però il ginecologo ci ha rassicurato, il bambino sta bene e non c’era stato nessun segno di sofferenza fetale. Probabilmente era stata la stanchezza a giocare qualche brutto scherzo.
Bella, seduta alla sua scrivania, mi sorride con le mani poggiate sulla pancia. «Sicurissima. Lo facevo sempre prima di incontrare te, o lo hai già dimenticato?» scherza, inclinando la testa da un lato.
Non so perché, ma questa sua considerazione non mi fa stare di certo più tranquillo. Mi avvicino a lei e mi inginocchio, posando anche una mia mano sul pancione. Non è troppo grande, è una semplice pancia al quinto mese di gravidanza ma è abbastanza evidente. Resterei per ore a toccarla, a sentire mio figlio che scalcia contro il palmo della mia mano… ma purtroppo il dovere chiama.
«Qui fuori ti daranno tutti una mano se hai bisogno di aiuto. E se stai poco bene torna a casa. Ti raggiungerò il prima possibile.» mormoro, sicuro che mi senta vista la nostra vicinanza.
Sbuffa, facendomi sorridere. «Ce la caveremo benissimo, io e French Bean!» Fagiolino, è questo il nomignolo che ha affibbiato a nostro figlio. Simpatico, ma spero che lo cambi presto… specialmente quando sapremo il sesso.
Un maschio, una femmina, non è importante. Quello che conta è che stia bene, che sia forte.
«Non stancarti troppo.» la guardo, non resistendo al forte impulso che mi spinge ad avvicinare il viso al suo. Le bacio le labbra, piano, incastrando il suo labbro inferiore tra le mie.
Non è la prima volta che lo faccio, c’è stata più di un occasione in cui ci siamo scambiati effusioni simili. Per me hanno un significato, ma non so se per Bella sia la stessa cosa. Si apre così poco con me, anche dopo così tanti mesi. È un piccolo pezzo di ghiaccio, la mia Bella. Un adorabile, piccolo, pezzo di ghiaccio.
Bella morde le mie labbra, ridendo subito dopo ed allontanandosi. «Su, avvocato, qui c’è gente che deve lavorare!» si lamenta, spingendomi via.
Faccio come mi dice, ma solo dopo averle baciato la fronte ed essermi raccomandato di nuovo con lei di fare attenzione. Sono apprensivo, cosa che non ero mai stato prima di adesso. Forse perché adesso ho due persone in più di cui occuparmi rispetto a prima, quando dovevo badare solo a me stesso.
 

-
 

La seduta in tribunale prosegue con estrema lentezza. Getto un occhiata di tanto in tanto all’orologio, ma quest’ultimo sembra essersi fermato. Oppure funziona male. Il tempo non passa mai. Vorrei terminare subito tutto, ma credo che questo mio desiderio non lo approvi nessuno.
Sono le due del pomeriggio e non siamo ancora arrivati al punto cruciale della situazione. Comincio a spazientirmi. Picchietto sul legno con la mia penna, mentre l’avvocato dell’accusa continua a snocciolare la sua infinita arringa.
È inutile che continua a girare ed a girare intorno alla storia, si sta soltanto arrampicando sugli specchi e ci sta facendo perdere tempo. So già di avere la vittoria in pugno. E credo che lo sappia anche il giudice, dal modo in cui sta squadrando l’altro avvocato.
Alla fine, il giudice Mason decide di rinviare la seduta a data da destinarsi. Dopo qualcosa come sei ore e mezza, sono più che felice di andarmene da quest’aula. Raccolgo i miei effetti personali e, salutati i miei clienti, mi affretto ad uscire. Nel frattempo recupero il cellulare e lo accendo, impaziente di telefonare a Bella. Voglio sapere come sta, se si trova ancora al lavoro oppure se ha deciso di tornare a casa prima. Il capo le ha concesso un orario flessibile, in modo da poterlo gestire con più facilità visto il suo stato. Sì è molto affezionato a Bella, mi ha confessato qualche settimana fa. Da quando ha messo piede nel suo studio l’ha coperta con la sua ala protettrice.
Sono quasi invidioso di questo.
«Edward! Grazie a Dio!» mi fermo non appena metto piede fuori l’aula del tribunale. C’è Luke poco lontano da me, ma mi raggiunge in fretta. È scosso, con gli occhiali da vista di traverso. «Non mi hanno fatto entrare, in nessun modo!»
«Era una seduta a porte chiuse.» gli spiego, osservandolo. «Che succede?»
Non faccio in tempo a terminare la domanda che, tra le mie mani, il mio cellulare comincia a vibrare all’impazzata. Vedo messaggi, vocali e non, e chiamate senza risposta. Le scorro in fretta, con l’ansia che cresce. Bella, Luke, il capo, Beth, e ancora Bella. Sembrano non finire mai.
Con il cuore in gola, alzo gli occhi verso Luke. «Che cos’è successo? Dov’è Bella?»
«In ospedale.» mi dice, preoccupato forse quanto me. «Credo che sia accaduto qualcosa al bambino.»
 

-
 

«… c’è stata una perdita di liquido amniotico considerevole, le contrazioni erano ravvicinate e molto premature. Quando è arrivata qui non c’era più nulla che potessimo fare, se non tirare fuori il bambino. Mi dispiace molto, signor Cullen.»
Le parole del ginecologo che ha in cura Bella mi colpiscono come macigni, con insistenza. Sento un ronzio incessante nelle orecchie e se lui non mi fosse così vicino, molto probabilmente non lo sentirei. Di tutto quello che mi ha detto, ho capito solo una cosa.
Che il nostro piccolo non c’è più.
Deglutisco, a vuoto. Batto le palpebre per cercare di riprendermi, inutilmente. «Eh… se… se la situazione non fosse stata così… grave, il bambino sarebbe sopravvissuto?»
Andrew, così si chiama il medico, mi guarda in maniera compassionevole, le mani affondate nelle tasche del camice. «Nessun feto alla diciassettesima settimana di gravidanza riesce a sopravvivere fuori dal grembo materno. Troppo sotto sviluppato, troppo piccolo, troppo debole. Se si fosse trattato di un distacco della placenta, seppur lieve, allora si sarebbe potuto fare qualcosa… ma nel caso di Bella si è trattato di un parto prematuro, molto prematuro, e non c’era un modo per fermarlo. Mi dispiace davvero, Edward.»
Annuisco, passandomi una mano sul naso. «Dispiace anche a me.» mormoro.
«Bella è sveglia, può andare da lei se vuole. Ha bisogno della sua presenza.» sussurra, posando una mano sulla mia spalla. «Chiamate per qualsiasi cosa.»
Il medico si allontana, ma lo fermo prima che possa sparire. «Era… cos’era? Un maschio o una femmina?» domando. Non potrà fare male sapere cosa ho perso, no? Non più male di quello che sto già provando.
Lui mi sorride, seppur in modo triste. «Una bambina. Era una bambina.» si allontana dopo averlo detto.
Mi sbagliavo, troppo. Fa più male del previsto. Comincio a piangere quasi senza rendermene conto, e mi costringo a smettere anche se non voglio. Devo andare da Bella, devo starle accanto e non farle vedere quanto questa perdita mi stia distruggendo. Starà soffrendo tantissimo, sicuramente più di me. Era lei quella che la stava crescendo, che la stava tenendo al sicuro nel suo ventre. Deve fare mille volte più male a lei che a me.
Com’è sentire una presenza dentro di sé al mattino, e non sentirla più al pomeriggio? Non potrò mai capirlo, ma posso andarci vicino.
Entro piano nella sua stanza, semibuia. Le veneziane sono abbassate, lasciando entrare solo poca luce. Bella è stesa sul letto ma non dorme, ha gli occhi aperti puntati sul soffitto. Quando mi sente volta il viso, pallido e con le occhiaie marcate. Ha gli occhi rossi. Le sue mani stringono la coperta all’altezza della pancia.
Sta molto più male di me.
Mi avvicino al suo letto e mi siedo sul bordo del materasso, posando la mano sulla sua testa. La guardo, lei guarda me. I suoi occhi tornano lucidi nel giro di pochi secondi, e due lacrime cadono sulle sue guance.
«Mi dispiace tanto, Bella.» sussurro.
Lei scuote la testa, tirando su forte con il naso. «Non è vero, tu non la volevi. Non ti importava niente di lei…» singhiozza.
«Non è vero, Bella, che dici? Le volevo bene. Le voglio bene…»
«Sei un bugiardo! Un bugiardo.» smette di insultarmi, scossa com’è dai singhiozzi. Si volta dall’altra parte ed evita di guardarmi mentre seguita a piangere.
Mi stendo sul letto, cingendole la vita con le spalle cercando di non farle del male. Le accarezzo le braccia, le bacio la testa. Non mi interessa quello che dice, non è in sé al momento. So che sta lottando contro un dolore troppo grande da sopportare in silenzio. L’unica cosa che posso fare al momento è sopportarlo insieme a lei.
La lascio sfogare tra le mie braccia, sussurrandole ogni tanto che va tutto bene, che passerà tutto prima o poi. È quando si addormenta, stremata, con le lacrime imperlate tra le ciglia scure, che comincio a piangere io.
 

-
 

Sono passati dieci giorni da quando abbiamo perso la nostra bambina. Dieci lunghi giorni, in cui l’unica cosa che ci circonda è il silenzio.
Bella non mi parla più, si è chiusa in un mutismo in cui io non riesco ad entrare. Voglio aiutarla, ma lei non me lo permette. Rimane sdraiata sul letto, stringendo tra le mani quelle minuscole scarpine bianche che ha acquistato mesi fa.
Si comporta così solo con me. Lo so perché Beth, che si è trasferita temporaneamente nel mio appartamento, me lo ha raccontato. Insieme parlano, solo poche parole al giorno, sì, ma parlano. Lei le fa compagnia mentre io vado al lavoro; non vorrei mai lasciarla da sola, ma sembra che la mia presenza le faccia soltanto del male. Se non mi parla, piange in silenzio.
Forse è meglio se durante il giorno non rimango con lei. So che con Beth si trova in buone mani.
È di ritorno dall’ennesima giornata di lavoro che trovo la casa spaventosamente silenziosa, più del solito. All’inizio penso che le ragazze siano soltanto uscite, ma poi scopro che non ci sono più le cose di Bella. I suoi vestiti, i suoi libri, i suoi cosmetici e le sue creme. Le scarpine.
Non c’è più niente.
Ma in camera da letto trovo un biglietto scritto a mano. Riconosco subito la grafia di Bella, sbavata in alcuni punti.
 

Torno a casa con Beth, non ha più senso stare qui. Non adesso che lei non c’è più.
Non cercarmi, non chiamarmi. Fa finta che io non esista, che non ci siamo mai conosciuti.
È molto meglio così.
 

Nuove lacrime cadono a sbavare l’inchiostro, stavolta si tratta delle mie. Un dolore sordo prende posto nel mio petto, all’altezza del cuore, proprio come è accaduto il giorno in cui la mia bimba mi ha lasciato.
E finalmente capisco cos’è che provo per Bella, quella cosa che non riuscivo a spiegarmi.
L’ho capito adesso, quando credo di averla persa, e forse per sempre.

La amo.
Ma l’ho capito troppo tardi.
 

Bella
Edward ha seguito il mio consiglio: non mi ha cercata. Solo una volta, in questi lunghi mesi, ha infranto la mia scelta.
Quando ho ripreso a lavorare, sulla scrivania del mio ufficio ho trovato un mazzo di rose rosse, con un bocciolo bianco nel mezzo. Erano vecchi, secchi, chissà da quanto tempo si trovavano lì. C’era un biglietto tra i fiori morti, un biglietto bianco.
Mi dispiace che sia andata così. Ti penso sempre.” c’era scritto questo. Poche parole, sì, ma cariche di significato. Mi sono pentita della mia scelta leggendo il biglietto, ma ormai il danno era fatto e non potevo rimediare in alcun modo.
Sono stati dei mesi difficili, in cui più di una volta ho creduto di non farcela. Beth era sempre lì ad aiutarmi, a darmi la forza di cui avevo bisogno, ma non era la sua quella che volevo, che cercavo.
Volevo Edward, ma lui non sarebbe più stato al mio fianco.
Me la sono presa con lui per quello che è accaduto alla nostra bambina, ben sapendo che non era sua la colpa. E non era nemmeno la mia. Io le volevo bene, le voglio ancora bene, e non le avrei mai causato del male. È semplicemente accaduto, e nessuno poteva farci nulla.
Alcune volte mi ritrovo ad immaginare che Edward si trovi accanto a me, come le sere in cui ce ne stavano sdraiati sul letto e sentivamo il nostro piccolo tesoro muoversi dentro la mia pancia. Stavo bene con lui, cominciavo anche a volergli bene. Dopotutto non era come sembrava, era davvero un bravo ragazzo. Gentile, premuroso, amorevole.
Lui mi ricorda molti momenti felici, ma allo stesso tempo mi ricorda il dolore e la perdita. Era troppo difficile stargli vicino. C’erano delle volte in cui desideravo con tutta me stessa averlo accanto, altre invece in cui il solo guardarlo mi faceva piangere il cuore.
Non sapevo neanche io cosa volevo.
 

-
 

I mesi passano, il dolore va via.
Natale è finalmente arrivato. Ho approfittato delle poche ferie che ancora ho a disposizione e ho fatto la valigia, partendo per andare a trovare la mia famiglia a Seattle. Mia madre, mio padre e mio fratello sono stati felicissimi di rivedermi, anche se sono rimasti sorpresi e non l’hanno nascosto. L’anno prima mia madre ha impiegato settimane prima che sentisse il mio ‘sì’ per tornare a casa; stavolta, invece, sono stata io quella che l’ha chiamata e le ha detto “Mamma, torno a casa per Natale”.
Mi hanno dato della grassa. Voglio dire, hanno notato la mia figura più piena del solito e ci hanno scherzato su, dicendo che a Chicago si mangia bene. Non sanno nulla di quello che mi è accaduto negli ultimi mesi, e non ho nessuna intenzione di raccontarglielo.
È vero che ho qualche chilo in più, quelli che la mia breve gravidanza mi ha regalato e che non sono riuscita a togliere. O forse è meglio dire che non ci ho proprio provato, a toglierli. Mi ricordano quello che avevo e che ho perso, in modo così ingiusto e doloroso.
Il giorno di Natale, con la casa piena di amici e parenti e regali, parlo meno del solito. La mamma è venuta da me e mi ha sussurrato “Vedrai che si sistemerà tutto” prima di tornare dagli ospiti. All’inizio ho pensato che avesse capito, che sapesse tutto sulla mia bambina, ma poi ho capito che molto probabilmente si stava riferendo a qualcos’altro. Non so a cosa, e non mi andava proprio di scoprirlo.
Poi ha suonato il campanello. Erano tutti impegnati a parlare e a ridere, e molto probabilmente l’avrò sentito soltanto io, così sono andata ad aprire. Sulla porta ho trovato Edward, nervoso, con una stella di Natale in vaso tra le mani.
Ha sorriso non appena ha visto che sono stata io ad aprirgli, quel sorriso che cominciava a mancarmi come l’aria che respiro. «Buon Natale! Ho saputo che eri dai tuoi, così sono venuto a salutarti.» vedendo che non ho risposto, ha sospirato ed abbassato il vaso con la pianta. «E’ vero, non sono qui solo per questo. Proviamoci, Bella, ti prego. Riproviamoci. Non ad avere un bambino, ma… a stare insieme. Mi manchi tantissimo, tesoro.» ha detto tutto d’un fiato.
Sono uscita fuori di casa ed ho  chiuso la porta alle mie spalle, fregandomene del freddo che c’èra fuori. Ho preso la pianta dalle sue mani e l’ho posata a terra, sul portico, poi mi sono stretta contro il suo petto caldo. E l’ho abbracciato.
Ho sepolto il volto nell’incavo del suo collo e le prime lacrime sono scese sul mio viso. Ho inspirato il suo profumo. È mancato tanto anche a me.
Edward mi ha abbracciato, sospirando, e mi ha baciato la testa.
Mi sono sentita meglio. Mi sono sentita a casa.
 

Due anni dopo
Siamo sdraiati sul divano, Bella ha la testa poggiata sulla mia spalla ed il suo respiro, caldo e regolare, si infrange sul mio collo. Dorme. Le accarezzo il braccio con la punta delle dita, mentre l’altra mano è ferma e poggiata sulla sommità del suo enorme pancione.
È all’ottavo mese, sembra che stia per esplodere. Aspettiamo una bimba, un’altra, come l’angioletto che abbiamo perso, che non abbiamo mai dimenticato, e che adesso si trova in cielo. Chissà, forse adesso sta vegliando su di noi e sulla sua sorellina, che tra poche settimane con il suo arrivo colmerà i nostri cuori di gioia.
Un calcio bello forte della piccola fa sobbalzare Bella, che solleva la testa confusa. Sbuffa, e si massaggia la pancia sul punto colpito, dove si trova già la mia.
«Questa non è una bambina, è un terremoto.» borbotta, tornando a poggiarsi contro di me.
Ridacchio, baciandola sulla fronte. L’amo da morire. «Ma noi le vorremo bene lo stesso.» mormoro, sorridendo tra i suoi capelli.
«L’ameremo anche se avesse tre teste e otto braccia…» sussurra, appisolandosi di nuovo.
Alcune volte immagino la nostra vita se insieme a noi ci fosse anche l’altra nostra piccola. Sarebbe una vita meravigliosa, piena di amore. Non che la nostra non lo sia, ora come ora, ma sicuramente lo sarebbe di più. Due figlie, un matrimonio…
Non siamo ancora sposati. A Bella gliel’ho chiesto, e lei ha accettato, a patto che ci saremmo sposati solo quando Janie fosse stata un po’ più grande. Non vuole sposarsi con la pancia che la fa sembrare una balena, mi ha confessato.
Lei non deve preoccuparsi, perché la troverei bellissima comunque, pancia o non pancia. La mia principessa, la mia Bella.
Bellissima nel suo abito bianco, che viene verso di me emozionata percorrendo la navata…

Ma questa è un'altra storia.
   
 
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