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Autore: Loda    23/12/2013    2 recensioni
Dottore, lo so cosa sta pensando. Sta pensando a quella fissazione che chiamano incestuosa, sta pensando al narcisismo, sta pensando che io creda che il mio mondo finisca in lei.
E invece sto pensando a quanto è bello e colorato sia, il mondo; i pittori, gli artisti, loro lo sapevano, l'han sempre saputo. Io non sono un artista, io l'ho capito tardi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Di morte morbidi tratti
Di morte morbidi tratti
 
 
 


Dottore, lo so cosa sta pensando. Sta pensando a quella fissazione che chiamano incestuosa, sta pensando al narcisismo, sta pensando che io creda che il mio mondo finisca in lei. 

E invece sto pensando a quanto è bello e colorato sia, il mondo; i pittori, gli artisti, loro lo sapevano, l'han sempre saputo.
Io non sono un artista, io l’ho capito tardi.

 
 
 

Quella mattina non c’era un soffio di vento. L’aria era quasi surreale, tutta fatta di calde pennellate, e io mi sentivo come fossi incastrato in un dipinto di Monet.
Eravamo sempre i soliti, alla fermata dell’autobus, ma non ci parlavamo mai tra di noi. Nemmeno un finto buongiorno, sarebbe suonato strano. Le persone erano immobili – anche loro forse erano incastrate, ma non in un quadro di Monet, no, quello era solo mio. Il signore, ritto in piedi, per niente curvo nonostante l’avanzata età, di cui non vedevo il volto ma solo il lungo cappotto nero che sbucava da sotto il giornale spiegato, mi pareva venuto fuori da un quadro di Degas. Nel viso triste della donna di colore intravedevo Gauguin. Nella bionda, sacrificata nelle sue strette calze, non vedevo nulla. Forse lei era bloccata in qualche scatto fotografico di poco valore. La squadravo e pensavo che in realtà lei, probabilmente, non era proprio frenata da niente. Quando sei una donna e hai quelle gambe, pensavo, da cosa ti devi nascondere? Ad un tratto lei incrociò il mio sguardo e subito lo distolse. Aveva gli occhi scurissimi, oh, erano così in contrasto coi suoi capelli. Se mi fossi avvicinato a lei, lei si sarebbe spostata. Se le avessi rivolto un saluto, mi avrebbe risposto freddamente. Se le avessi parlato dei miei pittori, mi avrebbe deriso.
Erano le sette e mezza di mattina e l’autobus arrivò puntuale. La ragazza bionda salì per prima, con passo svelto; lo sapeva di essere la padrona della fermata. La seguirono dei ragazzi che erano arrivati da poco, coi pantaloni abbassati e le giacche ridicole. Il signore col giornale fece passare la donna di colore e lei, a testa bassa, salì in fretta. Neanche un sorriso rivolse a quell’uomo e non era cattiveria, io lo sapevo; era solo spiazzata dalla gentilezza. Per ultimo salii io, mi è sempre piaciuto essere ultimo – o forse mi ero solamente abituato, assuefatto;
pusillanime.
 
 
 
Il sole splendeva tiepido e neanche sembrava inverno, me lo ricordava solo il pungere della lana sul mio collo.
Erano le sette e venti, ero in anticipo quella mattina. Forse mi piaceva aspettare, con gli occhi fissi sulla strada, sul movimento, quella corrente incessante di rumore; o forse mi piaceva guardare l’uomo col cappotto, la donna di colore, i ragazzini moderni, la ragazza bionda; scrutare le loro abitudini, spiarli. Mi cullavo nella dolce idea che anche loro fossero incuriositi da me, che mi guardassero, che mi trovassero interessante, o anche solo singolare – che stupido.
Proprio mentre mi crogiolavo nei miei più inutili pensieri – il compito di matematica che la prof avrebbe riconsegnato, gli amici con cui mi dovevo vedere dopo la scuola, la lezione di storia dell’arte all’ultima ora – la ragazza bionda, quella con fascino ma senza poesia, mi si avvicinò e mi chiese se avevo una sigaretta.
Aveva gli occhi completamente inespressivi e così rimasi ipnotizzato dalla sua bocca. Le sue labbra erano carne viva e suadente, i denti bianchi e leggermente irregolari, come quelli di una bambina. Ma le bambine non dovrebbero chiedere le sigarette e io, che ero decisamente più giovane di lei, le dissi un no distaccato, accompagnato dal solito canzonatorio, provocatorio, «Io non fumo».
Forse lei pensò che la disprezzassi, in realtà non era vero. In realtà pensavo me la sarei portata volentieri a casa. Eppure non mi piaceva. La sua espressione, il suo modo di vestire e la sua voce vuota non mi piacevano.
Lei rimase a fissarmi finché non arrivò l’autobus, e io mi sentii sollevato. L’irretimento mi piaceva, ma mi metteva a disagio. Del resto ero il classico brutto e insicuro ragazzo, che vive nel suo mondo. Il mio era fatto di quadri, paranoie e bei pensieri – sarebbe bastato viverlo;
indifferente.
 
 
 
L’ho vista tutte le mattine feriali per settimane. Come fosse un appuntamento fisso e nessuno dei due l’aveva mai mancato. Entrambi eravamo sempre stati puntuali, taciturni ed educati. In autobus poi ci perdevamo sempre di vista; credo che mi sarebbe piaciuto avvicinarla ma troppa gente si infilava tra me e lei.
L’ho vista per dieci minuti tutte le mattine feriali per settimane. Sapevo ogni dettaglio del suo viso a memoria. Le sopracciglia arcuate, gli zigomi alti, il naso dritto. Sapevo ogni centimetro delle sue calze preferite, quelle che metteva più spesso. Eppure continuava a non piacermi. L’avevo guardata talmente tanto che ormai era diventata parte del mio paesaggio di routine, l’avevo guardata talmente a lungo che non aveva più niente da offrirmi. L’avevo consumata col mio sguardo, l’avevo fatta mia, col solo potere degli occhi. I suoi non esprimevano proprio nulla, alcun sentimento, alcuna emozione, in cui avrei potuto continuare a scavare, in cui avrei potuto perdermi – come quando guardo un quadro.
Ma quella mattina, per la prima volta, non c’era. D’un tratto mi parve di averla dimenticata. Terrorizzato, cercavo di ricordare i lineamenti del suo volto ma quelli scivolavano via. Mi capitava di capire, a volte, che amavo solo le cose che mi mancavano. E allora in quel momento mi parve di amarla e continuai a chiedermi dove fosse finita quando salii sull’autobus. Mi dimenticai persino di entrare per ultimo, nella mia agitazione;
tormentato.
 
 
 
Non la vidi mai più.
L’avevo vista tutte le mattine feriali, per dieci minuti, per nove settimane. L’avevo vista per dieci minuti, per quarantacinque giorni. L’avevo vista per quattrocentocinquanta minuti. Ventisettemila secondi, ventisettemila battiti, ventisettemila morti e altrettanti nascite, e io neanche sapevo il suo nome.  Quarantacinque volte il sole era sorto e poi addormentato, e l’ultima volta, la quarantacinquesima, se l’era portata via con sé.
Mi dissero che non sapevano perché si fosse suicidata, mi dissero che l’aveva fatto e basta. Era la stessa ragazza di cui parlava il notiziario, quel giorno: quella che si era buttata dal quinto piano di un palazzo.
Non versai neanche una lacrima per lei, perché, da quando lo seppi, in me era nata solo una fortissima passione. Quella giovane donna non era più la superficiale ragazza dalla corta giacchetta, quella che non apparteneva a nessun dipinto, quella che aveva quegli occhi banali.
Adesso non la cerco più. Vedo il signore che legge il giornale, vedo i ragazzi che si atteggiano da grandi, vedo la donna dalla pelle scura. Non parliamo mai della ragazza bionda che ha attraversato, leggera e silenziosa, le nostre vite.
Ma ora la vedo, oh, è così nitida, davanti a me – possibile che le persone assumano un’attrattiva particolare solo da morte? La vedo nel Morning sun di Hopper, la vedo ne L’urlo di Munch, la vedo nell’Ofelia di Millais.
 
 
 
 
 
«Perché hai inventato questa ragazza?»
«Non l’ho inventata.»
«Hai usato tre aggettivi per descriverti, puoi ripeterli?»
«Pusillanime, indifferente, tormentato.»
«Qualcuno ti ha mai rivolto contro questi aggettivi?»
«No, solo io.»
«Tu e tua madre eravate molto vicini, non è vero?»
«Mia madre se n’è andata di casa molto tempo fa.»
«Descrivila.»
«Zigomi alti. Bionda. Occhi marroni, severi.»
«È alta?»
«Era alta.»
«Lo sai che non è morta.»
«Se non è morta lei, allora sono morto io.»
«Sei morto?»
«No. Ma mi sono buttato giù dal quinto piano, dottore, lo sa che ci ho provato.»
«Io non sono il tuo dottore, ragazzo.»
«Mi scusi, credevo…»
«Sono solo un signore curioso. Come ti chiami?»
«Michele.»
«Quanti anni hai?»
«Diciassette.»
«Da quanto tempo?»
«Scusi?»
 
L’uomo anziano riapre il giornale e i suoi piccoli occhi scrutano la carta. Certo, è lui, penso, è la prima volta che riesco a vederlo in faccia.
Di nuovo il signore apre bocca, sempre rivolto al giornale: «Non credi sia ora di scendere dall’autobus, Michele?»
Mi alzo subito in piedi, confuso. Chiedendo permesso, mi infilo tra le persone. La donna di colore mi sorride ed è la prima volta che lo fa – sono contento.
L’autobus frena e io, solo, scendo alla mia fermata.
   
 
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