[A
SunliteGirl]
***
La
patria del cuore
*La
famiglia italiana*
Capitolo
I
Ore sette del
mattino.
In casa Vargas,
al primo piano, in fondo all’umile corridoio entrambe le camere da letto erano
avvolte da un silenzio perfetto e dalla penombra per via delle imposte
semichiuse.
In quella di
destra, talmente disordinata da far pensare che al suo interno fosse passato un
ciclone, si mise in funzione la chiassosa radiosveglia, appoggiata sul comodino
accanto al letto, dove giaceva scomposto un giovane
addormentato.
Lui mugugnò
infastidito, voltandosi dall’altra parte, mentre la voce potente di Luciano
Pavarotti intonava la prima strofa di ‘O sole mio.
(Che bella cosa
‘na jurnata ‘e sole
n’aria serena
doppo ‘na tempesta)
“E che cavolo!”
borbottò, spingendo la testa sotto il cuscino.
Non aveva
nessuna voglia di alzarsi in piedi e di prepararsi per andare a lavoro, perché
se lo avesse fatto, allora avrebbe dovuto anche sorbirsi l’immancabile predica
di mamma Assunta, per non parlare delle lodi infinite rivolte alla sorellina
Flavia.
Lei era più
carina, più educata, più dolce, più ordinata e più creativa di quanto Romano
fosse mai stato in vent’anni: ecco cosa insinuava sua
madre.
(pe’ll’aria
fresca pare già ‘na festa
che bella cosa
‘na jurnata ‘e sole)
Si rigirò nel
materasso e tese il braccio nudo verso l’oggetto incriminato, tastandolo con le
dita più volte e tirando un sospiro di sollievo quando finalmente si
spense.
Si sistemò
nuovamente tra le calde coperte, ma il richiamo della donna dal pianterreno gli
precluse ogni tentativo di rilassarsi.
Si portò a
sedere mettendo su un broncio ostinato, era semiaddormentato, con i corti e
morbidi capelli scuri che ricadevano in ciuffi spettinati fino al collo, mentre
si aggiustava le spalline della canotta rossa.
Un altro
richiamo lo indusse a gridare: “E sì, ho capito, sono sveglio!”, a lasciare
subito il suo letto e a recuperare le ciabatte e un paio di
pantaloncini.
In attesa fuori
dal bagno trovò Flavia, una mano a strofinarsi l’occhio destro, i capelli più
chiari dei suoi e ugualmente spettinati a incorniciarne il grazioso
visino.
Indossava una
camicia da notte verde, che le ricadeva fino alle gambe
magre.
Si fissarono,
entrambi assonnati.
“Buongiorno…”
gli augurò poi in tono soave, sporgendosi per dargli un bacio sulla guancia
prima di superarlo ed entrare a sua volta in bagno, socchiudendo la porta di
legno.
Romano decise di
aspettarla nel corridoio, così sarebbero scesi insieme per la
colazione.
Sette minuti
dopo, Assunta, vedendo che i suoi due figli si erano degnati di arrivare in
cucina, posizionò le mani chiuse a pugno sui fianchi e li fissò
severa.
“Flavia, Romano,
buongiorno. Sbrigatevi a fare colazione, perché tu – indicò la più piccola – non
andrai a scuola e tu – indicò il maggiore – non ti recherai a lavoro”, spiegò la
donna in tono spiccio e categorico.
“Davvero?
Possiamo sapere come mai?” domandò perplessa Flavia, guardandola
confusa.
Romano invece
sgranò gli occhi, certo di aver capito male. Niente lavoro per lui…
Possibile?
Assunta annuì.
“Avrete tutta la mattina per prepararvi: alle undici in punto dovrete essere
all’aeroporto di Roma Ciampino. Mentre dormivate, ha telefonato Giulio e ha
chiesto espressamente che andiate ad accogliere vostro cugino Diego. È tutto
chiaro?” s’interruppe, per accertarsi che la notizia fosse stata recepita a
dovere dai figli.
Assistette a due
reazioni completamente opposte.
La figlia minore
esultò, levando le braccia al cielo ed esclamando candidamente: “Che bello! Lo
zio Giulio ci manda Diego, finalmente passeremo del tempo
insieme!”.
Il figlio
maggiore sembrò contrariato e dubbioso.
“Io non mi
fido…” mormorò a denti stretti, aggrottando le sopracciglia. “Per tutto questo
tempo non si è curato di noi, e oggi improvvisamente ci obbliga a ospitare suo
figlio?! Per me c’è sotto qualcosa”.
Romano chinò il
capo, per poi strizzare gli occhi e contrarre le labbra quando Flavia gli
domandò piano: “Fratellone… davvero non sei contento?”.
Non si sarebbe
voltato a guardarla dritto negli occhi, no, perché sapeva che altrimenti avrebbe
ceduto di fronte allo sguardo da cucciola bastonata che sicuramente l’altra gli
stava lanciando per convincerlo.
Anche quando si
sentì abbracciare, agitò energicamente il capo.
“Accidenti, non
voglio! Lasciami subito!” protestò.
“Ospitiamo il
cugino Diego, che ti costa? Per favore…” lo pregò,
stringendo.
“No. E
finiscila, non siamo più bambini!” la riprese.
“Niente storie,
Romano”, intervenne perentoria la donna. “Tu lo accetterai, che ti piaccia o no.
Non vi ho forse insegnato l’importanza dell’ospitalità? Ancor più se si tratta
di un membro della nostra famiglia?” ricordò loro.
“Sì, mamma”,
risposero all’unisono, uno con il tono scocciato, l’altra
accondiscendente.
“Nella mia vita
ho fatto tanti sacrifici, anche per tirarvi su… Non vorrete deludere le
aspettative mie e della buon’anima di vostro padre?”.
“No,
mamma”.
“E anche se loro
sono così distanti, non vuol dire che non tengano a noi
tre”.
“Hai ragione,
mamma”.
Con un sorriso
compiaciuto, Assunta tornò al lavello per continuare a lavare i piatti della
sera prima e per aspettare le tazze e i cucchiaini che entrambi avrebbero
utilizzato, di lì a poco, per il latte caldo e per il
caffè.
La colazione si
consumò in un’atmosfera pregna di sottintesi e di parole non dette, soprattutto
da parte di Romano.
Sapeva bene di
essere un figlio problematico, deludente sotto molti aspetti, pigro, che faceva
il commesso in un negozio d’abbigliamento soltanto perché costretto dalla
precaria situazione familiare, essendo l’unico che poteva contribuire alle
spese, portando uno stipendio a casa. Era modesta, la loro casetta, ma ci
vivevano bene.
Romano si
lamentava sempre, però il suo contributo manteneva le donne più importanti della
sua vita.
A suo modo ci
teneva e provava fastidio per se stesso, per quella sua natura tormentata e
orgogliosa da fare schifo.
E sparte adesso
si aggiungeva un’altra bocca da sfamare. Che bello.
“Mamma?” la
chiamò all’improvviso; esitò, ma dopo un cenno di incoraggiamento della donna,
dopo aver sbirciato con la coda dell’occhio Flavia e il suo sorriso lieve,
sentiva di doverlo dire.
“Grazie, ma’. Ti
prometto che non farò più storie”.
Incassò la testa
sulle spalle, strinse i pugni sotto al tavolo e le guance s’imporporarono per
l’imbarazzo, come se in una frase avesse concentrato tutto l’affetto e tutta la
stima che raramente le dimostrava.
Solo, era stata
una confessione pronunciata con un tono più basso del suo solito, quindi aveva
temuto per un attimo di dover ripetere, ma fortunatamente lei aveva sentito.
L’avevano udito entrambe, in realtà.
Sua madre lo
rassicurò, aggiungendo che pure lei da giovane era una testa calda come lui,
mentre Flavia continuò a sorridere, passandole il barattolo della marmellata di
ciliegie, per poi esclamare contenta: “Non potrei desiderare di meglio. In
famiglia siamo delle brave persone e ci vogliamo tanto
bene!”.
“Tu la metti
sempre su un piano troppo sdolcinato per i miei gusti”, aggiunse schiettamente
Romano. Però doveva ammettere che si sentiva un po’ più sereno, rilassandosi
sulla sedia e osservando la mamma che cingeva dolcemente le spalle dell’altra
con un braccio, invogliando loro a sbrigarsi e a salire nelle rispettive camere,
per poi lavarsi, per darsi una sistemata, soprattutto ai capelli, e per
prepararsi.
*
“Fratellone,
puoi aiutarmi con i lacci degli stivali?” chiese Flavia entrando tranquillamente
nella sua camera, mentre lui era intento a infilare gli ultimi bottoni nelle
asole della camicia bianca. Aveva perso tempo a contattare qualcuno che lo
sostituisse alla cassa per quel giorno, quindi stava cercando di vestirsi in
fretta.
“Che palle,
Fla’! Non hai ancora imparato a farlo da sola?” rispose seccato Romano, per poi
sospirare pesantemente alla vista del suo abbigliamento. La camicetta nera ci
poteva anche stare, ma secondo lui quella gonna blu era troppo corta, metteva in
evidenza le gambe snelle e chissà se in aeroporto sarebbero passate
inosservate.
Flavia abbassò
ingenuamente lo sguardo. “Devi solo allacciare questi e sono pronta. Nostra
madre mi ha già visto e ha detto che sto bene”, gongolò soddisfatta, la lunga
coda di cavallo che oscillava a destra e a sinistra come il pendolo di un
orologio.
Quando finì con
i bottoni, lui la fece sedere sul bordo del letto e si inginocchiò per
armeggiare con quei lunghi lacci, in un’operazione per nulla semplice,
intricata. La spuntò soltanto per abitudine, dato che la aiutava da quando erano
piccoli con tutti i tipi di scarpe, eccetto le ballerine.
“Certo che
questa stanza sembra proprio un campo di battaglia…” pensò ad alta voce Flavia,
osservandone il gran disordine che toccava ogni angolo.
“Sta’ zitta!”
esclamò lui. “Capirai che m’importa. Lascia che ci pensi mamma quando ce ne
saremo andati. È la giusta punizione per lei, perché… perché sì, cavolo!” gli
venne da dire con un certo nervosismo.
Poi si alzò in
piedi e trascinò la sua perplessa sorellina fuori da lì, sbattendo la porta e
precipitandosi di fronte all’armadio, alla ricerca dei pantaloni color
sabbia.
“Fatevi
guardare…” li incitò a mettersi vicini, uno accanto all’altra.
Il suo bambino e
la sua bambina erano diventati grandi.
Avevano gli
occhi e alcuni tratti molto simili, Romano e Flavia, a parte delle ovvie
eccezioni, come il colore dei capelli e il modo di acconciarli, poi un ricciolo
caratteristico – quello del primo pendeva a destra, quello della seconda a sinistra – e il fatto che uno era costantemente serio e svogliato, mentre l’altra
aveva un’allegria spontanea, naturale.
Molti le
chiedevano se fossero gemelli, per poi stupirsi quando specificava che in realtà
Romano era nato due anni prima di Flavia e che avevano rispettivamente venti e
diciotto anni.
“Per me state
benissimo”, fece sapere loro la donna, orgogliosa.
Romano diede una
veloce occhiata al proprio orologio da polso: erano le dieci e cinque.
“Speriamo che la
tua amica non tardi, Fla’. Mi sono già rott-”.
“Romano! Vedi di
non dire parolacce!” lo avvertì severamente la madre, addolcendosi quando la
piccola di casa annuì.
Assunta allargò
le braccia e l’accolse in un delicato abbraccio, depositando un bacio materno
sulla fronte liscia. “Mi raccomando cara, assicurati che tuo fratello si
comporti bene, sai com’è fatto…” le disse con un sorriso intenerito. L’altro
fece una linguaccia e si girò verso la porta, pronto ad
andarsene.
“Non mi saluti,
Romano?”.
“E piantala, ci
rivedremo presto!” pronunciò queste parole apparentemente scocciato, ma in
realtà sentiva delle lacrime birichine che premevano per uscire dagli
occhi.
“Dai, Romano,
unisciti all’abbraccio anche tu!” esortò Flavia.
Il giovane
sospirò, ma un attimo dopo si costrinse a tornare sui suoi passi,
assecondandole, ricevendo un bacio sulla frangia dalla loro mamma che lo fece
vergognare e chinare il capo.
La sorella
allargò il sorriso, per via del broncio imbarazzato che lui stava mostrando. “In
questo momento sei adorabile. Dovresti guardarti allo specchio,
fratellone”.
“Ma
smettila!”.
Dopo un po’ il
suono di un clacson fece trasalire la famigliola. Contemporaneamente diedero un
bacio, chi in una guancia chi nell’altra, alla mamma e sciolsero l’abbraccio. Si
affrettarono poi a prendere le rispettive giacche, a indossarle e a correre alla
porta d’ingresso dopo che Flavia aveva agguantato al volo la sua
borsa.
“Ciao,
mammina!”.
“Arrivederci”.
“Ciao!” li
salutò lei, ritornando alle sue faccende con la speranza che sarebbe andato
tutto bene.
Assunta era una
donna esigente e autoritaria, ma sapeva essere anche comprensiva, paziente e
amorevole quando serviva.
Inoltre era
forte e robusta, abituata a lavorare in casa fin da
piccola.
Aveva amato
molto e aveva perduto, crescendo da sola due figli piccoli e diversi tra
loro.
Il suo buonumore
si affievolì quando le toccò salire al piano superiore e aprire la porta della
camera del primogenito. Era messa ancor peggio del solito, ma si rimboccò le
maniche con decisione e si diede da fare.
A preparare una
bella ramanzina ci avrebbe pensato più tardi.
A proposito di
lui e di Flavia, si era offerta di accompagnarli con la macchina una giovane
donna dai capelli lunghi, mossi, color castano chiaro e dai brillanti occhi
verdi.
Si trattava di
una cara amica della sorellina, proveniva dall’Ungheria e anche se viveva in
Italia da cinque anni aveva imparato a padroneggiare quasi alla perfezione la
lingua italiana.
Romano si era
seduto sul sedile posteriore, limitandosi a un cenno sbrigativo con il capo,
mentre sua sorella aveva dato un saluto caloroso a Elisa – così era solita
chiamarla – occupando il posto accanto a lei e spiegandole la situazione mentre
la osservava guidare.
“Sono proprio
contenta, non vediamo Diego da qualche anno, sarà cresciuto! Mi chiedo se lo
riconosceremo…” aggiunse Flavia quando esaurì il discorso. Poi prese a
giocherellare con il portachiavi tricolore che pendeva dalla cerniera della
propria borsa.
“Ho capito. E il
signorino asociale dietro di te che pensa?” s’interessò Elizabeta, dal momento
che l’altro non aveva ancora aperto bocca.
“Che?” sbottò,
poiché l’avevano chiamato in causa mentre era sovrappensiero. “A cosa ti
riferisci?”.
“Mi chiedevo se
come tua sorella sei entusiasta per la visita improvvisa…” replicò pazientemente
l’ungherese.
“A dirti la
verità no, per niente. Dovrò adattarmi… Ho un brutto presentimento, accidenti!”
dichiarò, distogliendo l’attenzione dal paesaggio che scorreva dal finestrino:
tanto gli passavano davanti solamente abitazioni, cartelli, lampioni spenti,
macchine parcheggiate, strade asfaltate e qualche traccia di verde qua e
là.
“Romano pensa
che ci sia sotto qualcosa”, chiarì la sorella. “Secondo me non ha motivo di
preoccuparsi. Si tratta di un ragazzino, vero Elisa? Cosa potrebbe succedere di
male?”.
“Che pizza...”
mormorò lui assottigliando lo sguardo, scocciato di vederla sempre così
fiduciosa, ottimista e ignara.
“In questo caso
tenete gli occhi aperti”, suggerì solidale Elizabeta, per non contraddire
nessuno dei due.
Il breve viaggio
proseguì senza intoppi, finché non arrivarono a destinazione, entrando con il
veicolo nel parcheggio antistante l’ingresso
dell’aeroporto.
Continua…
***
Disclaimer:
A parte uno, i
personaggi citati non mi appartengono (ci ho semplicemente fantasticato
sopra) e non ho scritto a scopo di
lucro.
Note: Non avrei mai
dato una possibilità a quest’idea alternativa se la cara SunliteGirl non
mi avesse cortesemente incitato a scrivere. Se lo merita davvero, perciò ho
vinto la mia indecisione e ho pubblicato >.<
Questa, in
parole povere, è la prima di una serie di storie, che verteranno sulle varie
famiglie di Hetalia a cominciare dagli italiani.
Ho voluto una
madre per Italia Romano e Italia Veneziano, così è nata
Assunta.
Ho voluto
cambiare sesso al minore, ma capirete più avanti il motivo, se svelo tutto
subito non c’è gusto ;)
Inoltre qui non
rappresentano le nazioni e la fic è ambientata non proprio ai giorni nostri, ma
negli anni ’90.
Ah, il titolo
viene da una citazione di Giuseppe Mazzini, “La famiglia è la patria del cuore”.
Spero vi piaccia
questa premessa, anche se non ha molte pretese (personalmente preferisco i
prossimi capitoli, questo è soltanto l’inizio xD) e prometto all’autrice a cui è
dedicata che non dovrà aspettare molto per leggerla tutta. Anticipo che può
sembrare semplice e scontata, ma non sarà così, ho fatto il possibile
=)
Rina
Prossimo
aggiornamento: 29 dicembre.
Perciò ne approfitto per augurarvi una buona Vigilia e un Felice Natale!
=)