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Autore: Dani85    24/12/2013    3 recensioni
Per augurare buon Natale, uno scorcio dei piccoli Malandrini.
"Così, Remus aveva dovuto dovuto scarabocchiare in fretta e furia, con la sua scrittura stretta e vagamente tondeggiante, un biglietto per la mamma e spiegarle di Sirius Black e di Babbo Natale, della ragazzina coi capelli rossi a cui il suo amico non aveva voluto chiedere perché non la sopportava e del fatto che, a quanto pareva, lui non ne sapeva abbastanza sull’argomento per soddisfare la sua curiosità. E all'improvviso, sotto lo sguardo divertito di suo marito, Hope si era ritrovata a dover spiegare a un maghetto purosangue una delle tradizioni più babbane che esistessero."
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: I Malandrini, James Potter, Remus Lupin, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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N.d.A.
Salve :) Nessuna nota particolare: una storiellina vagamente natalizia ambientata al primo anno dei Malandrini. I tre pezzi che la compongono erano nati per essere pubblicate singolarmente come parte di una raccoltina ma, alla fine, ho preferito riorganizzarle in una one shot unica che spero abbia un senso.
Buona lettura a tutti, a presto con una nuova One shot della mia raccolta su Remus e davvero, a tutti voi, un Buon Natale di cuore!
 Dani.

 
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A Merry Little Christmas

A Merry Little Christmas

Have yourself a merry little Christmas,
Let your heart be light
From now on,
Our troubles will be out of sight
[dal film Meet Me In St. Louis - Hugh Martin, Ralph Blane 1943]


James ruzzolò per la terza volta giù dal divano, spintonato con sadico divertimento da un Grifondoro del settimo anno. Come una curiosa palla dotata di braccia e gambe – e improbabilissimi capelli – rotolò sul tappeto e poi si fermò, e sembrò uno scombinato mucchietto di ossa in una divisa un po' troppo grande.
«Umph!» mugugnò dalla sua contorta posizione sul pavimento e Sirius inarcò elegantemente un sopracciglio. Era tenace quel Potter, non si poteva di certo negarlo, ma cominciava a rendersi un pochino ridicolo. Quella scena si ripeteva all'incirca una sera sì e una no e cominciava a diventare irritante vedere almeno metà casa di Grifondoro sghignazzare di lui e di loro “piccoli, illusi, ingenui primini”.
«Forse dovresti rinunciare all'idea di sederti sul divano...» mormorò titubante Peter, le manine paffute torturate nervosamente.
«Sì, almeno fino al nostro quinto anno!» concordò con leggerezza Remus, senza sollevare gli occhi dagli scacchi magici che stava sistemando sul tappeto davanti a sé.
Sirius ghignò, in perfetto sincrono con il sospiro sconsolato di James e le sue occhiate agognanti a quel benedetto divano davanti al fuoco. Un bellissimo, enorme, comodo divano scarlatto ad assoluto appannaggio dei ragazzi più grandi. James lo puntava dalla sera dello Smistamento ma il massimo che aveva ottenuto era stato il rotolarne giù.
«Devo solo insistere un altro po'!» borbottò James.
«Ti serve un piano, amico! Un piano vero, non solo saltare sul divano come una cavalletta!» lo contraddisse Sirius con un sorriso da birbante.
«O magari dovresti cambiare obiettivo! Ci sono un sacco di poltrone comode, se proprio non ti piace il tappeto!» si inserì Remus. «Era solo una proposta!» si giustificò un attimo dopo, quando due identici sguardi di biasimo lo investirono.
A Sirius piaceva quel ragazzino, aveva una bella testa e il tranquillo senso dell'umorismo e le buone maniere – le accortezze, i riguardi, le gentilezze – che lui proprio non possedeva. Sì, gli andava a genio, ma forse era un po' troppo calmo e pacifico. Su quel fronte preferiva di gran lunga Potter, ribelle e insofferente alle regole proprio come lui e, non a caso, quello con cui aveva legato di più e più in fretta. La prospettiva di quello che avrebbero potuto combinare insieme, fosse anche solo la conquista di un divano, lo esaltava.
«Non rinunciare, James!» lo incitò con una pacca sulla spalla che quasi gli fece volar via gli occhiali.
Remus ignorò entrambi e si concentrò sulla partita a scacchi con Peter.
Poco lontano da loro, su una delle poltrone di cui parlava Lupin, due graziose e minuscole Grifondoro parlottavano fitto fitto. Non si capiva molto del loro discorso sottovoce, ma Sirius capì che parlavano del Natale in avvicinamento. Gli era sembrato che facessero ipotesi su come sarebbe stato decorato il castello e a lui parve una discussione frivola, da ragazze, inutile e banale. Probabilmente la sua opinione era condizionata dal fatto che una delle ragazzine fosse Lily Evans, l'altezzosa Evans con quell'insulso Serpeverde per amico, l'acida Evans con cui aveva battibeccato fin dal viaggio in treno.
Al suo fianco, James si era steso a pancia in giù sul tappeto e Remus stava stracciando Peter in una gloriosa partita e scacchi. Lui valutò se punzecchiare o no la Evans, magari per movimentare la serata. Lei, in un risolino delizioso, stava parlando di un certo Babbo Natale. Sirius non aveva la minima idea di chi fosse e aveva drizzato le orecchie, curioso: doveva essere qualcosa di babbano, di sicuro, come lo era la Evans.
Chissà chi era quel Babbo Natale. Sirius cominciò a rimuginarci sopra, interessato, ma nonostante morisse di curiosità, di certo non lo avrebbe chiesto a lei per nessuna ragione al mondo. Però... però, Remus aveva la mamma babbana, no? Forse lui lo sapeva chi diamine era quel tipo.
«Ehi, Remus: tu lo sai chi è Babbo Natale?»

*

L'ennesimo gruppetto di Grifondoro uscì di corsa dalla Sala Comune, pestando i piedi e gridando e inciampando praticamente gli uni sugli altri, con la Signora Grassa che protestava, si lamentava e borbottava all’aria, oltraggiata e ignorata. Sirius nemmeno ci fece caso, semplicemente se ne restò sulle scale del dormitorio, fermo lì dove si era seduto una manciata di minuti prima, con il sonno ancora addosso, le urla dei suoi compagni di stanza nelle orecchie e gli addobbi della Sala Comune negli occhi. Era stato uno spettacolo strano – ammaliante e per niente frivolo –, svegliarsi quella mattina e trovare quell'oceano di rosso e oro comparso in una notte a decorare tutto, a infiammare ogni angolo con festoni e luci e un albero enorme che sembrava gridare “Natale” a chilometri di distanza; era strano – stranissimo – anche tutto quel calore, mille volte più intenso di un fuoco, che sentiva tutto a un tratto risalirgli piano piano dai piedi, volteggiargli nello stomaco e fermarsi lì, da qualche parte nel petto, e che era euforia e entusiasmo. A ben pensarci, era quello e anche un qualcosa di indefinibile che stava crescendo invece già da un po' e che, Sirius ormai lo sapeva, aveva a che fare con quegli strani strani ragazzini con cui divideva la camera. E forse era il Natale che si avvicinava o forse era qualcos'altro, magari solo la morsa dei Black che si allentava e Hogwarts che si allargava – con l'iperattività di James e la composta ironia di Remus e il silenzio impacciato di Peter – e che gli sprofondava dentro e che gli restituiva i suoi, appena, 12 anni negati da una famiglia che lo voleva già uomo, tutto superiorità e disgusto. Sirius, però, aveva davvero appena 12 anni e l’unico disgusto che sentiva suo era proprio quello per la sua famiglia, per i Black che da Grimmauld Place lo avevano già condannato, lui e il suo essere un Grifondoro, lui e il suo essere sbagliato. E a Natale lo sapeva, Sirius lo sapeva, che sarebbe tornato a casa e sarebbe stato punito, eppure, incredibilmente, non gliene importava poi molto. Era indifferenza che aveva a che fare col rosso e oro che gli luccicavano negli occhi e con Hogwarts che gli respirava intorno e che gli faceva pensare che sua madre e le sue punizioni facevano un po' meno paura viste da lì.
“È coraggio!”, gli avrebbe detto James, con quella sua vocetta petulante; “È incoscienza!”, lo avrebbe corretto Remus, con quel suo sorriso sempre un po' indeciso. Sirius avrebbe fatto spallucce e basta, perché era un po' l'uno e un po' l'altro, perché era un Grifondoro e aveva solo 12 anni e, in fondo, della mamma non si dovrebbe mai aver paura. E la figura di Walburga Black, minacciosa e severa, finì per sfumare nei suoi pensieri fino a diventare qualcosa di buffo e sgraziato, un ricordo un po' fastidioso dei Natali passati, mentre la rivedeva intenta ad addobbare il salone, tutto verde e argento, macabro ed agghiacciante come la sfilza di teste di elfi domestici attaccate alle pareti. La Sala Comune, in un superbo contrappasso, gli scoppiava nel cuore attimo dopo attimo, vera, presente e calda, con le lucine che galleggiavano sul soffitto e le fatine incantate che addobbavano l’albero.
Questo sì che è Natale, pensò Sirius, mentre saltava in piedi e trotterellava davanti al caminetto al ritmo delle campanelle che ciondolano dal lungo festone verde che lo decorava. Il motivetto era maledettamente orecchiabile e il piccolo Black si ritrovò a fischiettarlo nel giro di cinque secondi, tutto euforia e impazienza, con gli occhi grigi come il cielo fuori dal castello che seguivano ammaliati il dondolio sfavillante delle campanelle. Era come se Natale fosse tutto lì, in quel motivetto argentino, in quel giro di note che si ripeteva per incanto, e che gli si era appiccicato addosso, insistente come James, confortante come Remus, curioso come Peter; strano come quei ragazzini, come lui, come il Natale a Hogwarts dopo quelli a Grimmauld Place.
Sirius ridacchiò piano, leggero e dispettoso come il dodicenne che era, mentre staccava una campanella dal festone e la infilava in borsa, tra le pergamene e i libri gettati alla rinfusa. Natale gli piaceva, lo aveva appena deciso, casa era lontana, la mamma anche, esistevano solo Hogwarts, il castello addobbato, una manciata di ragazzini spauriti come lui e la campanella che gli trillava sulla spalla, mentre lui si scapicollava finalmente fuori dalla Sala Comune. Chissà come avevano addobbato la Sala Grande, si chiese, lo stomaco che gli brontolava implorando la colazione.

*

Hazel era un gufetto color nocciola, un esserino un po' arruffato dagli occhi grandi e tondi, e faceva tenerezza anche quando ti massacrava una mano a forza di beccate. La prima volta che era entrato in Sala Grande per portare la posta al suo padroncino - quel ragazzino pallido coi capelli chiari, un po' arruffato come lui -, non era riuscito a frenare in tempo e aveva centrato in pieno la caraffa di succo di zucca. Remus, il ragazzino arruffato, aveva dovuto ripescarlo dalla caraffa, cercando di non ridere e di non imbrattare ancora di più il tavolo della colazione, mentre un tipetto occhialuto quasi si era strozzato sghignazzando “Wow, che precisione!”
Poi, per la fortuna di tutti, Hazel aveva preso le misure e ora svolazzava senza il minimo problema sotto l’altissimo soffitto della Sala Grande e poi planava perfettamente accanto al piatto di Remus, colazione, bicchieri e caraffe assolutamente illesi. Quella mattina però, fu un po' più difficile del solito: sulla sua traiettoria, Hazel trovò un sacco di cose che volavano e che non c'erano mai state prima. Dovette fare lo slalom per evitarle tutte e quando si posò sul tavolo lo fece schiantandosi un po', lui e il pacchettino che portava. Remus, il suo ragazzino arruffato, gli sorrise come al solito e gli allungò un pezzettino del suo muffin, segno che aveva fatto bene il suo lavoro anche quella mattina. Soddisfatto, Hazel tese la zampina per consegnare anche la lettera e dopo una piacevolissima grattatina sulla testa, spiccò di nuovo il volo, tra tutte quelle cose che galleggiano sul soffitto.
Remus osservò il suo gufetto volare a zigzag tra i festoni e le ghirlande natalizie comparse quella mattina e che sembravano addobbare direttamente il cielo, mentre apriva la lettera e ci trovava due sottili fogli di carta azzurrina riempiti dalla grafia ordinata della sua mamma. Il primo foglio era per lui, iniziava con Remus, amore mio e raccontava di lei e del suo papà, del loro minuscolo alberello addobbato come ogni anno vicino alla finestra e di un sacco di altre cose che avrebbe letto da solo, in camera, prima di addormentarsi, così che il bacio con cui la mamma concludeva la lettera fosse la sua buonanotte. Il secondo foglio invece non era per lui, e Remus lo sapeva già, perché lui la sua mamma la conosceva. Lo sapeva fin dalla sera prima, mentre per terra, davanti al fuoco nella Sala Comune, Sirius Black lo sfiniva perché scrivesse a casa e chiedesse alla sua mamma babbana di quel tipo che si chiamava Babbo Natale e che aveva sentito nominare da Lily Evans. Così, Remus aveva dovuto dovuto scarabocchiare in fretta e furia, con la sua scrittura stretta e vagamente tondeggiante, un biglietto per la mamma e spiegarle di Sirius Black e di Babbo Natale, della ragazzina coi capelli rossi a cui il suo amico non aveva voluto chiedere perché non la sopportava e del fatto che, a quanto pareva, lui non ne sapeva abbastanza sull’argomento per soddisfare la sua curiosità. E all'improvviso, sotto lo sguardo divertito di suo marito, Hope si era ritrovata a dover spiegare a un maghetto purosangue una delle tradizioni più babbane che esistessero.
Ad essere onesti, la sera prima, mentre scriveva a casa con Sirius – e James e Peter – appostato alle sue spalle, Remus aveva pensato che fosse un po' assurda quella situazione eppure, ora doveva ammetterlo, non gli dava fastidio. Evidentemente doveva essere parte della questione dell'avere degli amici, non lo sapeva bene ma non se ne preoccupava. Non in quel momento, mentre allungava il foglio verso Sirius e gli diceva: «È per te!»
Il piccolo Black fece una faccia buffissima, le guance gonfie del cibo ingurgitato alla velocità della luce, e sembrò uno scoiattolino curioso. Remus sorrise e scosse la lettera, affinché l'altro si decidesse a prenderla.
Caro Sirius, sono la mamma di Remus e mi chiamo Hope…
Iniziava così la lettera che Sirius si ritrovò tra le mani e gli fece uno strano effetto, lui che era abituato alle lettere fredde e impersonali dei Black, leggere di quel caro rivolto a lui e il tono quieto della Signora Lupin che era una mamma davvero e lo si capiva anche solo da come scriveva. E poteva quasi immaginarne la voce mentre leggeva la storia di quel tipo, di quel Babbo Natale su cui si era arrovellato il cervello per tutta la notte, e ebbe l'inspiegabile sensazione che dovesse essere più o meno come una carezza. Avrebbe potuto chiederlo a Remus, ma sarebbe stata una cosa strana, molto strana, e sdolcinata, e Sirius decise subito che non era cosa per lui, cresciuto a distacco e indifferenza. Si raddrizzò sulla sedia, da bravo principino dei Black, e cercò di farsi serio serio per ringraziare Remus della lettera; poi però, vide Potter – e il vespaio che si ritrovava per capelli – saltellare eccitato sulla sedia e all'improvviso lui si sentì di nuovo il bambino impaziente della sera prima e del tappeto davanti al caminetto. Quel ragazzino esagitato aveva un buffo effetto su di lui, davvero.
«Ehi, sono biscotti quelli?» chiese James, gli occhiali scomposti sul naso e un dito che indicava imperterrito la scatola che Remus aveva appena aperto. Il pacchettino con cui Hazel si era schiantato, infatti, aveva rivelato due basse pile di biscotti glassati, omini tondi con barbe bianche e pancioni rossi, e il piccolo Lupin lo fece passare tra i suoi amici, prima James, poi Sirius e infine Peter.
«Questo è l'aspetto che ha Babbo Natale… più o meno!» ridacchiò Remus, gli occhi verde chiaro che guizzarono allegri da Sirius al biscotto che teneva in mano.
«Wow. È vestito di rosso, quindi è di sicuro un Grifondoro, mi piace!» decretò James e poi gli staccò la testa con un morso soddisfatto. Peter sembrò essere d'accordo con lui e si mise a sgranocchiare con aria estremamente felice; Sirius, invece, si guardò un attimo intorno, poi annuì – un po' alla lettera di Hope Lupin, un po' a quel caro che ancora gli girava in testa e un po' anche al sorriso di Remus e a quei biscotti a forma di Babbo Natale – e infine si cacciò in bocca il dolcetto, masticando con gusto.
Remus lo guardò divertito, poi saltò giù dalla sedia, afferrò la borsa dei libri e se ne andò.
«Facciamo tardi a lezione!» spiegò allo sguardo indignato di James, che si vedeva portare via i biscotti così, come se niente fosse. Potter valutò per un momento la situazione, il suo muffin mezzo smangiucchiato contro i biscotti glassati, e ci mise un attimo a decidere. Raccolse la borsa da terra e si fiondò dietro al piccolo Lupin, trotterellandogli a fianco.
«Me ne dai un altro?» chiese, il sorriso che gli andava da un orecchio all’altro e Remus, poteva giurarlo, sapeva che da un momento all’altro Sirius sarebbe piombato tra di loro portandosi Peter a rimorchio. Sì, tutto quello doveva proprio far parte della questione “avere degli amici”, e forse avrebbe dovuto preoccuparsene ma non lo fece. Magari lo avrebbe fatto dopo aver chiesto a Sirius perché la sua borsa suonava Jingle Bells come quelle campanelle della Sala Comune.

  
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