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Autore: mhcm    19/05/2008    1 recensioni
Semplice citazione di un fatto storico accaduto in un perido particolare della storia di Milano.
Un ricordo per un ragazzo che non meritava quel che gli è capitato, come non lo ha meritato nessuno di coloro che, da una parte o dall'altra, sono finiti vittima della stessa violenza.
Ricordiamo coloro che hanno vissuto in un periodo in cui credere in un idea era rischioso, ma c'era la voglia di farlo ugualmente. Le idee allora valevano.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
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Voglio ricordare un ragazzo che negli anni di piombo è stato ammazzato perchè i suoi ideali erano diversi da quelli dei suoi assassini.
Voglio ricordare che c'è stato un periodo di violenza in cui avere degli ideali era rischioso, in cui si poteva finire ammazzati per aver professato un ideale diverso da quello di coloro che ti circondavano, in cui gli ideali non erano solo parole vuote, in cui la politica non era solo passività.
Voglio ricordare che lottare è importante, anche se a volte è un rischio.
A volte mi chiedo se la passività che ci sta cogliendo non sia un insulto verso coloro che per un idea hanno rischiato. Siamo sempre più "morti". E allora forse è meglio lottare e rischiare di morire davvero.



“Bha, dannata ressa. Ma tutti a quest’ora devono andare a fare la spesa? Che nervi, ho solo voglia di tornarmene a casa. Fortuna che c’è un tempo decente che almeno in motorino non si gela. Diavolo, che devo arrivare puntuale a pranzo e poi andare a scuola. “
Il ragazzo moro, con i capelli abbastanza lunghi, stava tornando a casa in motorino, guidando per le vie di Milano est, appena a sud di Largo Murani.
Era il 13 marzo del 1975, e la città era nel pieno degli anni di piombo, con scontri continui, aggressioni, lotte politiche in cui il rischio di finire in ospedale era concreto.
I ragazzi nelle scuole superiori si scontravano durante le assemblee e fuori, a parole, e non solo. Lotta attiva, in cui coloro che non erano a favore del comunismo venivano definiti “fascisti”, per antonomasia. Lotta fatta di manifestazione, picchetti, scioperi, assemblee, ma anche di bande armate, aggressioni per strada e a scuola.
Soprattutto a scuola. Quando l’amore per chimica e matematica ti portano a frequentare la scuola più rossa di Milano, senza essere rosso, ma anzi missino, capitano spesso occasioni di scontro, diverbi, stronzi che vengono a prenderti in classe per costringerti a cancellare scritte fasciste comparse sui muri della scuola, minacce dopo un tema di critica del mondo politico per via del mancato riconoscimento istituzionale verso i militanti padovani del MSI Mazzola e Giralucci, uccisi in un. attentato brigatista.
Aveva cambiato scuola dopo l’aggressione subita da suo fratello, da due stronzi armati di chiavi inglesi che avevano forse scambiato il maggiore per lui.
Aggredito anche suo padre quando l’aveva accompagnato in presidenza per il cambio di scuola, da un capannello di studenti, e la cosa era inaccettabile.
Aveva cercato di rassicurare i genitori quando erano comparse le scritte di minaccia sotto casa, o le telefonate anonime, ma anche se riusciva a mantenere una facciata di tranquillità, non poteva che essere preoccupato, per i suoi famigliari, suo fratello e anche per sé stesso. Sperava che nessuno osasse prendersela con sua madre o con la sua sorellina, o tanto meno con la sua ragazza, Flavia, che a volte lo accompagnava alla sede, e la preoccupazione era affiancata da una buona dose di rabbia, per la situazione impossibile che si era creata, non solo intorno a lui, ma in generale nella sua città.
Imboccò via Paladini, per parcheggiare il motorino e andare a casa a pranzo, e si fermò quasi subito, accostando il motorino al muro.
Dopo aver messo il cavalletto, prese la catena per legarlo, e si chinò sul mezzo.
Non badò ai passi che si stavano avvicinando a lui, non si accorse che era più di una persona, e il metallo che striscia solo contro la stoffa non fa rumore.
Solo quando notò con la coda dell’occhio l’ombra accanto a lui, si rese conto che c’era qualcuno lì accanto. E alle spalle.
I primi colpi arrivarono sulla testa, sulle spalle, secchi, duri, veri, non erano pugni quelli, erano sprangate, colpi con chiavi inglesi, era metallo contro la sua testa, contro il collo.
Quella era la violenza vera che girava per le strade, quelle non erano risse scolastiche, in cui i pugni ti fanno solo svenire per un momento.
Quella era la violenza dura, che coglie all’improvviso anche se magari te l’aspetti, quella che massacra, quella che vuole vedere il tuo sangue scorrere sotto di te e allargarsi come un tappeto o come la tua ombra una volta che giaci a terra.
Il colpo del suo corpo che cadeva sul marciapiede gli parve quasi in sordina, mentre i colpi sulla testa, sul corpo sulle mani continuavano. E poi iniziarono a sembrare in sordina anche quelli, mentre sentiva i sassolini della strada che gli premevano contro la guancia, contro il naso e la tempia. Ci fu qualcosa di caldo e vischioso sotto la sua faccia, che sembrava allargarsi come una chiazza. Poi solo una vaga nebbia scura, in cui il dolore costante saliva e scendeva a ritmo costante con il battito del suo cuore. E poi più nulla.
Dopo 48 giorni, tra miglioramenti, complicazioni e coma, il 29 aprile 1975, moriva Sergio Ramelli, 18 anni, studente.


Tutti i giorni, tornando dall'università, dal lavoro, passo di fianco al luogo dove Sergio Ramelli è stato ammazzato, e non posso scordare.
I morti non hanno colore.
  
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