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Autore: Bethesda    28/12/2013    3 recensioni
"[...]Tuttavia non riuscivo a sopportare l’idea che in così tanti mesi fosse svanito nel nulla. Certo, Holmes ne aveva le capacità, ma non lo ritenevo leale nei miei confronti, e ciò provocava in me un’enorme frustrazione, che si ripercuoteva sul mio comportamento rendendomi scorbutico e poco propenso alle parole. E quando la rabbia svaniva prendevano il suo posto la preoccupazione e il terrore di averlo perso per sempre, magari a causa di un qualche nemico a me sconosciuto, miglia e miglia lontano da me."
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Diario di un Consulente Criminale'
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IV
 
Ormai eravamo giunti al termine di Agosto: l’aria era spesso torrida, ricca di umidità, ma una mattina mi sorpresi ad aprire gli occhi in un clima piacevole, fresco, in cui, inconsciamente, avevo tentato di avvolgermi con un lenzuolo, che ero ormai solito abolire durante le notti. Passai le dita sugli occhi, sollevai lo sguardo verso la finestra e tesi le orecchie per avvertire lo scrosciare dell’acqua sulle foglie degli alberi che ornavano il giardino.
Con aria rilassata e placida lasciai la camera, strisciando i piedi fino alla sala da pranzo, dove trovai ad attendermi un caffè caldo, pane abbrustolito, marmellata e altre leccornie. Affamato, grazie anche all’aria fresca, mi concentrai sul cibo e cercai di leggere il giornale del mattino, purtroppo con scarsi risultati.
Holmes, lo sentivo, era in bagno a compiere le proprie abluzioni mattutine, e uscì che avevo quasi terminato la mia seconda tazza di caffè, con le maniche della camicia rivoltate fino ai gomiti e il volto appena sbarbato.
Mi salutò con insolito entusiasmo e si sedette di fronte a me, dedicandosi ad imburrare una fetta di pane.
 
«Ti vedo affamato».
 
«Non vi sono motivi per cui non dovrei esserlo».
 
Questa frase mi giunse meravigliosa alle orecchie: un Holmes affamato indicava la pace circostante per entrambi. Nessun pericolo, nessuna richiesta, soddisfazione lavorativa. Probabilmente il lavoro di chimico che stava svolgendo lo rendeva appagato, e, debbo ammetterlo, mi sentivo altrettanto responsabile della pace che il mio amico lasciava trasparire.
Mi dispiaceva che quella giornata l’avrei passata ben lontano dal mio coinquilino, dal momento che lui sarebbe stato impegnato con l’università, ma sarei riuscito a dedicarmi ad una passeggiata gradevole qualora avesse smesso di piovere, o perlomeno mi sarei perso fra le pagine di un qualche romanzo d’avventura: un clima come questo mi avrebbe spinto a cercare marinai, spie, paesi lontani.
Fu dunque con mio grande diletto che verso le tre del pomeriggio, sebbene vi fossero ancora nubi temporalesche sul mio capo, imbracciai l’ombrello e mi misi a camminare fino al mare, perdendo la cognizione del tempo mentre le mie narici si impregnavano dell’odore della terra bagnata, del salino e della sabbia. Fu allora che ebbi un incontro imprevisto.
Decisi che sarebbe stata una buona idea concedermi qualcosa presso uno dei caffè più rinomati della città, noto anche come ritrovo dei letterati della zona: un posto piacevole in cui avrei potuto terminare di leggere il romanzo che mi ero infilato in tasca.
Mi sedetti su uno dei tavolini esterni, su di una piccola veranda che dava sulla spiaggia, nascosto alla vista degli altri tavoli da alcuni alberelli ben curati. Ordinai del tè, aprii il libro e mi immersi nella lettura. Fu il cameriere a distrarmi, posando poco dopo teiera, zuccheriera e tazza sul tavolo, e spingendomi, involontariamente, a prestare orecchio verso l'unico tavolo occupato, distante pochi metri da me, oltre la barriera verde che formavano le piante.
Inizialmente non riconobbi la voce, e ci misi qualche istante a capire che a parlare era il signore che mi aveva posto più domande alla festa, il signor Boyer. Mi scostai un poco fra il fogliame, riuscendo ad intravvederlo mentre era impegnato a discutere in francese, a bassa voce, con un uomo che mi dava le spalle. Costui era possente, dalle spalle larghe e i capelli castani, tagliati come un militare, ma con striature grige specialmente nei pressi delle orecchie, e parlava assai poco: interrompeva l’altro solo per porre domande secche, ma la mia ignoranza linguistica mi impediva di capire quale fosse l’argomento. Ciononostante non potei che rimanere colpito dall’accento dell’interlocutore del francese, in quanto sembrava di avvertire un tono proveniente niente meno che dall’oltre manica.
 
Holmes, pensai, si sarebbe sicuramente insospettito: un uomo da cui dovevo guardarmi le spalle, accompagnato da quello che sembrava un inglese. Ma che prove avevo? Magari era un accento del nord della Francia, nella zona della Normandia. O forse era originario del Jersey. Il loro tono, certo, era sospetto, ma come potevo essere sicuro? Avevo bisogno di qualcosa che avvalorasse i miei sospetti, ma non potevo espormi in alcun modo: se avessi avuto ragione, sicuramente sarei stato in pericolo. Così tentai di ascoltare la conversazione, cercando di capire quanto più mi fosse utile, ma ciò servì a ben poco, e, dopo meno di un quarto d’ora, i due si alzarono, si strinsero le mani e si allontanarono, continuando a darmi le spalle, e lasciandomi dunque i miei dubbi.
 
Una volta rimasto solo abbandonai il tavolo, deciso a tornare a casa al più presto: non avrei certo trovato Holmes, ma perlomeno avrei potuto riflettere a mente lucida su ciò che avevo appena visto.
Bisognava che fossi obiettivo: quell’uomo poteva anche essere un amico di Boyer. Lui stesso aveva ammesso di aver passato alcuni anni in Inghilterra, e le mie potevano essere unicamente delle paranoie. Era davvero necessario parlarne con il mio coinquilino, o dovevo tenere questi dubbi per me e tentare un’indagine privata?
No, no. Sarebbe stato sciocco: Holmes poteva leggere sul mio volto qualunque cosa mi passasse per la mente, e in quell’occasione una mia eventuale preoccupazione non avrebbe giovato. Dovevo informarlo tale evento.
 
Neanche mi resi conto che aveva ripreso a piovere, tanto la mia mente si era lambiccata per trovare un qualche spiraglio, e tantomeno mi accorsi della porta che si apriva e del mio amico fradicio nonostante l’ombrello.
 
Costui dovette fissarmi per svariati istanti con aria contrariata, dal momento che ignorai i suoi “buonasera” per ben tre volte. Solo quando mi toccò il braccio tornai alla realtà, piuttosto sconvolta dal fatto che non fossi più solo.
 
«Holmes! Da quanto sei qui?»
 
«Pochi secondi, amico mio. Posso sapere cosa occupa tanto la tua mente da impedirti di accogliermi», domandò con un sorriso lieve.
 
Tutti i pensieri che avevano occupato gran parte del mio pomeriggio si ripresentarono con prepotenza, senza lasciarmi via di scampo: parlai senza esitare.
 
 
Dopo che ebbi terminato il mio racconto, cercando di non esagerare con preoccupazioni – speravo – inutili, la reazione di Holmes fu un silenzio carico di pensieri.
 
«Non hai capito le loro parole», domandò poco dopo. «Non sei riuscito a sentire per filo e per segno i loro discorsi?»
 
Negai.
 
«So solo che Boyer frequenta un inglese. Ma immagino sia solo una coincidenza, come il fatto che io mi trovassi lì. Sicuramente, sarà un suo amico e nulla p--»
«Non correre troppo, Watson. Ovviamente se tu dicessi queste cose senza fondamento alcuno, senza che lui ti avesse fatto domande quella sera all’università, allora sì, indubbiamente rivaluterei i tuoi timori. Ma non son stato con  le mani in mano: da allora Boyer è sotto la stretta sorveglianza di uno dei miei uomini».
 
«I tuoi uomini, Holmes?»
 
«Non penserai certo che sia rimasto a gingillarmi con la chimica per tutto questo tempo, senza pensare a come recuperare il mio impero, se così vogliamo definirlo. Ho avuto tempo per fuggire e rinascere: anche da qui muovo i miei pezzi, e, ovviamente, alcuni dei pedoni sono qui, sempre pronti a cercare informazioni in mia vece».
 
Avrei voluto ribattere che sapevo che mi sarei aspettato da lui una mossa del genere, ma lui continuò, impedendomi di parlare.
 
«Boyer ha un passato abbastanza torbido: è vero che ha vissuto in Inghilterra, ed inoltre vi ha studiato come avvocato, finché non si è reso conto che la città offriva ben di meglio».
 
«Vuoi dire--»
 
«Il caro giurista, come divenne molti anni dopo, ha un passato come sbandato, nonché cacciatore di dote: ha cercato di impalmare due fanciulle di egregia famiglia per poi rubar loro tutto il denaro. Nel primo caso ha fallito pienamente: il padre della ragazza lo cacciò, minacciandolo con il fucile qualora avesse messo ancora piede a Londra. Con il secondo ebbe più fortuna: terminò malamente gli studi e, attraverso conoscenze ben poco raccomandabili – ricordi Willis, il falsario? -, riuscì ad entrare nelle grazie di una ragazza di buon cuore, senza padre da pochi anni e con una ricca dote. Ebbene, costei era affiancata dal braccio destro del padre che, secondo testamento, avrebbe dovuto gestire i soldi della fanciulla fino a che lei non si fosse sposata. Il vecchio ovviamente aveva visto lungo, e, benché si fidasse dell’uomo, non voleva che costui tentasse di sposare la figlia per ottenere il denaro: fece dunque una clausola nel testamento, in cui non sarebbe andato neanche un penny a lui o alla figlia se si fossero sposati. E qui entra in campo Boyer: caso volle che fosse tirocinante presso l’avvocato del padre di lei, e che sapesse del contratto. Ebbe dunque occasione più volte di incontrarla, e soprattutto venne a sapere della ricchezza che possedeva.
«In qualche modo riuscì ad incantarla a tal modo da farle accettare una proposta di matrimonio. Ma ovviamente Boyer sapeva quali fossero gli interessi del curatore. Gli promise una ricca somma se lo avesse aiutato e costui accettò».
 
«Dunque», tentai di riassumere, «Boyer è smodatamente ricco. E ciò a cosa ci porta?»
 
«Non correre, Watson», disse Holmes sollevando una mano con aria di chi si aspettasse di lì a poco un’esclamazione di gaudio, come il pubblico di fronte al prestigiatore.
 
«Boyer non voleva certo che il curatore della ragazza si prendesse una parte dei soldi, né che lei, in qualche modo, impedisse a lui stesso di usarlo».
 
Sgranai gli occhi, temendo il proseguimento del racconto.
 
«La ragazza venne uccisa circa sei mesi dopo il matrimonio. Le circostanze spinsero la polizia a credere che il colpevole fosse l’uomo che per anni aveva badato al suo patrimonio. Costui a quanto pare svanì nel nulla la notte stessa dell’omicidio, con i soldi contenuti nella cassaforte di casa e un bel po’ di gioielli. Nessuno sa che fine abbia fatto».
 
«Ma come può--»
 
«Per l’appunto, Watson. Non può. Non ha senso. E, ovviamente, ho le prove: a commettere l’assassinio fu Boyer, che inscenò un’aggressione con tanto di percosse e cloroformio. Oh, lui aveva provato a difendere la sua amata Johanna, ma quel bruto lo aveva colto di sorpresa. In verità la polizia non aveva approfondito, e mi stupii quando le ricerche del fuggiasco smisero improvvisamente, solo due giorni dopo la sua scomparsa. Ma dopotutto non ci si può aspettare di meglio da Scotland Yard. E, in questo caso, non si tratta unicamente di incapacità della polizia. In quel periodo vi furono molti furti e svariate azioni criminali. Il sottoscritto stava ancora piantando le prime radici, e solo uno di questi mi riguardava da vicino, ma, tuttavia, bastò per bloccare repentinamente la mia ascesa. Quello fu il primo caso del professor Moriarty, il quale, pur di svettare al di sopra di tutti, non si affidò unicamente alla propria mente sopraffina: comprò Boyer. Ovviamente il professore sapeva chi fosse il vero colpevole dietro la morte della ragazza, ma preferì ottenere informazioni sul mondo della malavita, assicurando che non avrebbe mai riferito del loro patto né dell’azione criminale del nostro uomo. Grazie a quelle informazioni finirono in manette cinque uomini, mentre il nostro caro amico è ancora a piede libero, con i soldi della moglie, ovviamente».
 
Mi alzai, ponendomi di fronte ad Holmes con aria abbastanza corrucciata.
 
«Vuoi dire che Boyer era in contatto con Moriarty?»
 
«Probabilmente il professore lo teneva da parte in caso avesse bisogno di un qualche aiuto in territorio francese. E, dopo la sua dipartita, immagino si sentisse abbastanza sollevato. Non fosse che Moran era a conoscenza di tutti i movimenti del professore, e, ovviamente, gli è parso opportuno sfruttarlo».
 
Sentii il sangue gelarmisi nelle vene.
 
«L’uomo al caffè».
 
«Suppongo che alla fine il colonnello sia riuscito a seguire le nostre tracce. Un cacciatore nato, debbo ammetterlo: non abbandona la preda fino a che non ne ha la testa appesa sopra al caminetto».
 
Non capivo come potesse essere così rilassato: eravamo scappati da Londra per far sì che Moran non ci trovasse, e il risultato era che lui era lì, probabilmente nei pressi di casa nostra, pronto a chissà cosa pur di riscattare il suo capo.
 
«Holmes, dobbiamo fuggire».
 
Il mio amico si gettò sul divano in modo scomposto, come se ciò che aveva appena scoperto non fosse di alcuna importanza.
 
«Non possiamo».
 
«Ma certo che possiamo», sbottai. «Basta prendere un traghetto, andare magari verso Sud. Potremmo provare in Italia e--».
 
«Watson, ti prego di mantenere il sangue freddo».
 
Mi resi conto di quanto potessi sembrare ridicolo in quel momento. Dopotutto, che cosa sapevo? Che un uomo, un singolo uomo ci stava dando la caccia. A chi altri poteva importare della riuscita della sua missione?
 
«Siamo fuori dalla giurisdizione Inglese. Non può farci nulla», riflettei ad alta voce.
 
«Il tribunale è l’ultimo dei nostri pensieri, dal momento che quell’uomo sarebbe disposto ad uccidere in questo momento».
 
Incredibile come Holmes riuscisse, sebbene con tono rilassato, a rendere una situazione critica addirittura disperata.
 
«Certo, non entrerà qui dentro sfondando la porta e brandendo un fucile: sarebbe troppo. È ancora un uomo di legge, stimato per il suo passato militare  ed i suoi libri. Inoltre rischierebbe di infangare il nome di Moriarty, mentre da anni lui tenta unicamente di elevarlo a più alte schiere. No, no: tenterà di ucciderci, ma calcolando alla perfezione i fattori di rischio».
 
Abbassai lo sguardo, ormai sconsolato, finché non rimembrai un qualcosa di importante.
 
«Lui non è a conoscenza della tua presenza qui! Sa solo di me!»
 
«Watson, lui sa che sono qui. Lo sa da quando sei svanito nel nulla da Londra. L’unico fattore sorpresa su cui potevo giocare fino a poco fa era che non sapesse del mio nascondiglio in questo luogo».
 
La frustrazione si impossessò di me: quali vie di fuga avevamo? L’esercito, in casi come questo, insegna che sono due le cose da fare: arrendersi o gettarsi verso in fuoco nemico, in un’ultima azione disperata. Sapevo che non mi sarei arreso, ma quanto era doloroso il doversi sacrificare dopo aver finalmente ritrovato quella sensazione di sicurezza di cui quasi facevo vanto. Holmes mi capii con un solo sguardo.
 
«Amico mio, tu sottovaluti la nostra posizione».
 
«Dal mio punto di vista, Holmes, siamo in un fosso, con il fango alle caviglie e poche munizioni. Non mi pare una posizione eccellente».
 
Un ghigno sadico mal celato, che mi fece accapponare la pelle, comparve per qualche istante sul volto del mio compagno.
 
«Moran non sa che noi siamo a conoscenza della sua presenza in questo luogo. Se pensa di avere un vantaggio, si sbaglia: siamo pari. Anzi, posso constatare che la nostra posizione sia di netto vantaggio».
 
«Cosa te lo fa pensare?»
 
«Il fatto», disse avvicinandosi, «che messi con le spalle al muro, io e te, Watson, non possiamo essere sconfitti».
 
E, detto ciò, cercò le mie labbra come a voler suggellare un patto: avremmo combattuto. E in quell’istante quasi mi convinsi che non potessimo affatto perdere. Dopotutto, in quegli anni eravamo entrambi caduti più volte, risollevandoci nella prospettiva l’uno dell’altro: cosa potessimo fare, tornati l’uno affianco all’altro, non mi vergogno a dirlo, poteva dimostrarsi più che strabiliante.
 
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I due giorni successivi vennero scanditi con lentezza dall’orologio, a causa del senso di pericolo imminente che avvertivo.
Ignoravo come ci avrebbe attaccati, se lo avrebbe fatto di persona o attraverso uno sgherro: guardavo chiunque con sospetto, mentre Holmes continuava a comportarsi come se nulla fosse. Tuttavia sapevo che più uomini, in quell’istante, stavano battendo la città alla ricerca di informazioni per lui. 
La notte del terzo, infine, accadde qualcosa.
 
Ero crollato addormentato a letto, un libro aperto sul petto, quando mi svegliai di soprassalto, tendendo le mani istintivamente verso il comodino, alla ricerca del revolver. Trovai, invece, Holmes in piedi davanti a me, vestito da capo a piedi e con in mano la mia pistola.
 
«È giunta l’ora, Watson: ha inizio il gioco!»
 
«Holmes, Moran--»
 
«Ha intenzione di colpire questa sera stessa».
 
Mi stropicciai gli occhi, avendoli ancora un poco offuscati a causa del sonno.
 
«Che ore sono?»
 
«L’una. Vestiti e metti questa all’interno della tasca », disse indicando il revolver, « e seguimi senza far rumore: ne va della nostra vita».
 
Con il cuore in gola seguii le sue indicazioni, evitando accuratamente di accendere una qualsiasi fonte di luce.
Mi vestii rapidamente ed entrai in salotto, domandandomi il perché Holmes, con la fretta con cui mi aveva svegliato,  fosse accomodato presso la scrivania, che per altro si proiettava sulla via principale, in quel momento mal celata dalle tende tirate. Chiunque, se avesse prestato un poco di attenzione, avrebbe potuto notarlo.
Sobbalzai quando la sua voce mi chiamò da una direzione totalmente diversa, e voltandomi verso la porta d’ingresso notai che si trovasse presso la porta d’ingresso.
 
«Holmes, ma come--»
 
«Non adesso, Watson. Seguimi».
 
Lui aprii la porta che dava sulle scale all’ingresso dell’appartamento, da cui si saliva al piano superiore. Pensai volesse uscire, quando mi stupii a vederlo salire le scale senza emettere il minimo suono. Ripercorsi i suoi passi, lo osservai forzare con facilità la serratura di quelle stanze, entrando insieme a lui in quel luogo buio.
Si notava che quella casa, benché abitata, fosse chiusa da almeno tre mesi: come ho già affermato in precedenza, quelle erano le stanze di un professore dell’università, il quale non era solito trascorrere l’estate sul luogo di lavoro. L’aria era stantia e calda; alcuni mobili erano coperti da lenzuoli per far sì che la polvere non vi si posasse sopra e l’unica luce presente proveniva dai lampioni in strada.
 
Holmes si sedette vicino alla finestra, badando bene di non passarvi davanti, e mi indicò di prendere posto accanto a sé.
Fu quasi una delusione per me quell’aspettativa di attesa: sentivo i nervi a fior di pelle, i muscoli tesi e il peso del revolver in tasca. Tuttavia mi accomodai sul legno del pavimento.
Passarono pochi istanti di puro silenzio, ma infine mi decisi a parlare, sussurrando.
 
«Perché siamo qui», domandai.
 
Holmes si protese verso il mio orecchio, sfiorando con il naso aquilino i capelli, e soffiandomi con leggerezza le parole.
 
«Aspettiamo Moran».
 
Sussultai, benché mi aspettassi quella risposta.
 
«Pensi che verrà questa sera?»
 
«Se non lui, di sicuro uno dei suoi accoliti: probabilmente Boyer stesso. Non credo che siano rimasti molti uomini fra le vecchie fila di Moriarty, e questi non avrebbero acconsentito ad assassinarmi. D’altra parte, Boyer deve troppo all’ormai defunto professore, e automaticamente a Moran, per non essere costretto ad esporsi in prima persona».
 
Corrucciai le sopracciglia, indeciso su come porre la domanda seguente.
 
«E tutto ciò come giustifica il fatto che ci fosse una tua copia seduta allo scrittoio in salotto?»
 
Vidi il suo volto illuminarsi nonostante il buio, e lo sentii emettere una bassa risata, tipica quando faceva qualcosa ai suoi occhi estremamente soddisfacente.
 
«Quella, Watson, è una perfetta replica in cera del sottoscritto. Fu creata da Monsieur Oscar Meunier, di Grenoble, quando ancora ero impegnato a girare il mondo in solitudine. Ero certo che prima o poi mi sarebbe stata utile. Come tu ben sai, Moran si muove da solo: ora, dal momento che è improbabile che sia lui stesso ad attaccarmi, ho posizionato svariate trappole: la cosa più probabile sarebbe un colpo di arma da fuoco proveniente dalla strada, dal momento che ho posizionato il manichino di modo da rendere semplice il compito al sicario. Eventualmente, è probabile che qualcuno si infiltri in casa, ma Boyer è un uomo che sa quando potrebbe trovarsi in difficoltà, e sapendoti con me all’interno dell’abitazione, difficilmente rischierebbe di assaltarmi: potrebbe rischiare di trovarsi in una situazione di uno contro due, e non gli sarebbe facile uscirne. Per questo motivo noi siamo qui: qualora accadesse qualcosa dabbasso, saremmo in grado di intervenire. Inoltre, la casa è circondata, e nella casa di fronte, su entrambi i piani vi sono degli uomini. Altri si trovano lungo le varie strade, nascosti allo sguardo, pronti ad avvisarci con appositi segnali luminosi di un eventuale pericolo».
 
Sbattei le palpebre, colpito dall’abilità del mio amico di saper organizzare un qualcosa di così ingegnoso, nonostante si trovasse lontano dal suo ambiente naturale. Ma, dopo anni di frequentazioni, mi resi conto che Holmes aveva la capacità di adattarsi in qualunque luogo e situazione, prevalendo su tutto e tutti. D'altronde, come avrebbe potuto essere da meno, viste le avversità che aveva affrontato in quegli ultimi anni?
 
«Ora, amico mio, non dobbiamo far altro che attendere».
 
 
 
Non è umanamente possibile avvertire lo scorrere del tempo quando si è in stato di allarme: avvolti dal silenzio, l’unica cosa udibile era il lento respirare dell’uno o dell’altro. I muscoli sembravano pronti a scattare per ogni scricchiolio, e la gamba cominciava a dolere per colpa della scomoda posizione. Holmes osservava la finestra di fronte, presso cui sapevamo essere appostato uno dei due uomini, tenendosi tuttavia ben nascosto alla vista. Poi, infine, accadde qualcosa.
Era trascorsa un’ora, come scoprii più tardi, quando Holmes mi strinse il polso con vigore.
Allungai un poco lo sguardo oltre la sua spalla per poter notare un uomo muoversi circospetto lungo la strada, illuminato dalla luce dei lampioni. Nonostante quella notte fosse piacevolmente calda, era avvolto da un soprabito scuro, mentre tentava di nascondere il viso con il cappello da marinaio ben calato.
 
Si guardò intorno, osservando il nostro appartamento al piano terra, facendomi trattenere il respiro: la sua reazione, quando vide l’inconfondibile siluette di Holmes alla finestra, fu quella di nascondersi. Si mosse con rapidità, allontanandosi dalla strada. Pensai che se ne fosse andato, che quello non fosse uno dei nostri inseguitori, ma pochi minuti dopo un bagliore proveniente dalla finestra al piano superiore della casa vuota ci fece intendere che qualcuno fosse entrato, e che gli uomini del mio amico fossero pronti ad agire. Osservai gli occhi di Holmes, malamente illuminati da un lampione poco distante, e vi notai lo stesso sguardo da cacciatore in cui spesso mi ero perduto durante i nostri anni passati. Holmes si allontanò dalla finestra, e costrinse anche il sottoscritto a farlo: non potevamo rischiare di essere notati proprio in quell’istante.
 
Tornammo a sederci, l’uno accanto all’altro, pronti a scattare in piedi non appena fosse successo qualcosa.
Istintivamente andai a cercarcela coscia di Holmes e la strinsi, per infondere coraggio in lui quanto per cercarlo in me stesso. Per la prima volta eravamo davanti ad una svolta: tutto sarebbe potuto terminare di lì a poco, oppure avremmo dovuto ricominciare a fuggire, spaventati dalle nostre stesse ombre. Ma se anche fosse successo, ammisi a me stesso, sarei comunque rimasto accanto al mio compagno.
 Quando, la notte prima che lo perdessi, gli domandai se avrebbe rinunciato a tutto per me, lui mentì. Lo fece per liberarmi, e non lo perdonai per molto tempo.
Ma in quell’istante mi resi conto che, se avesse potuto, io e lui saremmo fuggiti già all’epoca, abbandonando ciò che ci aveva entrambi spinto alla rovina. Fu questo che mi rese forte quella sera: il pensiero che, qualunque cosa fosse accaduta, sarei rimasto con Holmes, che fosse in prigione, a casa nostra in Baker Street o in giro per il mondo, in fuga perenne.
 
La mano del mio amico andò a cercare la mia sulla coscia, e la strinse con forza per svariati secondi, finché non ci giunse alle orecchie un sibilo, il suono di vetri in frantumi e poi più nulla.
 
Corremmo giù per le scale, osservando un gruppo di quattro uomini trascinare lungo la strada chi, poco prima, si era addentrato nella casa vuota. Gli avevano tappato la bocca, e lo spinsero all’interno della casa, nel nostro appartamento, in cui finalmente mi fu concesso di accendere le luci.
Il prigioniero venne fatto sedere, bloccato da tre degli accoliti di Holmes, mentre il quarto gli stava davanti, osservandolo con puro disprezzo.
 
«Lestrade», urlai, colpito dalla rivelazione. Il piccolo capobanda si trovava di fronte a me, lo stesso muso da furetto ed espressione irritata, di chi non vuole essere interrotto mentre sta svolgendo un lavoro.
 
«Dottor Watson, è un piacere rivederla», disse, tendendomi una mano. La strinsi incredulo, e gli domandai come mai fosse qui, ma venni interrotto da Holmes, il quale ci pregò di rimandare a più tardi i sentimentalismi. Annuimmo entrambi.
 
«Dunque», cominciò Holmes, posizionandosi di fronte all’uomo bloccato, «Monsieur Boyer, immagino di non doverle chiedere il perché della sua visita. Il foro nel mio manichino è più che eloquente, tanto quanto la finestra rotta. Adesso, io so per chi lavora, e se mi darà una mano non mi vedrò costretto a denunciarla come attentatore alla vita del sottoscritto. Sa, ho una buona fama in questo luogo, e ci sono abbastanza accuse a suo carico da farla finire in prigione per lungo tempo. Oh, suvvia, non faccia quell’espressione stupita: se il colonnello Moran le ha parlato di me, saprà benissimo che non amo stare con le mani in mano».
 
L’uomo sbiancò e passò lo sguardo da me ad Holmes, finché la sua espressione non divenne quella di una maschera tragica.
 
«Sono stato costretto, Monsieur Holmes, glielo posso giurare! Dovevo troppo al professor Moriarty per non acconsentire a ciò che mi chiese Moran. Se davvero lei sa la mia storia, sa quanto rischio: quell’uomo mi ha in pugno. Non avevo scelta, glielo posso giurare. La prego, mi perdoni».
 
Lestrade fece una smorfia disgustata, mentre Holmes continuò a dimostrarsi impassibile.
 
«Difficile concedere il perdono a chi ha appena tentato di ucciderti, per altro senza scopi personali. Io apprezzo i nemici veri, Boyer, non certo i mercenari senza un minimo di spina dorsale. E mi sono alquanto dispiaciuto che non sia stato lo stesso Moran a tentare di vendicare il suo amico, ma immagino che costui avesse troppo da perdere di fronte alla giustizia, come il suo buon nome. Ma capisco che lei possa essersi sentito con le spalle al muro: per questo motivo le concedo di darmi una mano. Adesso, se ci tiene alla sua libertà, lei risponderà ad alcune domande».
 
Non mi capacitai di come potesse accadere, ma Boyer sembrò sbiancare ulteriormente.
 
«Lei mi sta chiedendo di scegliere di quale morte morire: se parlo, Moran mi ucciderà, ma se non lo farò sarà lei stesso a farmi uccidere o buttare a mare».
 
Holmes scosse la testa, cominciando a passeggiare avanti e indietro di fronte al manichino, unica vittima di quell’infausta nottata.
 
«Non so cosa le abbia raccontato il colonnello, ma Moriarty è stata l’unica vittima sul mio cammino, ed è stato per legittima difesa. Adesso le consiglio vivamente di rispondere con sincerità, dacché solo in questo caso potrò fare in modo di proteggerla dal colonnello».
 
Boyer sembrò calmarsi, e Holmes fece segno ai tre uomini di smettere di tenerlo bloccato. Costui, una volta librato, si rassettò un poco e infine, come in preda allo sconforto, abbassò il capo, pronto a rispondere alle domande di Holmes.
 
«Anzitutto voglio sapere il perché abbiate deciso di muoversi solo questa sera, quando da ben più giorni siete a conoscenza della presenza mia e di Watson in questo luogo».
 
«È per via dell’arma», cominciò il francese. «Moran voleva che nessuno giungesse al lui, per questo ha mandato il sottoscritto in quella casa vuota: se mi avessero preso avrei potuto parlare, ma doveva per forza affidarsi a me: aveva troppo timore che un qualunque altro intermediario risultasse una vostra spia e mandasse tutto a monte. E inoltre l’arma con cui avrei dovuto spararle è stata preparata appositamente per l’occasione, di modo che nessuno potesse allarmarsi troppo prima della fuga del sottoscritto».
 
«Per quale motivo quest’arma è tanto speciale», domandai incuriosito.
 
«Lei cosa ha sentito, Dottore? Un sibilo e la finestra andare in frantumi, suppongo. Questo è tutto ciò che emette la carabina fatta costruire da un certo Von Herden, un artigiano tedesco famoso per le sue armi particolari. Grazie ad essa sarebbe stato impossibile capire con che tipo di arma la polizia avesse a che fare, e soprattutto della distanza. Il proiettile sembra quello di una pistola, e la gittata sarebbe risultata nettamente inferiore, come se il colpo fosse giunto esattamente dall’esterno del vostro appartamento, non dalla casa di fronte. E ciò mi avrebbe dato il tempo di scappare, dal momento che il suono che produce è praticamente nullo».
 
Tutti i presenti sembrarono estremamente impressionati dalla descrizione di quell’arma micidiale, ma non Holmes, il quale decise di continuare con il suo interrogatorio.
 
«Dov’è Moran adesso? Benché ne capisca la logica, mi sembra strano che non abbia voluto lui stesso uccidere l’assassino del suo collega e amico».
 
«Lo avrei dovuto raggiungere una volta ter--»
 
Boyer non riuscì a terminare il discorso, dal momento che si bloccò, osservò stupito Holmes per qualche istante e, dopodiché, cadde a terra, sanguinante dal foro che gli si era appena formato in fronte. Nessuno di noi sembrò capire cosa stesse succedendo, finché Holmes non urlò a tutti noi di gettarci a terra, e un nuovo suono di vetri infranti indicò che qualcuno stava di nuovo sparando nell’appartamento, dove questa volta si trovava Holmes in persona. Mi sollevai un poco dal pavimento, cercando il mio amico con lo sguardo: quello che vidi mi lasciò senza fiato.
Era a terra, una mano a stringere la spalla, l’espressione sofferente. Notai le sue dita tingersi di rosso.
 
Fu allora che avvertii all’esterno delle urla e un fremente scalpiccio di passi in strada.
Non so cosa mi prese: forse furono reminiscenze della guerra che mi spinsero ad alzarmi, ignorando il pericolo, per gettarmi fuori in strada. Notai alcuni uomini di Holmes uscire dai loro nascondigli, nei vicoli che costeggiavano le case, per guardarsi intorno, alla ricerca del sicario. Era inutile. In quella via sapevo che non avrebbero trovato nessuno, così mi ritrovai da solo a correre verso il retro della casa vuota, la gamba dolorante e la rivoltella in pugno. Non mi importava del dolore in quel momento: qualcuno aveva sparato ad Holmes, ed ebbi la conferma di chi fosse quando giunsi in una strada parallela a quella in cui si trovava l’appartamento: lì, non molto diverso da come lo avevo visto anni prima, stava il colonnello Moran, imponente ed autoritario, ma con qualche striatura grigia in più fra i capelli. Sollevai la pistola, intimandolo di voltarsi.
Aveva con sé, nascosta sotto la redingote, l’arma con cui aveva appena ucciso Boyer e ferito Holmes, ed era in mano al miglior tiratore della Gran Bretagna. Pensai, tuttavia, che fosse estremamente difficile caricare un’arma del genere: aveva un unico colpo, e da quel che avevo notato pochi minuti prima, gli ci volevano come minimo tre secondi per caricare un altro colpo, rimanendo in una posizione che aiutasse la mira.
Non che ciò mi portasse in una posizione di vantaggio, ma perlomeno mi diede un po’ più di speranza.
 
Sollevai la pistola, mirando al cuore.
 
Forse attesi troppo, dacché lui, come le tigri che in passato era solito cacciare, abbandonò l’arma e, invece che spararmi, mi saltò addosso.
Finii a terra, mentre la pistola scivolò lontano dalla mia portata. Sembrava una lotta impari: la mia gamba pulsava, la spalla ferita sembrava troppo debole per dare aiuto a quella del braccio sano, e Moran sembrava pervaso da una furia omicida che lo rendeva ancora più forte. Mi ritrovai in una lotta corpo a corpo impari, in cui riuscii comunque a farmi valere grazie al fatto che il mio avversario fosse accecato dalla rabbia. Ma sembrò non bastare. Ad un certo punto, dopo aver speso qualche minuto a rotolarci per strada, in una via in cui vi erano solo i giardini sul retro delle case e nessun essere vivente, lui riuscì a stringermi il collo in una morsa ferrea.
Scalciai, tentai di accecarlo e di allontanarlo da me, finché, dibattendomi, non notai di essere in grado di raggiungere la rivoltella.
Fu una questione di attimi.
Strinsi il calcio fra le dita e, senza sapere a cosa stessi mirando, a causa dello stato di coscienza che mi stava per abbandonare, sparai.
La stretta non si allentò che dopo pochi istanti, quando Moran, incredulo, si sollevò sulle ginocchia, andandosi a portare la mano al ventre sanguinante.
Volse lo sguardo su di me – Dio mi punisce facendo sì che non possa dimenticarlo mai – e notai gli occhi di un uomo fiero ma disperato, colmi di lacrime che, da soldato valoroso quale era stato, non avrebbe versato neanche in punto di morte.
 
«Ho compiuto il mio dovere, James».
 
Quelle furono le ultime parole che il colonnello Moran volse al mondo, e mi vergognai di essere l’unico ad averle udite.
 
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Non so con quale forza riuscii a tornare all’appartamento, ma probabilmente si trattava di quella della disperazione.
Quando entrai trovai Holmes sdraiato sul divano, pallido e ansimante.
Ignorai il senso di nausea provocato dalla prolungata mancanza d’aria e accorsi al suo capezzale, intimando a Lestrade di andare in camera per prendere la mia borsa da medico e di portarmi del brandy.
Passai cinque minuti ad analizzare la ferita, finché non constatai che, per grazie divina, l’arteria succlavia non era stata intaccata, e che l’unica cosa che potessi fare fosse estrarre il proiettile.
Holmes era vigile, dunque lo costrinsi a ingollare una grande quantità di brandy, e dissi a due degli uomini lì presenti di tenerlo fermo.
 
Non fu semplice: il proiettile era entrato in profondità nella carne, sfiorando l’osso e con grande probabilità intaccandolo, vista l’entità del dolore che il mio amico stava provando. Fu con grande fatica che riuscii ad estrarlo, mostrandolo come un trofeo agli uomini presenti. Uno di questi non riuscì a trattenere un fischio ammirato.
 
Disinfettai la ferita e la bendai, lasciando che Holmes venisse trasportato in camera propria a riposare.
 
Fu alle quattro di notte che tutto ebbe fine. Forse ancora nessuno aveva trovato il cadavere del colonnello, ma presto avremmo dovuto spiegare un bel po’ di cose. Ma in quel momento ero troppo stanco per pensare, così mi accasciai sul divano.
Gli uomini di Holmes, su ordine Lestrade, decisero che sarebbe stato più semplice portare il cadavere di Boyer vicino a Moran, con una rivoltella come quella del sottoscritto in mano. In tal modo, speravano, né Holmes né il sottoscritto avrebbero rischiato di ritrovarsi i poliziotti in casa.
 
Il capo banda rimase accanto a me fino a che Holmes non si svegliò, ed ebbe tutto il tempo di spiegarmi il perché fosse lì: Holmes non lo aveva abbandonato durante quegli anni in fuga, e quando ne ebbe la possibilità, lo salvò dalla forca in Italia. Per questo motivo, e tanti altri, quando il mio amico gli chiese aiuto non si tirò indietro.
Tuttavia ammise che l’errore era stato suo: non aveva pensato a raccogliere la carabina, e Moran era quasi riuscito nel proprio intento.
 
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Alle otto del mattino mi trovavo al capezzale di Holmes, a controllare che la ferita non si fosse infettata.
 
«Debbo ammettere», sussurrò con voce impastata, «di aver sottovalutato il colonnello».
 
Andai a cercare il suo volto, prima con lo sguardo e infine con le labbra, rubandogli un bacio ricco di tutte le emozioni di quella lunga notte. Gli accarezzai i capelli corvini, abbandonando la sua bocca per posare le  labbra sulla fronte, come se si trattasse di un bambino malato.
Lasciò che lo trattassi con dolcezza, finché la curiosità non prese il sopravvento e mi domandò cosa fosse accaduto dopo gli spari.
Gli raccontai della morte di Moran, del piano di Lestrade, della carabina dimenticata.
Lui osservò il soffitto con aria corrucciata per tutto il tempo, finché fra di noi non rimase solo il silenzio.
 
«È finita», sussurrò.
 
Fu strano rendermi conto che aveva ragione: non dovevamo più fuggire. Per quanto Moran fosse morto per colpa mia, mi sentii finalmente libero. Niente più inseguimenti, nascondigli, sotterfugi.
Il gioco si era concluso.
 
Mi  sdraiai accanto a lui ancora incredulo, tornando ad accarezzarlo con calma, come facevamo un tempo a Baker street, quando ancora tutto sembrava normale.
Una risata liberatoria, dopo svariati minuti di silenzio, si liberò dai miei polmoni, e sentii Holmes unirsi presto a me, con la gioia di fanciullo.
 
Potevamo infine tornare a casa.
 
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Tuttavia non fu così semplice: Sherlock mi disse di aver contattato  Mycroft.
Scoprimmo che l’omicidio di Moran aveva scosso profondamente la borghesia e la nobiltà inglese, e lo Strand Magazine, per cui un tempo aveva scritto le avventure sue e del professor Moriarty, gli dedicò un numero speciale con tutti i racconti.
La polizia non riuscì a scoprire il perché il colonnello avesse dei rapporti con Boyer, il quale non aveva certo la fedina pulita, ma preferirono evitare di approfondire ulteriormente la questione per non trovare elementi che potessero infangare il suo buon nome.
I giornali dissero che il colonnello aveva sparato per legittima difesa, soccombendo comunque all’attacco dell’avversario.
 
 
 
Fu così che una mattina, circa due settimane dopo questi avvenimenti, mentre il sottoscritto ed Holmes facevano colazione presso un caffè parigino, in attesa del treno che ci avrebbe portati presso la manica, prendemmo una decisione.
La mattina era piacevolmente fresca, e sembrava preannunciare l’autunno imminente. Ci crogiolavamo presso un tavolino che dava sulla strada principale, e mi tornò alla mente una situazione analoga, avvenuta ormai molto tempo prima. Scacciai via quel pensiero dedicandomi a una gustosa tazza di tè con pasticcini.
 
«Watson», cominciò il mio amico, soffiando verso l’alto una boccata di fumo, «io ti ho narrato del tempo che ho trascorso lontano da te, giusto?»
 
Annuii.
 
«Sotto mentite spoglie, ma lo hai fatto».
 
Lo vidi muovere il capo con aria spensierata, mentre spegneva la sigaretta nel posacenere.
 
«Non è semplice muoversi: bisogna essere abili, creare false identità, mentire spudoratamente. Ogni giorno si rischia di andare incontro a nuovi nemici, che possono essere spietati vescovi – un giorno ti racconterò di come ho smascherato un attentato alla vita del Santo Padre – o arabi armati di scimitarra; per non parlare del modo subdolo che hanno gli indiani di raggirarti: estremamente abili, bisogna ammetterlo. Dunque, dicevo: è pericoloso, ma quando una persona passa la vita a gestire le fila della malavita Inglese, tutto ciò risulta essere una piacevole distrazione».
 
Posai la tazza di tè, osservando con aria circospetta il mio amico.
 
«Cosa intendi dire?»
 
«Che ho viaggiato per molto tempo da solo, ma vi sono luoghi e culture che avrei desiderato condividere con te più di ogni altra cosa al mondo, Watson. Vi sono montagne che sono i grado di sbeffeggiare catene montuose come le Alpi, deserti immensi le cui oasi sono occupate da popolazioni beduine, città brulicanti di vita! Non guardarmi in quel modo: ho imparato molte cose in questi tre anni, e ho ampliato i miei compartimenti stagni, pur mantenendoli sempre ben separati».
 
«Ritieni finalmente importante il sistema solare», domandai sbeffeggiandolo.
 
Ignorò la mia domanda, ma infine giunse al punto, fissandomi dritto negli occhi.
 
«Siamo ancora a rischio, e il mio nuovo impero criminale può ancora maturare nonostante l’assenza. Nascondiamoci insieme, Watson. Cerchiamo veleni profumati nei suq arabi, andiamo ad assistere all’opera nella patria in cui è nata, o, se preferisci, rintaniamoci in un paesino francese come abbiamo fatto sin ora. Ma voglio che questa volta tu sia presente. Non farò di nuovo lo stesso errore».
 
Percepii la sua forza e mi sentii mancare: il desiderio che avevo di stargli accanto mi avrebbe concesso di essere nuovamente il suo braccio destro, ma questa volta era diverso. Il suo tono di voce era serio, e scacciava tutte le remore che aveva avuto tre anni prima, quando avrei desiderato con tutto me stesso che mi facesse una richiesta del genere.
Lontani da chiunque, unicamente io, lui ed il mondo.
 
Tacqui.
Presi il libretto con l’orario dei treni in partenza dalla Gare du Nord e cominciai a sfogliarlo.
Holmes assistette ai miei lenti movimenti per circa mezzo minuto, dopodiché sbottò.
 
«Per il Cielo, Watson! Se il tuo è un tentativo di vendicarti a posteriori mi va più che bene, ma perlomeno dimmi se desideri ciò che ti ho proposto o meno».
 
«Alle 10.30 partirà il nostro treno».
 
Mi guardò con espressione contrariata, e mi compiacqui assai di essere riuscito ad inquietarlo.
 
«Ti sbagli», mi corresse. «Il treno per il battello è alle undici».
 
«Ma quello per Milano parte mezz’ora prima, amico mio. Ci conviene sbrigarci se vogliamo cambiare i biglietti in tempo», dissi alzandomi e arrotolando in tasca gli orari.
L’espressione stupefatta di Holmes mi strappò una risata, ma costui si alzò comunque a sua volta, gratificandomi con sorriso compiaciuto.
Mi tese il braccio e aspettò che l’accontentassi, incamminandomi insieme a lui verso la stazione.
 
Indubbiamente i Parigini sono spiriti più libertini di quelli della nostra madrepatria, dacché osai strappare al mio amico un bacio all’aria aperta, ignorando i passanti e grato di poter ricominciare insieme ad Holmes.
E giurai a me stesso che questa volta non avrei dubitato.
 
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Ed è in tal modo che ritornai al tepore del caminetto di Baker street, alla familiarità di Londra e della mia convivenza con Holmes: passammo un anno e mezzo girando buona parte di Asia ed Europa, attendendo acque più calme, finché Mycroft non ci contattò, confermando che Sherlock Holmes non era mai esistito, e che nessuno avrebbe mai fatto domande.
Persino la signora Hudson, quando ci vide, ci accolse con la gentilezza che era le consona.
E, con mio enorme stupore, mi resi conto che nulla era cambiato, e che il potere che il maggiore degli Holmes possedeva doveva essere ben superiore a quello che mi aspettavo.
 
Fu così che, dopo un totale di cinque anni, mi riaccomodai nella mia poltrona di pelle, godendomi le movenze di Holmes mentre suonava il violino con rinnovato vigore, come ormai non faceva più da tempo, mentre Londra dormiva sogni sereni, ignara del ritorno dell’uomo che avrebbe continuato incontrastato a tessere le sue trame.
 
Per quel che mi riguarda, gli avvenimenti passati sono ancora una ferita fresca che solo il tempo e le labbra di Holmes sono in grado di guarire.
Tuttavia presto diventerà solo una vecchia cicatrice, e lascerò che il mio amico la sfiori, la notte, quando siamo soli nello stesso letto, a ricordare che tutto ha una fine, ma che si può sempre ricominciare da capo.  
 
 
 
 Note: adesso piango. Non riesco a credere di avere finito questa storia. Giuro, mi sto commuovendo. È la più lunga che abbia mai scritto, e non pensavo sarebbe mai giunta a termine, specialmente perché era davvero difficile districare il tutto. Per questo motivo, chiedo venia se trovare errori sia di logica che di stesura o grammatica. Ci ho messo molto a comletarla, e rileggere il tutto notando ogni singolo errore è davvero difficile. Ma a parte questo grazie. Grazie di cuore a chi l'ha seguita, a chi ha commentato, o anche l'ha messa fra le seguite. Tutta questa serie è la mia opera più riuscita, e ne sono davvero fiera. Adesso, appena avrò tempo, vorrei scrivere una OS conclusiva. Non faccio spoiler, perché ho solo un'idea striminzita, e visti i miei tempi ci vorrà molto, molto tempo. Grazie per la pazienza.
Beth
   
 
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