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Autore: _Trixie_    28/12/2013    9 recensioni
[Swan Queen, post 03x11]
«Chi sei?» domandai. La mia voce rimbombò, come in grande sala di un castello.
La donna triste non perse il suo sorriso, ma qualcosa dovette rompersi, dentro di lei, incrinarsi e fare male, perché dai suoi occhi scesero, veloci, lacrime che una mano bianca si affrettò ad asciugare.
«Sono una persona che ti vuole bene, Emma» disse, dopo molto tempo, come se stesse valutando la risposta.
«Io non ti conosco. Come sai il mio nome?»
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Regina Mills
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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 And emptiness is all you know

 
 





 
- Emma -
 
 
C’era una donna, una bella donna.
Sembrava aver superato la trentina, ma li aveva passati egregiamente perché, davvero, la sua bellezza continuava a catturare la mia attenzione.
Aveva i capelli scuri e lunghi, gli occhi lucidi, di chi ha pianto molto, e un sorriso da togliermi il fiato. Solo, era il sorriso più triste che avessi mai visto.
Attorno a noi una spessa coltre di vapore bianco, in volute che si muovevano pigramente, lasciava intravedere qua e là muri di pietra nera, archi decorati, colonne solide. Non riconoscevo quel posto, non l’avevo mai visto in vita mia. Eppure, qualcosa mi diceva che quel posto era reale, che la donna che stava di fronte a me, la donna dal sorriso triste, esistesse in un angolo remoto dell’universo.
«Chi sei?» domandai. La mia voce rimbombò, come in una grande sala di un castello.
La donna triste non perse il suo sorriso, ma qualcosa dovette rompersi, dentro di lei, incrinarsi e fare male, perché dai suoi occhi scesero, veloci, lacrime che una mano bianca si affrettò ad asciugare.
«Sono una persona che ti vuole bene, Emma» disse, dopo molto tempo, come se stesse valutando la risposta.
«Io non ti conosco. Come sai il mio nome?»
Feci un passo indietro, sulla difensiva. Evidentemente il mio istinto di conservazione aveva la meglio anche nei sogni.
A quella reazione la donna triste alzò una mano, come per fermarmi, e altre lacrime scivolarono lungo le sue belle guance.
«No» disse, la voce incrinata dalla sofferenza. «Non scappare da me».
«Chi sei?» ripetei la domanda, provando a rilassare i muscoli.
Sembrava una donna distrutta dal dolore e sembrava che, la ragione, fosse proprio il mio comportamento.
«Te l’ho detto, Emma, sono solo una persona che ti vuole bene. E che vuole bene a nos-».
La donna dal sorriso triste si morse il labbro, nuove lacrime, copiose e inarrestabili, presero a scorrere lungo l’elegante linea del suo viso.
Aprii la bocca, cercando un modo per consolarla e far smettere quel pianto silenzioso. Perché lei era davvero bellissima ed ero sicura che non meritasse quella sofferenza.
Volevo mettere fine alla causa del suo male, volevo abbracciarla, dirle che le cose sarebbero migliorate. Volevo proteggerla.
Ma non feci nulla di tutto questo. Perché non sapevo come poterlo fare. E poi lei riprese a parlare.
«Come sta tuo figlio, Henry?»
Le labbra della donna dal sorriso triste presero a tremare, nel pronunciare quel nome. Come conosceva Henry?
«Lui sta…bene» risposi, titubante. In fondo era solo un sogno, no?
Lei annuì, un brillio di orgoglio sembrò accenderle lo sguardo.
«Tu chi sei? Come mi conosci? Come conosci mio figlio?» dissi, tornando alla carica.
La donna rise appena, ma anche quella fu una risata triste, che strinse il mio cuore in una morsa di ghiaccio. Immaginai come doveva essere il sorriso di quella donna, un sorriso vero, di quelli che nascono dalla gioia e dall’amore. Doveva essere un sorriso in grado di sconvolgere il mondo con la sua perfezione.
«Hai sempre amato sottolineare che fosse tuo figlio, quando eri con me. Nei primi tempi, almeno».
«Cosa intendi dire?»
Mossi un passo verso di lei, che scosse la testa.
«Niente, non intendo niente, Emma».
«Conosci il mio nome, perché non mi dici il tuo?» domandai, stringendomi nelle spalle.
«Perché non servirebbe a niente. Non dovrei nemmeno essere qui. Addio, Emma. Prenditi cura di Henry, per favore».
La donna dal sorriso triste piangeva, piangeva e vedevo come provasse a trattenere le lacrime, a imprigionare il dolore nel proprio petto perché io non lo vedessi, ma era troppo, davvero troppo, perché potesse riuscirci.
Lei mi voltò le spalle e io la inseguii, alzai una mano per fermarla, avevo bisogno di risposte, ma qualcosa si frappose tra me e lei. Sembrava vetro, vetro trasparente e freddo che mi impediva di toccarla.
La donna triste mi guardò e scosse la testa.
«Dimmi il tuo nome. Almeno il tuo nome, per il bene che dici di volermi, dimmi il tuo nome» la supplicai.
Il suo sguardo si tinse di spavento e di sconfitta.
«Tu mi conoscevi come Regina».
«Mills» sussurrai, senza rendermene conto.
«Come?» il suo sguardo divenne confuso.
«Mills» ripetei, chiedendomi cosa significasse.
«Il mio cognome, tu… ti ricordi di me?» chiese.
Allora vidi una scintilla, nel baratro dei suoi occhi lucidi di lacrime, e quella scintilla la conoscevo bene. Nasceva dal fuoco di una speranza che non si voleva alimentare perché la delusione sarebbe stata atroce, troppo grande per essere sopportata.
Non potevo mentirle perché, presto o tardi, se ne sarebbe resa conto e, allora, il dolore sarebbe stato troppo.
Scossi la testa.
«Solo questo. Mi è semplicemente sfuggito dalle labbra».
La donna dal sorriso triste, Regina, annuì, ma quella scintilla nei suoi occhi non si spense.
«Sii felice, Emma Swan» disse, voltandosi di nuovo e allontanandosi.
La guardai per qualche secondo, chiedendomi perché la sua voce e il suo corpo mi fossero tanto famigliari, chiedendomi perché il ritmo dei suoi tacchi mi fosse conosciuto, perché la sfumatura dei suoi capelli fosse il mio colore preferito.
«Ci rivedremo ancora?» urlai all’improvviso.
Lei si fermò, per istanti che mi parvero interminabili.
Poi riprese a camminare, velocemente, come se stesse scappano.
La lasciai andare.
Quella notte non sognai più nulla.
 
 
 
 
- Regina -
 
 
Crollai a terra, singhiozzi a scuotere il mio corpo, lacrime a bagnarmi il volto.
Mi coprii il viso con le mani, provando a fermare tutto quel dolore, tutta quella sofferenza che mi stava dilaniando l’animo, strappando il mio cuore in mille pezzi.
Come avevo potuto anche solo pensare di fare una cosa del genere?
Non era stata una bella idea, non lo era stata affatto, perché mi stava distruggendo. Vederla di nuovo, vederla con la certezza che non si sarebbe ricordata chi fossi e quello che avevamo condiviso… Era stato folle, semplicemente folle, pensare che avrebbe reso la lontananza da lei, da loro, dalla mia famiglia, più sopportabile.
«L’amore fa male, Regina».
Un nuovo singhiozzo mi scosse, a stento riconobbi l’urlo che uscì con prepotenza dalle mie labbra.
«Forza, alzati».
Il folletto si avvicinò a me, mi afferrò un braccio per sostenermi e aiutarmi. Lo liberai con collera e la forza del mio gesto lo fece allontanare, barcollando all’indietro.
«Non mi toccare. È tutta colpa tua, tua e della tua maledizione» lo accusai.
Tremotino non rispose, rimase a fissarmi a lungo. Non mi importava, non mi importava nulla, perché non avrei mai più avuto indietro la mia famiglia, non avrei mai più avuto Henry. E nemmeno Emma. E quanto ero stata stupida e ingenua nei suoi confronti. Era amore, quello che provavo per lei, e non avevo nemmeno avuto il coraggio di dirglielo, prima che la vita ci allontanasse l’una dall’altra.
«Devi alzarti, Regina».
«Lasciami stare» gli intimai, con voce bassa e rabbiosa. Sul serio, poteva anche crogiolarsi nella mia umiliazione, ricordarmi quanto mia madre avesse ragione, l’amore è debolezza, ma avrebbe dovuto stare attento a non provocarmi, perché, Signore Oscuro o meno, gliel’avrei fatta pagare.
«No, Regina, no-»
Mossi il braccio nella sua direzione e Tremotino venne scaraventato al muro, la mia mano invisibile sulla sua gola.
«Ora lascerò la presa e tu te ne andrai».
Lui rimase impassibile, troncai il flusso magico che lo teneva prigioniero.
Nascosi il violento capogiro che mi colse a causa di quel semplice incantesimo.
Il fatto era che incontrare Emma aveva richiesto molta, molto magia. Viaggiare in quel modo tra i mondi, pur non potendosi toccare, pur semplicemente sfiorando i sogni altrui, era un incantesimo che richiedeva una quantità di energia inimmaginabile.
E poi, avevo mantenuto l’incantesimo attivo per più tempo di quanto fosse umanamente sopportabile. Avevo rischiato di uccidermi.
«Me ne vado. Ma smettila di rimuginare su quello che hai perso, Regina. L’hai già fatto con Daniel. Guarda dove ti ha portata» disse Tremotino.
Uno stiletto, sbucato dal nulla, venne lanciato nella sua direzione, ma l’uomo fu pronto a farlo sparire con un semplice gesto della mano. Lui scosse la testa, guardandomi.
Una vertigine improvvisa mi colse, gli arti iniziarono a formicolare. E allora capii di aver perso il controllo della mia magia, delle mie emozioni, perché quello stiletto lo avevo lanciato io, involontariamente.
Chiusi gli occhi, scivolai a terra, lacrime amare continuarono a rigarmi le guance, e poi fu solo buio.
 
 
 
 
- Emma -
 
 
«Mamma, è tutto okay?»
Il cucchiaio mi cadde dalla mani, di nuovo.
«Sì, sì, ragazzino, è tutto okay» bofonchiai a denti stretti, cercando di asciugare con il tovagliolo il latte caldo che era schizzato sul mio pigiama.
Henry mi lanciò un’occhiata scettica, ma non fece domande.
Io continuavo a pensare alla donna dal sorriso triste. Era irrazionale, terribilmente irrazionale, perché si era trattato solo di uno stupido sogno. Eppure, in quel volto, in quella voce, in quel profumo di mele doveva esserci qualcosa di reale, qualcosa che mi portava a chiedermi, in continuazione, chi fosse Regina Mills.
Un sogno, Emma, solo un sogno, rispondeva una voce nella mia testa, quella parte razionale di me che aveva sempre il sopravvento. Ma c’era qualcosa, nel mio cuore, che mi spingeva a credere. A che cosa, comunque, non era dato saperlo.
«A cosa pensi?» domandò Henry, piegando la testa di lato. Sorrisi a mio figlio, la cosa più bella che mi fosse mai capitata, prima di sporgermi sopra il tavolo e scompigliarli i capelli.
«A nulla di importante» minimizzai. Era importante, invece, perché mi stava ossessionando, quella donna mi stava facendo impazzire.
«Voglio saperlo» insistette Henry, inzuppando un biscotto nella sua tazza.
Sospirai, scuotendo la testa. Era solo un sogno, no?
«Hai mai… Ti ricordi di una donna di nome Regina?» dissi, esitando.
«Mills» disse Henry, con un sorriso.
La tazza mi cadde dalle mani e si infranse sul pavimento, il latte caldo mi ustionò le gambe.
«Cosa hai detto?»
Henry mi guardò con sguardo preoccupato.
«Mills. Ho detto Mills» rispose, con un filo di voce.
«Dove hai sentito quel nome?» indagai, ignorando completamente il bruciore sulla mia pelle, tenendo gli occhi fissi su Henry. Come poteva, mio figlio, conoscere una donna che avevo semplicemente sognato?
«Io non lo so, mamma. Ma ti sei scottata, devi-»
«No, Henry, tesoro, è molto importante. Dimmi, sei sicuro di non ricordare dove hai sentito quel nome?»
«No, mamma, mi è solo… scappato, non lo so, tu hai detto Regina e io ho detto Mills, come completare una frase» disse lui, visibilmente preoccupato per quel mio strano comportamento e il fatto che ignorassi completamente il latte versato a terra.
Decisi di non insistere, perché sapevo perfettamente cose volesse dire.
Tu dici Regina e io dico Mills.
Ma chi diavolo sei, Regina Mills?
 
 
 
 
- Regina -
 
 
Aprii gli occhi e riconobbi immediatamente le tende del mio letto a baldacchino.
«Ben svegliata, Regina» disse una voce dolce accanto a me. Qualcuno mi stringeva la mano. Mi voltai solo per trovare Biancaneve al mio capezzale. Stupita e confusa, sbattei gli occhi un paio di volte.
«Cosa..?»
«Tremotino mi ha chiesto di tenerti d’occhio. Mi ha raccontato… mi ha raccontato cosa è successo».
Biancaneve sorrise appena, mentre mi appoggiava delicatamente una benda sopra la fronte.
«Da quanto tempo sono in questo stato?» domandai, ignorando completamente le parole della ragazza. Non mi andava di dare spiegazioni.
«Un po’, quasi… Sedici ore» rispose, controllando una clessidra. «Tremotino ha detto di chiamarlo immediatamente se tu avessi superato le…»
«Venti ore di sonno. Già, ci sono andata vicina» considerai, cercando di alzarmi. Il dolore alle tempie si acuì immediatamente, costringendomi ad abbandonare quel tentativo.
Biancaneve mi intimò di sdraiarmi e io, a malincuore, l’assecondai.
«Perché l’hai fatto?» domandò la ragazza, dopo qualche minuto di pesante silenzio, durante il quale si udì solo lo scoppiettio del camino.
«Volevo sapere se Henry stesse bene» risposi immediatamente.
«E allora perché non sei apparsa in sogno a lui?»
«Non volevo spaventarlo».
Biancaneve posò i suoi occhi chiari su di me, lo stesso sguardo indagatore di Emma. Una punta di ghiaccio si conficcò a fondo nel mio cuore.
«Stanno bene?» domandò lei infine.
«Sì, stanno bene, entrambi» annuii, con un sorriso amaro.
«Come hai trovato Emma? Le hai parlato?»
«Non molto. Però lei sta bene, è sempre la stessa, con quel suo modo di fare guardingo e lo sguardo truce quando si sente minacciata. E poi, lo sai come è fatta, è la Salvatrice, ha quella fastidiosa mania di salvare tutti. Lei… lei sta bene, è bella come il giorno in cui l’ho lasciata. Sta bene, mi è sembrata felice» risposi, osservando il fuoco, mentre il mio ricordo si perdeva nel ricordo di quella notte, nel ricordo di Emma.
«Mi hai mentito, prima» disse Biancaneve, con sguardo serio.
La sua voce mi riportò alla realtà.
«Come?» domandai, confusa. Avevo perso, per qualche secondo, il contatto con il mondo.
«Mi hai mentito, Regina. Non volevi solo sapere come stava Henry».
«Certo che volevo-».
Biancaneve scosse la testa.
«Volevi vedere mia figlia» disse la ragazza, come se fosse un’accusa. Strinsi gli occhi, la guardai con ferocia. Potevo anche sopportare che Biancaneve mi inumidisse la fronte, ma non quello.
«Cosa diavolo vai dicendo?»
«Regina, riconosco quello sguardo, quel tono. Non riesco a crederci, ma immagino di averlo sempre saputo. Hai cercato lei, quando ti abbiamo salvata da Greg e Tamara. Hai dato ascolto solo a lei, mentre eravamo a Neverland e te ne sei andata non appena è saltato fuori Neal, hai evitato Uncino da quando Emma lo ha baciato. Hai chiamato il nome di mia figlia dopo aver scoperto quello che andava fatto per fermare Pan, le hai regalato il lieto fine che aveva sempre desiderato, anche se questo ha significato privarti di tutto, tutto quello che avevi. Regina, tu-»
«Smettila!» urlai, in preda al panico. Non volevo ascoltarla, non volevo sentire Biancaneve mettermi a nudo in quel modo e non solo perché, ironia della sorte, mi ero innamorata di sua figlia.
«Smettila! Vattene! Tu non hai il diritto di stare qui, vattene!»
Mi portai le mani tra i capelli e iniziai a singhiozzare, di nuovo in modo incontrollabile.
Con che diritto se ne stava lì, lei, a guardarmi con compassione? Non volevo la sua compassione, non volevo niente da lei, non volevo niente da nessuno, se non che mi restituissero Henry e Emma, la mia famiglia.
Come pretendevano che vivessi, dopo tutto quello? Dopo aver assaporato l’amore e la felicità autentici, dopo aver stretto tra le braccia mio figlio, dopo aver perso l’unica occasione della mia vita per dire a Emma cosa provassi per lei?
Morire, morire bloccando la maledizione di Pan sarebbe stata una benedizione. Morire senza provare tutto quel dolore, quella solitudine immensa e senza fine, dove mi perdevo, sarebbe stata una benedizione.
«Regina».
La voce di Biancaneve era lontana. Mi stava chiamando da molto? La guardai, senza vederla davvero.
«Regina» ripeté. Volevo solo farla smettere, volevo che se andasse. Aveva la bocca di Emma. E i capelli… i suoi capelli avevano lo stesso riflesso di quelli di mio figlio.
«Smettila» singhiozzai, le lacrime salate bruciavano sulle mie labbra secche. «Vattene. Smettila».
Biancaneve mi posò una mano sul viso e io reagii d’istinto. Afferrai il bicchiere pieno d’acqua appoggiato sul mio comodino, con l’intenzione di lanciarlo, forse addosso a lei, ma misi tanta forza in quel gesto che il cristallo si ruppe tra le mie mani, graffiandomi i palmi.
Le schegge caddero a terra, in un fragore assordante, tintinnando ad ogni nuovo rimbalzo.
«Vattene. Vattene, ho detto, vattene» continuai a ripetere, mentre mi stringevo al petto la mano insanguinata.
Biancaneve era indietreggiata di qualche passo, nel vedermi afferrare il bicchiere, ma tornò ad avvicinarsi a me, si sedette sul letto e mi strinse.
«Emma non se ne andrebbe».
 
 
 
 
- Emma -
 
 
Per me, la donna dal sorriso triste era diventata una costante. La cercavo nel riflesso di ogni vetrina, nelle lacrime di ogni donna, nella scia di ogni aroma.
Era passata una notte e poi un’altra ancora e, di nuovo, un’altra notte era passata. Ma della donna dal sorriso triste non c’era traccia. Desideravo e speravo di sognarla. Ogni volta che mi sdraiavo a letto, fissavo il soffitto bianco e anonimo della mia stanza chiedendomi se, finalmente, quella notte l’avrei rivista.
«Regina. Regina Mills» sussurravo appena, scivolando lentamente nel sonno. Credevo che, se lei fosse stata il mio ultimo pensiero prima di dormire, allora l’avrei sognata.
Ma non accadeva mai. Mi svegliavo, con una nera malinconia nel cuore, e il mio primo pensiero era, di nuovo, la donna dal sorriso triste.
Chi sei, Regina Mills?
 
 
 
 
- Regina -
 
 
Ho ucciso degli uomini. Molti uomini.
Il fuoco scoppiettava nel camino, la mia stanza era nel più completo silenzio, se non per lo sferruzzare ritmico di Granny.
Ho ucciso anche delle donne.
Il mio sguardo era fisso sulle fiamme che danzavano eleganti, cacciando il freddo dal mio palazzo, ma non dal mio cuore.
Ho ucciso bambini e bambine e neonati in fasce.
Granny non parlava mai. Avevano deciso di tenermi d’occhio, dopo quello che chiamavano l’incidente Emma. Lo sguardo di Biancaneve e James era indecifrabile, comunque mi mostravano un’insolita gentilezza ogni volta che rimanevano con me.
Tremotino aveva insistito perché rimanessi a letto per almeno una settimana. Avevo lasciato che decidesse lui per me. Mi sentivo debole, in effetti, ma in ogni caso non vedevo una ragione per protestare.  
Il folletto aveva anche iniziato a trascorrere molto tempo nella mia stanza, più del necessario, il  posto più tranquillo del palazzo, mia cara, diceva. In realtà aveva paura che provassi di nuovo a raggiungere Emma, comparendo nei suoi sogni, e che questa volta mi sarei spinta fino allo stremo. Lui mi conosceva, conosceva le mie passioni violente e le mie azioni impulsive. Nessuno lo diceva, ma tutti temevano che mi uccidessi.
Da quando eravamo tornati nella Foresta Incantata, quello che continuavo a definire il mio palazzo era in realtà diventato la sede del governo di Biancaneve e James, che vi avevano preso residenza. Il fatto era che il mio palazzo si trovava in un’ottima posizione strategica, nel bel mezzo del regno, da dove loro potevano intervenire tempestivamente per sedare i piccoli focolai di violenza che scoppiavano nei villaggi e nelle città del regno.
Non tutti apprezzavano questo ritorno alla Foresta Incantata e chiedevano una soluzione. Sembravano convinti che con la mia morte, della donna che per prima aveva lanciato la maledizione, tutto si sarebbe sistemato.
Poi, c’erano coloro che, semplicemente, erano convinti che dovessi morire secondo la legge del regno, che dovessi morire per riscattare i miei crimini. Morendo, avrei pagato il mio debito con la giustizia e sedato le ondate di violenza. Di nuovo, volevano la mia testa.
Sapevo che tutto ciò che mi teneva in vita era il governo oculato e il senso di gratitudine che Biancaneve mi portava per ciò che avevo fatto a Neverland e per aver rinunciato a Henry, così che lui e Emma avessero una vita felice.
Potevano prendersi la mia testa, potevano prendersi il mio corpo, bruciarlo e vendicare le morti che avevo provocato, e ne avevo provocate molte, perché tanto non avevo più speranza di avere l’amore che avevo sempre desiderato e che ora si trovava in un altro mondo, senza memoria di me.
Chiusi gli occhi. Concentrandomi sullo sferruzzare di Granny, lo scoppiettio del fuoco, il leggero sibilare del vento.
Vivevo e non volevo vivere. Non lo meritavo nemmeno. Avevo dato un lieto fine a Emma e Henry e non c’era più niente che potessi o volessi fare in questo mondo.
Avevo ucciso, avevo torturato, avevo perseguitato. Avevo sterminato famiglie e villaggi, senza pietà, senza rimorsi, e l’avevo fatto inseguendo un desiderio di vendetta che non sarei mai riuscita a soddisfare, per un amore che mi era stato strappato.
Aprii gli occhi.
Granny sferruzzava, il fuoco scoppiettava, Emma e Henry erano felici e il mondo continuava a vivere e avrebbe continuato a farlo, in ogni caso.
Strinsi la mano destra attorno a un frammento di cristallo. Era rimasto sotto il mio letto dal giorno in cui avevo rotto il bicchiere d’acqua, in presenza di Biancaneve.
Respirai a fondo. Sotto le coperte, poggiai attentamente il lato tagliente del frammento di vetro sul braccio sinistro. Premetti leggermente sulla pelle liscia.
Non avevo ripensamenti.
Incisi il mio braccio, a fondo, una scia vermiglia si aprì sulla pelle bianca.
Nessuno se ne sarebbe accorto, se non quando sarebbe stato troppo tardi. Avrei tenuto il braccio nascosto, sotto le pesanti coperte, avrei chiuso gli occhi e tutto sarebbe andato bene.
Emma e Henry stavano bene.
 
 
 
 
- Emma, qualche mese prima -
 
 
Il temporale ci colse di sorpresa. Sapevo quanto fosse pericoloso, un temporale come quello, nel bel mezzo del Maine e lanciai uno sguardo preoccupato a Henry, seduto accanto a me nel maggiolino giallo.
«Accidenti» sibilai. I tergicristalli entrarono subito in azione, ma, anche così, non riuscivo a scorgere la strada. E ci trovavamo nella parte opposta della città rispetto a casa.
«Ho paura, mamma» disse Henry, irrigidendosi al suo posto e guardandomi con sguardo spaventato.
«Non preoccuparti, ragazzino» lo rassicurai, con un sorriso tirato, cercando di nascondere la mia preoccupazione.
Avevo paura anche io, una paura cieca di finire addosso a un muro e uccidere mio figlio.
Il maggiolino giallo procedeva a passo d’uomo.
«Andiamo dalla mamma» disse Henry. Le nocche strette con forza attorno alla maniglia della portiera.
Regina abita a qualche metro di distanza, è vicina, avevo pensato, prima che un fulmine squarciasse il cielo accecandomi per un secondo. Il tuono che seguì terrorizzò ancor di più Henry.
«Sì, ragazzino, ottima idea».
Dopo minuti che parvero interminabili, mi fermai davanti alla casa del sindaco, distinguibile a malapena. Con prudenza, imboccai il vialetto di accesso con l’auto, poi mi fermai di nuovo. Un fulmine illuminò i muri bianchi della casa.
«D’accordo, ragazzino. Copriti bene, metti anche la mia giacca» dissi, spogliandomi e passando la mia giacca da sceriffo a Henry. «Usciamo e corriamo verso il portico. Tieni stretta la mia mano, non ti lascerò scivolare».
Mio figlio annuì.
Facendoci coraggio, corremmo fuori dall’auto, la pioggia fredda e sferzante ci inzuppò all’istante, infilandosi nei colletti, impregnando i vestiti. Finalmente raggiungemmo il portico e Henry si precipitò a suonare e a chiamare Regina.
«Mamma!»
Regina aprì la porta, sorpresa e spaventata di trovarsi davanti me e, soprattutto, suo figlio in quello stato.
«Henry, entra, presto. Cosa diavolo è successo?»
«Siamo stati sorpresi dal temporale. Eravamo in zona e ho pensato che per Henry fosse più sicuro stare da te…» spiegai titubante.
«Hai pensato bene. Allora, entri anche tu?»
Esitai.
«Sì, se non è un problema per te. Sì, grazie»
 
 
 
 
- Emma -
 
 
Non stavo bene, affatto.
E iniziavo seriamente a credere di stare impazzando.
Mi mancava il respiro, il cuore batteva, sempre più forte, man mano che quella macchia rossa sulla camicia bianca iniziava ad allargarsi.
Gocciolava, sangue rosso gocciolava a terra sul pavimento della mia camera.
Da dove veniva, quel sangue? Rimasi a fissarlo a lungo, incapace di muovermi o reagire, e il sangue non accennava ad arrestarsi.
Alla fine, mossi qualche passo incerto verso il mio armadio, dove la camicia era appesa, e la toccai.
 
 
 
 
- Emma, qualche mese prima -
 
 
Regina aveva preparato immediatamente un bagno caldo per Henry, al piano superiore, mentre io rimasi a scaldarmi davanti al fuoco del camino del suo studio.
Un bicchiere di sidro di mele era abbandonato sulla scrivania del sindaco.
Sorrisi, il bordo era macchiato di rossetto.
Dopo qualche minuto, Regina mi raggiunse, con dei vestiti tra le mani.
«Tieni» mi disse, porgendomeli.
Io li presi, d’istinto, senza capire cosa dovessi farmene e la guardai confusa.
Regina lanciò uno sguardo eloquente ai miei vestiti fradici.
«Oh, grazie. Grazie mille» dissi, con un sorriso riconoscente e sorpreso.
Lei scosse la testa e mi voltò le spalle, uscendo dallo studio perché io potessi cambiarmi davanti al fuoco.
Sfilai le mie magliette bagnate con sollievo e mi asciugai con la salvietta che Regina aveva portato per me, insieme ai vestiti. Spiegai una camicia bianca e sottile, di ottima fattura, scossi divertita la testa guardando l’etichetta sul colletto.
Regina Mills, era stato ricamato in eleganti lettere d’oro.
 
 
 
 
- Emma -
 
 
Caddi a terra, in ginocchio, trascinando con me la camicia insanguinata.
Di chi erano quei ricordi? Non potevano essere miei e non potevano che essere ricordi.
Mio figlio… mio figlio aveva chiamato mamma un’altra donna, mio figlio aveva chiamato mamma la donna dal sorriso triste. E lei, quella donna che non poteva essere altro se non un sogno, si era occupata di lui come una madre, senza esitazioni.
E si era occupata di me. Ma quando? E perché? In che rapporto erano? Henry era figlio nostro?
Non credevo nella reincarnazione, non credevo nelle seconde possibilità. Ma allora, come diavolo era possibile, tutto quello?
Abbassai lo sguardo sulla camicia. Il sangue aveva macchiato le mie mani, le mie gambe.
Tremando, guardai l’etichetta del colletto bianco.
Regina Mills, era stato ricamato in eleganti lettere d’oro.
 
 
 
 
- Regina -
 

Mi sentivo sempre più debole, violenti capogiri mi coglievano di sorpresa e avevo sempre più sete. Se anche avessi voluto chiamare aiuto, in quel momento, non ci sarei riuscita. E comunque, non volevo chiamare aiuto, volevo solo che tutto quello finisse in fretta e che di me non rimanesse altro che un corpo freddo e il ricordo di quello che ero stata.
Granny continuava a sferruzzare, il fuoco continuava a scoppiettare e il mondo a girare. Emma e Henry erano felici.
Chiusi gli occhi.
«Emma» sussurrai.
 
 
 
 
- Emma -
 
 
«Sei tornata» dissi, non appena la donna dal sorriso triste comparve davanti a me.
Lei sorrise, e questa volta fu un sorriso vero, e capii di essere io la causa di una meraviglia tanto grande. Desiderai farla sorridere ancora, farla sorridere in continuazione.
Regina annuì.
«Perché?» le chiesi, incuriosita dalla sua presenza.
«Volevo vederti» mi rispose subito, ma la sua voce era flebile, come se fosse allo stremo delle forze.
«Stai bene?» indagai, sospettosa.
«Sì, sono solo stanca, Emma» mi rassicurò. Tuttavia, non mi sfuggì il fatto che dovette sedersi a terra, incapace di reggere il suo stesso peso a lungo.
Mi avvicinai a lei e provai a toccarla, ma anche questa volta una parete di vetro si scontrò con la mia mano. Mi sedetti di fronte a lei, le mie gambe sfioravano le sue.
«Chi sei?» le chiesi.
Lei piegò la testa di lato con un movimento che avrei riconosciuto tra mille, perché l’avevo visto ogni giorno della mia vita negli ultimi dodici anni.  Era la stessa reazione istintiva che aveva Henry quando cercava di capire qualcosa di oscuro, qualcosa che solo lui, in fondo, riusciva a scorgere.
«Lo sai chi sono, Emma, solo non te lo ricordi. Ed è meglio così» rispose con un sorriso stanco e un sospiro.
Fu in quel momento, quando per la prima volta spostò il braccio da dietro la schiena, dove evidentemente lo stava nascondendo, che vidi il sangue. Sangue rosso, che scorreva a rigagnoli lungo la pelle bianca e immacolata di Regina.
Intercettando il mio sguardo, lei si affrettò a nascondere nuovamente il braccio.
«Stai sanguinando» le dissi, leggermente spaventata. «Devi fermare il sangue».
«No» lei scosse la testa, dolcemente, come se parlasse a un bambino testardo e cocciuto. «Va tutto bene, Emma»
«No, non va tutto bene. Prima ho trovato una camicia nel mio armadio. Era macchiata di sangue, sanguinava. Nello stesso punto in cui sanguini tu. Chi sei, Regina Mills?»
Ero spaventata, quella ferita andava chiusa, lei doveva smetterla di sanguinare, altrimenti sarebbe anche potuta morire. Era debole, molto debole, di sicuro doveva già aver perso molto sangue.
«Non ha importanza chi io sia, Emma, non più, ormai. Ha importanza chi sei tu. Tu sei la madre di nostro figlio e devi prenderti cura di lui, devi fare in modo che sia felice, d’accordo? E sii felici anche tu. Tutto il resto non ha importanza, tutto il resto non ha motivo di essere ricordato» disse Regina, alzando una mano, quella del braccio sano, verso di me.
La sua voce era rotta dal pianto, ma nei suoi occhi vedevo una speranza che ardeva con forza e che, sono sicura, nulla sarebbe riuscito a spegnere. Sembrò che Regina stesse compiendo uno sforzo immane, sacrificando ogni briciola di forza rimasta nel suo corpo, per provare a raggiungermi, ma io sapevo che una parete di vetro avrebbe fermato il suo tocco. 
Inaspettatamente, le sue dita bianche e fredde si posarono sulle mie labbra. Un sguardo colmo di un amore infinito, che non avevo mai visto prima di allora, mi investì. E lei era bellissima.
Durò un battito di ciglia.
La sua mano scivolò via, lontana da me, e Regina Mills si accasciò a terra.
Sapevo che era morta, ma non potei fare nulla, perché in quel momento mi svegliai sul pavimento della mia stanza e mi misi ad urlare con quanto fiato avevo in gola, provando a strappare da me tutto quel dolore e quella sofferenza che la morte di Regina Mills mi aveva lasciato.
Urlai e piansi per ore, senza sapere per quale motivo la morte di quella donna, che doveva essere solo un sogno, fosse in grado di sconvolgermi tanto.
C’era qualcosa imprigionato nella mia anima che provava a ribellarsi, che provava a dirmi qualcosa, a farmi ricordare chi fosse Regina Mills.
Ma nessun ricordo tornò a galla e tutto ciò che riuscivo a sentire, in quel momento, era dolore.
Sfinita, dopo ore, mi addormentai di nuovo sul pavimento della mia stanza, la camicia ancora tra le mani, un vuoto nel cuore.
«Regina».
Ma lo sapevo che non sarebbe tornata mai più.
 
 
 
 
- Regina -
 
 
Comparvi nella sua vita un’ultima volta. Volevo salutarla e augurarle ogni bene, a lei e a Henry. Avrei voluto dirle che l’amavo, ma non lo feci, perché desideravo proteggerla almeno da questo, dalla certezza di aver perso qualcuno che avrebbe saputo amarla così profondamente, come era accaduto a me. Ma lo sapevo che lei era riuscita a leggermelo nell’animo, quell’amore che le portavo e che non aveva mai trovato espressione.
Quando ormai capii che era troppo tardi, che non sarei riuscita a rimanere aggrappata a lei ancora a lungo, sacrificai ogni stilla di magia ancora presente nel mio corpo e infransi quella barriera di vetro che ci separava.
Riuscii a toccarla, il tocco più dolce che mi sia mai stato concesso, a quanto di più puro esistesse.
Sentii Emma urlare.
 
 
 
 
- Emma, un anno dopo -
 
 
Pensavo ancora alla donna dal sorriso triste ogni sera e ogni mattina. Pensavo a lei anche durante la giornata e ogni volta che guardavo Henry.
A volte piangevo, per lei. Perché lei non c’era più e non ci sarebbe mai più stata.
E a volte ero furiosa, con lei. Perché non era vicino a me.
Mi aveva detto di essere felice, ma io sapevo che non ci sarei mai riuscita.
Perché lei, maledizione, chiunque fosse, dovunque fosse, non c’era.
Regina Mills mi mancava ogni giorno di più.
E ormai non riuscivo nemmeno a fingere che fosse stata solo un sogno.
C’era la sua camicia nel mio armadio.
C’erano ricordi di lei, dentro di me, ma per quanto mi sforzassi di portarli a galla, qualcosa li tratteneva.
Un solo ricordo, un sentimento, anzi, era riuscito a toccarmi.
Tu hai amato Regina Mills.
Non sapevo altro, sapevo solo di averla amata. E di amarla ancora.
Non mi rimaneva altro da fare se non esaudire il suo ultimo desiderio, che era anche il mio, e feci in modo che Henry fosse felice. Nostro figlio, aveva detto. E ogni volta che lui piegava la testa di lato, sentivo che era vero.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NdA
 
Ed eccovi giunti fino a qui. Dunque, non so perché, ma a quanto pare c’è qualcosa che mi spinge ad associare Regina alla morte, giuro che non lo faccio di proposito e non vorrei in alcun modo vederla morta! Soffro tanto quanto Emma!
 
Comunque, scuse a parte e passando alle cose serie, il titolo e i versi iniziali sono tratti da Bleeding Out, Imagine Dragons. Non che io la stia ascoltando a ripetizione da giorni, lungi da me!
 
Grazie mille per aver letto, aspetto i vostri pareri,
Trixie :D
   
 
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