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Autore: Bethesda    30/12/2013    4 recensioni
«Non trovi», cominciò, «che questa tendenza di avvinghiarsi a qualunque altra persona sia assolutamente inutile?»
Il dottore alzò le sopracciglia, allungando la testa dalla cucina verso la poltrona.
«Intendi dire gli abbracci?»
«Quale conforto può portare un abbraccio? È un’invasione dello spazio personale, spesso portata avanti da persone indesiderate, che non ha alcuna logica.
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Infine pubblico la storia per la Lotteria di Natale del TCaTH indetta dalla fantastica Macaron, e basata sul prompt di Tea and Biscuits.
"Sherlock non capisce perché ai noiosi uomini normali piace tanto abbracciare/essere abbracciati, e John tenta di spiegarglielo un paio di volte in occasione di particolari casi, ma fallisce miseramente. Fino a quando non sarà lo stesso Sherlock ad avere bisogno di un abbraccio. Fluff come se piovesse."
Non me ne vogliate: non sono abile con il fluff, e non mi so muovere bene neanche come "scrittrice" sul fandom della BBC (VICTORIAN AGE INSIDE!), quindi, davvero, pietade, signore mie! 



Un Problema di Possessione
 
Sherlock scrutava corrucciato la televisione. Sembrava che stesse cercando di estorcere informazioni alla donna che piangeva in primo piano, a causa del marito che l’aveva abbandonata.
Era uno di quei pomeriggi in cui nulla sembrava interessargli: né casi – troppo banali, a sua detta -, né il violino, tantomeno la chimica.
John avrebbe potuto ritenersi soddisfatto, ma la realtà era che Sherlock, in quella condizione apatica, risultava essere ancora più irritante del solito.
Poteva succedere ogni tanto che si comportasse così, ma John aveva riscontrato che accadeva soprattutto durante le festività, specialmente quelle natalizie, quando la città si riempiva di luminarie, la gente si scambiava i doni e tutti erano felici senza ragione alcuna.
 
«Non trovi», cominciò, «che questa tendenza di avvinghiarsi a qualunque altra persona sia assolutamente inutile?»
 
Il dottore alzò le sopracciglia, allungando la testa dalla cucina verso la poltrona.
 
«Intendi dire gli abbracci?»
 
«Quale conforto può portare un abbraccio? È un’invasione dello spazio personale, spesso portata avanti da persone indesiderate, che non ha alcuna logica. Spesso si rivela imbarazzante, come in questo caso: guarda la presentatrice. Finge di voler consolare la donna, ma alcune sue espressioni e movimenti desiderano completamente il contrario».
 
«Bé, c’è a chi piace stare fra le braccia di qualcuno».
 
La testa di Sherlock, fino ad allora voltata verso lo schermo, ruotò verso di lui, facendo si che facesse capolino da oltre lo schienale della poltrona. Gli occhi lo dardeggiavano con gelo.
 
«A te piacerebbe farti abbracciare da uno sconosciuto?»
 
«Da uno sconosciuto? Certo che no. È necessario che ci sia un po’ di intimità».
 
Il consulente si voltò di nuovo, rannicchiato e con aria annoiata.
 
«Vedi, dunque? Ho ragione io: l’abbraccio è inutile. Non porta benefici, e perché sia considerato accettabile vi devono essere determinate condizioni».
 
John sospirò. Era inutile discutere con lui in tale stato, ma forse una cena avrebbe conciliato il suo animo. Gli disse di prepararsi, che sarebbero andati da Angelo.
Sherlock, muovendosi come per inerzia, eseguì l’ordine senza ribattere: perlomeno, pensò, si riduceva in modo tale da ascoltarlo, perlomeno per quanto riguardava inezie quali la cena.
 
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Eppure John sapeva che la discussione non sarebbe terminata lì, per quanto strampalata e senza fine: difatti, ciò che le diede nuovamente inizio fu l’incontro, qualche giorno dopo, mentre i due erano di ritorno da un incontro con Lestrade, di un gruppo di giovani vestiti di rosso e con corna da renna ; questi si trovavano all’esterno di un negozio addobbato per le feste, ricco di luminarie e decorazioni di ogni misura, e si avvicinavano ai possibili clienti con aria gentile, sfoggiando cartelli sul petto con la scritta “Free Hugs”.
 
Sherlock, con movimento rapido, li schivò, portandosi almeno a una ventina di metri da loro e distanziando l’amico, rimasto braccato da una ragazza sui vent’anni che aveva tentato di abbracciarlo.
Una volta raggiunto, non passò molto prima che l’investigatore cominciasse a parlare.
 
«Non solo: a quanto pare è anche uno strumento pubblicitario. La gente si sente più vicina a chi lavora in quel luogo, e si sente in dovere di comprare. Indubbiamente geniale».
 
John lo osservò stranito, finché non gli tornò alla memoria la discussione portata avanti pochi giorni prima. Forse, pensò, sarebbe stato meglio tacere, ma ormai l’interesse di Sherlock per la questione avrebbe dovuto scemare con l’avvento di un caso di rapimento che il detective aveva ritenuto interessante, eppure continuava con quella discussione che avrebbe definito futile se fosse stato John stesso ad introdurla.
 
«Santo Cielo, Sherlock, non puoi vedere il male dietro ogni abbraccio! Lo ammetto, non spesso è piacevole: ci sono occasioni in cui essere fra le braccia di qualcuno porta imbarazzo, ma la maggio parte delle volte è…bello».
 
Si fermarono in mezzo ad un vicolo nel quale si erano infilati per evitare la ressa natalizia.
 
«Necessito di prove».
 
John si ritrovò nuovamente a sollevare le sopracciglia.
 
«Non hai mai ricevuto un abbraccio? Da tua madre, tuo--»
 
«Se non avessi esperienza non potrei trarre conclusioni, e la mia teoria si rivelerebbe inesatta, per cui sì, John, sono stato abbracciato, e ciò che ho dedotto è che  tu abbia torto».
 
Il medico scrollò la testa inebetito: si sentiva preso in giro, e non poteva credere che Sherlock si stesse comportando in tal modo per pura ricerca scientifica.
Fu per tale motivo che camminò fino a casa ignorando le richieste d’attenzione dell’amico, rispondendo in modo secco alle sue affermazioni.
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«Tu lo fai unicamente per prendermi in giro: hai risolto il caso del bambino rapito, e--», sbottò John,  entrando in salotto, all’ennesima richiesta di Sherlock di prestargli ascolto.
 
«Banale».
 
«Non era banale!»
 
«Indubbiamente per te e per gli uomini di Lestrade non lo era, ma per il sottoscritto si è rivelato un’inutile perdita di tempo».
 
«Hai riportato un bambino dai suoi genitori!»
 
«A onor del vero, ho scoperto che la vera madre è la donna che ha spinto il bambino a fuggire con lei».
 
John grugnì, alzando esasperato gli occhi al cielo e dirigendosi verso la cucina.
 
«Hai anche assistito ad una scena in cui i genitori adottivi si sono abbracciati, dopo che li hai fatti scoppiare in lacrime: potevi chiedere a loro perché lo stessero facendo».
 
«Sarebbe stato inopportuno».
 
L’ex soldato si voltò, sentendosi profondamente preso in giro.
 
«Si può sapere», domandò infine, «cosa vuoi che faccia?»
 
Sherlock si liberò del cappotto, afferrò con una mano la vestaglia color grigio topo, indossandola con elegante rapidità, per poi sedersi sulla poltrona.
 
«Come ho già detto, ho bisogno di prove. E tu potresti aiutarmi».
 
E infine John capì. E gli fu impossibile trattenere una breve risata.
 
«Lo trovi tanto divertente?»
 
Il medico si avvicinò alla poltrona, posando le mani sui braccioli non occupati da Sherlock, e posizionandosi a pochi centimetri dal suo volto.
 
«Tu hai fatto tutto ciò per ricevere un abbraccio da me? Troppo rischioso domandarmelo esplicitamente? Per l’amor del cielo, Sherlock, mi sembra che ormai sia superata la fase in cui ci imbarazziamo quando uno dei due  mostra di desiderare un momento intimo».
 
«Quello che lo mostra sei unicamente tu».
 
John si tirò indietro di scatto, osservando mentre Sherlock si mordeva la lingua, pensando che lui non se ne sarebbe accorto: sapeva che non era nelle sue intenzioni offenderlo, ma il detective, da quando entrambi erano riusciti a rivelarsi per ciò che provavano l’uno per l’altro, aveva ancora molte difficoltà nel richiedere effusioni. John aveva impiegato parecchi giorni prima di convincerlo a dormire in stanza con lui, senza dover sgusciare via dopo essersi uniti, e da quel momento non erano certo mancati baci, carezze, discussioni su cosa sarebbe successo da lì in poi. Ma, pensò il medico, il più delle volte era lui stesso a esporsi. Sherlock era ancora chiuso, quasi spaventato da quell’intimità così surreale e repentina.
Così decise che, per una volta, avrebbe dovuto essere Sherlock stesso a cercare di aprirsi.
 
«Avrei potuto aiutarti abbracciandoti io stesso, ma sarebbe stata una cosa forzata. Forse tu puoi trovare il momento adatto».
 
Il detective fece per aprir bocca, ma la richiuse immediatamente.
 
«Chissà, magari dopodomani, con il clima natalizio in casa, sentirai tu stesso il bisogno di abbracciare Lestrade, o la signora Hudson».
 
E detto ciò si allontanò in camera propria, gongolante per ciò che aveva appena fatto: per una volta Sherlock si trovava in difficoltà, ed era nell’interesse di entrambi che ne uscisse fuori da solo.
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I due giorni successivi trascorsero in maniera grottesca: Sherlock cercava in ogni modo di farsi abbracciare da John, utilizzando scuse come il fatto che avesse comprato il latte, che non si fosse lamentato eccessivamente del fatto che dovessero avere per forza degli ospiti la sera della Vigilia, e che avesse preferito rimandare i suoi esperimenti dopo le festività, dal momento che sapeva quanto John ci tenesse a quella festività.
 
La sera in cui arrivarono gli ospiti, ben vestiti e con sorrisi smaglianti, Sherlock rifletteva come uno stratega sconfitto più volte in battaglia. Si era reso conto del fatto che John si comportasse in tal modo per dargli una lezione, ed era convinto di dover smettere di comportarsi in un modo tanto sciocco per una mente eccelsa quale la sua, ma ormai la sua era una questione di principio: la gentilezza sembrava non funzionare, e neanche lo svenevole quanto inutile scambio di auguri con i presenti sembrò suscitare l’interesse del compagno;
fu una delle poche volte in cui Holmes si sentì sconfitto: non era naturale, per lui, cercare un abbraccio. Strappare bai a John quando meno se l’aspettava si era rivelato divertente ed alquanto eccitante, ma in quel caso si trattava di un qualcosa che trascendeva la sessualità.
Quasi si vergognava di ammettere a se stesso quanto lo agognasse. Era irrazionale desiderare di essere stretti fra le braccia di qualcuno: non aveva mai desiderato abbracci da Mycroft o da suo padre, né da chiunque avesse mai incontrato. E perché qualcun altro avrebbe dovuto desiderare i suoi?
Forse era normale per gli altri, ma lui non lo riteneva tale. Eppure qualcosa da dentro lo spingeva! Aveva letto delle reazioni che tali strette scatenano, ma le riteneva eccessive elaborazioni di pseudo scienziati che tentavano di dare  alla chimica dei sentimenti un senso logico.
Non era desiderio sessuale: quello scatenava in lui ben altre sensazioni. Era viscerale, nascosto e quasi doloroso, dal momento che non sembrava essere corrisposto. Avrebbe voluto alzarsi, dirigersi verso l’amante e stringerlo a sé.
Ecco, infine. Aveva trovato.
Possessione.
Il desiderio che nessuno, se non lui, avesse John Watson. Un abbraccio per dimostrare che erano soli, ma insieme e contro il resto del mondo, fra pericoli e avversità.
 
Entrambi sapevano di non potersi mostrare in pubblico, specialmente adesso che Sherlock era sull’onda del successo. Troppe malelingue, fastidiosi pettegolezzi che avrebbero reso ad entrambi la vita estremamente difficile. Ma faceva male.
John osservava Sherlock di sottecchi, e si rendeva conto della sua condizione, dal momento che era pari alla propria: avrebbe voluto prenderlo per mano e condurlo in mezzo agli altri. Non importava come si sarebbe comportato, ma voleva che fossero liberi di stare insieme alle loro condizioni, senza quelle imposte dalla fama che ormai si erano procurati.
 
Quella sera Sherlock non tentò di strappare abbracci a John. Questo la considerò una tregua, e quasi se ne dispiacque.
E fu solo quando la serata cominciò a scemare, quando gli ospiti se ne andarono, che i due parlarono fra loro.
 
«Hai rinunciato?»
 
Sherlock sollevò gli occhi dal regalo che gli aveva portato la signora Hudson, un maglione fatto a mano.
 
«Intendi il tentativo di farmi abbracciare da te? Son giunto alla conclusione che non so se desidero che avvenga».
 
John si bloccò con un bicchiere di vino sporco in mano, osservando l’amico a poca distanza da lui.
 
«Perché?»
 
«Perché non mi possiedi. E io non posseggo te. Io non sarò mai il tipico uomo che si lascia andare ad effusioni in pubblico, e farò difficoltà anche fra le mura di questa casa. Sarebbe ingiusto nei tuoi confronti, e se davvero un abbraccio significa--»
 
La risata di John risuonò cristallina nel salotto del 221B, e Holmes sembrò abbastanza confuso da quella reazione.
Tentò di interpretare quel gesto come un crollo del suo compagno, ma tuttavia aspettò che lui riprendesse fiato e si ricomponesse per poter chiedere spiegazioni, dopo che questo ebbe posato ciò che aveva in mano.
 
«Santo Cielo, Sherlock. Tu sei un genio, ma non capirai mai i rapporti più semplici, con tutte le loro implicazioni. Possessione? Non si tratta assolutamente di questo», cominciò, avvicinandosi al detective.
«E tu non lo capisci perché è vero, è irrazionale. Ma davvero una cosa priva di logica è sbagliata? Non è logico che io e te dormiamo nello stesso letto, che facciamo l’amore o che ci nascondiamo in vicoli bui quando non riusciamo a trattenerci dallo strappare un bacio all’altro. E anche in questo caso, non è razionale che io senta l’impulso di abbracciarti per il solo fatto che tu sia un idiota».
 
Sherlock fece per ribattere, quando John lo afferrò con forza per la camicia, stingendolo forte a sé, affondando la faccia nel suo petto e continuando a ridere, ma questa volta di gioia e gratitudine.
Costui rimase fermo immobile, le braccia alzate per la sorpresa. Incredibilmente, si sentì avvampare. Si riteneva così sciocco in quel momento, fra le braccia del suo migliore amico ed amante, senza avere idea di dove posare le mani. Poi, vinto l’imbarazzo, le mosse con lentezza, arcuandosi un poco su John per far sì che potesse stringerlo meglio. Non era come quando erano a letto. La differenza di altezza si notava, ma John non vi faceva caso, e continuava a stringere l’altro, le mani a stropicciare la camicia.
Quando avvertì l’amico sciogliersi, sollevò lo sguardo sorridendo.
 
«È così pessimo?»
 
Sherlock non rispose, andando ad abbassarsi per stringere ancora più forte John e infossare il volto nella sua spalla, inspirando il suo odore, a cui era diventato talmente avvezzo.
 
«Sherlock?»
 
Il detective rispose con un mugolio.
 
«Ti amo».
 
John non sentì alcuna risposta, ma l’aumentare della stretta e il risolino soddisfatto che giunse dalla sua spalla lo spinsero ad allontanare l’amico, prenderlo per mano e trascinarlo nella propria stanza.
Gli abbracci avrebbero atteso.
 




Note finali: *fugge verso l'orizzonte*
   
 
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