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Autore: Blues Girls    30/12/2013    23 recensioni
«Non.. trovo.. la.. mia.. forbice.» scandii ciascuna parola con asprezza, mettendo in chiaro lo scenario che si doveva presentare.
«Ti chiedo di leggere solo questo, solo questo Eeva; l'ho trovato nel quotidiano di ieri.»
Le strappai di mano il pezzo di giornale che mi porse, digrignando i denti.
'Harry Styles, finora l'ultimo membro selezionato per far parte delle Scelte, la scorsa notte è riuscito a scappare dalla sede ufficiale del concilio, a Stoccolma, capitale della Svezia: da giorni, decine di guardie, hanno tenuto sott'occhio il giovane ragazzo, ma questo non sembra averlo intimorito. Sconosciuto ancora il motivo concreto della sua fuga, ed anche la sua direzione. Maggiori informazioni alla pagina sedici.'
«E comunque no, non ho visto nessuna forbice nello studio.»
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio, Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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A Sofia, il mio paradiso sulla Terra.

 

Eighth.

People come and go.

 

Le sputai in faccia con asprezza, urlandole contro che non avevo bisogno della sua stupida forbice, e che se, casomai ne avesse trovata una simile, avrebbe fatto meglio ad usarla per tagliarsi la lingua.
Battei forte i palmi sul tavolo, rivolgendole uno sguardo di rimprovero; l'intenzione era quella di fare una scenata, ed andarmene con la quiete dei frastuoni in sottofondo.
Fu la stessa quiete ad immobilizzarmi.

Se il silenzio avesse potuto esprimersi nella forma più comune da me conosciuta, avrebbe gridato il mio nome e numero di riconoscimento per ore o giorni, con straziante furore e malinconia; era come se l'invisibile eco di quell'impercettibile suono si fosse imprigionato nei meandri della mia complicata mente, e stesse facendo una fatica immensa per provare ad uscirne a causa degli innumerevoli pensieri che non facevano altro che investirlo, interrompere i suoi piani di fuga, e calpestare i suoi stessi passi con pratica indifferenza.
Non si mostrava davanti a me per quel che in realtà volevo che fosse, ovvero una lieve nota ascoltabile e non particolarmente fastidiosa, ma anzi; il forte fischio che mi giunse alle orecchie senza preavviso stava cominciando ad intensificarsi sempre di più, causando lo sgorgare ininterrotto di sangue dal lobo sinistro. Il messaggio era palese, vivido nel riflesso del mio viso contratto sull'enorme specchio d'epoca appeso alla parete dinanzi a me; avrei dovuto imparare la lezione una volta per tutte: mai oltraggiare il silenzio senza un esplicito invito.
L'avevo fatto, di nuovo.
L'incontro improvvisato con Louis Tomlinson di qualche notte fa, giudicato dalla mia mente solo come un modo sprezzante per infierire maggiormente al mio instabile umore, non poteva definirsi solo un caso, nonostante il ragazzo fosse abbastanza conosciuto per la sua eccellente capacità nel mettere sempre il coltello nella piaga; senza esserne consapevole, in quella situazione, avevo cercato di allontanare dalla mia sfera uditiva il maggior numero di rumori possibili, e di conseguenza, avevo tentato di di non toccare terra con i piedi. Se scappare e prendere il largo non faceva assolutamente parte della mia lista di 'cose da fare', fuggire dalla realtà, anche solo per pochi istanti, mi sembrava l'unica soluzione.
Evidentemente, qualcuno voleva farmi cambiare idea a tutti i costi.

Trattenendo il piccolo pezzo di carta nel pugno della mano destra senza motivo, la sinistra non esitò ad appoggiarsi sull'orecchio ferito, noncurante di sporcarsi. Sentii la parte lesa della mia testa intorpidirsi per via della quantità eccessiva di sangue in circolazione; un brivido violento attraversò tutto il corpo, facendomi cadere pesantemente sul pavimento di schiena. Schiantata contro terra, liberai dalla gabbia toracica il bisogno irrefrenabile di urlare a pieni polmoni, lasciando echeggiare il grido assordante in tutta la stanza e forse oltre. Tentai di divincolarmi a scatti dal nulla, dando pugni e calci nell'aria in tutte le direzioni, aumentando progressivamente il dolore, sempre se tale si poteva definire. Persi il pieno controllo della ragione quando mi sentii in dovere di definire meglio quella sensazione, quando la lama affilata ritornò ad incidere un messaggio sul mio ventre, sui tagli resi nuovamente freschi. Sottoposi le mie corde vocali ad uno spreco abnorme d'energia e fatica gridando, tra gli spasmi, suoni simili a pezzi di parole, incomprensibili, e per qualche istante ebbi quasi la certezza che anche la gola stesse iniziando a versar sangue.
Non lo sapevo.
Inarcai ripetutamente la schiena, alternando i movimenti incontrollati delle gambe e delle braccia a degli strepitii forsennati. Strinsi le spalle, percependo nell'incavo del collo il liquido gelido e scarlatto che circondava la mia figura stesa sul suolo; ne potevo odorare l'essenza vuota ed inappagabile, tipica del sangue freddo che scorre nelle vene di tutte le creature vorjosiane. Ancora una volta, la vista si appannò per le lacrime che, senza volerlo davvero, si erano aggiunte alla pozza sottostante il mio corpo; ignorai l'irruento pulsare dell'orecchio sinistro, provando invece a sedermi in qualche modo. I capelli appesantiti e gocciolanti, gli occhi socchiusi, la striscia di sangue che fuoriusciva dalle labbra screpolate, le spalle bagnate, i pugni serrati, l'insensibilità temporanea degli arti inferiori. Il busto barcollò avanti e indietro un paio di volte, prima di trovare l'equilibrio necessario per non cascare all'indietro.
«Hai finito?»
Alzai lentamente il viso in direzione della voce, ovattata per qualche strano motivo che non avevo intenzione di indagare.
Non era il momento.
Viktoria, lo sguardo insensibile e privo di emozioni, aveva assistito all'intera scena senza proferir parola come da copione, abituata a simili imprevisti nel suo studio da parte mia e di altri studenti, ma soprattutto mia. Soffrire era un pane quotidiano che qualunque essere era costretto ad ingerire, anche quando l'individuo preso di mira in questione ne era più che sazio. Tutti sapevano questo.
Il ronzio nell'orecchio persisteva ancora, ed ancora. D'un tratto si bloccò.
«Vi... Vicki.» biascicai in tono smorzato.
Tirai la testa indietro, esprimendo un lamento agonizzato con la poca voce che mi rimaneva in gola. Strofinai gli occhi e il naso con la stoffa asciutta della manica della felpa, e ritentai di dire qualcosa. Non avrei voluto continuare ancora per molto a trascinare i termini con forza, perseguitando le parole perse di vista.
«Portami Sigmund, Vick.»
«Dovrei? Sai, in questo momento non-»
«Fallo e basta.»
Evitai di sbraitare, questa volta. Perso l'udito di un orecchio, non avrei corso il rischio di mettere a repentaglio anche la funzionalità dell'altro.
Il silenzio aveva avuto la sua vendetta.

**

Sigmund Freud era come chiunque altro finlandese, freddo di fatto e di natura, niente di così speciale da caratterizzare o rendere differente la sua impronta psicologica. Era un dettaglio nel suo aspetto fisico, invece, a cogliere di spiacevole sorpresa tutti quelli che lo incontravano. I lisci capelli biondi, folti e costantemente spettinati; le sopracciglia altrettanto bionde e sottili; le lentiggini chiare, cosparse per tutto il viso e forse tutto il corpo; il piccolo naso; gli zigomi alti e scolpiti; le guance asciutte e le labbra pallide ed esili; fin qui, era tutto nella norma. Sid, a causa di un ennesimo errore di Belfagor, era stato creato con gli occhi color grigio chiaro, così trasparenti da potersi facilmente confondere nella retina dell'occhio, se non fosse stato per la spessa linea blu notte a contornare la pupilla. Inoltre, Sigmund Freud, quindici anni passati dal suo diciottesimo, non aveva ombra. Non riuscivo a comprendere l'importanza di avere di continuo, a seguito di ogni tuo passo, un sagoma oscura che insisteva ad accompagnarti in qualsiasi posto tu volessi andare; diversamente, 'Mundo' ne era distrutto, senza darlo troppo a vedere.
Una banale storia sul suo conto raccontava che la sua ombra insolente, un tempo esistita, avesse preso d'un tratto vita, e se ne fosse andata per darsela a gambe altrove, lontano dal suo noioso padrone. Perché si, Freud si mostrava a tutti come una persona intelligentemente soporifera.
Un'altra ancora, ne spiegava l'inesistenza ipotizzando che fosse solo scomparsa col tempo, dissolvendosi nel nulla piano piano.
Sigmund non aveva mai provato a confermarne una, come anche a negare la verità dei fatti.
Era quello che Justin aveva aggiunto infine, dopo che l'argomento era saltato fuori per caso.
Justin.

Se avessi potuto muovermi più agilmente, quel momento l'avrei impiegato singolarmente a cercare Justin per tutto l'edificio; invece, mi ritrovavo nella piccola infermeria della scuola, raggiunta quasi strisciando con l'unico appoggio dei muri. Il sangue stava cominciando a coagularsi, e in poco tempo rimasero solo i rivoltanti raggrumi attaccati alla pelle.
Sciacquai la testa e le braccia sotto il rubinetto del lavandino, concentrandomi maggiormente sulla zona del collo e dell'orecchio deturpato. Avvertii la necessità d'interrompere i movimenti per almeno qualche secondo, e quindi fare in modo che la testa smettesse di girare; accostai il capo allo specchio sopra il lavandino posto alla mia altezza, la fronte rivolta verso il basso e le palpebre socchiuse. Pensieri immaturi presero vita e, in quell'occasione, mi parvero piuttosto giudiziosi: volevo farla finita, sentire nella mia gola infiammata il cattivo sapore del Nihilo e morire bruciata, il suicidio che avevo prestabilito in passato, in caso fossi morta prima del mio diciottesimo. Le gambe vacillarono, nonostante fossero ferme in un punto preciso, e non sapevo per quanto ancora avrei resistito a trattenere quella posizione.
Scossi il capo ripetutamente, e levai lo sguardo.
Uno volto familiare cominciò a scrutarmi attraverso la superficie riflettente, distogliendo gli occhi molteplici volte e mordendosi le labbra; l'immagine era alquanto sfuocata, ma in poco tempo riuscii a riconoscere quella bandana nera legata tra i capelli mossi, il colletto sbottonato del pullover color della pece, e... l'occhio di vetro. L'occhio di vetro dei membri delle Scelte.
Harry, Harry Styles.
Le labbra tremanti, il pianto disperato e l'espressione di sconforto evidente nel suo viso.
Sbattei le palpebre una sola volta prima di realizzare che la figura era già scomparsa dallo specchio. Volevo solo essermelo immaginata.
«Ora so a chi appartiene la scia di sangue nel corridoio.»
Mi voltai di spalle, le braccia più o meno tese a sostenere il mio corpo, identificando con sforzo il volto di Sigmund e l'aria ripugnante nel vedermi... così.
«Certo, ora capisco; urla feroci, tracce di sangue sui muri, il tuo aspetto disgustoso, sei più sei: il tutto conduce a te, Eeva Duecentoventidue. Allora, che vuoi?» aggiunse poi, accomodandosi nel lettino dove qualche giorno fa Justin stava avendo un attacco di panico.
Dovevo smetterla di pensare a Justin.
«Chi, chi ti ha detto di venire qui? Non mi sembra di averti chiamato.»
Vidi la sua mano avvicinarsi ad un cuscino azzurro pastello e lanciarlo con veemenza nella mia direzione, cancellando definitivamente i residui della mia precaria stabilità; benché fosse solo uno stupido cuscino, il petto non fu in grado di reggere l'impatto, e scivolai a terra, sbattendo la testa contro il lavandino. Non era giornata, non lo erano mai state.
«Stordita più che mai, a quanto vedo; e smettila di fare quella faccia, mi devi un favore. Con la botta ricorderai di avermi chiamato attraverso Viktoria, e che non è facile smentirmi dato che racconto solo verità.» sibilò le ultime parole con fare inquietante, esponendo in avanti il capo.
Aggrappandomi alla parete, riuscii a raggiungere in fretta il letto e sedermi accanto a lui; gli sfilai dal braccio un laccio per capelli, non ricevendo alcuna protesta, e legai la massa bruna in una disordinata coda alta.
«Che scena penosa; non credo di avere altro tempo da perdere qui.» fece per uscire, quando il mio braccio afferrò il suo, e lo costrinsi a ritornare dov'era. Cercai di trattenere il suo sguardo e forzarlo a scrutare il mio, alla ricerca opprimente di parlare con qualcuno.
Sigmund l'avrebbe capito; confermò il pensiero annuendo.
«Volevo correre, Sid, correre ed andare via da qui pur di non provare a morire; come se la morte potesse scomparire solo svoltando l'angolo, solo cambiando aria. Sai quanto me che non è così. Perciò ho pensato, ho pensato molto, e sono rimasta qui; ma mentre pensavo, dubbi che avevo bloccato sul crearsi si erano fatti notare di nuovo, ed ora non riesco più a liberarmene. Ho pensato a te, a me, ad Harry Styles e a tutte le persone che come noi hanno qualcosa che non va per via di Belfagor; alla possibilità che ci possa essere dell'altro dietro a questa storia, altre chance di cui noi non siamo a conoscenza.»
Sid guardava fisso davanti a sé, la mente assorta in chissà quali pensieri; gli scossi il braccio come per svegliarlo, e lo sentii rabbrividire. Scattò in piedi davanti a me, cominciando ad indietreggiare in direzione della porta.
«Qualunque cosa tu voglia fare, io non ho intenzione di farne parte.»
«Io non ho ancora intenzione di fare niente.»
«Qualunque cosa tu voglia fare, io non ho intenzione di farne parte.» ripeté il ragazzo, alzando le braccia in aria e lo sguardo sconvolto.
«Qualunque cosa tu voglia fare, io non ho intenz-» la frase fu interrotta da un tonfo, e in un momento Sigmund si ritrovò sdraiato al suolo.
Harry fece irruzione nella stanza e si guardò attorno, in un primo momento, con un atteggiamento spaesato, disorientato; si avvicinò più sicuro al lavabo, riempendo un bicchiere d'acqua e bevendolo in fretta, per poi risputarlo nel lavello. Indossava lo stesso pullover e la stessa bandana color nero che avevo visti riflessi nello specchio; non mi ci soffermai a lungo, con gli occhi incatenati ma non sorpresi sul corpo disteso di Sid.
«L'ho solo fatto svenire, è una tecnica che insegnano a Stoccolma. Ti ci porterò un giorno, Miss
Miss, diminutivo della parola svedese 'missfoster', che in finlandese corrispondeva alla parola 'mostro'.
Era così che Harry mi chiamava ogni volta, un tempo. Ma questa volta era diverso, chiaramente diverso.
«Non ricordi il mio nome, eh?» domandai disinteressata, fissando il suo occhio di vetro; il suo aspetto non era cambiato da qualche anno fa, sempre il solito trascurato e indispensabile, ma la sua voce era diventata più roca ed orecchiabile.
Una fitta all'altezza del petto cominciò a divampare, e non seppi spiegarmi di cosa si trattasse.
«Sto tentando in ogni modo di ricordarmelo, ma niente, il vuoto più totale. Come ti chiami?» chiese a bassa voce, spostandosi nel posto dov'era seduto prima Sigmund, non prima di aver scavalcato il suo corpo. Cautamente, prese la mia testa e la scortò sulla sua spalla, circondandomi la vita. Solo in quel momento capii quant'ero affamata di contatto.
Girai la testa, incontrando il collo caldo sotto il bavero del maglione; con un gesto della mano, ripiegai il colletto e vi ci appoggiai solamente le labbra screpolate, senza alcun movimento in seguito. Pronunciai sul suo collo un tenue 'Eeva' che speravo avesse sentito lo stesso.
Harry abbassò lo sguardo, e soffiò sulla fronte le seguenti parole che avvertii a malapena.
«Miss, abbiamo un'ora scarsa prima che io ridiventi pazzo.»



MEGA CRIBIO.
È passato tanto tempo, lo so, perciò vi chiedo di perdonarmi. 
Non avevo idea, ne voglia di scrivere. Non ho molte cose da dire, credo.
Per chi ha pensato che, appena incontrati, Eeva e Harry si sarebbero scannati, tenetelo a mente, forse.
Per chi ha pensato invece che si sarebbero riconciliati in memoria dei vecchi tempi, beh, USCITE DA QUESTA STANZA. Volevo dirlo, ahah. .
Non so cosa fare coi due. Vorrei tanto sapere cosa pensate del capitolo, che tutto sommato, a me piace tanto.
Dato che non ho idee per il prossimo, ma proprio niente di niente, che ne dite di aiutarmi un po' voi?
Non lo so, potreste provare ad immedesimarvi nei personaggi, per esempio. Sempre se volete. (:
HO UN BANNER, che non rimarrà per sempre. L'ho fatto io, ieri. 
Se ne volete uno, basta chiedere per messaggio o anche su Twitter. 
Grazie mille per tutto, alla prossima volta.
Sara.

 

Se volete seguirmi su Twitter, schiacciate sull'immagine sottostante.

 
   
 
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