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Autore: nebula91    22/05/2008    3 recensioni
"Era spaventata da quello che era realmente: un demone." Lottare contro se stessi, andare contro natura non è semplice.
Storia partecipante al Fantaconcorso indetto su Immaginifico.
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Salve, cari lettori,
questo racconto, il mio primo fantasy, partecipa al concorso indetto su Immaginifico (Fantaconcorso: II edizione. Music Inspiration).
Essendo scaduta solo l'altro ieri la data di consegna ancora, ovviamente, non sono disponibili i risultati, ma non appena ne saprò qualcosa aggiungerò nelle note.
Di seguito il link al bando di concorso: http://immaginifico.freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=7306741&p=1
Il set da me scelto è il #021: The Mourning after [Il dolore dopo].
Non so come giudicare questa storia, so solo che scriverla è stato molto bello, e spero che lo sia un po' anche leggerla. ^^
Benvenuti quindi nelle terre di Arankos e buona lettura.
Sono sempre graditi commenti, recensioni, critiche e complimenti! :P


Eccomi ad aggiungere i giudizi ricevuti. Giudizi che condivido pienamente.

Galadwen:
La storia è interessante, lo stile scorrevole e nel complesso buono. L'idea alla base è buona, anche se non originalissima, però sa farsi apprezzare; tuttavia penso che si potesse sviluppare meglio: l'impressione che ho avuto è di una storia costruita più sul titolo e sul tema che sull'idea di base. Il finale, di conseguenza, ne risulta un po' affrettato e in qualche modo forzato. Ho apprezzato molto il paragone del ciliegio, comunque, e l'uso del tema, richiamato come sentimento; mi sono piaciuti molto anche i dialoghi fra Leon e Reine, che ho trovato vivaci.
Per quanto detto prima, però, e per alcuni errori di ortografia/battitura (troppi per non considerarli in un testo tutto sommato breve) la votazione non può essere alta.
6.25

Bluemary:
Ho molto apprezzato l'idea di una protagonista con sangue demoniaco, alle prese con una fame che avrebbe potuto renderla un pericolo per la sua stessa gente ed il difficile rapporto con una simile natura e con Leon, l'amico a cui vuole bene che potrebbe diventare una sua vittima. Questi ottimi spunti, però non sono stati sfruttati pienamente, secondo me: avrei preferito un maggiore approfondimento su questa strana razza demoniaca, sulla reazione di Raine alla propria situazione e delle persone attorno a lei, concetti che nella prima parte della storia sono stati poco più che abbozzati e forse se sviluppati meglio avrebbero emozionato in misura maggiore.
Lo stile, prevalentemente corretto e scorrevole, seppur privo di un linguaggio molto ricercato, assume tinte poetiche nelle ultime righe, in cui Raine trova il ciliegio in fiore. L'analogia che ne scaturisce mi è davvero piaciuta.
Nel complesso giudico questa una buona storia, che a causa di alcune sviste o errori di battitura e di una trama non eccessivamente originale, non può superare un punteggio di 6.5

Il ciliegio impazzito*

di nebula91

*In Giappone si dice “fioritura impazzita” quando un albero fiorisce fuori stagione.

Una lunga scalinata di marmo conduceva ad un viale alberato. In lontananza si scorgeva l’imponente monte Kòreo, già imbiancato dalla prima neve. Nelle terre di Arankos si stava facendo giorno e la fioca luce dell'alba illuminava ogni luogo.
Una ragazza ammirava il panorama dalla cima della scalinata che in quel momento appariva dorata agli occhi di quell’unica osservatrice.
Oltre il viale si vedevano le prime case del villaggio che, anche se dalla scalinata era impossibile percepirlo, si stava svegliando e le prime voci rompevano il silenzio, disturbando la quiete che fino ad allora aveva regnato sovrana.
La ragazza aveva il volto contratto: cercava qualcosa.
“Non ricordi più la sua posizione, Raine?”
In risposta la ragazza emise un grugnito.
Non c’era bisogno di voltarsi per capire chi avesse parlato. Anche se erano passati dei mesi dalla sua partenza, aveva associato senza problemi la voce al suo proprietario.
“Leon, taci” disse Raine, concisa come sempre.
“Va bene, ma se fossi in te, io lo cercherei dall'altro lato del viale” ribatté lui.
Questa volta Raine si volto in direzione del suo interlocutore.
“Hai capito che ho ragione, eh?” disse Leon in tono canzonatorio.
Raine lo fulminò con lo sguardo.
“Fuoco e fiamme, morte e infauste premonizioni, non guardatela negli occhi!”
L’espressione tesa di Raine si sciolse in un sorriso, mosse qualche passo e strinse Leon in un abbraccio.
“La tua pessima ironia mi è mancata tantissimo, amico mio”.
“E tutta questa dolcezza da dove viene? Sicura di essere la mia Raine?”
“La tua Raine? Io non sono proprio di nessuno!”.
“Oh, sì, sei tu, sei tu!” Leon fingeva emozione e sorpresa.
I due ragazzi risero insieme, di gusto, come l’ultima volta che si erano visti, prima che Raine partisse per il suo abituale “viaggio estivo” come si divertivano a chiamarlo tra loro.
Raine lo ricordava chiaramente quel giorno. Mancava poco alla sua partenza, ma stranamente già percepiva l’istinto di fame demoniaca in anticipo di una settimana. Così quella sera aveva deciso di parlarne con Leon.
“Leon, ho fame” aveva detto tutto d’un fiato interrompendo il silenzio. Erano in riva al lago, cercando di pescare qualche trota.
“Un altro paio di pascetti e andiamo. Mamma ne farà un piatto delizi…”.
“No, non quella fame” lo aveva interrotto lei.
Leon aveva rabbrividito per un solo istante che era però bastato a Raine per captare la smorfia sul suo volto.
“Oh, non preoccuparti, so controllarmi”.
“No, io… non ho detto nulla”.
“Non cercare di ingannarmi, Leon. Sai che in questo periodo il mio istinto e i miei sensi sono portentosi, ho percepito la stizza di paura”.
L’amico abbassò lo sguardo, abbattuto.
“Sono un mostro” aveva sussurrato lei.
“No, Raine. Se fossi stata un mostro mi avresti già mangiato. Tu sei un essere umano con qualche problemino con il cibo e e hai solo bisogno di stare a dieta.
I due avevano incrociato gli sguardi ed erano scoppiati a ridere.
La pessima ironia di Leon.
Per il resto del tempo che aveva preceduto la partenza però, Raine era sempre rimasta in allarme. Era spaventata da quello che era realmente: un demone.
Le origini di questa razza erano coperte dal mistero, alcuni parlavano di un accoppiamento tra uomini e lupi, ma probabilmente era soltanto mitologia. Anche se di numero nettamente inferiore rispetto a quella umana, la razza demoniaca aveva dilagato terrore nei secoli passati. Questi esseri, principalmente carnivori, infatti, affrontavano un periodo in cui, sopraffatta la ragione, l’istinto li comandava e, spinti da una particolare fame, la “fame demoniaca”, si sfamavano con carne umana.
Alcuni, i voraci li chiamava qualcuno, attaccavano gli umani anche nel resto dell’anno e le vittime da loro causate avevano attirato a se l’odio e la paura degli esseri umani.
Raine però, grazie anche alla famiglia di Leon che, a dispetto di tutti i pregiudizi, l’aveva accolta in casa e cresciuta, aveva sempre combattuto per domare l’istinto.
Durante il periodo della fame demoniaca, quindi, Raine si allontanava per non ferire nessuno. La partenza ricadeva sempre dieci giorni dopo l’equinozio di primavera, ossia una settimana prima dell’arrivo della fame. In quella settimana abbandonava le terre di Arankos e, diretta verso luoghi disabitati, si cibava di cadaveri recuperati durante il viaggio. Uomini che morivano attraversando quei luoghi pericolosi non mancavano e per lei un solo corpo adulto era abbastanza.
Ogni anno però quell’unico pasto era un’esperienza terribile. Cibarsi con della carne umana, anche se si trattava di cadaveri e non compiva nessun omicidio, la faceva sentire una creatura mostruosa. Mentre dominata dall’istinto squartava con i forti denti il tessuto della pelle arrivando agli organi, a volte la coscienza tentava di riprendere il controllo, era una stremante lotta interna che si trasmetteva anche sul fisico. Poteva quasi sentire il dolore che insieme al rimorso dovuto alla ripresa di coscienza traspiravano sulla pelle. Fortunatamente quando giungeva al culmine della sofferenza il corpo cadeva in una sorta di letargo che, per quattro mesi, addormentava tutti i sensi. Raine si era costruita un rifugio dove trascorrere quel tempo in cui, indifesa, rischiava di essere attaccata.
Ormai persa nei ricordi Raine fu riportata alla realtà dall’amico.
“Dai, scendiamo giù al villaggio. Se mia madre scoprisse che non ti ho portata di corsa a casa per la colazione…”.
Leon non completò la frase, ma l’espressione impaurita sul suo volto era inequivocabile.
Il ragazzo, robusto e non molto alto, prese Raine per il braccio e cominciò a scendere le scale. Lei si faceva trasportare senza obiettare: era troppo stanca per dirgli che “non era un oggetto da prendere e trascinare”. Come se avesse udito i suoi pensieri Leon si fermò di colpo.
“Raine…”.
“Sì?”.
“Bentornata, amica mia”.

Scesa la scalinata Raine si liberò dalla presa. Era quasi Autunno, gli alberi iniziavano a spogliarsi e le loro foglie cadendo sul terreno andavano a formare un fitto tappeto colorato.
Raine amava l’autunno. Era la stagione in cui tornava a casa e vi legava tutti i suoi ricordi più belli.
Si avvicinò lentamente all’unico ciliegio del viale, quello che cercava poco prima. Era insolito trovarne da quelle parti e per questo lo amava molto. In primavera i suoi fiori di un rosa delicato, a contrasto con il grigio della corteccia, erano di un’eccezionale bellezza. Passò una mano sulla liscia corteccia e sorrise.

“Aspetta, nasconditi qui dietro” Leon le stava indicando un robusto albero. “Voglio fare una sorpresa alla mamma”.
Raine si nascose dietro al tronco. Leon batté tre volte il pugno sulla porta di legno scuro.
“Ce l’hai fatta!”. Una voce stridula proveniente dall’interno rispose al “toc toc”.
“Che bastardo! Sta approfittando del mio ritorno per non farsi rimproverare, altro che sorpresa” sussurrò Raine tra sé e sé.
“Dai, mamma, ho un buon motivo”.
“E sentiamo: quale sarebbe?”
“Ehi, esci fuori”.
Raine uscì allo scoperto senza dimenticare di dare un colpetto alla testa del ragazzo, per ripicca.
Gli occhi giallognoli di Aeglesia, simili a due pietre d’ambra, si inumidirono e la proprietaria corse ad abbracciare la ragazza.
Quando Raine aveva cinque anni durante una caccia con il resto della famiglia, un gruppo di demoni voraci, si era allontanata dal gruppo e dispersa. Dopo aver viaggiato per alcuni giorni era giunta in quel villaggio. Tutti la scansavano; per quanto molto simili agli esseri umani i demoni avevano delle caratteristiche fisiche inequivocabili: gli occhi scuri e minacciosi, il corpo atletico, i canini particolarmente sviluppati.
Aeglesia però non aveva visto aggressività in quel piccolo essere, ma soltanto paura. L’aveva accolta in casa e cresciuta insieme ai suoi figli. La piccola non aveva presentato segni della fame demoniaca fino a quattordici anni; così anche il villaggio, con il passare del tempo, l’aveva accettata.
La donna si asciugò le lacrime e baciò le guance della figlia adottiva.
“Leon, figlio sfaticato, non ti avevo chiesto di portare l’acqua? La cara Raine conosce la strada di casa, non c’era bisogno che l’accompagnassi. Vai, subito”.
Leon, che nel frattempo era entrato in casa e stava mangiando una mela, si avviò al pozzo con aria scocciata. Ovviamente non prima di aver mugugnato un ironico “ai suoi ordini!”.


Quando giunse ottobre il Signor Autunno portatore di venti e piogge, giocando con l’arcobaleno colorò le foglie finché esse, stanche di questo gioco, cadevano a terra, sfinite.
Il villaggio si preparava ad affrontare l’inverno, che in quei luoghi al di sotto delle montagne era lungo e freddo.
Aeglesia aveva organizzato il lavoro e diviso i compiti tra i membri della famiglia. Leon e Raine dovevano occuparsi dei campi e di raccogliere la legna.
Quel mercoledì mattina la nebbia aveva ricoperto il villaggio, e i due ragazzi erano stati svegliati molto presto poiché dovevano sbrigarsi a svolgere le loro mansioni prima che la notte, ancora più scura per via della nebbia, avrebbe impedito loro di lavorare.
“Raine, tu vai nei campi, io a raccogliere la legna” disse Leon mentre si dirigevano oltre il villaggio. “Forse dividendoci il lavoro riusciremo a finire prima” continuò il ragazzo e senza attendere risposta si avviò in direzione del bosco.

Per tutta la mattina Raine lavorò senza sosta, con il pensiero fisso sull'atmosfera familiare che, di lì a pochi giorni, terminati tutti i preparativi, si sarebbe potuta godere.
Solo giunta l’ora di pranzo si concesse una pausa e con i contenitori pieni dei frutti che la stagione offriva, tornò a casa.
Cecilia, la dodicenne sorella di Leon, era particolarmente eccitata: aveva superato l’infanzia e per la prima volta aveva anche lei dei compiti da svolgere.
“Frena l’entusiasmo, presto te ne stancherai anche tu di tutto questo lavoro” le aveva detto Raine sorridendo.
Leon non si fece vedere neanche durante il pranzo.
“Lo conosco bene mio figlio, pigro com’è starà dormendo nel bosco” disse detto Alectos scaturendo la risata del resto della famiglia.
Quando però nel primo pomeriggio Raine, terminato il lavoro per quel giorno, tornò a casa, scoprì che Leon non si era ancora fatto vedere. Così, un po’ preoccupata, andò a cercarlo.
Con la nebbia ancora fitta, il bosco appariva più tetro del solito. I primi alberi, alti sempreverdi, erano largamente spaziati tra loro; addentrandosi questo spazio diminuiva, creando di sentieri molto stretti. Nessuno sapeva di preciso per quanti ettari si estendesse poiché si era soliti viaggiare per altre vie e si poteva soltanto ipotizzare cosa ci fosse oltre.
Camminando per un angusto sentiero, dopo una decina di minuti Raine trovò un carretto ricolmo di legna. Era certamente quello adoperato da Leon. Raine non ebbe il tempo di riflettere che fu attaccata alle spalle. Non appena scontrò la guancia contro il terreno umido, fece forza sugli arti e si sollevò, ritrovandosi faccia a faccia con il suo aggressore.
Un paio di scuri e aggressivi la guardavano.
“Dov’è Leon?!” ringhiò lei assumendo lo stesso sguardo del demone che aveva di fronte.
“Leon? Parli forse di quell’umano?” rispose la creatura indicando con la mano un corpo inerme, diversi metri più in là.
Raine corse in quella direzione. Il corpo dell’amico era stato mutilato e scorticato in più punti. Era quasi irriconoscibile anche per lei; i capelli, un tempo biondo cenere, erano ricoperti di sangue così come lo era il resto del corpo.
“Sai”, iniziò l’uomo che nel frattempo l’aveva raggiunta “era un lottatore. Ho dovuto ucciderlo prima di cibarmi delle sue carni. Avrei preferito farlo ascoltando la sua sofferenza, ma ha deciso di opporre resistenza” disse il demone che, ridendo, aveva esposto alla luce i canini ancora macchiati del sangue di Leon.
Raine mostrò a sua volte i denti. In un altro momento lottare contro un vorace le sarebbe parsa un’idea folle, ma adesso la ragione non aveva più il comando. Sentiva il sangue scorrerle nelle vene, nei capillari e fluire per tutto il corpo donandole una forza incredibile. Voleva massacrare l’assassino del suo migliore amico. In quella lotta corpo a corpo, dettata dalla rabbia e dall’istinto mostrò una combattività degna delle sue origini.
Il demone era steso a terra, immobile, probabilmente svenuto. Raine, con il respiro corto per la fatica, gli toccò il petto. Avvicinò i denti all’altezza del cuore e morse con tutta la forza e la rabbia che aveva in corpo, iniziando a sfamare non solo l’istinto demoniaco, ma anche la sete di vendetta.
Con un forte colpo gli spaccò lo sterno e alcune ossa si ripiegarono all’indentro forando il cuore che avevano sempre protetto. Quello, dopo gli ultimi spasmi, tacque per non battere mai più. Raine lo avvicinò alle labbra e si dissetò in quel lago di sangue, il cui sapore amaro, a contrasto con quello dolce della carne, le inebriò la gola. Tale sapore sembrò risvegliare la coscienza.
Aveva ucciso un uomo e ora si stava cibando del suo stesso crimine. Il rimorso scoccò la freccia e la colpì. Un dolore lancinante originato dal petto si diffuse nel resto del corpo.
Tentò di alzarsi da terra, ma le forze le vennero a mancare. Strisciando raggiunse l’apertura di una piccola caverna e vi si rifugiò. Di lì a poco quel dolore sarebbe stato assopito dal letargo.

Un vento freddo soffiava sulle terre di Arankos quel giorno di metà febbraio. L’inverno quell’anno era stato particolarmente rigido ed esitava ancora ad andarsene.
Raine si era svegliata dal letargo come se quei quattro mesi non fossero mai trascorsi.
Aveva scelto di andarsene e adesso, percorrendo il villaggio che per i mesi invernali era stato abbandonato dai suoi abitanti, si dirigeva verso il viale alberato decisa ad abbandonare per sempre quei luoghi.
Ai piedi della scalinata un ciliegio era in fiore. Raine strabuzzò gli occhi scuri incuriosita da quello stranissimo evento. Ma qualcosa nella sua testa le disse che non era inspiegabile. Non era lei stessa una creatura che lottava contro la propria natura?
Si avvicinò a quell’albero e si sedette con la schiena contro il tronco. Lacrime silenziose scorrevano sulle sue guance, in quella calma mattutina; mentre sulla sua testa i fiori rosa pallido del ciliegio impazzito si mischiavano con il candido bianco della neve.

  
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