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Autore: m a y h e m    30/12/2013    4 recensioni
[Cast Lost]
[Cast Lost - Matthew Fox]
“La mia faccia è inguardabile: sono stanca, ho gli occhi arrossati dalle tante ore davanti allo schermo del computer e vorrei piangere tutte le lacrime di questo mondo, perché ho appena constatato di aver lasciato il portafogli in ufficio, sulla scrivania, dall’ultima pausa caffè che mi sono concessa durante il lavoro. Non so in che lingua maledirmi.”
Scritta per le mie Daydreamers, un po' in ritardo è arrivata! ♥
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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base

Lost and found
— a Daydreamers’ carol —

 

 

 

23 dicembre
È il ventitré dicembre, fa freddo – fa molto più che freddo ma probabilmente, se commentassi a dovere, gli epiteti che uscirebbero dalla mia bocca sarebbero molto meno fini –, il mio capo mi ha appena detto che domani devo venire al lavoro – «Sono straordinari, Grace, sono pagati doppi!» mi ha detto, ma la cosa non mi rincuora più di tanto, anzi – e questo è l’ennesimo Natale che passerò sola come un cane.
       Naturalmente, non ammetterò mai – soprattutto con quell’arpia di mia madre, che vuole solo vedermi sposata e circondata da pargoli urlanti – che l’idea di accettare il posto di lavoro che mi hanno offerto qui a Bend, in Oregon, è stata la scelta peggiore che ho fatto nella mia vita. In realtà sono già stata lontana da casa, la soleggiata Miami: quando ho scoperto la mia passione e il mio talento per la tecnologia, scegliere il Massachusetts Institute of Technology come college è stata una scelta più che naturale, spontanea al cento per cento. Cambridge, tuttavia, è stata tutta un’altra esperienza; il college di per sé lo è, chiaramente. Fai presto amicizia con gli altri ragazzi – soprattutto matricole, che sono tutte sperdute quanto te –, socializzi in fretta, ti crei velocemente un circolo di amicizie: le feste nei dormitori, le bravate insieme… insomma, qualcuno che ti convince a mettere il naso fuori dalla stanza c’è. Qui a Bend è tutto l’opposto, naturalmente, o non mi lamenterei come una teiera che sbuffa costantemente.
       Il posto qui alla Goodman Incorporated, una società che ospita la gestione di alcuni tra i più importanti siti del mondo, mi è stato offerta non appena ho completato il mio master in site managing, la specialità di cui si occupa la Goodman. Il posto mi è da subito sembrato perfetto: lo stipendio altissimo e, soprattutto, mi assumevano sulla base delle credenziali a loro offerte dalla MIT. Insomma, si fidavano ciecamente di quello che aveva detto la mia università su di me, e mi avevano cercata come impiegata a tempo indeterminato. Non solo quindi il posto è parso perfetto a me, ma effettivamente lo era: in quattro giorni ho prenotato i biglietti aerei per Bend e avevo impacchettato tutte le mie cose. A ventiquattro anni ho così salutato i miei genitori, senza alcuna rimorso, rimpianto o ripensamento, e ho preso l’aereo per Bend.
       Sono così finita qui, in un modesto appartamento – nulla di particolare, lo stretto necessario per una single come me – piuttosto vicino al luogo di lavoro, che si trova nella prima periferia della città, un lavoro che adoro (anche se il mal di testa a fine giornata è a dir poco snervante, ma è la conseguenza logica del dover passare più di otto ore davanti allo schermo del pc) e che mi tiene impegnata… e una vita sociale – e amorosa – che fanno teneramente e immensamente schifo. Sembro la Bridget Jones dei poveri, sono solamente più giovane di lei – di un paio d’anni, visto che ne ho compiuti da poco ventotto – e non scrivo un diario per tenere sotto controllo dieta, sigarette e alcolici perché, grazie al cielo, non fumo, non bevo – con chi dovrei farlo, poi? – e il mio metabolismo è fin troppo veloce, così tanto che a volte devo ingozzarmi per recuperare del peso.
       È il ventitré dicembre, e sono così nervosa e scazzata – è chiaro come il sole che non tornerò dai miei, soprattutto per evitare di sentire mia madre chiedermi perché ancora non ho un ragazzo – che l’unica cosa che ho voglia di fare è andare da Paulie’s e prendermi un gelato. Lo so, non è la stagione ideale per il gelato, ma l’abitudine l’ho presa nell’afosa Miami, e non ho intenzione di perderla solo perché qui a Bend, ultimamente patria dei ghiaccioli umani, le temperature massime sono di tre gradi sopra lo zero da più di un mese.
       Saluto Greg, il mio collega d’ufficio, e stringendomi nel cappotto, il viso quasi totalmente coperto dalla sciarpa e dal berretto di lana che indosso, mi preparo ad affrontare il gelo fuori dagli uffici della Goodman Inc.  L’aria della città è gelida; il freddo mi punge il viso come una miriade di spilli, e rabbrividisco nel cappotto mentre mi dirigo a piedi alla gelateria che, per fortuna, è proprio a due passi da qui.
       Probabilmente è davvero da pazzi mangiarsi un gelato il ventitré dicembre, ma chi ci baderà? Sarò l’unica nella gelateria, quindi poco importa. Prima di entrare sbatto i piedi a terra, cercando di scrollare dagli stivali la neve che vi si è incollata mentre camminavo da qui all’ufficio, per evitare d’inzuppare il pavimento del locale. Quando spingo la porta sento il familiare trillo del campanellino appesovi sopra e il tepore del locale mi avvolge, il che contribuisce a rendere le mie dita leggermente più flessibili e meno intorpidite.
       La ragazza al bancone mi guarda con sorriso, anche se probabilmente a quest’ora vorrebbe essere da tutt’altra parte, magari in una città in cui il ventitré dicembre si gira in pantaloncini e mezze maniche sulla spiaggia. Lo ricambio, le guance che quasi mi dolgono da tanto sono fredde, mentre mi tolgo sciarpa e cuffia e li caccio nella borsetta.
       «Ciao, cosa posso darti?» mi domanda, continuando a sorridere.
       «Un cono medio… nocciola, stracciatella e Kinder. Con una spruzzata di cacao amaro, se possibile» snocciolo velocemente, cominciando a cercare alla rinfusa il portafogli nella borsetta. La ragazza comincia a preparare il cono con attenzione mentre alle mie spalle il campanello della porta trilla, annunciando l’ingresso di qualcuno nella gelateria.
       Continuo a cercare il portafogli, e il nuovo arrivato si avvicina al bancone. Bado poco a lui, perché mi sto maledicendo per la mia scelta di prendere la borsa più grande che ci fosse in tutto il negozio: è praticamente impossibile che non ci stia tutto il necessario, ma è altrettanto impossibile trovare al primo colpo ciò che si cerca. L’uomo accanto a me mi osserva, quasi divertito dai miei continui sbuffi, così alzo lo sguardo su di lui – sguardo che suppongo essere piuttosto esasperato, visto l’evidente impiccio – e lo fisso scocciata: ha gli occhi più particolari e intriganti che io abbia mai visto. Quel marrone scuro con venature verdi m’ipnotizza per un breve istante, prima che mi riscuota e torni a sbuffare e a rovistare nella borsetta.
       La ragazza dietro il bancone va nel retro a prendere il cacao, e dopo qualche istante torna. La mia faccia è inguardabile: sono stanca, ho gli occhi arrossati dalle tante ore davanti allo schermo del computer e vorrei piangere tutte le lacrime di questo mondo, perché ho appena constatato di aver lasciato il portafogli in ufficio, sulla scrivania, dall’ultima pausa caffè che mi sono concessa durante il lavoro. Non so in che lingua maledirmi. Camille, questo è il nome della ragazza, mi porge sorridente il mio cono: lo guardo con l’acquolina in bocca e l’espressione più mortificata che riesco a imbastire.
       «Dio, scusami tantissimo, ma credo di aver dimenticato il portafogli in ufficio… Ti prego, scusami tanto, mi dispiace, sul serio, mi dispiace un sacco, io n-»
       «Lascia stare, Camille, pago io per la signorina qui» la voce dell’uomo accanto a me, profonda eppure non troppo accentuata, interrompe il mio imbarazzante sproloquio – forse ancora più imbarazzante del fatto che io abbia scordato il portafogli in ufficio. Sgrano appena gli occhi e lo guardo, e lui ricambia con un sorriso. Il modo in cui si è rivolto alla ragazza mi fa pensare che sia un habitué di questo locale, eppure sono sicura di non averlo mai visto qui in giro. Mi affretto naturalmente a scuotere il capo.
       «No, no, non si disturbi. Rinuncerò al gelato, domani non scorderò il portafogli in ufficio e tornerò a prendermelo. Non si preoccupi», lo rassicuro. È gentile da parte sua, davvero, ma odio avere debiti… soprattutto con persone che non conosco.
       «Andiamo, deve davvero avere voglia di questo gelato se è venuta a prenderlo proprio ora, mezz’ora prima della chiusura. E poi, se devo essere sincero, la ammiro: non conoscevo nessun altro che mangiasse il gelato a dicembre, e ora che ho trovato un mio simile mi pare quantomeno doveroso mantenere la tradizione» mi sorride, tutto gentile. Adesso come faccio a rifiutare la sua offerta?
       Scuoto nuovamente il capo, un po’ meno sicura di prima. «Davvero, non c’è bisogno che si disturbi, non fa nulla, lo mangerò domani…»
       «Insisto. Camille, dai pure il gelato alla signorina. Io prendo il solito» dice alla ragazza, elargendo un altro sorriso mozzafiato. Ma come fa?! Camille nel frattempo mi porge il gelato ed io lo afferro con un mezzo sorriso, tornando a guardare l’uomo mentre la ragazza prepara il suo.
       «La ringrazio, davvero. Non doveva disturbarsi per così poco» dico, sentendomi oltremodo indebitata con lui. Le sue labbra sottili si stendono nuovamente in un sorriso, la barba scura increspata appena da delle adorabili fossette.
       «Non si preoccupi, davvero. A proposito, sono Matthew. Matt» mi porge una mano esageratamente grande. Tenendo il cono un po’ in bilico nella sinistra riesco a stringergliela, percependo una presa forte esattamente come l’avevo immaginata.
       «Grace» rispondo, quando Camille c’interrompe.
       «Matt, il tuo cono» dice, porgendoglielo. Lui le lascia una banconota da cinque dollari e le chiede di tenere il resto come mancia, poi afferra il cono e si volta nuovamente verso di me.
       «Cosa ne dice se ci accomodiamo su quei tavolini, Grace?» domanda, accennando con il capo ai tre tavolini della gelateria. Annuisco, pensando a come suoni bene il mio nome quando lo pronuncia lui. Sì, certo, poi pensa a come canteranno gli usignoli quando vi sposerete… idiota.
       «Perché no?» ribatto, dandomi della stupida, cominciando a spostarmi. Da vero galantuomo lui mi scosta la sedia, ed io lo ringrazio con un sorriso mentre mi accomodo e aspetto che lui faccia lo stesso.
       Finalmente posso cominciare a gustare il mio gelato. Il cacao, la nocciola, il cioccolato della stracciatella e la dolce cremosità del gusto Kinder… è un’esplosione di sensi. Mi godo il primo assaggio a occhi quasi chiusi, riaprendoli poco dopo ricordandomi di avere compagnia. Guardo il suo gelato, notando come siamo opposti riguardo alle preferenze: a quanto pare, Matt preferisce i gusti forti, perché sul suo cono troneggiano menta, liquerizia e un biscotto croccante. Gli sorrido appena, mentre osservo la sua lingua lambire la leccornia e tornare tra le sue labbra, per gustarla. Cristo, Grace, non è la trama di un film porno!
       «La sede del suo lavoro è qui vicino, Grace?» mi domanda Matt, continuando a gustare il suo gelato. Guardandolo meglio, mi rendo conto che la sua è una faccia che sono certa di conoscere, ma che proprio non ricordo dove posso averla vista.
       Annuisco. «Sì, è proprio qui dietro l’angolo… ma mi dia del tu, Matt, non voglio cominciare a sentirmi vecchia a ventotto anni» gli chiedo, accompagnando le parole con una smorfia. D’accordo, biologicamente sono vecchia – intendo per quanto riguarda la parte di famiglia e pargoli, chiaramente – ma mi ritengo davvero troppo sfigata (sì, è il termine esatto) per trovarmi un uomo. Morirò zitella, me lo sento.
       «D’accordo, Grace, ma solo se anche tu lo fai. Non voglio cominciare a sentirmi vecchio a quarantasette anni» ride, divertito dalla sua battuta, ed io lo seguo. Ha una risata bellissima, e oltremodo contagiosa.
       Beh, per spezzare una lancia a suo favore posso dire che certamente la sua età reale non la dimostra: quando sorride si formano delle rughe d’espressione intorno ai suoi occhi, certo, ma per il resto non sembra aver perso un briciolo dello spirito e della bellezza che deve aver avuto anche in gioventù. Il suo volto, comunque, continua a sembrarmi familiare, così decido di togliermi la curiosità.
       «Va bene, Matt, che tu di gioventù sia» sorrido appena. «Posso chiederti di dove sei? Il tuo accento non è di qua, e il tuo volto mi sembra così familiare… sei per caso del Massachusetts?» gli chiedo, ricordando di aver avuto numerosi compagni di college con un accento simile al suo.
       Matt sorride e scuote la testa, divertito dalle mie ipotesi. «No, non ho mai messo piede nel Massachusetts. Probabilmente ti sembrerò un volto noto perché sono stato in tv un paio di volte» mi spiega, e m’illumino tutta.
       «Aspetta, sì! Quello show… dell’isola deserta?» chiedo, attendendo una conferma. Ho una memoria fotografica pressoché assente, quindi con ogni probabilità sto sbagliando del tutto e questo ha fatto il medico in tre episodi della prima stagione di E.R., quando Clooney era ancora Doug Ross e nessuno si filava lui e il suo Nespresso.
       Matt però annuisce, sorridendo. «Sì, era quello dell’isola.»
       Non ho mai seguito lo show, ma ho visto abbastanza puntate – e lui era in tutte. Non puoi essere stato “un paio di volte in tv”, tanto per citarlo. «Non eri una comparsa, vero?»
       Lui scuote la testa, mentre entrambi continuiamo, tra una parola e l’altra, a mangiarci il nostro gelato. «Ero… beh, parte del cast fisso. Per tutte e sei le stagioni.»
       Cerco di darmi un contegno mentre realizza che cazzo, questo Matt è seriamente famoso. Potremmo essere invasi da una folla di fan fuori da questa gelateria, potremmo… oh, Cristo, potremmo essere paparazzati! Istintivamente guardo fuori dalla vetrina della gelateria, alla ricerca di qualche persona dotata di un super obbiettivo pronta a fotografare ogni nostra mossa. Matt ride, così torno a guardarlo.
       «Tranquilla, pochi vengono a cercarmi… dopo Lost, la serie dell’isola, non ho lavorato un granché.»
       Non gli credo molto, però mi rilasso impercettibilmente e continuo a gustarmi il mio gelato con un po’ più calma. Dopo qualche minuto di chiacchiere tra me e lui, Camille viene a disturbarci – di nuovo.
       «Mi dispiace disturbarvi, ma è ora di chiusura» dice, accennando con l’indice all’orologio sulla parete dietro Matt: sono le diciannove e trenta, segno che dobbiamo levare le tende e tornare a casa.
       Matt ed io ci alziamo e la salutiamo, gettando il tovagliolo che Camille ci ha dato assieme al gelato: è da un bel pezzo che i nostri coni sono finiti, ma siamo comunque rimasti nella gelateria a parlare del più e del meno – più che altro, vista la mia tendenza logorroica, gli ho fatto un numero spropositato di domande riguardo il suo lavoro, battute scadenti incluse nel pacchetto come fossero state un regalo di Natale anticipato, alle quali lui ha pazientemente risposto. La ragazza ci caccia quindi dal locale e noi usciamo; istintivamente rabbrividisco, indossando nuovamente cappello e sciarpa, per evitare di finire congelata. Matt mi imita, e noto solamente in questo momento che aveva la sciarpa infilzata in malo modo nella tasca del cappotto.
       Gli sorrido. «Io… beh, grazie. Di tutto. Insomma, è chiaro che mi sentirò in debito per sempre e-»
       «È solo un gelato» m’interrompe lui, ridendo appena. M’imbroncio come una bimba di cinque anni, ben conscia che so di non assomigliarvi più da almeno… beh, ventitré anni, circa.
       «No, non esiste, devo trovare un modo per sdebitarmi» decreto, intransigente.
       Matt sorride di nuovo, ma poi torna serio. «D’accordo» dice, guardandomi con gli occhi di quel colore così indecifrabile. Ora, per esempio, fuori da Paulie’s e illuminati dalle sole luci dei lampioni, sembrano grigi. «Domani, qui, alla stessa ora. Il gelato lo offrirai tu… e non avrò pietà di te. Prenderò la più grande coppa gelato, panna montata compresa, che si sia mai vista al mondo.»
       Potresti chiedermi anche altro, senza pietà… penso, ma davanti a lui cerco chiaramente di darmi un contegno. Non voglio che pensi che abbia a che fare con una ninfomane, perché non lo sono per niente. Credo. Penso. Spero.
       Rido, cercando di mascherare l’imbarazzo dei miei pensieri. «Direi che si può fare», commento tranquilla. Certo, sono l’emblema della tranquillità: un attore famoso mi ha appena chiesto di mangiarmi un gelato con lui – e solo io vedo doppi sensi in questa cosa, probabilmente – ed io sono tranquilla. Tranquillissima. La calma fatta a persona.
       Gli lascio un altro sorriso, sperando che non mi venga una paresi facciale, e lui ricambia di nuovo. «Allora… a domani, giusto? Alle diciannove?» mi domanda, quasi a cercare una conferma. Annuisco, un po’ perché bloccata dal freddo e un po’ perché temo che la mia voce potrebbe tradirmi. Stasera a casa lo cerco su Google.
       «A domani» dice quindi, e mi allunga la mano. Gliela stringo, per poi lasciargli un ultimo sorriso e incamminarmi lentamente verso casa, conscia che questo Natale non sarà proprio così schifoso come gli scorsi.

24 dicembre
In ufficio siamo rimasti solo io e Paul, il mio capufficio, quello che ha tanto insistito perché lavorassi oggi. In realtà, pensandoci bene, non mi è dispiaciuto così tanto avere la giornata impegnata, nonostante sia la vigilia di Natale: se fossi rimasta a casa, con ogni probabilità avrei passato l’intera giornata – fino alle diciannove, ovviamente – a pensare all’appuntamento di quella sera fuori dalla gelateria, interrompendo il flusso di pensieri con il panico per il “oddiocosamimetto” come da copione, fortunatamente evitato dal classico abbigliamento da ufficio.
       Perché era un appuntamento, vero? Insomma, non un appuntamento vero e proprio, ovviamente, ma quando due persone si accordano su data e orario per incontrarsi dovrebbe esserlo, no?
       Ed è esattamente a questo che sto pensando mentre indosso il cappotto, la sciarpa e il cappello prima di uscire dagli uffici. Mi premuro questa volta di avere il portafogli in borsetta, per evitare figuracce come quella di ieri sera – chi è che va agli appuntamenti senza soldi, poi? Insomma, c’è sempre il pericolo che il qualcuno che devi incontrare ti lasci come un’idiota seduta al tavolino di una gelateria tutta sola, no? Non vorrei dovermi prendere un gelato consolatore e dover lasciare il credito alla gelateria – che poi, Paulie’s fa credito? Io dico di no.
       

Saluto Paul con un cenno del capo e un “Buon Natale” mormorato, mentre sento l’ansia salire. M’incammino veloce verso la gelateria, sperando con tutta me stessa che Matt non mi dia buca – sì, devo ammettere che il vago terrore che lui non si presenti mi sta tormentando da tutta la giornata, ma ho stoicamente finto di non aver mai nemmeno preso in considerazione l’idea, soprattutto con Shannon – un’altra collega, assunta da circa un paio di mesi, che potevo quasi considerare amica.
       Pochi minuti prima dell’ora stabilita sono lì, davanti a Paulie’s, e di Matt ancora non c’è traccia. Lancio un’occhiata al mio orologio da polso, ed effettivamente sono in anticipo: è normale che io sia anticipo e lui magari un po’ in ritardo, giusto? Gli attori di solito si fanno aspettare, no?
       Rimango in silenzio, attendendo pazientemente – si fa per dire – che Matt faccia la sua comparsa. Camille, dentro la gelateria, mi saluta appena con un cenno della mano: anche questa sera Paulie, la proprietaria del locale, le lascia chiudere il negozio tutta sola. Poveretta. Rispondo al suo saluto con un sorriso, e lei mi fa cenno di entrare: per un istante sono tentata di rifiutare, perché penso che Matt potrebbe pensare che gli ho dato buca, non vedendomi lì fuori, ma poi si alza l’ennesima folata di vento gelido ed io mi stringo nel cappotto. Forse è meglio entrare, eh?
       Varco la soglia della gelateria e il campanellino tintinna ancora una volta, mentre Camille mi accoglie con un sorriso, esattamente come ieri. Subito tolgo sciarpa e cappello, cercando di rendermi presentabile lisciandomi un po’ i capelli con le mani.
       «Ciao! Di nuovo qui, eh?» mi domanda lei, sempre sorridente.
       Annuisco appena, accennando una smorfia con le labbra. «Sì, Matt mi ha detto che avrei potuto sdebitarmi con lui stasera, offrendogli un gelato… Ma di lui non si vede l’ombra, eh?» le domando, chiedendo conferma della sua assenza.
       «Non preoccuparti, arriverà tra poco. Solitamente è puntuale» commenta, cercando di rassicurarmi. Come fa a saperlo, lei, che Matt è puntuale? Sarà…
       Il campanello trilla alle mie spalle, e un trafelato Matt entra al caldo dopo aver scrollato la neve dalle scarpe invernali. Sento le mie labbra stendersi in un sorriso spontaneo, mentre i miei occhi corrono al suo volto: porca miseria, è anche più bello di quanto ricordassi. La porta si chiude alle sue spalle, e lui si avvicina a me e al bancone. Posa una mano alla base della mia schiena, sorridendomi.
       «Ciao Grace» mi saluta, e io cerco di non sciogliermi. Cerco, chiaramente, perché la sua mano è sempre dove l’ha messa, e la cosa m’impedisce di ragionare lucidamente. Lui si volta verso Camille. «Ciao anche a te, Cami… pronta a preparare il più grande gelato che tu abbia mai preparato?»
       Ride appena, per poi tornare a guardarmi. «Cosa prendi, Grace?»
       Qualsiasi cosa includa te nel pacchetto… «Un cono nocciola, bacio e panna montata» dico a Camille, sorridendo.
       «Beh, io prendo… una coppa Snow, per restare in tema» chiede Matt, accennando con il capo all’esterno del locale. Mi volto, notando che candidi fiocchi hanno cominciato a scendere sulla città.
       Camille si mette all’opera, impiegando più tempo per la coppa di Matt – gelato al cioccolato, alla crema e alla nocciola sormontato da panna montata e una spolverata di meringa – e poi ci consegna i nostri gelati. Matt ed io ci spostiamo allo stesso tavolino che abbiamo occupato ieri sera, dopo averla ringraziata, e ci accomodiamo per gustare i nostri gelati.
       «Scusami se sono arrivato in ritardo, prima» si scusa Matt dopo una cucchiaiata di panna montata. Io alzo appena le spalle, sorridendogli.
       «Non eri in ritardo. Ero io in anticipo, sono uscita qualche minuto prima dall’ufficio.»
       Matt alza un sopracciglio, guardandomi quasi maliziosamente. «Avevi paura di arrivare tardi al nostro appuntamento?» domanda, tenendo lo sguardo fisso nel mio.
       Mi agito sulla sedia, un po’ a disagio. Sarà che ho il cappotto ancora indosso, ma non fa più caldo di poco fa in questa gelateria? Devo chiedere a Cami se hanno avuto dei problemi con il termostato.
       «N-no, io… ho finito presto di lavorare, ecco» balbetto, sentendomi un’imbecille. Oh, aspetta, ma io sono un’imbecille. Applauso, signori.
       Matt fa una risata. «Stavo scherzando, Grace» mi risponde divertito, e poi cominciamo, esattamente come abbiamo fatto ieri sera, a parlare di tutto.
       Matt mi fa le domande più strane e particolari, oltre che dettagliate, che mi abbiano mai rivolto: mi chiede che numero di scarpa porto, se mi piace fare shopping, se mi piace la musica e che genere musicale ascolto, se mi piace l’arte e che autori apprezzo, quali libri ho letto quest’anno e quali di questi ho apprezzato in particolare. Mi chiede davvero di tutto, anche quale sia il mio colore preferito e se indosso spesso abiti di quel colore. La sua curiosità mi destabilizza, anche se non quanto le sue labbra che circondano il cucchiaino e la sua lingua che le carezza rapidamente subito dopo aver preso la porzione di gelato.
       I gelati finiscono presto, purtroppo, e alzo istintivamente lo sguardo verso l’orologio a parete della gelateria: sono le diciannove e trenta, il che significa che tra esattamente cinque secondi Camille verrà da noi e ci caccerà dal locale. Matt pare aver intuito quello che sto pensando, perché afferra la coppa in vetro del suo gelato e si alza, andando a posarla sul bancone.
       «Credo si sia fatto tardi» commenta, tendendomi una mano. Io l’afferro – non che ne abbia realmente bisogno, ma chi rifiuterebbe?! – e mi allontano da lui per avvicinarmi alla cassa e pagare i nostri gelati, come stabilito, per sdebitarmi.
       Matt mi segue, scuotendo la testa ed estraendo dalla tasca del cappotto il portafogli. Io lo guardo, accigliandomi appena.
       «Cosa stai facendo?»
       Lui sorride. «Credi davvero che ti lascerei pagare per me?»
       «Beh… sì» rispondo, stringendomi nelle spalle. «Credevo che fosse questo il patto» commento poi, piuttosto confusa.
       «Non sono il tipo che lascia pagare una donna, Grace, anche se questa è dannatamente insistente e si sente ingiustamente in debito nei miei confronti» dice, allungando una banconota da venti dollari a Camille e aspettando paziente il resto.
       Sbuffo. «Non mi sembra giusto, per niente.»
       «Ne discuteremo fuori» commenta Matt, prendendo il resto. «Cami, passa un buon Natale» dice alla ragazza, che sorride.
       «Certo che sì, Matt. Buone feste anche a te… anzi, anche a voi!» ci saluta lei, agitando la mano mentre Matt mi trascina fuori dal locale. Mormoro un “Buon feste” piuttosto scocciato e mi ritrovo fuori, al freddo, nel bel mezzo di un turbinio incessante di fiocchi di neve.
       Matt mi osserva ridendo, e io incrocio le braccia al petto, imbastendo il broncio più offeso che riesco a spolverare dal mio repertorio.
       «Andiamo, non puoi esserti arrabbiata così tanto per un misero gelato!»
       «Sì invece», ribatto velocemente. «Avrei dovuto pagare io il gelato, perché ieri hai offerto tu per colpa della mia stupidità, e credimi, non è la prima volta che mi capita di dimenticare il portafogli in ufficio ma insomma, io n-»
       Il mio sproloquio si ferma, perché le sue labbra si sono appoggiate sulle mie, delicatamente ma con decisione, con fermezza. Mi ritrovo così improvvisamente zitta, con gli occhi sbarrati, le sue labbra dal sapore dolciastro contro le mie e il cuore che minaccia di esplodermi nel petto.
       Dopo poco Matt si allontana da me, ed io a malincuore mi costringo a lasciarlo andare; per il dolce gusto delle mie e delle sue labbra, sento che tra poco potrei morire di diabete. Forse…
       «Scusami, ma la verità è che volevo farlo dal primo momento in cui ti ho vista» mi confessa, abbozzando un sorriso imbarazzato.
       Apro la bocca per parlare, ma le parole non mi escono di bocca, così la richiudo. La riapro, alla ricerca delle parole esatte, ma ogni cosa che penso mi sembra stupida. La chiudo di nuovo, prendendo un respiro. Perché le mie funzioni cerebrali sembrano essersi annullate completamente?
       Realizzo che probabilmente lui non sta aspettando altro che una mia risposta, così sbotto: «E dovevi pagarmi un altro gelato per deciderti a farlo?»
       Matt ride e si avvicina di nuovo, più sicuro; questa volta so cosa aspettarmi, e quando le sue labbra si posano sulle mie ricambio il suo bacio, approfondendolo, intrufolando le dita tra i suoi capelli cortissimi. Ci troviamo qualche istante dopo leggermente ansanti, fronte contro fronte, a sorridere come due sciocchi.
       «Te ne avrei pagati altri cento, se fosse servito ad averti.»

 

 

 

 

 

Note:
È una storiella scritta senza pretese per il ‘contest di Natale’, se così si potrebbe definire, indetto nel gruppo dell’autrice BlackPearl che, naturalmente, approfitto per ringraziare infinitamente dell’ospitalità: solo chi è in quel covo di psicopatiche sa cosa voglia dire sopportarci – e sopportarmi, lo ammetto!
I prompt per la storia erano: un attore a scelta, il periodo natalizio, il gelato.
Dal 2 gennaio – si spera, se qualche donzella non è in ritardo estremo come me! – vi basterà digitare nella barra di ricerca di Efp Daydreamers’ carol e avrete i link a tutte le storie scritte per questo contest! Gli attori su cui abbiamo fangirlato, oltre al da me abusato Matthew Fox, sono:
Robert Downey Jr (già pubblicata)
Sam Claflin
Chris Evans (già pubblicata)
Jared Leto
Neil Patrick Harris
Simon Baker (già pubblicata)
Liam Hemsworth
Chris Hemsworth (già pubblicata)
Christian Bale
Josh Hutcherson
Orlando Bloom (già pubblicata)

Che altro dire? Spero che la storia vi sia piaciuta, e spero che abbia tanta, tantissima voglia di spulciare le altre, perché sono tutte scritte da autrici favolose e che ringrazio, ancora una volta, per risollevarmi il morale quando sono giù. Non penso di avervelo mai detto, o forse sì, comunque: vi voglio un sacco di bene! ♥
Fede.

 

Ps: credits to Sara/BlackPearl per questo pensiero di Grace: “Potresti chiedermi anche altro, senza pietà…”. Lei e le sue idee geniali, poi ditemi se non devo adorarla!

   
 
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