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Autore: Soqquadro04    31/12/2013    13 recensioni
[AU!Delena – tutti umani | Quasi inevitabile OOC | Happy Ending | Attenzione: si potrebbe parlare di tematiche delicate (blind!Damon)]
Ci sono incontri che vengono organizzati, programmati – che vengono preparati nei minimi dettagli per far sì che seguano il loro corso e si concludano senza imprevisti, senza scossoni.
E poi ci sono incontri che, semplicemente,
accadono – magari per caso, per l'incespicare distratto di un'anima, forse un po' persa, nel filo ingarbugliato di un altro destino.
Quando è così, l'unica cosa da fare è lasciarsi trascinare.
Anche quando si soffre.
Anche quando si
cade, inevitabilmente.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Rose Famil, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Autore: Soqquadro04
Fandom: The Vampire Diaries
Disclaimer: non sono assolutamente miei. E mi dispiace tanto, tanto, tanto di questa cosa. Sempre assolutamente no, non ne scrivo a scopo di lucro, solo per illudermi di avere un qualche potere decisionale.
Generi: Romantico, Sentimentale, Malinconico
Avvertimenti: AU, Tematiche delicate (blind!Damon), OOC
Rating: Verde
N/A - Note dell'Autrice: Questa non è stata una storia, ma un parto - un maledettessimo parto. È stato difficile scriverla, ma è anche stata una prova - che probabilmente non ho superato - che sono però felice di aver fatto. Sarete coraggiosissimi ad arrivare in fondo vivi (sono 6632 parole di roba).
È... particolare, strana e, in tutta probabilità, piuttosto inverosimile - ma a me piace, mi ci sono affezionata e mi sono affezionata a loro ancora di più.
E' un'idea azzardata - mi è venuto naturale, dopo aver saputo degli esperimenti dell'Augustine, pensare a una cosa simile, ma mi rendo conto che è veramente... veramente. Ecco.
Si potrebbe dire che è il mio primo esperimento di AU seria - sono piuttosto orgogliosa del risultato, anche se è inevitabilmente OOC... e poi ho sempre desiderato intitolare una storia "L'uomo che aveva gli occhi azzurri", quindi finalmente mi sono tolta anche questo *cancella voce dalla lista "Cose da fare almeno una volta nella vita"*
Vi dico subito che tutte le ripetizioni sono volute, e così anche le parti costituite quasi interamente di dialoghi.
Il background della "mia" Elena è praticamente identico a quello della vera Elena telefilmica (togliendo gli esperimenti di Grayson, la questione doppelgänger e, ovviamente, la trasformazione): cioè è stata adottata da Miranda e Grayson, e poi questi sono morti in un incidente d'auto (è per questo che, diciamo, parla da donna vissuta, ecco).
Detto questo, spero che alla fine non sia così orrenda e vi saluto :*
La vostra Soqquadro

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«Bisogna essere molto pazienti», rispose la volpe. «In principio tu ti sederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e [...] ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino...»
[...]
«Addio», disse.

«Addio», disse la volpe. «Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi».
«L'essenziale è invisibile agli occhi», ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.
Antoine de Saint-Exupéry – Il piccolo principe

 

Ci sono incontri che vengono organizzati, programmati – che vengono preparati nei minimi dettagli per far sì che seguano il loro corso e si concludano senza imprevisti, senza scossoni.
E poi ci sono incontri che, semplicemente, accadono – magari per caso, per l'incespicare distratto di un'anima, forse un po' persa, nel filo ingarbugliato di un altro destino.

Quando è così, l'unica cosa da fare è lasciarsi trascinare.

Anche quando si soffre.
Anche quando si cade, inevitabilmente.

***

Il giorno in cui si incontrano per la prima volta fa freddo – è un inverno particolarmente grigio e particolarmente invernale. Ovviamente.
Fa davvero freddo, quel freddo appiccicoso e traboccante umidità così tipico della Virginia – così tipico di casa.

Le lacrime quasi le si ghiacciano sulle guance, le dita congelate – ha lasciato i guanti sul tavolo, dove li ha distrattamente appoggiati prima di... prima e basta – che quasi non riescono ad asciugarle, impacciate e rigide.
Elena Gilbert rovescia il capo all'indietro, lo sguardo liquido di pianto rivolto al cielo e le mani che si intrufolano rapide nelle tasche, a cercare un po' di calore.

Del resto, è quasi una specie di legge universale, il dimenticarsi le cose importanti quando la vita ti crolla addosso – e le macerie ti seppelliscono, e tu non riesci a trovare nemmeno più la forza di lottare, quando capita troppo spesso. Lottare per rivedere cosa, poi? I resti polverosi del mondo che credevi di conoscere e, invece, si è rivelato completamente estraneo?

Ad Elena Gilbert è capitato veramente troppo spesso, tanto che ormai si sente come tirata nel mezzo di un ciclo infinito di spettacoli teatrali: quando ne finisce uno, la scenografia viene smantellata e il palco preparato per un'altra storia. E ancora, di nuovo – e lei è sempre la protagonista, l'attrice che alla prima si ritrova a fissare il pubblico senza ricordare le battute. Come potrebbe, se non ha studiato il copione?

Sono questi i momenti in cui pensa che quella pessima, pessima figura alla recita di Natale, quando aveva otto anni, abbia sinceramente lasciato il segno.

 

Il giorno in cui si incontrano fa freddo, e il piccolo parco di Mystic Falls è solo un'isoletta di alberi spogli e ghiaccio a terra, praticamente vuota – è così soltanto d'inverno, quando i picnic sul prato e le risate dei bambini che si rincorrono fra le foglie, tintinnanti come argento, sono ricordi lontani ed estivi.

Elena Gilbert sospira, le ultime lacrime che le macchiano le labbra di sale, il fiato che le esce di bocca disegnando nuvole di condensa che sembrano arricciarsi fra i rami di un albero, sullo sfondo – pare quasi fumo, come se lei fosse un drago arrabbiato e pronto a sputare fuoco su qualsiasi pericolo. Peccato che non sia un drago, però. Un po' di fuoco le farebbe comodo, e anche poter incenerire i suoi problemi con una vampata di fiamme non sarebbe male.

Scappare non può essere sempre la soluzione, anche se fa male. Lo sa, ma è difficile – ancora troppo difficile, ancora troppo recente.
Solo un altro giorno.

Nel silenzio, l'abbaiare scomposto di un cane risuona come una cannonata in piena notte – come il primo colpo del martello che smonta nuovamente la scenografia, anche se troppo presto rispetto al solito.

Istintivamente, volge gli occhi nella direzione da cui proviene il suono, notando, in lontananza, un meraviglioso cagnone che scodinzola, felice.
Un uomo con gli occhiali scuri, il braccio teso a trattenere con mano ferma il guinzaglio, gli cammina dietro – accanto a lui, una donna.

Elena ha sempre amato i cani, quelli grandi e pelosi che non ti fanno entrare in una stanza senza buttarti a terra. I cani sono fedeli, i cani non tradiscono e ti ascoltano anche quando vaneggi, senza farti domande, guardandoti con tanto d'occhi e leccandoti il viso, per buona misura.

Non ti capiscono, eppure lo fanno meglio di qualunque essere umano. È un peccato che non abbia mai avuto un cane, fra l'allergia di suo fratello e, più tardi, il troppo esiguo spazio di un appartamento.

Quel cane in particolare, non lo ha mai visto – non ha mai visto nessuno di quel piccolo gruppo –, il che la porta a pensare che siano solamente di passaggio – è nata e cresciuta in quel paesino sperduto, e sa benissimo che non c'è abitante che non conosca il nome del proprio vicino e del cane del proprio vicino. O del cane del vicino del proprio vicino, se è per questo.

Gli stranieri sorridono appena – e nel loro sorriso c'è qualcosa di strano, come una nota stonata in una composizione altrimenti perfettamente eseguita. Non capisce.
Si tengono a braccetto, come una qualsiasi delle coppie che vede tutti i giorni, quel qualcosa che non le torna che martella sulle tempie come un tarlo fastidioso – sempre quel dettaglio, nella scena, che la disturba. Stringe le palpebre, cercando di inquadrare meglio i particolari.

Forse è la postura di lui, un poco incrinata – è incerta.

Quasi si appoggia alla donna, come se dovesse farsi sostenere per non cadere – come se avesse vecchie ferite nascoste sotto gli abiti, anche se non zoppica, né mostra qualche difetto nell'andatura.

È solamente... piegato. È spezzato.

Parlano sottovoce, di qualcosa che nemmeno il vento che ha preso a soffiare, potente, le porta all'orecchio.

Elena sospira ancora, osservandoli per un po' – non sa perché, a dire il vero. Forse per trarre un poco di conforto dall'esistenza di qualcuno di veramente sereno, almeno all'apparenza. Forse perché è stanca, svuotata e, in quel parco, non c'è molto altro su cui concentrarsi –, fino a che quasi non raggiungono l'ingresso della piazzetta dove si è sistemata, rannicchiata su una panchina.

Poi la donna lancia un'occhiata frettolosa all'orologio che porta al polso, sobbalzando e ritirandosi all'improvviso dalla stretta dell'altro, le labbra che si muovono veloci in una profusione di scuse quando si rende conto di essere in ritardo per qualcosa di terribilmente importante, a quanto pare.

Lui fa cenno di sì col capo, rassicurandola, e la lascia andare con un saluto mormorato. Non si volta, mentre lei se ne va.
Studiando la ruga che si forma sulla fronte di lui e le spalle contratte della donna che sono già quasi sparite in lontananza, Elena pensa che forse non sono poi così felici.

Quando l'uomo con il cane imbocca il sentiero che lo porta alla sua piazzetta – o l'unica piazzetta dell'unico parco di Mystic Falls, ecco –, Elena distoglie lo sguardo, arrossendo all'idea di farsi cogliere sul fatto.

Non è molto elegante fissare gli sconosciuti per strada

Lui si dirige proprio verso di lei, e per un attimo l'irrazionale pensiero che possa averla notata e che stia per rimproverarla per le sue pessime maniere le attraversa il cervello.

Poi si accorge che, in realtà, è la panchina di fianco alla sua, che punta – ed è in quel momento che Elena nota un particolare a cui prima non aveva fatto caso, mentre l'uomo si siede un po' a fatica, il cane che scodinzola ancora e che gli lecca affettuosamente una mano.

Il guinzaglio non è un guinzaglio normale, quelle lunghe stringhe di nylon o di cuoio, che lasciano una certa libertà di movimento. Ha, invece, un'imbracatura che avvolge il petto e il collo del cane, e poi si collega a un'impugnatura rettangolare, rigida.
Sa cosa significa, Elena.

E per qualche secondo si vergogna terribilmente di se stessa – perché ha pensato che fossero solo una coppia con qualche problema relazionale, perché non ha capito prima, perché questo è qualcosa di infinitamente più terribile di un tradimento che in fondo già sentiva nel cuore.

Se solo avesse fatto più attenzione.

Abbassa gli occhi, le gambe strette al petto. I capelli le cadono sul volto come un velo scuro, nascondendola mentre piega la testa e appoggia la fronte alle ginocchia, il rumore del suo respiro quasi inudibile nel silenzio – un silenzio immobile, di mancanze e cinguettii che sono solo un'eco lontana.

L'uomo sussurra qualche parola al suo cane, parole pacate e sfinite, forse accompagnate da qualche carezza. Non sa se si è accorto di lei – spera di no.

Spera che presto se ne andrà e la smetterà di farla sentire così dannatamente in colpa per una supposizione sbagliata – che la smetterà di ricordarle che non è lei la persona più sfortunata al mondo. Vuole solo crogiolarsi nel dolore fastidioso che le tortura la bocca dello stomaco, nel bruciore della fiducia strappata che le artiglia la gola.

Non chiede tanto, Elena – ma non le viene concesso nemmeno questo.
Del resto, forse non è neanche lui la persona più sfortunata in tutto il mondo, ma i suoi problemi sentimentali sembrano così piccoli e così insignificanti, messi a confronto con qualcosa di simile.

Non può vedere – non può vedere quel parco spoglio e grigio, i merletti di ghiaccio che ornano le grondaie delle case, le nuvole che portano in grembo neve.
Non potrà vedere neanche la terra risvegliarsi e spandere il suo profumo umido di humus e fiori, annunciando il suo ritorno dal letargo con l'esplosione verde dei germogli.

Un altro pensiero la colpisce, affilato come la lama di un bisturi – forse non l'ha mai visto.
Rabbrividisce, stavolta non per il freddo, sollevando il capo.

Qualcuno sospira – non saprebbe dire se è stato lui o magari lei stessa, inizialmente, ma quando l'altro si muove, improvviso, voltandosi nella sua direzione, sa di aver attirato la sua attenzione.
Il cane uggiola appena, confuso dalla brusca interruzione del flusso di coccole, fissandola con aria interrogativa – lui bisbiglia una domanda, sempre con quel tono infinitamente stanco e infinitamente vuoto.

«Chi c'è?» non sembra importargli davvero, mentre tende tutti i muscoli e irrigidisce la linea della mascella – pare chiederlo più per cortesia, infastidito dalla sua inaspettata presenza.

È bello – lo nota solo ora, mentre stringe il labbro inferiore fra i denti e strofina le mani fra loro nel tentativo di scaldarsi, appollaiata come un corvo sulla panchina, pronta a rispondere.
Bello di una bellezza dolente, quasi antica, quasi simile a un quadro rinascimentale, di quelli che si trovano nei musei importanti – lineamenti duri che sfumano in curve morbide, tutto contrasti fra una pelle bianca come il gesso e capelli nero carbone, scompigliati dal venticello.
E quegli occhiali, che in un certo senso le impediscono di vederlo veramente.

La sua voce suona debole e pallida come un ricordo, quasi inudibile, quasi inutile – non sa nemmeno se l'ha sentita.

«Mi chiamo Elena Gilbert. Mi scusi, non... non volevo disturbarla.» non sa cosa dire, come comportarsi – non capita tutti i giorni di avere a che fare con una persona che non può vederti, per di più sconosciuta. Esistono regole del galateo, per questi casi? Una qualche postilla?
Si sente piuttosto stupida – così smette di pensarci, limitandosi ad attendere una risposta, se lui vorrà dargliela.

L'uomo si volta finalmente verso di lei, probabilmente avvertendo la sua posizione dalla voce, sorridendo – un sorriso che le fa venire in mente, per chissà quale motivo, lo Stregatto. Sì, quello dell'Alice nel Paese delle Meraviglie della Disney, quel gattone viola e blu con la buffa tendenza a sparire e ricomparire nei momenti meno opportuni. Solo che questo, di sorriso, è infinitamente più stanco – un sorriso che ha imparato che la vita funziona un po' a caso, che decide per uno strano gioco di fortuna, che non sceglie date persone perché sia particolarmente maligna o particolarmente benevola, a seconda delle situazioni. Lo fa solo perché deve.

Un po', forse, somiglia al suo.

«Lei ha diritto quanto me a stare qui – è un parco pubblico, no? L'unico di questo posto, oltretutto, quindi non è che ci sia molta scelta...» la sorprende, quella frecciatina sarcastica e del tutto inaspettata – mormorata sottovoce, una mano che è tornata ad accarezzare piano la testa possente del suo cane e un respiro bloccato in fondo alla gola. «... tutto questo per dirle che non mi disturba, comunque.» un cenno col capo, mesto.

Elena piega il collo, tornando a fissare il cielo – grigio, come prima.
Perché avrebbe dovuto essere diverso, poi, non lo sa neanche lei – forse perché, per una volta, è consapevole di quanto sia diverso quel grigio, da una nuvola all'altra.

«Oh. Oh, sì. Giusto. Posso chiederle il suo nome? Non l'ho mai incontrata, qui – e Mystic Falls è davvero piccola e tutti conoscono tutti, perciò mi chiedevo se magari era appena arrivato o... non lo so.» si rende vagamente conto di sembrare ridicola. E ficcanaso. E piuttosto patetica.
Si agita nervosamente, sistemandosi meglio sulla panchina, portando le braccia a circondarle le ginocchia.

Non sa perché è così difficile – magari lo sta importunando. Forse non ha nessuna voglia di parlare con qualcuno e lei sta facendo una figura decisamente magra. E impicciona.

Ma lui non sembra particolarmente infastidito – e questo infastidisce lei. Continua ad essere quasi indifferente, l'unica vera punta di vitalità la sagacia quasi irritante di cui fa sfoggio quando le risponde. Anche togliendo il quasi.

«Lo so che non mi ha mai incontrato – sono appena tornato da New York.» ah, ecco. Ora si spiegano parecchie cose – lui pare abbastanza più grande di lei, in effetti. Sulla trentina, forse – non ne è certa. L'uomo continua, senza aspettare risposta – né, se è per questo, dando una risposta alla sua domanda. «Posso darle del tu? Magari le faciliterebbe un po' le cose – posso praticamente sentire il suo imbarazzo, e le assicuro che è assolutamente immotivato. Sto avendo una conversazione normale con lei, non le pare? Il fatto che non la veda è del tutto irrilevante e non mi è pressoché di nessun intralcio all'interagire normalmente con le altre persone.» Elena quasi si strozza con la sua stessa saliva mentre annuisce, prima di ricordarsi che lui non può vederla – gliel'ha appena detto.
Ricordato.

Per un secondo si è quasi dimenticata – molto, molto quasi – di quel piccolo particolare.
Sbuffa appena, lanciandogli un'occhiata furtiva – il cane la osserva da sotto in su con sguardo liquido e interrogativo, probabilmente chiedendosi cosa diamine stia facendo.

«Certo, può darmi del tu. Io posso?» lo chiede con tono quasi leggero, quasi sospirato – con lui sembra tutto a metà, tutto quasi. Una parola che echeggia fra i suoi pensieri.

È bravo ad eludere le sue domande – a non scoprirsi, neppure su una cosa semplice come il suo nome. Deve esserci abituato.
L'uomo annuisce a sua volta, come ad imitarla – se non sapesse che non ha potuto vederla, crederebbe che la stia prendendo in giro, con quell'atmosfera quasi canzonatoria, quasi... giocosa che sembra aver creato fra loro.

«Grazie. Posso farti un'altra domanda?» tanto vale cedere alla tentazione che l'ha presa da quando ha visto il labrador correrle incontro.

Lui sorride ancora, appena, a mezza bocca – sta preparando una risposta fastidiosa, si ritrova a a pensare, stringendo i denti.
«Me l'hai appena fatta.» eccola. Sta al gioco, scuotendo la testa e mugugnando, facendogli udire tutto il suo disappunto.

«Posso fartene due?» le ricorda suo fratello – quando erano bambini, si divertiva tantissimo a prenderla in giro con questo stratagemma. Ancora non sa che era altrettanto divertente assecondarlo.

Lui piega la testa in avanti, acconsentendo fisicamente ancora prima che verbalmente.

«Spara.» incrina ancora le labbra – con accondiscendenza, pronto a servirla e riverirla. Quasi riesce a vedere la battuta che gli attraversa l'anticamera del cervello, poi accantonata per chissà quale motivo – è imprevedibile, eppure...

«Posso accarezzare il tuo cane? Amo i cani, e lui è davvero bellissimo.» ha desiderato chiederglielo praticamente da quando ha visto quella meraviglia di animale – ha un pelo dorato che sembra veramente morbido, e dolci occhioni castani, e un'espressività quasi umana che lo rende immaginariamente partecipe alla discussione.

Lui soffoca una risatina enigmatica nella manica del giubbotto, inarcando le sopracciglia e sfiorando con le dita, come per non fargli sentire una tale eresia, le orecchie del cagnone.

«Lei. È una femmina – e sì, puoi accarezzarla. Non morde, anzi, è fin troppo buona.» Elena si trattiene a malapena dal rispondere con qualcosa di molto acido – come poteva saperlo, lei, che era una femmina? –, soffiando un grazie sussurrato e tirandosi in piedi, prima di inginocchiarsi di fianco al – alla socievolissima cagnona e iniziare a farle qualche grattino lungo il collo, e sotto il mento.

Accenna una risata quando lei, soddisfatta, fa il gesto di leccarle il viso – si allontana, scherzosa, prima di accettare un bacio umido sulla guancia.

«Puoi dirmi come si chiama lei oppure è un segreto anche questo?» lo domanda con voce fortemente sarcastica, inarcando un sopracciglio scettico e continuando a dispensare carezze generose. Lui increspa le labbra, fintamente offeso.

È strano che si comporti così – con un estraneo, poi. Ma è incredibilmente facile parlare con lui, stare con lui – superato quell'imbarazzo iniziale, è divertente e simpatico e assolutamente normale, anche se magari alle volte potrebbe risparmiarsi qualche frecciata o, magari, essere un po' meno... acido. Ma lei non lo conosce – lei non sa. Non può dare giudizi.

«Jackie. Non l'ho scelto io, in realtà – l'ha deciso Rose.» pare rendersi conto in ritardo che lei non ha la minima idea di chi sia Rose – fa per spiegarle, ma Elena parla per prima, il tono interrogativo.

«Rose?» l'uomo scuote la testa, il sorriso che si fa un po' più largo – un po' meno stanco.
Rose dev'essere una persona importante, lo capisce persino lei che non sa nulla di lui – di loro.

Forse Rose è la donna dai capelli corti e scuri, quella dell'orologio – quella dalle spalle contratte e l'espressione sofferente per un dolore non suo. Ha la conferma che è così quando lui le risponde, quasi mormorando fra sé.

«Un'amica. Abbiamo preso un caffè e mi ha accompagnato qui, poi si è accorta di stare perdendosi un'interessantissima riunione riguardo, credo, il fondo fiduciario più scelto dai pensionati, ed è andata via. Non so se l'hai vista.» in effetti, lui non sa da quanto lei è seduta su quella panchina – non lo sa bene nemmeno Elena stessa, in realtà. Solleva il volto, cercando di capire l'ora dalla posizione del sole. Siccome il sole non c'è, coperto dalle nubi che minacciano neve e/o grandine, potrebbero essere le sette del mattino come le quattro del pomeriggio.

Ah, ma che importa – potrebbe rimanere in quel parco per sempre.

Non fosse che deve tornare a casa – che deve avvisare Jenna e Alaric, e suo fratello e Bonnie, che sarà con loro. In realtà sarebbe dovuta andare dai Lockwood, ma decisamente sarà divertente lasciare Tyler solo a spiegare il perché della sua assenza alla temibile, terrorizzante Carol. Le dispiace solo di non essere presente alla morte dolorosa del bastardo per mano della sua stessa madre – peccato.

Si appoggia ai talloni, alzandosi e spolverandosi i pantaloni da polvere inesistente, attirandosi addosso un minuscolo ululato di protesta da parte di Jackie.
Non sa bene cosa dire per salutarlo – come si saluta un uomo cieco che hai conosciuto per un quarto d'ora (opure due ore, chissà), con una personalità apparentemente a metà fra l'irritante e l'adorabile, e che probabilmente non vedrai mai più? Anche se Mystic Falls è piccola, quante probabilità ci sono?

Alla fine, Elena opta per una semplice foruma a tema – e forse sarà banale, ma non è che ci sia molto da fare.

«Buon Natale.» lo osserva, in piedi, il volto rilassato e le labbra – belle labbra, piene e modellate – distese. Si irrigidisce, quando la sente.
«Non lo dire.» secco, ferito. Lei aggrotta la fronte, confusa, qualche parola già sulla lingua, quando lui si rende conto di essere stato forse troppo brusco – le spiega.

«Non trovo che sia un buon Natale – non è mai stato un buon Natale, non ha senso che la cosa cambi adesso. Però parlare con te è stato meglio di quanto mi aspettassi. Addio, Elena Gilbert.» non che sia molto più chiaro di prima, ma capisce che dev'essere decisamente successo qualcosa – non sono affari suoi. Poi, analizzando meglio la sua risposta, non sa se prendere la cosa come un'offesa neanche troppo velata o come un complimento, da parte sua, ma non riesce a porsi nemmeno il problema che lui si alza, faticosamente, Jackie che uggiola un poco mentre, con un ultimo scodinzolio, gli si piazza davanti e comincia a camminare.

«Ah, comunque... mi chiamo Damon. Damon Salvatore.» allora ce l'ha, un nome. Incredibile.
Damon. Damon Salvatore.

Le piace.

Elena Gilbert non risponde. Studia la sua schiena, sempre più piccola in lontananza – dieci minuti dopo, sta ancora osservando il punto in cui è sparito.
Ha un sorriso, appena accennato, appena incrinato, che le dipinge le labbra – somiglia molto più di quello che crede a quello di lui.
Per più di un attimo, si è dimenticata il motivo per cui si è rifugiata in quel parco – le ha fatto bene.

 

Il giorno in cui si incontrano è Natale, Elena Gilbert ha trovato il suo – ex – fidanzato a letto con la sua migliore amica ed è appena inciampata, per caso, in un'altra vita – in un altro destino, ingarbugliato e con un pessimo senso dell'umorismo.

 

Non è un addio, il loro – nonostante le previsioni di Damon, Damon Salvatore.

Il giorno dopo non sa perché è nuovamente a congelare su quella panchina, ignorando i sensi di colpa per aver lasciato Jeremy da solo a destreggiarsi fra l'amoreggiare distratto di Jenna e Ric, senza nemmeno Bonnie a fargli compagnia.
In realtà lo sa – ma non è andata lì solo per quello. Davvero. Ha voglia di stare un po' nel verde – o nel grigio, ecco.

E comunque, probabilmente, lui non si farà vedere – perché dovrebbe, dopotutto? Quell'incontro è stato solo un caso.

Contro ogni ragionevole dubbio, Damon compare all'ingresso del parco dopo meno di dieci minuti da quando si è sistemata nel suo punto di avvistamento – non ci mette molto prima di raggiungere la panchina accanto alla sua e sedersi, Jackie fedelmente sdraiata ai suoi piedi, che lo guarda di tanto in tanto.
Sorride di quel suo sorriso strano, prima di parlare – si stupisce che abbia capito che c'è, in realtà, senza che nemmeno palesasse la propria presenza.

«Io vengo qui tutti i giorni da due settimane a questa parte. Quindi non sono stato io a tornare sperando di rincontrati, mi pare.» sembra di buon umore – in vena di giocare, come un bambino felice. Piccata, lei gonfia il petto e gli lancia un'occhiata di fuoco – peccato che non possa vederla, perché le è venuta veramente bene.

È strano che sia così a suo agio, che l'imbarazzo che aveva sentito solo il giorno prima sia completamente sparito – aveva ragione lui. Solo perché non la vede non significa che non possano avere un rapporto normale – per quanto possano essere definite normali le condizioni in cui si sono incontrati e in cui si trovano anche in questo momento.

«Io non sono tornata qui con la speranza di rincontrarti. Come hai fatto?» è davvero curiosa, non si tratta soltanto di un espediente per cambiare discorso.
«A fare cosa?» è convinta che lui lo immagini, ma se vuole parlare, parlerà. Sbuffa una nuvola di fiato, osservando la condensa.

«A capire che ero qui.» corruga la fronte, mettendo il broncio come una bambina.

Lui quasi ride, una risata mezza soffocata – se potesse vederla, penserebbe che l'abbia fatto per la sua espressione. In realtà, semplicemente, la risposta dev'essere particolarmente divertente.
«Il tuo odore – profumi di rose, sai? Ieri te l'ho sentito addosso, ora l'ho sentito di nuovo, è abbastanza semplice capire che sei tu. La maggior parte delle volte ci prendo, comunque.» strana. Magari non proprio divertente, ma un po' strana sì.

Non è cosa da tutti i giorni, essere riconosciute dall'odore – di rose, poi.
Non dice nulla, limitandosi a una semplice constatazione.

«Sai, c'è un uccellino meraviglioso che sta costruendo il nido su un ramo, proprio sopra le nostre teste.» c'è davvero. Un passerotto che non se n'è andato per l'inverno, che organizza la sua casa, senza cinguettare, scuotendosi per scacciare il freddo. «Credo che verrò anche domani, per vedere come se la cava. E magari anche dopodomani.»
 

«Mi ricordo un Salvatore, sai? Nella mia classe di storia delle superiori. Stefan. Siete parenti?»
«Stefan Salvatore? Sì, purtroppo siamo parenti. È mio fratello – minore.»
Smorfia contrariata sulle sue labbra, sguardo ammonitore di Jackie nei suoi confronti – persino lei sente che non si piacciono.
Non ne chiede il motivo.

 

«Conosci qualcuno che conosco anche io? Se sei cresciuto qui è altamente probabile, sai.»
«Non ho molti amici – c'è Rose, più qualche... conoscenza

«Le vuoi molto bene, vero?»
«Ci conosciamo da nemmeno una settimana, cosa può importarti di quanto sono affezionato a quella che per te non è niente più di una sconosciuta?» brusco – non seccato, solo protettivo.
«Scus-»
«Sì, le voglio molto bene – è la mia migliore amica.»
Sorriso un po' meno stanco, un po' meno spezzato.

«Perché Jackie
«Te l'ho detto, l'ha scelto Rose – non mi ha mai spiegato perché.»
«Non è un brutto nome.»
«Io penso sia orrendo.»
Sguardo contrariato dalla diretta interessata.
Qualche istante di silenzio. Elena contrare l'angolo della bocca, nel tentativo di trattenere la risata – si arrende.

«Okay, poteva scegliere meglio.»
Ride anche lui.

 

Il giorno in cui capisce che Damon si fida di lei sono passati tre mesi dal loro primo incontro.

Hanno una routine consolidata, tutta loro – perlopiù parlano, comunque.
Parlano tanto, parlano sempre.
Lei chiude gli occhi – lo fa da qualche settimana, giusto un paio.È successo per caso – come sempre. L'h afatto d'istinto, e da allora serra le palpebre quando lo vede arrivare, e le riapre solo quando di separano.

Non si guardano mai – lui non può, e lei chiude gli occhi.
Lui non lo sa – non sa che sta cercando di capirlo, almeno un po', magari in modo un po' ridicolo.

Sta solo provando – solo tentando.

È il giorno in cui parla per la prima volta con Rose – pranzano insieme, spartendosi i panini che si porta dietro, di solito (anche se, tutte le volte, si limita a dividerli con Damon. Lo mantiene lei, praticamente), per non far preoccupare più di quanto già non facciano Jeremy, Jenna e Ric.
Ha accennato qualcosa, cercando di giustificare le giornate che trascorre in quel parco, ma niente di specifico – sa che sono seriamente ansiosi, ma sa anche che sospettano qualcosa.

Rose Famil è una donna adorabile – dolce come una madre, graziosa come una fata e... saggia. Sì, saggia.
Capisce perché lui le vuole così bene – anche se non sa nulla sulle circostanze che li hanno fatti incontrare, e non ha informazioni sul lasso di tempo da cui si conoscono.

Durante quel pranzo scopre che sono cresciuti insieme – scopre anche interessanti annedoti su Damon, in realtà. Sul prima di Damon. Scopre che non è così da sempre – e scopre che è facile affezionarsi in venti minuti ad una persona, se tale persona è come Rose. O come Damon.

«Mi hai fatto conoscere Rose. Grazie.»
«Le ho parlato di te – era curiosa.»

 

«Hai un fidanzato?»
«Ce l'avevo – l'ho mollato. Il giorno in cui ho incontrato te.»
«Elena, così mi lusinghi.»
«Cos-? Oh, ma che idiota!» uno scappellotto scherzoso, una finta espressione offesa. «Mi ha tradita. Sono nel bel mezzo di un anno sabbatico – ho appena finito l'università. In teoria dovrei visitare il mondo, ma... sono semplicemente tornata a casa, per Natale. E, in pratica, il ragazzo che prima o poi probabilmente avrei sposato mi tradiva da anni con la mia migliore amica e io l'ho scoperto il giorno di Natale – oh, sorpresa.»
«Sembra la trama di una soap da casa di riposo – senza offesa.»
«Nessuna offesa, lo so.»
«Comunque, non ti merita. Tu sei superiore a lui.»
«L'hai sentita ascoltando l'oroscopo alla radio?»
«C'era la televisone accesa in salotto – mio fratello crede un sacco in queste cose. Ma lo penso davvero.»

 

«Credo che Jackie voglia andare a giocare con gli altri cani – ce ne sono un paio che scondinzolano nella sua direzione.»
«Potresti sganciare il guinzaglio, per favore?»

«Certo.» dita che si sfiorano appena – lui si ritrae, quasi scottato.
Dissimula, mentre sente l'uggiolio grato di Jackie che si allontana.
«Jackie ringrazia – aggiungo il mio, di ringraziamento.»

 

«I miei parenti si chiedono cosa faccio qui, tutti i giorni – quasi tutti i giorni.»
«Ah, ecco cosa fai nei week-end: cerchi di eludere le domande sul tuo nuovo, segretissimo fidanzato ai pranzi di famiglia!»

«Oh, ma stai zitto.»

 

Il giorno in cui lo abbraccia per la prima volta sono passati sei mesi dal loro primo incontro e, ormai, forse, magari possono essere definiti persino amici – persino qualcosa di più, anche se non si sono mai nemmeno sfiorati, se non per sbaglio, un paio di volte, prima di allora.


Il giorno in cui lo abbraccia per la prima volta, ha la conferma che Damon la sente vicina – abbastanza vicina da dirle di un incubo, abbastanza vicina da spiegarle sinceramente perché è così stanco. Perché la notte non dorme e ha l'anima strappata a metà.
Un incubo in cui in un attimo risate e colori diventano grida e il buio – il nulla assoluto, e la sensazione del sangue sotto le dita.

«È successo un anno fa – un anno e mezzo fa, ormai. A Natale. Era notte e non si vedeva bene, il vino era scivolato a fiumi in brindisi che non ricordo più e stavo tornando a casa – con la mia ragazza di allora, Katherine, e un mio... amico. Enzo.» deglutisce, la mano destra stretta in modo quasi spasmodico fra il pelo di Jackie – ha la sensazione che basterebbe un soffio di vento inopportuno a spegnere la sua voce e ad allontanarlo da lei. «Un frontale contro un'altra auto – fu un attimo. Nessuno dei tre aveva la cintura. Katherine se la cavò con il meno – costole fratturate, non ricordo quante, e una commozione cerebrale.» ne parla con timbro monotono e vuoto, come un semplice ricordo – Elena sente che non è così, che c'è qualcosa. Qualcosa per cui si sente infinitamente in colpa, qualcosa che... gli fa male. Gli farà sempre male.

«Io guidavo. Sbattei la testa contro il volante – frattura del pavimento dell'orbita. Tutti e due gli occhi. Cecità permanente.» ingoia ancora parti della storia che sono irrilevanti – che forse non lo sono davvero, ma che non è ancora pronto a condividere con lei.
Sputa fra i denti le ultime parole, la mano che non accarezza il cane stretta a pugno – come se si preparasse a picchiare qualcuno che non è più davanti a lui, come per punirlo di non esserci più.

«Enzo morì sul colpo.» voce dura, tagliente – è questo che gli fa male, è questo che lo tortura.

Elena non pensa. Si alza, gli occhi ancora chiusi – come li tiene da ormai qualche mese –, e si sposta sulla sua panchina, stringendo le braccia attorno alla sua vita.
Damon è sorpreso – non sa bene cosa fare, come muoversi. Poi, però, la stringe a sé, tuffando il viso fra i suoi capelli – gli occhiali sono un po' un impiccio, in effetti.

E rimangono così – per qualche minuto, o per qualche ora, o per qualche giorno.
Quando si allontanano, Elena prende un bel respiro e gli fa un'altra domanda – ci prova.

«Forse è una domanda troppo personale – forse toccherà corde, o nostalgia o... non lo so. Ti capisco se non vorrai rispondermi, e hai tutto il diritto di mandarmi al diavolo e non parlarmi più né continuare con questi incontri, perché probabilmente mi sto impicciando in affari che non mi competono...» si morde le labbra, torcendosi le mani. Aveva intenzione di fargliela proprio quel giorno, così, per curiosità, ma non aveva programmato che lui avrebbe deciso di aprirsi – ora si sente così stupida.
Come il giorno in cui si sono incontrati.

Ma lui sbuffa, corrugando la fronte.

«Dimmi, Elena. Ti ho appena raccontato come sono diventato cieco, non credo che la tua domanda sarà qualcosa di-» lo interrompe, senza dargli il tempo di finire, di tornare un passo indietro, a quella scorza di sarcasmo di cui si è appena liberato – non può buttare all'aria quei progressi.
«Di che colore erano i tuoi occhi? Prima.» è un quesito che le martella in testa più o meno da quando si è resa conto di quanto sia bello – bello da mozzare il fiato, con quei lineamenti armonici e i colori opposti.

«Azzurri. Erano azzurri.» le risponde subito, quasi spiazzato. Elena non resiste alla tentazione di aprire i suoi, di occhi, per carpire la sua espressione – è sorpreso, e forse riesce a leggere addirittura un attimo di titubanza nella piega della sua bocca. Poi lui la scaccia, increspando le labbra in un ghigno per prenderla un poco in giro. «Come un magnifico cielo di primavera, limpido e riscaldato dai raggi del sole...» si pavoneggia con tono sognante, una risata in gola che non si permette di far affiorare.
Ride anche lei, spintonandolo scherzosamente.

«Ho capito, Narciso. So che colore è, l'azzurro.» scherza, falsamente piccata, fin quando non nota che lui si è fatto incredibilmente serio, tutto d'un colpo.
La domanda che segue spiazza lei.

«E i tuoi?»

 

«Come sono i tuoi capelli?»
«Damon, cos'è questo improvviso interesse per la mia persona?»
«Su, non essere noiosa!»
«Castani, lunghi e castani. Dovrei tagliarli, in realtà.»
«Mi sono sempre piaciuti i capelli lunghi.»
Quella sera, Elena cancella l'appuntamento preso la settimana prima con la sua parrucchiera.

 

«Cos'è successo a Katherine?»
«Mi ha lasciato, qualche mese dopo... l'incidente. Ha detto che non riusciva più a sopportare di dovermi aiutare mentre mi... abituavo. Che non poteva passare la sua vita insieme a un uomo nemmeno in grado di muoversi nella sua stessa casa.»

«Che stronza egoista.»
«Lo è sempre stata – in un certo senso ringrazio che se ne sia andata.»
Un sorriso amaro, che cerca di lasciarsi scappare qualche ricordo – Elena porta la mano a stringergli un ginocchio, e rabbrividisce di aspettativa quando lui la copre con la sua.

 

«Mi dispiace. Tu non ti meriti che sia successo quello che è successo.»
«Ma è accaduto, Elena. Ormai non posso cambiarlo.»
«Lo so. Questo non impedisce che mi dispiaccia e che senta che dovrei poter fare qualcosa per te.»
«Mi basta che tu... rimanga qui. Mi basta averti incontrato.»

 

Il giorno in cui la bacia per la prima volta si conoscono da nove mesi, e condividono la stessa panchina da tre. Jackie la riconosce come un'amica da otto mesi circa.
Non si sono ancora mai incontrati fuori da quel parco, da quell'angolo di mondo che ormai sta tornando grigio – lei l'ha visto esplodere in un verde, quella primavera. Morire in un giallo spento nel caldo d'agosto e, poi, tingersi d'autunno. Gliel'ha raccontato –, ma si conoscono.
Meglio di quanto si possa pensare – parlare è utile.

 

Il giorno in cui Damon la bacia per la prima volta, è anche il giorno in cui lui vede – in un certo senso – il suo viso per la prima volta.
«Posso toccarti il volto? Vorrei... capire come sei fatta. I tuoi lineamenti – zigomi, guance, fronte, labbra. Posso farmi un'idea.» è anche la prima volta in cui sente la sua voce così titubante.

«Fallo.»

Non gli confessa che è già da un po' che il desiderio di toccare le sue mani – di sentirle sulla pelle e sì, anche attorno al viso – si è fatto pressante.
Trattiene il respiro quando le sua dita – lunghe, affusolate – accarezzano con circospezione i suoi tratti, studiando metodiche la conformazione del suo capo. Passa e ripassa più volte sugli zigomi, sul mento – sulle labbra –, tentando di capire.

Sorride, quando ci riesce – e per un attimo è un sorriso vero, non un quasi sorriso.
Per un attimo, lui non è un uomo dei quasi.

È l'attimo in cui si sporge verso di lei e le sue, di labbra, la accendono di rossore – è il momento in cui lascia andare il fiato, come se non avesse aspettato altro.
E, in effetti, non stava aspettando nient'altro.

 

«Tuo fratello è strano, sai?»
«Il fatto che tu abbia finalmente conosciuto la mia famiglia non significa che ora hai campo libero sui giudizi. Jeremy non è strano.»
«Fammi finire – ho detto che è strano, ma è molto meglio del mio, di fratello.»
«Ric ti piace.»
«È l'unico che abbia seriamente apprezzato Jackie – tua zia era troppo occupata a preoccuparsi che non le rovinasse il tappeto e tuo fratello è allergico.»

 

«Non ho intenzione di passare un altro Ringraziamento con voi – hai una famiglia di matti, Elena!»
«Io ti avevo avvertito – non è colpa mia se Alaric, da ubriaco, è un disastro!»

«Non parlavo di Ric – lui è terribilmente divertente, da sbronzo, dovrebbe farlo più spesso. Intendevo il fatto che tua zia mi ha rimpinzato come fossi io, il tacchino, e che la fidanzata di tuo fratello abbia cercato di leggermi le carte mentre Alaric era sbronzo. Mi hanno impedito di sentire bene i suoi vaneggiamenti.»

 

«Tuo padre è insopportabile – l'uomo più tronfio e orrendamente pieno di sé che io abbia mai conosciuto.»
«Cosa ti avevo detto? Ma tu no, hai deciso che dovevi assolutamente conoscere la mia, di famiglia. Ignorando oltretutto il fatto che non riesco a digerirli per più di cinque minuti, nella stessa stanza insieme, e tu mi ci hai costretto per una cena intera.»
«Prima o poi dovrete fare pace – non puoi continuare così, almeno con tuo fratello.»
«Prima o poi.»

 

Il giorno in cui le dice di amarla, per la prima volta, è Natale e la neve cade, tingendo di un bianco etereo i tetti e i vialetti e sì, anche le panchine – legno bagnato e metallo gelido.

Le mani di Elena sono al sicuro, nei guanti – Jackie è ai loro piedi che osserva con curiosità i fiocchi che scendono, lenti.
Lei la imita, accoccolata nell'abbraccio caldo di lui – ha il capo reclinato contro il suo, di lato, e ascolta il suo respiro regolare.

E così, all'improvviso – all'improvviso com'è entrato nella sua vita –, mormora quel “ti amo” fra i denti, sussurrando fra i suoi capelli, nel suo tono stanco – ma meno stanco, meno spezzato.
Forse solo un po', forse non ancora abbastanza, ma l'ha guarito – c'è riuscita.

«Buon Natale, Damon.» sorride, aspettando la sua protesta. Ha un piano.
«Non lo dir-» non lo lascia finire – si volta e lo bacia, e il loro è un bacio caldo e familiare e rassicurante, dolce e intimo. Lo conosce, lo conosce bene – conosce i suoi dolori e ha imparato a leggerlo dai gesti e dalla piega delle labbra, dalla ruga che gli si forma sulla fronte quando è preoccupato e dalla tensione del suo volto quando è infuriato. Ha imparato tutto questo – e lui lo sa.

Può farle un piccolo, minuscolo regalo – dopotutto, lei ama il Natale e lui ama lei, no?

«Oh, va bene. Buon Natale, Elena.»

***

Ci sono amori che nascono per caso, fra una parola e l'altra, e si nutrono di sfioramenti e divorano le persone con un'intensità che si mostra poco alla volta.
Ci sono destini che si divertono a giocare con gli uomini.

Ci sono incontri che accadono e basta – perché non può essere altrimenti.

E, anche se si cade, ci sarà qualcuno pronto a tendere una mano per continuare a camminare.

 

 
 
   
 
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