Alice e il cappellaio
A chi mi ha permesso, senza saperlo, di trovare il mio
Paese delle Meraviglie.
A Veronica, doppiamente, perché questa storia non
sarebbe mai esistita senza il suo essere assolutamente
e terribilmente petulante.
I
Consentitemi di
essere esplicito sin dall'inizio. Non credo che vi
piacerò. I signori proveranno invidia e le signore disgusto. Non
vi piacerò affatto! Non vi piacerò ora e vi piacerò ancor meno in
seguito. Signore, un avvertimento: io sono pronto a tutto! In ogni momento! Che
sia merito o demerito, questo ora è difficile da dire. Tuttavia, è certo che
sono un libertino. Continuerò a spassarmela e a provare ardenti passioni. Non
doletevene, vi arrecherebbe afflizione! Traete le conclusioni stando alla distanza
a cui vi terreste se stessi per mettere la lingua sotto le vostre sottane.
Signori, non disperate. Sono pronto a tutto, si! Lo stesso avvertimento vale
anche per voi! Placate le vostre squallide erezioni, perché quando avrete un
amplesso vedrò di cosa sarete capaci. Allora saprò se sarete venuti meno alle mie
aspettative. Vi auguro di fottere, immaginando che la vostra amante segreta vi
stia osservando di nascosto. Di provare le stesse sensazioni che io ho provato
e che provo e chiedervi: era questo lo stesso brivido che sentiva lui? Avrà conosciuto, qualcosa di più intenso?
O c'è un muro di disgrazia contro il quale tutti battiamo la testa in quel
fulgido, eterno momento?
Questo è tutto.
Questo il mio prologo. Nessuna rima. Nessun decoro.
Non era quello
che vi aspettavate spero!
Sono John Wilmot. Il secondo Conte di Rochester.
E non ho alcuna,
intenzione, di piacervi.
-The Libertine-
Ricordo
di aver visto quel film di nascosto, con la più improbabile delle compagnie.
I miei genitori avevano rabbrividito alla sola idea che la loro bambina potesse
guardare un film che parlasse esplicitamente di quella cosa e me l’avevano vietato, ma qualcuno non era stato d’accordo.
Di
cosa parlasse?
Di
sesso, chiaramente, ed è bene chiamare le cose con il loro nome, come mi ripeteva
sempre mia nonna, perché meno si parla più cresce la
curiosità, fomentata però dall’ignoranza, che non è mai un bene.
Certo,
ascoltare un’arzilla vecchietta che vi racconta dei rapporti tra uomo e donna
non era il modo ideale con cui avrei pensato di avere la mia “iniziazione”, ma
così fu, e dopotutto, insieme a quel film, non fu un’esperienza così traumatica.
Credo
di essere una delle poche ragazze di oggi a vantare
una prima volta più noiosa di quella della propria nonna, perché credetemi, se
doveste indovinare chi l’ha fatto in un letto e chi nel retro di un pub
irlandese, sbagliereste risposta.
Ad
ogni modo… Avevo progettato di iniziare la storia in
tutt’altro modo, non so come sia finita a parlare di quella cosa, non era mia intenzione, benché sia piuttosto
inevitabile avendo sin dal principio citato John Wilmot.
La
verità è che quel monologo continuò a risuonarmi in testa per giorni, per mesi,
finché non cadde nel dimenticatoio perché la vita va avanti e molte cose
svaniscono nell’oblio dei ricordi.
Mia
nonna non aveva dimenticato, però, né aveva dimenticato
la promessa che mi aveva estorto quella sera.
Amava
il cinema, ma
ancora di più amava i suoi monologhi e li accostava a noi nipoti in maniera
apparentemente improbabile, ma quanto mai adeguata. A tutti e quindici i
nipoti.
Mia
nonna fino alla fine dei suoi giorni si definì una moglie a tempo perché il periodo riservato ad
ognuno dei cinque mariti era decisamente esiguo. Nonostante i divorzi, però, la
nostra è una famiglia incredibilmente unita che aveva il suo fulcro in lei,
l’incomparabile Lady Violet che di nobile non aveva
nulla, ma che si era guadagnata quel soprannome negli
anni trenta, diventando la musa e l’amante di un pittore che l’aveva ricoperta
di regali, di perle e di begli abiti, togliendola dalla povertà.
Sapeva
stregare tutti, Violet, compresi i suoi mariti che si
accontentavano del tempo a loro disposizione e poi
accettavano il ruolo di amico, ben consapevoli di come sarebbe stato
impossibile legarla a sé per troppo tempo: i rapporti totalitari la soffocavano
e aveva bisogno, di tanto in tanto, di una pausa persino dai propri figli. Otto,
per essere precisi. Credo che a loro sia mancata, soprattutto alle tre femmine,
ma alla fine della fiera si abituarono presto.
Quanto
a noi nipoti, ci godevamo le sue coccole a turno, felici. È stata lei a
scegliere i nostri nomi, aprendo a caso le pagine dei libri della sua enorme
libreria londinese: mia nonna aveva un rapporto conflittuale essi, amava
leggerli e collezionarli, ne aveva tantissimi e molti in più di un’edizione e
lingua, ma al tempo stesso non esitava a toglierceli dalle mani durante le
belle giornate di sole o quando li usavamo per fuggire dai problemi.
Non tutte le risposte si trovano nei
libri.
Mi
chiamò Alice, ma credo di aver perso il mio Paese
delle Meraviglie da un bel po’ di tempo ormai.
Da
piccola ci sono stati momenti in cui ho desiderato avere un nome inglese, come
tutti i miei cugini, ma io sono nata in Italia e quindi aveva deciso che sarebbe
stato un nome italiano. Mia madre è figlia del marito numero tre, conosciuto
negli anni ’50 durante un viaggio a Roma: la nonna aveva lasciato marito e
figli in Inghilterra per risposarsi qui, con nonno Luigi, da cui ebbe Giacomo e Elisa. In quegli anni fece da spola, rimanendo stabile in
Italia finché non conobbe il marito numero quattro, di Liverpool:
fortunatamente aveva l’accortezza di scegliere mariti benestanti, che potevano
sobbarcarsi i costi dei viaggi frequenti.
Forse
descritta in questo modo la nostra vita può sembrare
un incubo, o una favola: non fu né l’uno né l’altra…
fu, semplicemente, la nostra vita, e noi nipoti ricevemmo amore amplificato, da
lei, dai cinque nonni e dalla miriade di zii.
È
morta un anno fa, serena e circondata da tutti noi, ma non starò qui a descrivervi
il vuoto che ha lasciato. Vi parlerò, piuttosto, del suo ultimo dono.
All’apertura
del testamento scoprimmo che aveva diviso il patrimonio tra i figli, lasciando
però un legato ad ogni nipote, ognuno accompagnato da
un monologo del cinema.
Sì,
esatto, il mio fu proprio quello di The
Libertine. Molto appropriato per un testamento, non trovate?
Fu
allora che il ricordo mi ripiombò addosso, facendomi vacillare.
Mi
ero laureata da qualche mese in giurisprudenza e avevo iniziato la pratica
presso uno studio legale: ero felice e appassionata, benché mi portasse via
tutto il tempo a disposizione. I miei genitori non comprendevano di cosa mi
lamentassi, cosa mai dovessi fare se non quello per cui avevo studiato, ma
dopotutto loro non potevano capire, non avevano mai voluto farlo, sin da quando
ero una ragazza alle medie che si divertiva a scribacchiare racconti su
quaderni con l’immagine di una Ferrari stampata sopra.
La
scrittura divenne presto tabù, perché l’importante era che studiassi e mi
costruissi un futuro. All’iniziò soffrii: le parole,
le storie erano parte di me e mi sentivo rifiutata io stessa, ma ben presto mi
rassegnai e indossai la maschera di figlia perfetta e studentessa modello che
non mi ero più tolta.
Non
abbandonai mai la scrittura, però, non avrei potuto e l’unica persona al mondo
a leggere quello che scrivevo era mia nonna: voleva che studiassi, che mi
laureassi, ma capiva anche che togliendomi la scrittura avrebbe ucciso una
parte di me… E che, in fondo, potevo fare entrambe le
cose.
Negli
ultimi mesi, però, impegnata com’ero a vivere quella vita a metà, mi ero
dimenticata chi fossi e il racconto, il primo vero romanzo che avessi mai
iniziato, giaceva abbandonato, privato della sua lettrice e, soprattutto, della
mano che avrebbe tracciato la vita dei suoi personaggi.
Non vi piacerò affatto! Non vi piacerò ora e vi piacerò ancor meno in
seguito.
Come ultimo gesto, mia nonna mi aveva ricordato perché
quel monologo mi avesse colpito così tanto, quanta
voglia avessi avuto in quei giorni di mollare tutto, di togliermi quella
maschera da ragazza modello. Forse non sarei piaciuta agli altri, ma sarei piaciuta a me.
Avevo bisogno delle mie parole.
-Quindi hai deciso capeggiare una rivolta di polli?
Sveva, come sempre, sapeva spiazzarmi con i suoi maniacali desideri di guerra.
-Perché proprio di polli?
-Perché sono carini!- Non potevo vederla, ma la
percepii sorridere dall’altro capo del filo
–Comunque, va bene, niente polli, quindi molli tutti e
vai ad arruolarti su una nave pirata ai caraibi.
-Quasi.- sospirai, mentre
nella mia mente si accavallavano immagini di Jack Sparrow.
-Ha senso, è sempre stata la tua aspirazione.
Sbuffai divertita, -Vuoi saperlo o no?
-Parla pure.
-Ho fatto domanda per fare
sei mesi di pratica all’estero e oggi ho saputo che è stata approvata.
-All’estero? Ma così, dall’oggi al domani?
Sostanzialmente, sì: era stata una decisione presa nel
giro di una notte, affatto ponderata e che non sapevo come spiegare ai miei, ma
ormai era fatta.
-Qualche giorno dopo la lettura del testamento ho chiamato
mio cugino che vive nell’Essex, Brian, l’avvocato:
gli ho chiesto se mi avrebbe preso sei mesi con sé e mi ha risposto subito di
sì. È stato adorabile e non ha battuto ciglio quando gli ho spiegato che non
avevo intenzione di trascorrere undici ore dentro uno studio come faccio qui:
ha capito, mi ha detto di andare da lui un paio di mattine a settimana e alle
udienze, e di godermi la pace della vita da praticante, che da avvocato non
avrò.
-Molto carino. E vivrai da lui?
-No, qui viene il bello. Ricordi Feathery Fairy?
Era una domanda retorica, sapevo
che nessuno avrebbe mai dimenticato il
cottage di nonna Violet, situato in una baia, ai
margini di un piccolo paese poco distante da Southend-on-Sea, la cittadina del suo primo
marito in cui ancora viveva Brian, il maggiore tra i nipoti, e a quattro passi da uno strapiombo sul mare, con le
mura pastello e un enorme giardino pieno di rose: avevamo trascorso lì le
vacanze di Pasqua alcuni anni prima, dieci indimenticabili giorni passati a
mangiare sull’erba a piedi scalzi e a cantare le stelle che in città non
avremmo mai visto. E a cantare,
loro, mentre io mi limitavo a contemplare la mia ignoranza musicale che,
dopotutto, non mi era mai pesata, e a far finta che non mi interessasse
essere istruita.
Quello era il posto da cui avrei ricominciato.
-I tuoi non la prenderanno bene.
-Lo so, ma ho i soldi di nonna: mamma vorrebbe che li
conservassi per il matrimonio, ma sono sicura che Lady Violet
sarebbe più che felice. E poi, non mi servirà granché in uno sperduto paesello
dell’Essex.
-Allora vai, parti… Tra sei mesi
ti verremo a riprendere.
-Ci conto.
***
L’odore della
salsedine è l’odore della vita stessa.
Aveva ragione lei, come sempre, e non appena fermai la
macchina noleggiata nel vialetto del cottage, scesi e corsi fino allo
strapiombo, fermandomi un istante prima che fosse troppo tardi, iniziando a
ridere e a respirare l’odore della salsedine. Non sapevo cosa stavo cercando,
ma sapevo cosa avevo trovato: Lady Violet era lì, in
ogni soffio di vento che portava con sé i profumi a
lei tanto cari, pronta a prendermi per mano in quel viaggio di cui non
conoscevo la meta.
II
La nota stonata
I can't find myself
In the head of this stranger in love
Holding on given up
To another under faded setting sun
And I wonder where I am...
Il cottage era esattamente come lo ricordavo e, al
tempo stesso, era totalmente diverso: i mobili erano disposti nello stesso
identico modo, ma il tempo ne aveva opacizzato i
colori, e senza il fuoco nel camino tutto era spento e cupo. Soprattutto, però,
privata della presenza della nonna era come se Feathery Fairy avesse perso la sua anima… La prima sera in cui ero venuta a farle visita con
le mie amiche aveva provato a comportarsi come la classica nonna e, nel
tentativo di preparare la cena, avevamo corso il rischio di morire soffocate,
oltre che di perdere il cottage per le fiamme. Ci eravamo ritrovate, passata
l’iniziale paura, a mangiare pane, formaggio e bacon sedute per terra davanti
al caminetto, mentre Violet ci raccontava alcune
delle avventure che aveva vissuto in giro per l’Europa
nei suoi anni d’oro, come era solita
chiamarli.
Solo in quel momento realizzai quanto mi sentissi
persa senza di lei, quanto avrei desiderato prendere il cellulare dalla borsa,
digitate la chiamata rapida numero uno e sentire la sua voce dall’altra parte
della linea, fresca e squillante, sempre sorridente. Con lei, se n’era andata
l’unica persona che mi avesse conosciuta davvero.
Sfiorai le tende color lavanda del salottino, il suo
angolo preferito, e mi schiarii ripetutamente la voce per non cedere al pianto:
basta lacrime, avevo giurato, lei non le avrebbe volute.
Fortunatamente ci pensò il mio stomaco e riportarmi
con i piedi per terra, brontolando sonoramente per la mancanza di cibo: era
stato un viaggio lungo, erano le sei di sera e io, se
si escludeva un pacchetto di crackers, non mangiavo
da quindici ore. Trascinai i bagagli nella mia camera preferita e accesi la
stufa, gentile pensiero di mio cugino che conosceva il capriccioso
riscaldamento meglio di me, e fortunatamente nel giro
di qualche momento la camera e il bagno, dotato di un’altra stufetta, furono
caldi abbastanza da permettermi di lavarmi e cambiarmi, riprendendomi poco a
poco dalla stanchezza.
Purtroppo, quello non bastò a placare la fame, ma
quando giunsi in paese di corsa riuscii a stento a
fare un po’ di spesa al market prima che mi chiudessero le porte in faccia:
avevo dimenticato di non essere a Roma, con i supermercati aperti fino a tardi.
E aveva iniziato a piovere.
Quel posto era sempre stato come una casa per me, ma
in quel momento tutto mi sembrava ostile, come se la natura urlasse il mio
essere totalmente fuori luogo, e così mi accasciai, sconsolata, su una panchina,
con il volto nascosto tra le mani.
Mi chiesi cosa mi fosse venuto in mente: un viaggio di
piacere con la nonna a pensare a tutto era un conto, ma cinque mesi così… Non ero pronta, in realtà.
-Ei, ti sei persa?
Sì, avrei voluto rispondere! Sì, mi sono persa, riportatemi a casa!
Ovviamente non lo dissi e alzai piano la testa: era un
ragazzo ad aver parlato, vestito di bianco e talmente magro che pensai che una
brezza leggera avrebbe potuto portarlo via.
-No, scusami, sono solo stanca.
-Sei nuova di qua.
-Sì e no: sono una delle nipoti di Violet,
mi sono trasferita per un po’ a casa sua.
Gli occhi del ragazzo si illuminarono,
-Lady Violet.- ogni lettera sembrava miele, tanto era
pronunciata con dolcezza. –L’ho incontrata spesso in
città, una signora sempre sorridente e allegra. Mi dispiace per…
Tacque e io annuii: lo
capivo, neppure io sapevo cosa dire in quei casi.
-Sono Simon, comunque.-
continuò tendendomi una mano, magrissima come il resto del corpo.
-Alice, piacere.
-Bene, Alice, sei infreddolita e scommetto anche
affamata, io sto andando al pub, perché non vieni a mangiare qualcosa?
-Ecco…
-È tardi,- aggiunse guardando
febbrilmente l’orologio –se vuoi venire, mia cara, dobbiamo andare ora.
E così mi ritrovai a seguire Simon fino ad un locale rustico ma delizioso e con un nome da favola: Enchanted.
-È tuo?- domandai accomodandomi al bancone.
-Era di mio padre, ma ora è mio.
Quel posto sembrava non essersi mai evoluto dal 1860,
anno in cui era stato fondato, o, almeno, non troppo, e
io lo amai immediatamente tanto sembrava sospeso fuori dal tempo, incantato.
Mi persi a contemplare il locale e le persone presenti
al punto che quasi dimenticai la fame, ma quando Simon mi portò un’enorme
porzione di fish and chips e
una pinta di birra il mio stomaco fece i salti di gioia.
Per essere una ragazza che aveva trovato quasi
piangente su una panchina e con una fame epica, fu fin troppo carino con me,
anche considerando la mole di lavoro che aveva, e io
stavo così bene che persino la stanchezza sembrava essere svanita. Un signore
del posto, dopo aver scoperto di chi fossi nipote, mi raccontò delle serate che
la nonna trascorreva in quel locale, a bere birra e mangiare noccioline con un
cappello di piume in testa e le perle al collo, con la battuta sempre pronta e
un sorriso a dipingerle il volto: non faticavo a capire perché, nonostante
tutto, nessuno la trovasse stramba.
Solo verso la fine della serata mi ricordai di
avvisare in Italia del fatto che fossi viva; avevo mandato un sms ai miei genitori
appena atterrata, ma poi avevo totalmente dimenticato il cellulare che trovai
intasato di chiamate e messaggi.
Risposi solo all’ultimo, a Bianca, chiedendo di
rassicurare tutti sulla mia incolumità. Snow, come eravamo soliti
chiamarla, mi assicurò che l’avrebbe fatto e mi chiese di dar segni di vita di
tanto in tanto e stavo quasi per chiamarla quando fui distratta da un boa rosa appeso
dietro il bancone. Come avevo fatto a non vederlo prima? E, soprattutto, cosa
ci faceva un boa rosa in un pub di uno sperduto paesello inglese?
Un improvvisato karaoke mi distrasse da quel pensiero,
ma mi tornò in mente a fine serata.
- Perché hai un boa rosa?
-Non ti sembra un’ora tarda per certe domande?
-Per te è sempre tardi!
Gli occhi di Simon si posarono sull’oggetto in
questione e quasi istintivamente sorrise, -Me lo ha
lasciato un’amica anni fa. Le ho fatto notare che stonava un po’ in
quest’ambiente, ma lei mi ha risposto che era proprio questo il punto: ogni
posto, ogni persona deve avere una nota stonata dentro di sé.
Una sera, due giorni dopo quell’incontro, mi ritrovai a passeggiare lungo la scogliera, in silenzio,
cullata dal solo rumore delle onde di quella infinita distesa d’acqua che si
estendeva ai miei piedi.
Mi strinsi di più la giacca attorno al corpo e mi
chiesi cosa si dovesse provare a sentirsi come il mare: la nota stonata è
questo, alla fine, qualcosa che ci permetta di sentirci infiniti,
di un’infinità che spaventa, come spaventano i nostri desideri più reconditi,
le aspirazioni più segrete.
Ogni volta che posavo gli occhi sul boa rosa mi chiedevo quale fosse la nota stonata della mia vita,
ma non occorse molto tempo perché la trovassi.
O ritrovassi.
Un giorno di pioggia mi costrinse in casa, così decidi
di esplorare la casa ritrovando, durante la ricerca, vecchi
album di fotografie in bianco e nero o a colori, della nonna da giovane,
dei suoi matrimoni e dei figli, attimi di vita cristallizzato, preziosa memoria
visiva che avrebbe permesso anche alle generazioni successive di conoscere
quella donna meravigliosa.
D’un tratto in una cassapanca trovai una scatola con
sopra un biglietto: riconobbi subito la mano che aveva vergato le parole Per Ali.
Lo aprii con il cuore in gola.
Ogni storia ha
bisogno di una fine.
Prima ancora di aprire la
scatole, sapevo cosa contenesse.
Mi fermai ad ammirare la macchina da
scrivere facendo scorrere le dita sui suoi tasti. Non l’avrei usata, non ne
avrei avuto il coraggio, ma sapevo che sarebbe diventata un monito, così come
lo sarebbero state le parole della nonna.
Ogni storia ha bisogno di una fine, quei tasti avevano
una fine, erano un numero ben preciso, ma quello che
poteva nascere da loro… Quello era infinito. Mondi
estesi come il mare, che si allargavano davanti ai miei occhi e che mi facevano
fremere le mani.
Quando raccontai a Simon della mia scoperta, tutto ciò
che commentò fu: -Bene, piccola Alice nel Paese delle
Meraviglie, pare che tu abbia trovato la tua nota stonata.
Forse, con il tempo, avrei trovato anche me stessa.
Tutta quella città...
Non si riusciva a vederne la fine.
La
fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine?
Era
tutto molto bello su quella maledettissima scaletta... E
io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi che
sarei sceso, non c’era problema.
Non
è quel che vidi che mi fermò.
È
quello che non vidi.
Puoi
capirlo? È quello che non vidi. In tutta quella sterminata città c’era tutto
tranne la fine.
C’era tutto, ma non
c’era una fine.
Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo.
Tu
pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono
ottantotto, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti loro. Tu sei
infinito, e dentro quegli ottantotto tasti, la musica che puoi far è infinita.
Questo
a me piace. In questo io posso vivere.
Ma se io salgo su
quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni e miliardi, milioni e
miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la vera verità, che non
finiscono mai e quella tastiera è infinita.
Ma
se quella tastiera è infinita allora non c’è musica
che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il
pianoforte su cui suona Dio.
Cristo,
ma le vedevi le strade?
Anche
solo le strade, ce n’era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una.
A
scegliere una donna.
Una
casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire.
Tutto
quel mondo.
Tutto
quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n’è.
Non
avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità,
solo a pensarla? A viverla...
Io
sono nato su questa nave. E vedi anche qui il mondo passava, ma non più di duemila
persone per volta. E di desideri ce n’erano, ma non più di quelli che ci
potevano stare su una nave tra una prua e una poppa.
Suonavi la tua
felicità su una tastiera che non era infinita. Io ho
imparato a vivere in questo modo.
La terra... È una nave
troppo grande per me. È una donna troppo bella.
È un viaggio troppo lungo. È un profumo troppo forte. È una musica che
non so suonare.
Non scenderò dalla
nave. Al massimo, posso scendere dalla mia vita.
-La leggenda del
pianista sull’oceano-
III
Destino e libero arbitrio
You make me real
Lately I just can't seem to believe
You make me real
Discard my friends to change the scenery
Strong as I feel
It meant the world to hold a bruising faith
You make me real
But now it's just a matter of grace
Southend-on-Sea non era cambiata
durante gli anni in cui ero stata lontana e continuava a sembrare appena uscita
da una di quelle cartoline delle agenzie viaggi che guardi con scetticismo,
chiedendoti quanto l’immagine sia stata ritoccata per attirare i turisti.
In quel caso, era tutto vero,
dalle strade ordinate e pulite ai negozietti che prosperavano felici senza
l’incubo dei grandi centri commerciali. La chiamavano città, e
io sorridevo al pensiero e ricordavo il caos di Roma che continuava a non
mancarmi.
La nostalgia, in effetti, era un
sentimento che dopo i primi momenti di sconforto iniziale mi aveva abbandonato,
senza tornare più a farmi visita: lì, lontano da casa,
tagliando i ponti con qualsiasi cosa e persona mi tenesse legata al passato,
avevo ricominciato a sentirmi viva, reale, come se respirassi per la prima
volta dopo tanto, troppo tempo.
Lo studio legale non era grande,
ma la mano di Janet, la mia cugina acquisita, l’aveva reso un posto elegante,
degno di essere l’ufficio di uno dei pochi avvocati di
Southend-on-Sea.
Avevo sbrigato le pratiche
burocratiche in poco tempo e la mattina del lunedì avevo varcato quella soglia
con spirito nuovo, rinvigorito, nonostante la sera prima avessi fatto le
quattro all’Enchanted
con Simon.
Brian sarebbe stato a Londra quel
giorno, per cui avevo programmato di trascorrere quel tempo adattandomi
all’ambiente, curiosando tra le pratiche e studiando quelle più urgenti, ma il
mio perfetto piano per la giornata fu bruscamente interrotto solo dopo appena
un’ora, quando il silenzio fu spezzato da una rumorosa entrata e da un chiacchiero tra la segretaria e il nuovo arrivato. Solo in
quel momento ricordai di Mat, il giovane avvocato che
collaborava con mio cugino, e a mia discolpa posso dire che nella mia testa lo
immaginavo come un secchione con abiti retrò e
occhiali a fondi di bottiglia, totalmente non influente nella mia vita.
Chiaramente quando una specie di
dio greco altro un metro e novanta, fisico da modello e occhi grigi mi tese la
mano presentandosi, boccheggiai alcuni istanti prima di recuperare quel poco di
dignità che mi era rimasta.
-Tu devi essere Alice.
-Sì, e tu sei Mat!
-Esattamente; Brian mi ha detto
che saresti arrivata. Allora, ti stai ambientando?
Mi stavo ambientando, certo, ed
ero anche concentrata, ma sarebbe stato difficile recuperare la dignità mentre
Mr. Avvocato-sexy si toglieva la cravatta e
sbottonava il primo bottone della camicia, mettendosi comodo.
-Sì, stavo leggendo questo
fascicolo.- gli risposi mostrandoglielo e lui annuì.
-Fraudulent Trading.
Bancarotta fraudolenta. E per
parecchi milioni.
-È una società con sede qui e
filiali a Londra e Liverpool, ce ne stiamo occupando
insieme a un altro studio legale.
-È una cosa grossa.
Mat sorrise, -Molto. Tuo cugino è
davvero bravo, imparerai molto stando con lui.
-Ne sono sicura. Devo solo
abituarmi al vostro processo, è diverso dal vostro.
-Lo so, le
eterne tempistiche italiane… Qui siamo più rapidi.
Tornai ad osservare il
fascicolo, mentre i momenti del processo iniziavano a formarsi nella mia mente,
componendo il puzzle di ciò che era accaduto e la strategia difensiva che mio
cugino aveva deciso di adottare.
La prima cosa che avevo imparato, in quel mestiere,
era non chiedere mai al cliente se fosse o meno
colpevole. Avevamo uno scopo preciso, noi avvocati: difendere. Giusto e
sbagliato diventano concetti che, almeno in quell’ambito, perdono di
significato.
Esistono le scelte, quelle degli imputati che li hanno
condotti lì, davanti al giudice. Quelle degli avvocati che, nel bene e nel
male, si ritrovano a dover difendere qualcuno che potrebbe essere colpevole. O
potrebbe non esserlo.
Il computer dello studio trillò, segnalandomi una e-mail. Aurora.
Sorrisi davanti a quella telepatia, perché era a lei
che stavo pensando. Per Aurora, che aveva condiviso il mio percorso di studi,
non esistevano le sfumature, non esistevano le mezze
misure e i forse. Il mondo era bianco
e nero e la giustizia non era un concetto che consentisse di mercanteggiare.
Era la scelta che ogni uomo compiva ogni giorno, anche senza rendersene conto:
seguire la giustizia o non seguirla.
Era un concetto diverso dal seguire le regole, le
prescrizioni contenute in leggi e codici: chi si opponeva ad
un regime dittatoriale si muoveva al di fuori della legge, ma chi poteva dire
che non seguivano la giustizia.
Una dea bendata con una bilancia in mano, che non si
preoccupa di chi ha davanti, sia esso ricco o povero, famoso e influente o povero e solo: la giustizia è giustizia.
Ricordai la prima volta che eravamo entrate in un’aula
di tribunale. La giustizia è uguale per
tutti, capeggiava oltre lo scanno del giudice.
Aurora mi chiedeva come stessi e come stesse procedendo la prima giornata a studio e iniziai a
risponderle, ma il ritorno di Mat mi distrasse. E il
pranzo mi distrasse. Eppure fu bello parlare con lui, perché nonostante ci
conoscessimo da poche ore ci trovammo subito in
sintonia.
-Ti invidio, sai?
Lo guardai perplessa per un istante, chiedendo cosa
una persona come lui, bella e brillante, potesse mai invidiare a me.
-Ti sei lamentata del processo italiano, ma la verità
è che io odio il sistema inglese… O almeno in parte.
Presi un sorso di birra e poggiai i gomiti sul tavolo,
fissandolo, -O ti spieghi, o temo dovrò dire a Brian che lavora con un matto.
La sua risata provocò numerosi svenimenti tra
cameriere e clienti. Beh, non proprio svenimenti, ma quasi.
-Qui per diventare giudice devi prima diventare avvocato ed esercitare la professione per almeno
vent’anni. O meglio, in teoria ne basterebbero meno, ma…
Solo in teoria. In Italia è più facile, vero?
-Sì e no. Bisogna sostenere un concorso accessibile
solo a chi è già avvocato oppure ha frequentato
un’apposita scuola e…- mi fermai. Per quanto
complicato fosse, era un percorso che in nessun caso, se mossi da dedizione e
perseveranza, poteva durare vent’anni. -Potresti venire in Italia.- aggiunsi
sorridendo. –Conosco un’amica che sarebbe lieta di farti da nave guida.
Lo sguardo di Mat si perse
lontano, seguendo pensieri accessibili solo a lui che io potevo solo intuire.
Eppure lo capivo. Si cresce con un sogno, lo si
coltiva, ma a volte non basta, perché la burocrazia o la semplice situazione
del Paese rischia di diventare un ostacolo insormontabile.
-Mio nonno è stato ucciso durante una rapina al
negozio di famiglia e il colpevole non è mai stato condannato. Io e lui eravamo
molto legati, mi aveva praticamente cresciuto... per
anni tutto ciò che ho desiderato era la morte del suo assassino. Credevo che i
miei sentimenti fossero dettati dalla giustizia, poi tuo zio, il padre di
Brian, mi ha fatto comprendere che non lo erano. Il confine con la vendetta è
labile, non trovi? Sono le parole, il vero problema.
Lo guardai perplessa: nella mia vita le parole erano
state un’ancora di salvezza, una casa in cui tornare e non le avrei mai potute definire un problema.
Mat percepì la mia
perplessità, perché sorrise. -Quando io uso
una parola essa significa esattamente ciò che io
voglio che significhi. La plasmo a mio
piacimento e la uso per condurre l’interlocutore alla conclusione da me
desiderata. Non è quello che fa l’avvocato? E quando, sciocco
ragazzo quale ero, dicevo che avrei fatto giustizia, era davvero quello che
sarebbe stata o non era che una vendetta mascherata?
-Montecristo ha rovinato le vite di
coloro che avevano rovinato la sua affermando di agire come Giustiziere
di Dio, ma alla fine anche lui si è scontrato con quel confine…
E non l’ha varcato.
–Sei una persona interessante, Alice
nel Paese delle Meraviglie, e non avresti potuto trovare esempio migliore. Credeva di essere destinato a percorrere quella strada, ma la verità era
che le sue erano scelte e quelle
scelte definivano chi era. Schiavo della vendetta o guidato dalla giustizia?
Quella notte ritrovai John, un
uomo che aveva tutto -una posizione, un buon nome, una donna da amare-,
che per un gioco del destino si ritrovò a dover scegliere se sopportare il
crudele ingranaggio messo in moto dai suoi nemici o andare lontano, crearsi una
storia e un'identità, in attesa del momento in cui la sua vendetta sarebbe
stata compiuta. La cosa strana fu che, benché non ci incontrassimo da anni, fu
come se non ci fossimo mai allontanati.
Non esiste il
destino. Ci sono scelte da fare. Alcune scelte sono facili, altre no.
E sono quelle
che contano davvero, quelle che fanno di noi delle persone.
Tredici anni
fa ho fatto la scelta sbagliata e avevo bisogno di porvi rimedio e non solo per
me stesso. Morire là, in mezzo alla strada, sarebbe stato facile ma non ci
sarebbe stata giustizia, non quella giustizia che i
padri insegnano ai loro figli.
Tra una settimana sapremo il
verdetto. Il mio avvocato dice che il giudice sarà benevolo dal
momento che ho confessato.
Forse non è un finale tra i più
felici, ma è quello giusto.
Un giorno uscirò
sulla parola e potremo continuare la nostra vita. E' solo questione di tempo.
Naturalmente il tempo è solo un sistema di calcolo, numeri, con un significato convenzionale… no?
-Number
23-
IV
Ricominciare
It's the first day of spring
And my life is starting over again
Well the trees grow, the river flows
And it's water will wash away my sin
For I do believe that everyone
Has one chance to fuck up their lives
Like a cut down tree I will rise again
And I'll be bigger and stronger than ever
Era trascorso un mese e la primavera stava tornando. O
forse ero io a percepirla.
Faceva ancora freddo e solo
pochi, coraggiosi fiori spuntavano vicino la scogliera, ma per me, che ogni
giorno tornavo dallo studio e mi mettevo nel portico con il computer davanti e
una pagina word da riempire, era come se il primo
giorno di primavera si ripetesse in continuazione.
La mia vita era ricominciata da
capo o forse, più semplicemente, aveva ripreso il suo corso dal momento in cui,
anni prima, avevo abbandonato i miei sogni. Avevo John, a cui
dovevo un finale, e aria profumata di salsedine nei polmoni. Ero felice.
I miei genitori ignoravano ostentatamente le mie storie,
ma ogni tanto se ne ricordavano, giusto in tempo per rinfacciarmi che avrei
dovuto smettere di fuggire dalla realtà per crearmi un futuro.
Mai che pensassero al presente.
Non mi sarei dovuta stupire: in tutta la loro vita non
avevano fatto altro che pensare ai giorni che sarebbero venuti, lasciando che
quelli presenti scorressero tra le loro dita senza lasciare alcun segno. Non
credo che qualcosa mi terrorizzasse di più… Una vita
banale, senza scossoni, senza imprevisti. Senza emozioni.
A qualcuno sarebbe potuto sembrare che vivere senza
emozioni avrebbe significato vivere senza soffrire, ma
solo un folle avrebbe rinunciato alle gioie e nessuna vita senza dolore avrebbe
potuto contenere la felicità.
Scrivere non era fuggire dalla realtà, ma sentirla totalmente
e completamente e vivere il presente… Lo stesso
presente che mi aveva portata a Londra, al Queen’s Theatre.
Era successo per caso, un pomeriggio di aria tiepida
in cui, salutato Brian dopo un incontro con alcuni clienti, non avevo molta
voglia di rientrare a casa e mi ero ritrovata a vagare per la città senza meta
e senza scopo. Era una giornata strana, una di quelle in cui sembra sempre che
qualcosa debba succedere e si resta sospesi in attesa di qualcosa che
probabilmente non accadrà mai. Mi ero quasi decisa a prendere la strada per la
stazione quando un ragazzo mi aveva dato un volantino e la mia meta era mutata
improvvisamente.
Les Misérables, il suo mondo e i suoi personaggi riempirono la mia
serata, facendomi perdere la percezione di qualsiasi cosa che non fosse quanto
accadeva sul palco e Parigi si spiegò davanti ai miei
occhi, viva e palpitante, sulle note del musical che riempivano l’aria e mi
facevano vibrare il cuore.
Avrei continuato a vederlo ancora e ancora e alla
fine, con le lacrime agli occhi, scattai una foto e la mandai ad una mia amica. Un semplice
messaggio: Do
you hear the people sing, Annie?
Me la immaginavo così bene su quella barricata, insieme a Enjorlas, Grantaire e Courfeyrac, ad inneggiare alla libertà.
Lei mi aveva iniziata a quel musical, anni prima, dopo che avevo letto il libro ed ero rimasta
affascinata dagli Amici dell’ABC, dal
loro spirito rivoluzionario e dal sacrificio per quella giustizia di cui tanto
si parla, ma che spesso viene data per scontata.
Purtroppo, bastò poco perché la realtà mi ricrollasse addosso: un rapido controllo su internet mi
permise di prendere atto della triste, ma prevedibile,
impossibilità a prendere un treno per Southend-on-Sea prima della mattina dopo, nessun
taxi sembrava disposto ad avventurarsi così lontano e non avevo alcuna voglia
di chiedere aiuto a mio cugino o a Simon. Sarei potuta andare a chiedere asilo
a Mat, che viveva a Londra, ma l’idea di imbucarmi a
casa sua all’una di notte non mi ispirava
particolarmente. Non mi rimaneva che affittare una camera nei pressi della
stazione e attendere lì, ma prima di arrendermi decisi di tentare la sorte con
qualche altro tassista.
Fu dopo l’ennesima contrattazione
andata male che mi si avvicinò un ragazzo: occhi e capelli scuri, camicia a
quadri rossi, bianchi e blu che mi faceva venire freddo solo guardarla e un volto decisamente
familiare.
-Enjorlas.- esclamai
istintivamente.
Il ragazzo mi sorrise e mi tese
la mano, -Andrew, in effetti, ma se preferisci Enjorlas va bene.
Mi sarei presa a schiaffi per la
mia stupidità. –Alice.- risposi
stringendogli la mano.
-Non voglio impicciarmi, ma ho
sentito che cerchi un passaggio fino a Southend-on-Sea.
-Sì, sarei dovuta tornare molto
tempo fa, ma la tentazione di vedere Les Mis è stata troppo forte.
Andrew scoppiò a ridere, -Spero
ne sia almeno valsa la pena. Ad ogni modo,- aggiunse
prima che potessi rispondere, -io vivo lì, ho la macchina qui vicino. Posso
offrirti un passaggio?
Mi spiazzò. L’offerta era
allettante e la sua aria familiare avallava la sua versione poiché
presumibilmente l’avevo visto in città in quei mesi…
Cionondimeno non ero una sprovveduta e fidarmi di uno sconosciuto che
casualmente andava esattamente dove avevo bisogno di andare io, e non in una
zona di Londra, ma in un luogo sperduto vicino la
scogliere non era esattamente una scelta saggia.
Dovette percepire la mia
perplessità, perché prese il telefono e digitò un numero.
-Amico, scusa l’ora ma ho bisogno
che tu dica ad un’adorabile biondina che probabilmente
conoscerai che non sono un maniaco.
Un “opinabile” pronunciato da una
voce familiare mi fece sorridere. Andrew mi passò il telefono e mi ritrovai a
parlare con Simon.
-Cosa ci fai con Mr. Palcoscenico?
-Nulla, ho fatto tardi vedendo Les Mis e lui si è offerto di
accompagnarmi a casa… I treni non ci sono e i
tassisti non collaborano.
Simon sbuffò –Sei sempre la solita, potevi chiamarmi! Ad
ogni modo, puoi fidarti di lui, ma digli che se prova a toccarti lo uccido.
Non avevo alcuna intenzione di
riferire il messaggio, ma dalla faccia divertita di Andrew intuii che l’aveva
sentito.
Fu così che mi ritrovai in
macchina con un perfetto sconosciuto che guidava canticchiando canzoni dai
musical più disparati.
-
Come sapevi che conosco Simon?
-Non lo sapevo, ma ho tirato a
indovinare. Tutti a Southend-on-Sea
conoscono l’Enchanted?
Tu come sei finita lì?- mi chiese dopo un istante di silenzio.
-Avevo bisogno di fuggire per un
po’ e l’eredità di mia nonna è arrivata come un segno del destino.
Andrew sorrise appena –Chissà
perché Southend-on-Sea
raccoglie tutte le anime vaganti. Tu dall’Italia, io dal Canada…
Quando sono fuggito di casa la mia madrina mi ha dato
un tetto sulla testa e la possibilità di ricominciare. Recitare è stato la mia
salvezza e la mia condanna.
Non disse altro e io rispettai il suo silenzio finché non arrivammo a Feathery Fairy. Era
quasi l’alba e il mare si stava tingendo di colori che fino ad
allora non avevo mai visto.
-Quando mio padre ha scoperto che
recitavo a scuola anziché giocare a hockey è successo
il finimondo, ma mia madre ha cercato di farlo ragionare, definendola una
passione passeggera e alla fine, dopo qualche giorno, se ne dimenticarono.
Quando dissi loro, però, che anziché seguire le orme di mio fratello,
iscrivendomi all’università e allenandomi nello sport di famiglia, volevo
studiare recitazione, mio padre mi minacciò di cacciarmi di
casa, me ne andai senza più guardarmi indietro. Penserai che sia stato uno sciocco…
-Penso che tu sia stato
coraggioso, Andrew. E vorrei un po’ di quel coraggio.
Mi ritrovai a parlargli dei miei
genitori, delle loro aspettative per la mia vita e del
totale disinteresse verso ciò che non riguardava ciò che loro avevano
programmato. E lui mi raccontò la sua storia, i suoi sacrifici che, però, alla
fine erano stati ricompensati. Aveva iniziato dal gradino più basso, lavorando
come tuttofare per una compagnia teatrale per racimolare abbastanza soldi per potersi pagare un corso di recitazione, ed era finito su
un palco ad incitare alla ribellione nei panni di Enjorlas.
-A volte avevo la sensazione che il buio che avvolgeva
la mia vita non sarebbe mai svanito: era tutto sbagliato,
facevo lo schiavo di persone che stavano vivendo il mio sogno e a volte li odiavo. A volte, più
intelligentemente, cercavo di imparare semplicemente osservandoli recitare
Shakespeare. Mi chiedevo se le cose sarebbero mai cambiate, come poteva
tornare la luce dopo tutta quell’oscurità, ma poi un giorno il regista mi trovò
sul palco a recitare l’Amleto: credevo mi avrebbe
licenziato e invece mi offrì una parte. Il sole non è mai stato luminoso e
caldo come quel giorno.
-Sei stato fortunato.
-Noi artisti siamo fortunati, Alice. Che scrivendo
storie ci si dimentichi di vivere è una sciocchezza sulle labbra di chi non ha
la più pallida idea di che cosa stia parlando. Scrivere è vivere dieci, cento,
mille vite diverse! È come la recitazione. È sublimare la vita stessa, non
ostacolarla. Non credi sia meraviglioso?
Era l’alba del primo giorno di primavera, nella mia
vita.
-Chi sei tu, Alice nel Paese delle meraviglie?
-Non saprei dirlo, in tutta sincerità. Sono stata una
cortigiana, un’eroina, una maga e una regina. Solo stamattina viaggiavo su una
nave pirata e ora sono qui, sul ciglio di una scogliera. Sarò un avvocato, prima o poi, ma…- Mi voltai verso
il mare, distogliendo lo sguardo da Andrew. –Sarò anche altre mille persone.
Lo
so. È tutto sbagliato. Noi non dovremmo nemmeno essere qui. Ma
ci siamo. È come nelle grandi storie, padron Frodo. Quelle che contano davvero.
Erano piene di oscurità e pericoli, e a volte non volevi sapere il finale.
Perché come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare
com'era dopo che erano successe tante cose brutte? Ma
alla fine è solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve
passare. Arriverà un nuovo giorno. E quando il sole splenderà, sarà ancora più
luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che significavano
qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire il
perché. Ma credo, padron Frodo, di capire, ora. Adesso
so. Le persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e
non l'hanno fatto. Andavano avanti, perché loro erano aggrappate a qualcosa.
-Il signore degli anelli/Le
due torri-
V
Bolle
Oh you took me from my bubble knowing my defense
was weak.
And you sat there and you listened anytime I chose
to speak.
Did you gather from my pleas to you that I am but
a clown,
No fear only a hero can defeat these demons now.
I miei sei mesi in terra inglese stavano giungendo al
termine, eppure sentivo la mancanza di qualcosa, come se a quel viaggio che
avevo intrapreso mancasse un tassello: avevo ricominciato a scrivere –e a vivere-, avevo trovato la mia nota
stonata, il diritto aveva ricominciato ad appassionarmi e avevo finalmente
ammesso chi fossi, eppure qualcosa continuava a sfuggirmi.
Sapevo che una volta tornata a
Roma non avrei potuto semplicemente fingere che tutto fosse immutato. Io ero
cambiata, ma dopotutto neppure l’Alice a cui dovevo il
nome era più stata la stessa di ritorno da Wonderland.
Forse quella nuova me stessa non
sarebbe piaciuta, ma non aveva, dopotutto, neppure alcune
intenzione di piacere.
Mi ero chiesta spesso se mia
nonna avesse avuto sentore della strada su cui mi aveva spinta
con quell’eredità e la risposta, ogni volta e per quanto assurdo potesse
sembrare, era sempre affermativa.
Era una giornata di pioggia
quella in cui bussai alla porta di casa di Andrew: non sapevo se fosse in casa
o si trovasse a Londra, ma ero particolarmente insofferente e la passeggiata
uscita da studio mi aveva condotta lì, alla ricerca di
un’anima che potesse comprendermi.
Ero bagnata fin nelle ossa e
l’umidità sembrava rendere persino respirare un’attività difficile, così,
quando la porta venne aperta, mi precipitai dentro
senza neppure guardare chi vi fosse dietro.
-Salve.
Una voce sconosciuta mi fece
immobilizzare e quando mi voltai non incrociai il
volto ormai familiare di Enjorlas,
ma quello estraneo, eppure vagamente conosciuto, di un omone.
-Oddio. Sono desolata.
Il ragazzo scoppiò a ridere e
allora lo riconobbi istintivamente. –Hai la stessa risata di tuo fratello; devi
essere Paolo, il giocatore di hockey dal nome italiano perché i vostri genitori
erano in Italia quando hai deciso di nascere.
-Bene,-
commentò divertito, incrociando le braccia –quindi tu conosci me, ma io non so
chi sia tu.
-Alice. Sono un’amica di Andrew.
-Vieni, accomodati. Il fratellino è a
Londra, ma so fare anche io un buon the, se ne hai
voglia.
E così mi ritrovai a bere the ai
frutti rossi con un servizio di porcellana decorato con fiori colorati che
nelle mani di quell’enormità d’uomo assumeva tratti deliziosi.
Si somigliavano, benché Andrew fosse più minuto o,
forse, semplicemente meno plasmato dallo sport e più dal palcoscenico.
-Non sapevo saresti venuto.
-Non lo sapeva neanche Andrew: un
mio compagno di squadra mi ha detto che avrebbe fatto scalo a Londra per alcuni
giorni prima di andare a trovare i genitori in Russia e così ho deciso di
partire con lui.
-Sarà stato contento.
Paolo sorrise, ma i suoi occhi
erano velati di una amarezza che non riusciva a
nascondere totalmente; sapevo che avevano avuto momenti difficili, dopo la fuga
di Andrew, e solo a fatica si erano riavvicinati.
-Lo spero.
Lo era stato? In cuor mio immaginavo di sì, ma sapevo
che non l’avrebbe ammesso facilmente.
Decisi di mantenermi su un terreno più neutro, poco
desiderosa di impicciarmi dei loro affari privati, così gli chiesi dell’hockey
e Paolo si appassionò a spiegarmi le regole e i ruoli e c’era così tanta passione
nelle sue parole, almeno quanto Andrew ne aveva quando parlava del teatro, che provai
invidia per loro, per aver trovato la propria strada, facile o difficile che
fosse stata.
Quando scoprì che non avevo mai pattinato in vita mia
decise che avremmo aspettato Andrew su una pista ghiacciata e a nulla valsero
le mie perplessità e la mia riluttanza: aveva deciso che mi sarei tolta i miei
adorabili e caldi stivali, che avrei abbandonato la terraferma per salire su
una pista ghiacciata con dei pattini. Pattini!
Se mi avesse vista Amy, che
dall’alto del suo sangue metà canadese aveva cercato invano per anni di
trascinarmi a pattinare…
Ero sicura che mi sarei uccisa
e, quando misi piede sul ghiaccio per la prima volta, mi aggrappai al suo
braccio come un koala, terrorizzata: e se fossi caduta? E se fossi caduta e
qualcuno fosse passato sulla mia mano con i pattini, tagliandomela in due? Non
esternai quei pensieri, ovviamente, ma dall’espressione divertita di Paolo
evidentemente dovevano leggermisi in volto.
Eppure, dopo alcuni minuti, iniziai a sentirmi più
sicura, a provare il brivido dell’ignoto, il desiderio di esplorare qualcosa di
nuovo e di allontanarmi dalla zona di sicurezza che mi ero costruita attorno.
-Lasciati andare.
E lo feci, lasciando che fosse l’istinto a guidarmi e
non il raziocinio e quasi non mi resi conto quando staccò le sue mani dalle mie
lasciandomi libera di esplorare quel nuovo territorio.
Alla fine, dopo un’ora di giri lungo la pista in cui
avevo quasi dimenticato come al di fuori di quella struttura fosse primavera e
non pieno inverno, crollammo sugli spalti ed io sembravo esausta quanto Paolo
fresco e rilassato; mi lasciò per andare al bar e tornò con coca-cola e patatine.
-Grazie.
In realtà, quel ringraziamento voleva significare
molto di più e non certo per quello spuntino improvvisato. Paolo annuì e
tacque, gli occhi fissi sulla pista e la mente visibilmente molto lontana da lì
finché, ad un certo punto, non spezzò il silenzio che
si era creato.
-Tu vuoi fare la scrittrice, eppure cos’hai visto
della vita, fuori dalla tua bolla di sicurezza? Puoi scrivere della neve, ma
hai mai respirato quell’odore pungente che ti entra nelle ossa, che ti intorpidisce e, al tempo stesso, ti fa sentire vivo? Puoi
scrivere della vendetta, ma hai mai provato ciò che prova un uomo a cui hanno tolto tutto, persino i sogni? E l’amore? Leggere
Shakespeare non basta, per parlare d’amore. Lo si deve
vivere, si deve amare fino ad impazzire ed esserne riconoscente ogni giorno,
perché senza amore non esiste la vera gioia, non importa di quale amore si
parli. Che sia per una donna o un figlio, un amico o un fratello…-
la voce gli si spezzò appena e il suo sguardo percorse la pista ghiacciata, per
poi tornare su di me, -Quando è partito, ho creduto
odiasse anche me. Lo capivo, sai? Ero il prediletto di
papà: voti brillanti, stella nascente dell’hockey, mentre lui lo aveva deluso
su ogni fronte. Si potrebbe pensare che per me fosse tutto più facile e in
parte era così, perché avevo avuto la fortuna di essere messo su una strada che
avevo amato la follia: scivolare sulla pista, colpire quel dischetto nero era
come bere estratto di pura felicità, indipendentemente dalle contusioni che
ottenevo a fine partita. Ma ogni partita senza Andrew
sugli spalti non aveva lo stesso sapore… non era
abbastanza. Non è trascorso giorno in cui non mi mancasse e non hai idea di
quanto lo ammirassi: la sola idea di lasciare tutto ciò che avevo di più caro
mi terrorizzava, mentre lui era stato in grado di fare la valigia e lasciarsi
tutto alle spalle dall’oggi al domani, solo per seguire il suo sogno. Volevo
andare in Russia, sai? Fare almeno una stagione in quella terra che mi
affascinava da morire, sin da quando ero piccolo, e che non avevo mai visto; mi
erano arrivate delle proposte ma le avevo declinate tutte, perché sapevo che
papà voleva altro da me e perché, in fondo, ero un fifone. Andrew mi ha dato la
forza di accettare, di uscire da quella mia bolla, spezzando le mie difese,
allontanando i miei mostri, e di partire per la Russia; ho fatto due campionati
lì, in prestito, e sono stati i ventiquattro mesi più
belli della mia vita, ma poi ho fatto ritorno nell’unico posto che abbia mai
chiamato casa. Sono tornato cambiato e più riconoscente di quanto saprei dire a
parole, ma non ho mai avuto il coraggio di ringraziarlo…
Eppure gli devo tutto. Mi ha insegnato l’indipendenza.
Una leggera tosse alle nostre spalle ci fece voltare:
Andrew era lì e dal suo sguardo intuimmo che aveva ascoltato tutto.
-Spero per te che la signorina qui sia tutta intera.
-Certo che lo sono.- risposi
offrendogli le patatine e cercando di alleggerire l’atmosfera.
La pista stava quasi per chiudere e gli ultimi
ritardatari stavano andando a togliersi i pattini.
-Dovremmo andare prima che ci caccino.- commentò Andrew, notando la stessa cosa.
-Facciamo un giro prima? Ti va?
Credevo che il più giovane dei fratelli avrebbe
rifiutato e invece, contro ogni aspettativa, infilò i
pattini e raggiunse Paolo sulla pista.
Si studiarono un po’, all’inizio, ma poi si lasciarono
andare e mi regalarono uno dei momenti più belli del mio soggiorno,
volteggiando quasi volassero, in perfetta sincronia: avevano il giaccio nelle vene almeno quanto io avevo il mare.
Ed erano pura bellezza.
Era quello che mi sfuggiva, la forza di gettarmi in
avventure sconosciute: avevo lasciato Roma all’improvviso, sì, ma avevo
continuato a muovermi in territori a me conosciuti e sicuri. La pratica
forense, il cottage di nonna, lo studio di Brian.
Nulla era ignoto.
Mi ero costruita un confine, negli anni, senza neppure
rendermene conto, che rendeva qualsiasi scelta una
zona sicura in cui muovere: minimi rischi, minima possibilità di rimanere delusa… Ma anche meno iniezione di vita pura.
Paolo mi comparve alle spalle, quasi come un fantasma o un gatto invisibile del Cheshire.
-Impazzirò, seguendo l’istinto?
Scoppiò a ridere di cuore e mi sfiorò la guancia con
la mano –Siamo tutti matti, Alice, non lo vedi? Il punto è trovare il giusto
equilibrio nella follia. La vita dobbiamo godercela
qui ed ora, nel nostro tempo e nella nostra terra. Liberati dai tuoi schemi… Anche Alice deve lasciare il Paese delle Meraviglie
ogni tanto.
Se
ti chiedessi sull'arte probabilmente mi citeresti
tutti i libri di arte mai scritti... Michelangelo. Sai tante cose su di lui: le
sue opere, le aspirazioni politiche, lui e il papa, le sue tendenze sessuali,
tutto quanto vero? Ma scommetto che non sai dirmi che
odore c'è nella Cappella Sistina. Non sei mai stato lì con la testa rivolta
verso quel bellissimo soffitto... mai visto. Se ti chiedessi sulle donne, probabilmente mi faresti un compendio
sulle tue preferenze, potrai perfino aver scopato qualche volta... ma non sai
dirmi che cosa si prova a risvegliarsi accanto a una donna e sentirsi veramente
felici. Sei uno tosto. E se ti chiedessi sulla guerra probabilmente mi getteresti Shakespeare in faccia eh?
"Ancora una volta sulla breccia cari amici!"... ma non ne hai mai
sfiorata una. Non hai mai tenuto in grembo la testa del tuo migliore amico
vedendolo esalare l'ultimo respiro mentre con lo sguardo chiede aiuto. Se ti
chiedessi sull'amore probabilmente mi diresti un
sonetto. Ma guardando una donna non sei mai stato del
tutto vulnerabile... non ne conosci una che ti risollevi con gli occhi,
sentendo che Dio ha mandato un angelo sulla terra solo per te, per salvarti
dagli abissi dell'inferno. Non sai cosa si prova ad
essere il suo angelo, avere tanto amore per lei, vicino a lei per sempre, in
ogni circostanza, incluso il cancro. Non sai cosa si prova a dormire su una
sedia d'ospedale per due mesi tenendole la mano, perché i dottori vedano nei
tuoi occhi che il termine "orario delle visite" non si applica a te.
Non sai cos'è la vera perdita, perché questa si verifica
solo quando ami una cosa più di quanto ami te stesso: dubito che tu abbia mai
osato amare qualcuno a tal punto. Io ti guardo, e non vedo un uomo
intelligente, sicuro di sé, vedo un bulletto che si
caga sotto dalla paura. Ma, sei un genio Will, chi lo
nega questo. Nessuno può comprendere ciò che hai nel profondo. Ma tu hai la pretesa di sapere tutto di me perché hai visto
un mio dipinto e hai fatto a pezzi la mia vita del cazzo. Sei
orfano giusto? Credi che io riesca a inquadrare quanto sia stata
difficile la tua vita, cosa provi, chi sei, perché ho letto Oliver Twist? Basta
questo ad incasellarti? Personalmente, me ne strafrego di tutto questo, perché sai una cosa, non c'è
niente che possa imparare da te che non legga in qualche libro del cazzo. A meno che tu non voglia parlare di te. Di chi sei. Allora
la cosa mi affascina. Ci sto. Ma tu non vuoi farlo,
vero campione? Sei terrorizzato da quello che diresti. A te la mossa, capo.
-Will Hunting-
VI
Sei cose impossibili
Maybe I don't really want to know
How your garden grows cos
I just want to fly
Lately did you ever feel the pain
In the morning rain as it soaks it to the bone?
Lo chiamavano Il Re, quel biondino che sembrava tanto
fragile, ma i cui occhi si illuminavano non appena si parlava del suo amore,
del suo sport, la vocazione di tutta una vita. Re di cuori, lo definivano le
sue fan; re dell’hockey lo osannavano i commentatori sportivi; re del niente
definiva se stesso, perché niente era
quello che aveva quando era venuto dalla Russia sognando una vita migliore.
Niente, tranne il suo talento.
Alex, diversamente da Paolo, non
era tipo di molte parole, ma parlava con i gesti, con gli sguardi e colmava i
silenzi pur non spezzandoli affatto.
Lo avevo conosciuto una sera a cena, all’Enchanted, e stranamente eravamo tutti
insieme; meno stranamente, invece, ero l’unica ragazza. Sembrava che in
quei mesi fossi riuscita a stringere rapporti stretti solo con i ragazzi e,
benché mi fossi fatta alcune amiche, era sempre da loro che tornavo: da Simon,
da Matt, da Andrew e Paolo. E poi c’era lui, il russo
dagli occhi di ghiaccio.
Una sera, dopo lavoro, Matt mi aveva riaccompagnata a casa e io l’avevo convinto a fermarsi a cena… il pub l’aveva conquistato e da allora era ritornato
spesso.
Mi sarebbero mancati.
Le mie amiche sarebbero venute due giorni dopo e nel
giro di una settimana sarei stata nuovamente a Roma: le fragilità, i mostri
erano sempre lì, ma li affrontavo con uno spirito diverso, perché quei sei mesi
e soprattutto quelle persone mi avevano dato così tanto
che la Alice che era partita non sarebbe mai potuta essere l’Alice che sarebbe
tornata.
La storia di John era ancora in alto mare, ovviamente,
ma non perché fossi priva di ispirazione: lo era
perché scrivevo e sistemavo e riscrivevo e perfezionavo, fino ad averla
imparata a memoria e non averne mai abbastanza.
A volte io e Alex ci
incontravamo vicino alla scogliera, ci sedevamo al sole e leggevamo, in
silenzio, e spesso ci separavamo senza neppure esserci parlati, ma quei silenzi
non erano mai imbarazzanti o pesanti. Considerando il chiasso della mia vita e
nella mia mente, il tempo con lui era un balsamo.
In una settimana, anche se a modo nostro, avevamo
imparato a conoscerci e mi sarebbe dispiaciuto vederlo andare via, ma sarebbe
tornato in Russia ed ero felice per lui, perché Paolo mi aveva spiegato quando
gli mancasse. Quando sarebbe ritornato a Londra per prendere il compagno di
squadra e rientrare in Canada, io sarei già stata a Roma.
Non ne avevo voglia. Mi ripetevo che sarei tornata,
per un periodo o per sempre, ma non sapevo se ne avrei avuto
davvero la possibilità.
Una sera, davanti a un numero imprecisato di
bicchierini colmi di vodka e senza la chiassosa presenza degli altri, impegnati
in una partita a freccette, esternai quei pensieri ad Alex –l’impossibilità di realizzare tutti i sogni
della mia vita, la malinconia, il senso di sconfitta- convinta che non si
sarebbe neppure degnato di rispondere e, invece, compose il discorso più lungo
che gli sentii mai pronunciare.
-Forse non diventerai mai tutto ciò che sogni oggi, ma
non è ancora il tempo di rimpiangere scelte non fatte, sei troppo giovane per
questo.
Era strano, detto da lui che, benché non molto più
grande di me, sembrava possedere la saggezza degli
alberi secolari, che hanno visto il mondo mutare, distruggersi e ricostruirsi,
rinascendo dalle proprie ceneri. I suoi occhi erano antichi.
-Costruisci il tuo futuro, vivi come tutte quelle
persone ordinarie non faranno mai. Bisogna credere all’impossibile o ci si
limiterebbe ad esistere, senza vivere davvero. Tutti
ritenevano impossibile che io mi elevassi dalla povertà a cui
il destino mi aveva condannato e io, sin da bambino, per tutta risposta mi
allenavo a credere a sei cose impossibili prima di fare colazione.
-E alla fine sei diventato il Re.
-Lo volevo, capisci? Con tutto me stesso. Non volevo
solo giocare a hockey: volevo essere il migliore. Tutti
possiamo essere re e regine, Alice. Vuoi essere una
scrittrice? Devi crederci tu o nessuno lo farà al posto tuo. Prendi in mano il
tuo destino, crea il tuo Paese delle Meraviglie e governalo secondo le tue
regole. Non lasciare che nessuno ti dica cosa puoi fare e se qualcuno lo farà, beh… tu taglia loro la testa!
Se in Paolo c’era passione per quello sport, Alex
vibrava d’amore in ogni parola, in ogni sguardo, e ogni volta che indossava i
pattini e scivolava sul ghiaccio mi sentivo in soggezione davanti a tanta
bellezza. Però lo comprendevo: amavo qualcosa quanto
lui. Ne avevo bisogno quanto lui.
Sei cose impossibili non erano difficili da trovare:
I.
Lasciare
l’Italia all’improvviso
II.
Trovare la mia
nota stonata
III.
Scindere la
giustizia dalla vendetta
IV.
Trovare me stessa mille e mille volte
V.
Seguire
l’istinto
VI.
Diventare una
regina
Stavo per dirglielo quando colsi un
sguardo perplesso su quel bel volto: mi girai e notai un avventore del locale
che si era avvicinato ai ragazzi; non lo vedevo in viso, perché un enorme
cappello colorato lo copriva per oltre la metà, ma compresi immediatamente,
dalle risate e dalle pacche sulle spalle, che era loro amico. Io e Alex non ci muovemmo, felici di vivere nella nostra
quieta sociopatia. Chissà come si sarebbero trovati lui e Sveva, la donna più
petulante del mondo.
L’idea mi fece sorridere, ma quando Simon si avvicinò tornai bruscamente alla realtà.
-Chi è quel ragazzo?
-Oh, lui? È il Cappellaio.
***
Il Cappellaio, scoprii in seguito, era il proprietario del negozio in paese
di cui avevo spesso ammirato le vetrine, rapita da quei copricapi
spettacolari e così inglesi, ma mai di cattivo gusto e tutti rigorosamente
diversi gli uni dagli altri.
Non lo avevo mai visto in quei sei mesi e per qualche
strano motivo ero convinta che il cappellaio fosse un anziano simpatico
signore.
Trovò esilarante il fatto che io mi chiamassi Alice e
quella sera decise che sarebbe stata la mia persecuzione per quegli ultimi
giorni. Avevo una testa da cappello,
la qual cosa, nella sua contorta visione del mondo, implicava che trascorressi
i miei ritagli di tempo a bere the e a farmi poggiare sulla testa decine e decine di sue creazioni senza che potessi in alcun modo
controbattere.
Il Cappellaio non era una persona a
cui si potesse dire di no. Era un despota, a dirla tutta, e quando John
aveva reclamato la mia presenza si era limitato a
ordinarmi di scrivere nel suo laboratorio, purché le troppe idee non mi
facessero implodere la testa: sarebbe stato un bel danno al suo lavoro.
Lo assecondavo, con delizia e divertimento degli
altri, che non lasciavano passare un istante senza deridermi…
persino Alex sorrideva alle loro battute.
Mi piaceva.
Mi piacevano le sue mani che si muovevano sulla stoffa
seguendo disegni e linee nella sua mente: sembrava così facile…
così lineare, contrariamente al mio lavoro.
-Che ti prende,
bambina? Non comprendo perché sbuffi! Hai una storia da raccontare: inizia dal
principio e quando arrivi alla fine… fermati!
-Parli facile tu! Torna al tuo lavoro, Cappellaio!- commentai, lanciandogli
divertita un cappello.
-Quello che facciamo non è
poi così diverso sai?
Quella frase mi spiazzò, perché difficilmente avrei
potuto immaginare cosa avessimo in comune. Poi lo osservai illuminato dalla
luce del tramonto che filtrava dalla finestra, i capelli chiari che sfuggivano
ribelli da quel capricapo colorato che sembrava
riflettere i colori del sole e del mare.
-Anche tu metti qualcosa in testa alle persone, ma
quello che crei tu è molto più pericoloso. Io creo
cappelli. Tu sogni.
-Siamo entrambi dei visionari, Cappellaio.
Sei
cose impossibili... Contale Alice.
I.
c'e una pozione che ti fa rimpicciolire.
II.
una torta che ti fa ingrandire.
III.
gli animali parlano.
IV.
i gatti evaporano.
V.
esiste un Paese delle Meraviglie.
VI.
posso uccidere il Ciciarampa!