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Autore: Judy Kill Em All    04/01/2014    4 recensioni
«Tu eri più importante» sussurrò avvicinandosi a me, asciugai le lacrime tinte di trucco nero dai miei zigomi e dissentii scuotendo la testa.
«Dovevo rassicurarti, capisci? Dirti tipo “non me ne sto andando, ti chiamerò sempre, ti penserò sempre…”» e io singhiozzai ancora di più a quel punto, indignata, le prese in giro facevano sempre male, soprattutto dagli amici più cari.
«No, no, no, che cazzo, tu dici un mare di cazzate, e non so come faccia tu a starci a galla» scossi la testa di nuovo, e appoggiai la fronte al suo petto artigliandomi al suo maglione largo e morbido.
«Non ti dimenticherò» alzò il mio viso per guardarmi negli occhi e si avvicinò.
«Se mi baci ora, sappi che ti odierò tutta la vita. Fino alla morte, perciò non baciarmi» dissi in lacrime, senza convincere nemmeno me stessa.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Chelsea» continuò più fermamente.

Non aprii bocca, rimasi muta, con i polmoni che erano diventati pesanti e lo stomaco ingarbugliato. Deglutii parecchie volte, arrivai a non contarle più.

“Aiuto” pensai, supplicando con gli occhi i presenti.

“Portatelo via, fatelo girare, via, via, via!” i bulbi oculari iniziavano ad inumidirsi, le palpebre non dovevano chiudersi, no, non dovevano cacciare fuori le lacrime, spingerle a constatare che là fuori non era poi così buio, per poi trascinare le compagne.

«Oliver? LASCIATEMI PASSARE! OLIVER?!» gridò qualcuno.

Ringraziai quella voce stridula e stizzosa, perché il ragazzo distolse l’attenzione dalla sottoscritta e la mia concentrazione tornò ai clienti.

«Vogliate scusarmi, non…non so cosa mi sia preso. Io mi chiamo Chelsea e sarò la vostra cameriera, quando avete bisogno, anche in stanza, chiamate pure e in meno di un secondo sarò a vostra disposizione» sorrisi appena, pallida come fossi malata, ma fecero finta di non accorgersene.

Mi avevano riconosciuto subito, lo sapevo, ne ero pienamente consapevole.

«Amanda, finalmente sei arrivata!» esclamò Oliver rivolto alla voce, più precisamente alla proprietaria di quella sottospecie di voce da cornacchia.

Mi voltai ed ebbi una di quelle visioni da ‘una volta nella vita’ e “Sì, cazzo”, pensai, “è proprio una cornacchia”.

Piume nerissime, voce gracchiante più un pizzico di sindrome-della-prima-donna.

«Oh, amore mio, non mi volevano far passare» esclamò lei addolcendosi istantaneamente.

Oh.

Amore.

Mio.

Amore mio.

Amore mio.

Era veramente troppo, era uno scherzo da parte di qualcuno di poco sentimentale?

«Chi è lei?» domandò indicando verso di me, non la vidi, ma sentii il suo sguardo che mi perforava la schiena.

«Chelsea, la nostra personale cameriera» rispose uno dei componenti del gruppo di cui assolutamente non ricordavo il nome, non ero nemmeno sicura di averlo mai visto.

«Sembra un po’ palliduccia, sta bene?» domandò con falso dispiacere nella voce e mi venne da voltarmi e spaccarle il suo bel nasino dritto.

«Non ho nulla» risposi al posto di chissà chi altro.

«Ehm, ordiniamo tra un istante, torni tra due minuti?» domandò Oliver titubante; mi rincuorò tantissimo che si sentisse spaesato.

 

«Non posso farcela» ribattei tornando in cucina, tremavo veramente molto e mi dovetti sedere.

«Cosa succede?» domandò subito Ann preoccupata, sedendosi davanti a me.

«Non posso farcela» ripetei in trance con le mani tra i capelli strabuzzando gli occhi.

«No, no, devi riprenderti» disse scuotendomi con forza.

Dondolai un paio di volte afferrandomi le ginocchia e respirando a fatica, iniziai ad ansimare.

«Dimmi, dimmi, cosa succede» chiese di nuovo la donna, ormai nel panico.

«Oliver…» singhiozzai a bassa voce «Oliver… poi l’anoressia… Andato…» provai a formulare una frase.

«Oliver se ne è andato per l’anoressia?» provò ad indovinare lei, ma io scossi la testa.

Dopo circa venti minuti, un cameriere momentaneo in sostituzione e tante lacrime riuscii a spiegare quasi tutto e mi sentii istantaneamente più libera.

Avrei potuto perdere il posto di lavoro, ma Ann sapeva tutto e non poteva permetterlo, mi avrebbe aiutato e io gliene ero dannatamente grata. Promisi di non lasciarmi più andare e decisi di tener duro, non dovevo mollare.

***

«Cosa devo fare?» guardai Ann per la millesima volta con gli occhi colmi di speranza e gratitudine.

«Sali fino al quindicesimo piano, suoni alla stanza 235 e dici che sei la cameriera, consegni la Vodka e te ne vai, non è difficile» mi spiegò ancora, con una pazienza infinita.

«Ci sono, vado» mi incamminai verso l’ascensore.

«Chelsea?» mi richiamò la donna.

«La Vodka, giusto, la Vodka…» tornai indietro ed afferrai la bottiglia ghiacciata per poi rincamminarmi nell’altra direzione.

1…2…3…

“Questi piani salgono troppo lentamente, cavolo” imprecai diventando nervosa, dovevo pensare ad altro se non volevo che iniziassero i flashback.

7…8…9…

“Oh, mi sono risparmiata qualche numero, speriamo che nessuno schiacci il pulsantino della prenotazione” pensai un po’ isterica, iniziando a ticchettare sull’oggetto in metallo in cui era racchiusa la bottiglia come un qualcosa di prezioso.

Avrei voluto dimettermi con tutto il cuore, ma mia madre aveva speso fior di quattrini per la mia riabilitazione ed avevo giurato a me stessa che le avrei restituito tutto.

“Ecco, brava, motivati, vai alla grande, continua così!” mi incoraggiai mentalmente, mentre osservavo la lucina che indicava il numero dei piani spostarsi verso destra.

13…14…15…

Un suono lieve e l’ascensore si fermò, le porte si spalancarono e fui investita da una ventata d’aria fresca.

Guarda caso la stanza che mi occorreva era esattamente di fronte a me, imprecai in tutte le lingue che conoscevo (non erano molte, ma “è il pensiero che conta”, no?), mi serviva un minimo di tempo per prepararmi.

E comunque era solo questione di qualche secondo, avrei dovuto consegnare la bottiglia ed andarmene, tra l’altro non era neanche detto che aprisse lui la porta, avrebbe benissimo potuto esserci l’elegante e raffinata donna dai capelli corvini.

Toc-toc

Non fu difficile, fu come strappare un cerotto, tutto in un colpo. Rapido ed indolore.

Indolore.

Come se bussare ad una porta potesse far male, che cosa divertente.

«Sì?» rispose una voce proveniente dall’interno della stanza.

«La cameriera» risposi atona, alzando giusto un po’ la voce per farmi sentire meglio.

Ci fu un rapido movimento all’interno della stanza, udii il rumore di qualcosa spostato e mormorii, una rapida corsa ed il pomello della porta girò.

«Oh, scusa, sai com’è, un po’ di trambusto» non era stato Oliver ad aprirmi, che coincidenza.

Speravo che non mi parlasse mai più, ma volevo che lo facesse, ne sentivo il bisogno.

Guardai il ragazzo sulla soglia della porta che sorrideva come un ebete, sbatté qualche istante le palpebre, disorientato e poi cercò di formulare una frase quantomeno decente:«Cerchi?».

Non proprio una frase.

Il problema più grave fu che io capii che stesse parlando di qualcosa di circolare, e non che fosse il verbo cercare, quindi rimasi perplessa per qualche istante.

«Ah, forse ti ha chiamato Oliver, ha detto di dirti che puoi affidarla a me la Vodka» affermò grattandosi la testa.

«Mi devo fidare?» scherzai incerta.

«Oh, certo, oltre ad essere bello sono anche un bravo ragazzo!» ribatté.

“Oh, sì, anche modesto” pensai irritata.

Non ero pratica di interazioni umane e soprattutto non volevo diventarlo.

Una volta suonavo la chitarra nei pub, ero anche abbastanza brava, mi voleva bene tantissima gente e non ero mai sola.

“Ho temuto che soffrissi di ecmnesia[1]” aveva detto una volta la psichiatra, Carol; “Lo ho temuto davvero, invece è solo che non hai voglia di vivere nel presente” non che mi fossi sentita istantaneamente meglio.

Non avevo voglia di vivere, fine. Solo che il passato sembrava migliore e la mia mente non era masochista.

«Sono Jordan, piacere!» mi porse una mano, nella quale accomodai la bottiglia di Vodka, con molta grazia.

«Chelsea» risposi con cortesia, sorridendo.

Beh, se non altro era davvero carino.

«Mi farebbe piacere offrirti qualcosa da bere un giorno di questi» aggiunse sbilanciandosi un po’ troppo, per i miei gusti. Ci pensai su seriamente; erano passati secoli da quando, l’ultima volta, un ragazzo mi avesse invitato da qualche parte a fare qualunque cosa ed io avessi accettato: la depressione aveva preso il sopravvento.

Che debole ero stata, da sempre, era un tratto principale del mio carattere, forse il tratto caratteristico, addirittura. Ciò che si poteva benissimo affrontare, per me diventava un problema insormontabile, mi richiudevo in un guscio di eterna angoscia ed apatia e semplicemente smettevo di respirare.

Uno stato di passività inarrestabile si iniziava a diffondere nello sguardo, per poi diramarsi in tutto il corpo.

«Qualcosa da bere?» domandai per essere sicura di non aver sentito male.

Poi mi ritornò in mente qualcosa.

Oliver.

Oliver.

No, cavolo, non potevo, non potevo accettare.

«Sì, certo, quando vuoi!» annuì amichevole, ticchettando sulla porta di legno con le dita.

«Ci penserò su, ora devo tornare a lavorare, ciao ciao Jordan» conclusi salutandolo con la mano e non lasciandogli nemmeno il tempo di spiccicare una parola.

Non avrei di certo accettato.

***

«Mamma, sono a casa!» volevo solo rotolarmi per terra e piangere disperatamente, la cosa grave era che non fosse una novità.

“Sigarette” pensai nervosa “dove cazzo sono le mie sigarette” imprecai correndo nella mia camera alla ricerca di pacchetti sopravvissuti al nervosismo.

«Chelsea!» riconobbi all’istante la voce di Matt, mio fratello, che mi corse incontro saltandomi letteralmente addosso e facendomi cadere in modo decisamente impacciato sul letto.

«Matt, sei venuto a trovarmi!» strillai emozionata, quasi con le lacrime agli occhi.

«Mamma non te lo ha detto?» storse la bocca ed allentò la presa strangolatrice.

«Sì, ma è stata una giornata estremamente pesante, ero sovrappensiero» ribattei continuando la mia ricerca disperata di nicotina per la stanza.

«Hai voglia di parlarne?» scossi la testa ed agguantai un pacchetto semipieno.

Diana” commentai tra me e me “Che merda”.

Dovevo accontentarmi.

«Niente, ho visto Oliver» aggiunsi con nonchalance.

«OLIVER-OLIVER?» urlò come in preda ad un attacco di panico.

«Lui».

Non aggiunsi nient’altro, finii la sigaretta sotto il suo sguardo premuroso e, dopo aver constatato che mamma era andata a dormire già da un po’, mi infilai sotto le coperte, insultando la sveglia a caso anche se, poverina, la colpa non era sua.

***

«Chelsea, sai mica se sei tu la ragazza della canzone?» disse Jordan appena misi piede nell’hotel, il giorno seguente.

«Mi fai gli attentati? Sei mica un gatto?» domandai dubbiosa ed un po’ pensierosa.

«No, passavo per caso» protestò poco credibile.

«Sì, certo» camminai spedita verso lo spogliatoio, ma il bel ragazzo mi seguì imperterrito.

«Allora, sei tu?» chiese un’altra volta.

«Cosa?» non avevo ascoltato una parola di ciò che aveva detto in precedenza.

«La ragazza della canzone» ripeté, armatosi di pazienza.

«Che canzone, scusa?» ero seriamente incuriosita, perciò mi fermai ad osservarlo.

«Non ascolti i Bring Me The Horizon?» la sua voce dava per scontato che fosse quasi un sacrilegio, un eresia o quant’altro.

«No, non mi piacciono» ribattei spietata.

«Beh, Oliver mi ha fatto intendere che vi conoscete, conoscevate… e… comunque, c’è una canzone che si chiama Chelsea smile, ti ricorda qualcosa?»

 

Il prato era decisamente troppo umido per rimanerci coricata a lungo, ma a me non importava.

Ero felice e a me non importava di nulla.

Avevo un cuore funzionante.

Le sigarette appresso.

La lettera scarlatta tra le mani.

Il sole sul viso.

Non importava cosa stesse succedendo intorno, dietro, davanti a me, non era di mia competenza.

«Chelsea, sorridi!» scattò qualcosa come duemila fotografie quel giorno e “Per immortalare come sei, come sono, come saremo”, dicevi; “Basta che non ti tagli i capelli corti, sembreresti un coglione”, rispondevo chiudendo il discorso.

«Oliver, dov’è Matt?» chiesi preoccupata, lui indicò un posto troppo lontano dalla parte del sole accecante.

«Mh, bene. Facci un album con quelle foto, ci scrivi qualche cazzata poetica delle tue e lo metti nel cassetto delle mutande» biascicai assorta nella lettura del mio libro.

«Oh, mi sembra un’ottima idea! Lo chiamerò “Chelsea smile”» saltellò eccitato.

«Il motivo?» domandai curiosa.

«Non sorridi mai, è rara come cosa» mi sfotté.

«Vaffanculo» fu l’ultima cosa che dissi prima che lui si addormentasse accanto a me, su un asciugamano a righe blu.

 

«No, non mi ricorda nulla. Proprio nulla, mi spiace» corsi verso lo spogliatoio e mi svestii quasi con rabbia.

Com’era possibile?

*-*-*-*

HEILA’!

E’ da un po’ che non ci si vede, ne son consapevole.

Cioè, se non arriva l’ispirazione non arriva, non ci sono santi.

 

Spero voi stiate Bennet :’D*

*Ahah, come sono simpatica, cavolo, proprio divertente!

 

Io sto male. Penso di essermi ammalata di depressione.

 

Come avete passato il capodanno?

Con amici? Parenti? Amanti? Amati?

 

Io con amici e amati non ricambianti xD (SONO UN CASO DISPERATO, GENTEEE!)

 

p.s. Non sono informata sulle vicende dei BRIMMEDEORAISON, ma ho letto di un certo Jordan Fish, del quale non sapevo l’esistenza xD babè :D

Concludo augurandovi un buon 2014, sperando che vi sia piaciuto il capitolo, ci vediamo alla prossima, ciaociao :*

 

Ciao. Fiocco.

http://www.youtube.com/watch?v=Wz9XHRBehoc

 

Judy.



[1] L'ecmnesia è un disturbo della memoria, di tipo allucinatorio, in cui alcuni soggetti sperimentano i ricordi del passato come esperienze attuali: in altre parole il passato si manifesta come se fosse presente.

Da Wikipedia.

  
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