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Autore: CathLan    05/01/2014    2 recensioni
La guancia contro le coperte scotta. Accanto a lui hai sempre avuto troppo caldo. «Lo sai perché».
Ezra annuisce e con le dita sposta il ciuffo ribelle che ti copre gli occhi. «Medicina come va?»
«L’ho lasciata».
Lui non si arrabbia. Sospira e con il polpastrello disegna il profilo delle tue labbra schiuse. «E ora che fai?»
«Lavoro da J’s» mormori, mordendogli l’indice.
Ed Ezra è su di te, a cavalcioni come quando giocavate a farvi il solletico, ma nessuno di voi due ride.
«Cosa ci fai qui, Sam?»
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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“Fino all’ultimo resto di noi, io resto.”
 

Non è che si può riempire un vuoto con qualsiasi altra cosa.
Non puoi inserire la formina di un cuore in una sagoma di un quadrato, capisci?
Per questo quando se n’è andato – o forse te ne sei andato tu? – e hai provato a dimenticarlo con quel Robin non ci sei riuscito. Perché a te mancava Ezra, non Robin.
Lui non avrebbe mai saputo prendere il suo posto.
Lui non ti avrebbe mai dato una cuscinata sulla faccia per svegliarti, o preparato la pasta al pesto alle due di notte. Lui non ha mai contato le lentiggini sulla tua schiena bianca sfiorandole con le nocche – perché forse con i polpastrelli era veramente troppo –, lui le leccava.
E lui non ti ha visto diventare grande, perdere i brufoli e crescere di statura.
Lui non ha preso la macchina di tuo padre all’età di quindici anni, pur non avendo mai guidato, per portarti all’ospedale perché gridavi come un disperato e non gli era passato neanche per l’anticamera del cervello di chiamare l’ambulanza. Lui non ti ha fasciato la testa con calma, bisbigliato di tenere il braccio fermo e caricato di peso sui sedili posteriori del Mercedes.
Robin neanche ce l’ha la patente. A ventitré anni ha troppa paura dei camion, quindi non guida.
Ezra invece quel pomeriggio di sette anni fa piangeva, mentre girava il volante di quella Jeep troppo grande cercando di non andare addosso a nessuno. Eppure non si è fermato finché non ha visto l’ospedale.
E «porca troia Sammy, potevi morire» Robin non l’avrebbe gridato, perché lui non alza mai la voce.
Nemmeno mentre lanciava i piatti per terra quando gli hai detto di voler lasciare lui e Medicina. Non ha detto niente. Piangeva e l’unico rumore nella sua cucina erano le ceramiche che si spaccavano sul pavimento e il tuo battito cardiaco proprio nelle tempie.
Lo odi, il cuore quando ti batte in testa. E odi anche un po’ Robin.
Non l’hai neanche più visto perché l’hai capito che per colmare un buco vuoto devi inserire ciò che l’ha causato, altrimenti non farà nient’altro che ingrandirsi e inghiottire tutto il resto. Perfino te stesso.
Ezra non chiama mai, nemmeno tu. Ma tu hai le tue ragioni, lui invece potrebbe fare squillare il tuo cellulare in qualsiasi momento. Non ti arrabbieresti, anzi.
Gli risponderesti perfino alle quattro di notte e gli chiederesti come sta, cos’ha fatto in questi tre anni e perché non scrive più a sua madre. Lui rimarrebbe in silenzio e tu sorrideresti, perché già lo sai cos’ha fatto e perché non si fa sentire. Non sai cosa ti chiederebbe, forse niente, forse perché non hai mai telefonato. Ma no, forse solo come sta sua madre e come stanno andando i tuoi studi.
Lui non sa che ora lavori come cameriere al J’s.
Tu risponderesti con qualche bugia ed ingoieresti tutto l’acido fingendo indifferenza. Poi diresti che hai sonno, o che sei in compagnia, e metteresti giù.
Piangeresti. Piangi sempre se pensi a lui.
E’ che tu mica l’hai capito chi se ne sia andato per primo. Se tu baciandolo o lui facendo le valigie la settimana dopo.
Non lo sai proprio a chi dare la colpa, così la scarichi su entrambi e il dolore è più forte. Acceso quanto i fuochi d’artificio dell’ultimo dell’anno che ancora una volta non avete passato insieme perché lui è a fare il modello in California e tu in Texas a prendere ordinazioni.
Lo ricordi il giorno in cui se n’è andato. Lui aveva diciannove anni ed era alto quasi quanto te che ne avevi solo quindici. Hai fissato dalle scale le sue mani grandi afferrare le valigie e avresti voluto dirgli «resta, che tanto non lo rifaccio più», ma non hai avuto il coraggio di mentire. Lui ha salutato sua madre e ha stretto una spalla a tuo padre.
Ti ha aspettato con lo sguardo blu scuro puntato sulla punta delle sue Vans rosse e tu sei sceso e l’hai abbracciato.
Neanche stringerlo ti è sembrato abbastanza. C’era il suo giubbotto a separarvi e la sciarpa a nasconderti le sue ultime parole, ma hai dovuto comunque lasciarlo andare. Era tardi.
«Sammy non fare casini o torno e ti spezzo l’altro braccio» ti aveva avvisato, prima di salire sul taxi che lo avrebbe portato all’aeroporto.
Ha mandato una cartolina da Los Angeles, il posto dove vive con un amico di vecchia data, e due da Amsterdam. Ci è andato per due estati di fila, ma non hai visto alcuna foto sul suo profilo di facebook.  
Non lo aggiorna mai, forse l’ha chiuso.
Fin dal primo momento in cui lui è scomparso tu ti sei sentito mancare la terra sotto ai piedi.
Ti è sembrato subito strano avere un posto vuoto a tavola, non dormire nel letto accanto al suo, non sentirlo rincasare tardi o vederlo fumare davanti alla finestra per poi sventolare freneticamente le mani e spruzzare lo spray all’arancia per tutta la camera.
«Mia madre non deve saperlo» ti aveva detto, in una minaccia. Tu avevi tredici anni e hai annuito.
Ezra è veramente un figo, ti ripetevi sempre mentre lo guardavi frequentare compagnie strane e girare sul suo skateboard verde scuro. Voglio diventare come lui, aggiungevi dopo, quando raccontava di essersi fatto una certa Maika e mostrava due succhiotti sul petto.
Quando ti è venuta un’erezione nel vederlo spogliarsi davanti a te, hai capito che c’era qualcosa che non andava. E il tuo modo di vedere lui e il mondo che vi circondava è drasticamente cambiato.
Per lo Stato non si può reputare incestuoso un rapporto tra due persone che non hanno alcun legame consanguineo, soprattutto se i genitori di entrambi non sono sposati, ma solo conviventi.
Ma il punto per te non è mai stato questo. Al fatto che tu fossi attratto mentalmente e fisicamente dal figlio della compagna di tuo padre non hai mai dato importanza.
Ciò su cui rimuginavi fin troppo spesso era lo scarso – quasi inesistente – interesse di Ezra nei tuoi confronti. Certo, si comportava spesso come un padre affettuoso o un fratello maggiore, ma mai oltre.
Nei tuoi vani tentativi di comprendere se lui provasse ciò che dentro te pian piano era nato non hai fatto altro che farlo scoppiare a ridere, farlo arrabbiare o farti colpire dai suoi pugni.
Le sue iridi blu come gli zaffiri illuminati dal sole non si sono mai rese conto di te nel senso che volevi. Del ragazzino riccio e magro che gli vorticava attorno come un satellite non perché ammirato, ma perché innamorato.
L’unico istante in cui vi siete guardati alla pari, senza bugie e menzogne a fare da scudo tra i vostri corpi, è stato nel momento in cui l’hai afferrato per un polso candido e l’hai baciato, chinandoti su di lui come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Dopo il breve e rubato contatto tra le vostre labbra negli occhi di Ezra l’hai vista formarsi la consapevolezza di ciò che lui era per te e tu non eri per lui. Ha sbarrato le palpebre e le sue sopracciglia scure hanno formato due archi alti, così elevati da sfiorare quasi l’attaccatura dei capelli neri.
Dentro di te scoppiavi di così tante emozioni che non ti sei accorto del dolore che gli curvava i lineamenti delicati del viso. E la paura ti ha spezzato ogni certezza.
«Ignora ciò che ho fatto» hai sussurrato, sciogliendo la presa sul suo polso. «Non avrei dovuto, mi dispiace».
Lui ha abbassato le ciglia chiare come quando a sedici anni si concentrava prima di suonarti qualcosa al pianoforte. «D’accordo».
E due giorni dopo lui ha annunciato di volersi trasferire da un amico in California e tu ti sei annullato. Hai preso a uscire sempre più spesso, a tornare a casa tardi sapendo che Ezra avrebbe mantenuto il segreto come tu avevi fatto un miliardo di volte per lui e hai smesso di osservarlo.
Non volevi aggiungere altri dettagli alla tua lista e sapere che di lì a poco tutto ciò che avevi accumulato negli anni se ne sarebbe andato troppo lontano anche solo per essere guardato.
Vivere di ricordi non è mai stato il tuo sogno.
Tu le sue espressioni, il suo sorridere con soltanto un angolo della bocca, la fossetta sulla guancia destra, l’occhio sinistro più chiaro dell’altro, le mani calde sempre piene di taglietti e calli, il tatuaggio sull’avambraccio sinistro ogni mese più grande volevi ammirarli attraverso le tue retine. Volevi assimilare le immagini, i gesti, i profumi e imprimerli bene nel cervello e notare il cambiamento secondo dopo secondo. Anno dopo anno. 
Non si è mai uguali al giorno prima. Ci stiamo tutti costruendo.
E Samuel tu volevi costruirti al fianco di Ezra per poter non perderti niente. Crescere e cambiare insieme è importante, è una condivisione molto personale e profonda.
Così come avevi visto i suoi muscoli aumentare di volume ed i suoi capelli allungarsi, tu volevi vederlo con la barba sfatta, la cravatta al collo e magari una laurea tra le mani.
Ma tu l’hai baciato, quel pomeriggio, e lui si è trasferito in California.
E chi se ne è andato per primo non l’hai ancora capito.

 
***

Apri gli occhi lentamente aspettandoti una luce accecante, ma è ancora presto perché i tuoi occhi si adattano subito al fioco bagliore del sole. 
Fai scricchiolare le dita delle mani e osservi con le iridi color nocciola il panorama che scorre rapido attraverso il finestrino. Non c’è molto da guardare, quindi cambi subito l’oggetto del tuo interesse e ti fermi a contemplare il punto esatto in cui hai poggiato la fronte quando ti sei addormentato. Sul vetro c’è un’impronta sudata che togli con la punta delle dita affusolate. Dopodiché ci aliti sopra e con le unghie corte e mangiucchiate tracci sull’alone delle lettere e qualche numero.  
Sam Hagadone
08/03/14

Nel riflesso un ragazzo dagli occhi color della sabbia nascosti da un ciuffo di capelli ricci segue i tuoi stessi movimenti.
Da bambino Ezra passava delle ore a giocare coi tuoi boccoli rossi e tu ti sei chiesto più di una volta che cosa ci trovasse di tanto bello nelle tue lentiggini o nei tuoi capelli color carota, ma la verità è che probabilmente non ci trovava niente di ché, era solo un modo per passare il tempo.
Sorridi, perché sono talmente tante le cose che non riesci a comprendere davvero riguardo ad Ezra che non ti sembra possibile aver passato dodici anni della vostra vita insieme. Eppure è così.
Un giorno lui è arrivato e ha piantato le radici dentro e ovunque intorno a te e poi se n’è andato, portandosi via qualcosa. Non tutto, ma quel tanto che è bastato a farti sentire incompleto. Rotto.
E’ strano dirlo, ma Ezra c’era e ad un certo punto non c’è stato più. Cioè c’era, ma non lì con te.
Quando ti rendi conto di aver fissato te stesso per ben dieci minuti di fila sbatti un paio di volte le ciglia chiare e ti volti dall’altra parte, turbato.  
Prendi le cuffie che avevi abbandonato sul sedile accanto al tuo e le infili nelle orecchie, rendendoti conto che le note di Thunderstruck degli AC/DC non hanno mai smesso di risuonare ad alto volume.
Ascolti la musica fino a che non vedi la scritta che aspettavi da più di un’ora e spegni l’iPod.
Mentre ti alzi e afferri il tuo borsone ti chiedi perché sei lì, che cosa farai o che cosa dirai, ma non hai tempo per trovare le risposte perché devi scendere e uscire dalla stazione.
Inspiri l’aria afosa della città degli Angeli e vibri d’aspettativa e paura.
Ti senti così idiota e patetico, ma non puoi tornare indietro. E’ stato un lungo viaggio e vuoi vederlo.
Ti basterebbe anche solo da lontano, per un battito di cuore. Uno scatto fotografico mentale e via, tu potresti tornare a Dallas in pace. Magari ricominciare la tua vita, iscriverti a Lettere e smetterla di evitare le persone perché non sono Ezra.


Il taxi macina veloce i metri sulle strade di Los Angeles e tu non hai la forza di ammirare la città.
Ti mordi le unghie e ascolti la musica commerciale che passa sulla radio.
«Sono Tom» si presenta il tassista, mostrando dallo specchietto retrovisore un sorriso sbieco.
«Sam» rispondi, con un cenno del capo. Butti la testa all’indietro e chiudi gli occhi.
Non è che sei asociale, antipatico o stronzo, solo che non ti va di parlare. Sei emozionato e credi ti stia venendo la tachicardia, ma non ne sei del tutto certo.
Forse è stata la corsa dalla strada alla camera d’albergo e poi di nuovo dalla camera alla strada, non lo sai.
Non sei nemmeno sicuro di aver chiuso la porta della camera o di aver lasciato il cellulare nel borsone. Ti palpi le tasche e okay, il Samsung è nella tasca dei jeans.
«Di dove sei?»
Sei agitato, fra poco incontrerai Ezra e non ce la fai a scioglierti in futili chiacchiere con un tassista che ha gusti musicali orribili e un accento a dir poco ridicolo, ma non puoi ignorarlo. «Dallas» dici, con una palpebra alzata e una no.
L’auto si ferma al semaforo. «Un cowboy!» esordisce, imperterrito, l’uomo stempiato.
Non dici niente, tossisci quando la cicca ti va di traverso e decidi di smetterla di mangiucchiarti le unghie.
«Devi incontrare qualcuno?»
Fai un verso stranissimo che può essere recepito in ambedue i modi e sospiri.
«Cazzo!» sbotta il tassista, quando il semaforo seguente diventa rosso appena prima che riusciate a sorpassarlo. «Siamo quasi arrivati, comunque». 
Ti ravvivi i ricci rossi con una mano. Il semaforo è verde.  
L’uomo al volante parcheggia di fronte ad un edificio alto, con un sacco di piani e finestre. Si volta e ti guarda ridendo. «Venti dollari».
Lo paghi senza neanche degnarlo di uno sguardo e scendi dall’auto. «Grazie» dici, prima di chiudere la portiera e voltarti verso la palazzina. 
Ezra deve prendere un bel po’ se può permettersi di vivere in un posto del genere, è questo il primo pensiero che ti sfiora la mente quando un signore ti lascia la porta d’entrata aperta nell’uscire. E’ vestito bene e sono solo le dieci del mattino.
Lo ringrazi con un cenno e sali le scale.
Dakota, la mamma di Ezra, ha detto che è al penultimo piano, una delle porte sulla destra. Comunque il cognome è segnato sul campanello.
Arrivato al piano giusto cominci a guardarti intorno e non appena vedi “Fisher” scritto in pennarello su un’etichetta mezza staccata vorresti rotolare di nuovo giù e volare a casa col primo aereo disponibile.
Non lo fai perché lo vuoi vedere. Almeno per un attimo.
Suoni con convinzione e rimani sulla porta con le braccia dietro la schiena e il cuore fermo in gola.
Ezra, proprio come faceva quando abitavate insieme, non chiede chi è e spalanca l’uscio ridendo.
Non te l’aspettavi, ma quando ti vede ingoia il sorriso e aggrotta le sopracciglia chiare.
Lo ricordavi coi capelli neri, scompigliati come se fossero sempre bagnati dall’acqua. Come quella volta che l’hai trovato nella vasca da bagno e gli hai gridato contro perché pensavi fosse morto e lui ti ha risposto che stava solo contando per quanto tempo riusciva a restare sotto.
Era immobile, quella sera, e i suoi capelli si muovevano nell’acqua come alghe marine. La sua bocca creava piccole bollicine e tu puoi giurare di essere morto per un attimo.
Alla fine hai riso.
Lui no, proprio come adesso.
Era nudo tra le tue braccia, tu avevi quattordici anni e lui piangeva. Ora lui è mezzo nudo, ma non è tra le tue braccia e tu ne hai diciotto, di anni.
Ezra non piange.
«Sammy» bisbiglia, coi capelli lunghi fino alle spalle che sono così chiari che sembrano bianchi e non biondi.
E’ più basso di te di forse cinque centimetri e indossa solo un paio di boxer bianchi che ha infilato al contrario per la fretta. «Sam» lo correggi.
«Cosa?»
«Ho diciotto anni, chiamami Sam».
I suoi occhi blu non sono cambiati e nemmeno il suo modo di guardarti. «Cosa ci fai qui?»
E tu stai per dirgli che ti manca come l’aria e che lo sai che ci sono sei miliardi di persone al mondo, ma tu l’hai visto cosa potete essere voi due insieme e scegli voi, solo che alle sue spalle arriva un tizio e tu stai zitto.
Non ti esce niente perché il ragazzo ha i capelli rosso scuro e gli sta tenendo la vita con un braccio. Lo supera di quasi dieci centimetri, ha gli occhi verdissimi. Hanno appena finito di scopare.
«Hey» dice, rivolgendosi a te. «Siete amici?» domanda invece ad Ezra.
Ezra fa spallucce. «E’ il figlio del compagno di mia madre, si chiama Samuel».
E tu non capisci perché la verità ti sta aprendo in due le costole. Non respiri, sei in una vasca colma d’acqua e stai contando.
Il ragazzo è allegro e sorridente, bacia su una spalla Ezra. «Io sono Cameron, è un piacere».
Probabilmente se tu non avessi appena fatto due passi indietro ti avrebbe invitato ad entrare per un caffè, ma tu stai contando e sei arrivato a centoquarantadue. «Magari ci becchiamo in giro» butti lì.
Non ha senso perché tu non sai che luoghi frequentano e Los Angeles è davvero davvero grande, ma non importa.
Saluti entrambi con un gesto fugace del viso e scappi giù come un ladro.
Adesso ti chiedi che cosa pensi Ezra ogni volta che ti vede andare via e non dice niente.

 
***

Quando bussano alla porta sei convinto sia il servizio in camera, infatti ti infili la maglietta e i pantaloni della tuta quasi spiaccicandoti contro al pavimento e poi corri ad aprire.
Ezra ha i capelli legati all’indietro e gli occhi blu ti squadrano come se ti vedessero per la prima volta.
Sei stato da lui quasi quattro ore fa, eppure lui ti guarda adesso.
«Ciao» dice e tu lo lasci entrare.
Ti sdrai sul letto con i piedi puntati sul pavimento e le giunture delle ginocchia che seguono la curva del materasso alto.
«Ho dovuto chiamare tuo padre, mia madre non voleva dirmi niente» continua, sedendosi al tuo fianco.
Il soffitto è bianco, scrostato verso gli angoli. Il lampadario è orrendo, ma tanto non lo accendi perché fuori c’è il sole.
«Perché sei venuto?» la voce è la sua, ma la domanda potresti rivolgergliela pure tu.
La guancia contro le coperte scotta. Accanto a lui hai sempre avuto troppo caldo. «Lo sai perché».
Ezra annuisce e con le dita sposta il ciuffo ribelle che ti copre gli occhi. «Medicina come va?»
«L’ho lasciata».
Lui non si arrabbia. Sospira e con il polpastrello disegna il profilo delle tue labbra schiuse. «E ora che fai?»
«Lavoro da J’s» mormori, mordendogli l’indice.
Ed Ezra è su di te, a cavalcioni come quando giocavate a farvi il solletico, ma nessuno di voi due ora ride.
«Cosa ci fai qui, Sam
Le tue mani corrono ai suoi capelli biondi e gli circondano le guance. Mentre lo tiri giù hai paura di dover ricominciare a contare, ma non appena lo baci non soffochi, respiri.
Vorresti chiedergli chi è Cameron, cosa ci faceva a casa sua o se forse è lui il suo coinquilino. Vorresti sapere perché ha voluto sapere dove alloggiavi e perché è venuto da te. Perché non ti ha fermato o parlato. Perché ve ne siete andati, soprattutto tu, ma la sua lingua te lo proibisce.
La sua lingua disegna ghirigori sul tuo collo lungo, i suoi denti mordono la barba mal rasata sul tuo mento e le sue mani ti sfilano i pantaloni.
«Lo fai ancora?» chiedi, mentre lui scivola verso il basso con la bocca e accoglie la tua erezione senza esitazione. «Intendo contare sott’acqua, nella vasca».
Lui fa uno strano movimento con la lingua e con la testa fa “no”.
Tu sorridi e poi spalanchi le palpebre quando prende un tuo testicolo e lo graffia coi canini.
«E tu lo fai ancora?» dice, calcando il pollice sulla tua asta bollente. «Intendo mollare tutto all’improvviso, lo fai ancora?»
«No».
Ezra soffia sulla pelle congestionata della tua erezione e risale fino al tuo collo. Ci lascia un bacio e sospira. «E allora questa volta resta».
Tu non lo capisci neanche adesso cosa intenda, perché in realtà è lui ad essersene andato dal Texas, ma annuisci e lo abbracci comunque.
Perché non è proprio cambiato niente e tu ci resti al suo fianco.
Magari anche per sempre.



Note: 'sera! (`ヘ´)
Questa fan fiction è nata all'improvviso, ieri sera, e sinceramente mi piace molto.
E' la mia prima slash originale e non so che altro dire ;vv; mi sono affezionata sia a Sam che a Ezra. 
Il banner è stato creato dalla mia patata valigie per restare.
Non so che altro dire, ringrazio chi vorrà lasciare un commento e buon 2014.
A presto, un bacio.
  
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