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Autore: rachel_hetfield    05/01/2014    8 recensioni
Presi una boccata d’aria troppo grande, mi girò la testa e mi appoggiai al metallo freddo della capsula. «Come puoi amarmi se mi odi?»
«Non so come dirtelo che non ti odio.»
Lasciai il metallo e mi avvicinai di più a lui. Con la mano destra mi allungai verso il pulsante del timer. Un suono robotico lo fece partire.
«Non fare cazzate» singhiozzò «ti prego. Resta qui. Non ce la farei senza di te.»
Avevo impostato il timer per sessanta minuti, un’ora esatta. Avevo un’ora di tempo per decidere se fare le valigie, o attirare Kevin e rimandarlo indietro, a Oslo.
Evitai le sue labbra che si erano chinate su di me. «Devo... devo restare da sola. Torniamo nella locanda. Devo pensare.»
«Non farlo...» mormorò con la voce strozzata dal pianto.
Scossi la testa mordendomi un labbro. Fortunatamente ero voltata di spalle, perché avevo iniziato a piangere anche io.
«Rachel, ti amo.»
Singhiozzai e mi sentì. Il mio cuore balzò. Mi aveva circondata con le braccia, di nuovo. Solo che stavolta piangevamo entrambi. Il destino ce l’aveva con noi.
«Ti amo anche io, Dan.» [capitolo 16]
Genere: Drammatico, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sopravvivere alle bufere di neve non risultò mai così difficile come allora. Non avrei mai creduto di ritrovarmi costretta ad abbracciare un uomo per riscaldarmi, un uomo quasi sconosciuto e maledettamente attraente.
Ai miei tempi era vietato abbracciare un uomo affinché non fosse un genitore, un fratello, un parente o il marito, o il fidanzato. Qualora fosse successo, avrebbero preso provvedimenti seri contro la donna che abbracciava e l’uomo che veniva abbracciato. Era una politica merdosa, che impediva al popolo intero di fare qualunque cosa ci rendesse liberi. Per questo gli scienziati avevano progettato una macchina del tempo, per verificare se i norvegesi avessero potutto tornare indietro nel tempo e sentirsi liberi.
Ma stare tra le sue braccia, a sentire il suo calore, lui che mi respirava addosso era tremendamente imbarazzante e confortante. Lo guardai negli occhi, facendo uscire del vapore dalla bocca, e sperai che non rompesse le distanze poggiando le labbra sulle mie.
Altro atto che nella Norvegia del 3024 era impossibile da attuare, a meno che qualcuno non cercava l’ergastolo.
 
 
Oslo, Norvegia, 15 dicembre 3023
Mi ero svegliata alle dieci di mattina, di malavoglia, e il mio appartamento sembrava più tetro e claustrofobico del solito. Il sole dava alla stanza una luce azzurro opaco, che faceva brillare la libreria, la scrivania e l’armadio tutti di colore bianco. Era inquietante guardare quel misto di colori così vuoto e così silenzioso, che non dava l’idea di armonia ma di solitudine.
Ma io ero sola, al contrario del mio vicino di condominio che ogni sera ospitava amici e familiari. Facevano un gran baccano fino a sera tardi, e io dovevo sorbirmi le loro risate e le vocine stridule che cercavano di imitare il mio comportamento da lupo solitario. Ormai niente avrebbe smosso o cambiato la mia vita, dovevo arrendermi che non avrei trovato un uomo da sposare. Con le leggi del cazzo che aveva fissato il Governo Norvegese di tirannia assoluta erano diminuiti i matrimoni, il tasso di nascita, diminuiva tutto.
E la gente – sposata – che mi ripeteva “ma chi vuoi che sposi una ventunenne, sei giovane, goditi la vita” e poi mettevano il divieto ai minori di trentatrè anni di entrare nei locali e di ubriacarsi.
Provavo a capire la politica, a parlarne, e mi dicevano “ma cosa vuoi saperne a ventun’anni di politica, non sai perché le leggi sono state fatte” e poi mandavano i quattordicenni sulla strada a vendere i giornali del Governo che annunciava che la tassa sul possesso di una residenza era aumentata del 3,2%.
Niente era coerente nella Norvegia, niente andava come nel passato, molte persone che avevano i file conservati del vecchio millennio, dicevano che nella Norvegia del ventunesimo secolo non era così difficile tirare avanti per via delle tasse elevate, che era uno dei Paesi più sviluppati dell’ex Unione Europea, che eravamo più avanti...
E invece, con il governo che si era instaurato, molto simile a una monarchia, la tirannia dei governatori aveva imposto alla gente a lavorare duramente mattina e sera per mantenere una famiglia che non si creava quasi mai.
Guardavo il volto scarnito del governatore assoluto norvegese in televisione che diceva che lo facevano per impedire alla popolazione di rivoltarsi, di compiere atti vandalici, di compiere atti impuri e di ridurre il numero di criminali, assassini e ladri. Diminuendo questo tasso infatti aumentavano i deceduti per fame, miseria, esasperazione. Io lo vedevo tutto questo. Papà era uno di quelli morti per esasperazione, uguale suicidio.
Mamma era andata a vivere con nonna poco tempo dopo, aveva abbandonato tutto, mentre io avevo già diciotto anni e potei andare a vivere da sola nella capitale, Oslo, almeno quella era rimasta tale anche dopo mille anni di storia. L’unica cosa cambiata era la libertà: niente si poteva fare liberamente, serviva un cazzo di permesso per ogni cosa, anche per fare la spesa in un supermercato. Speravo di andarmene, ma per uscire dal Paese serviva il passaporto che ormai era divenuta una tassa come tutto il resto. Tutto era a pagamento, anche il cibo acquistato, anche quello era una tassa perché secondo i governatori noi sfruttavamo la ricchezza del Paese per sfamarci.
E con le loro belle parole e belle promesse mai mantenute, avevano portato una popolazione alla miseria.
Solo la scienza non era stata intaccata dai governatori, gli scienziati si erano opposti rigidamente alle leggi del Governo ed era rimasta fedele alle vecchie tradizioni e alle vecchie ricerche.
La Norvegia era uno dei paesi più all’avanguardia del continente russo, erano trecento anni che gran parte dell’ex Europa era andato in mano alla Russia diventando un vero e proprio continente, non solo una nazione. E come cittadini norvegesi, eravamo i più tecnologici del continente. Avevamo le macchine elettroniche e il riscaldamento automatico, che si attivava quando la temperatura scendeva, avevamo i tessuti in grado di riscaldare gran parte del corpo semplicemente indossandoli, e d’estate godevamo dei condotti d’aria che emanavano aria fresca da sollo il suolo sfuttando la temperatura del mare che ci trovavamo a ovest, est e sud del Paese.
Molte volte i miei amici americani mi chiedevano come fosse possibile avere un tale sviluppo, e io rispondevo che avrei voluto essere al loro posto.
La Norvegia come tutto il resto del mondo era caduto in mano degli inglesi, dopo la Terza guerra mondiale avvenuta nel febbraio 2712 da cui uscì quasi intatta solo l’Inghilterra, tutti i Paesi avevano ceduto al suo dominio e la lingua inglese si era sparsa a tutto il mondo. Le tradizioni di un millennio fa erano sparite, eravamo tutti sottomessi dallo stesso tipo di sistema.
Mi stavo recando al laboratorio di ricerca di Oslo, uno dei centri più importanti della città e anche l’unico luogo in cui non dovevo preoccuparmi di stare troppo vicina ad un uomo, di solito ci impedivano di stare a meno di trenta centimetri di distanza da qualcuno che non fosse un parente o il proprio marito. Ecco perché non avevo un fidanzato. Erano consentiti solo i dispositivi elettronici che avevamo attaccato al braccio dalla nascita fino alla morte.
Kris mi si avvicinò stringendomi la mano e facendomi accomodare in fondo alla stanza. Osservavo curiosa i loro progressi che facevano di giorni in giorno, non avevo capito bene cosa stessero costruendo, ma mi interessava vedere il progetto finito.
«Grazie a questa il destino della Norvegia cambierà, Rachel» annunciò Kris con tono importante. Ridacchiai.
«Mi piacerebbe sapere a cosa serve.»
La sfiorò con i polpastrelli della mano sinistra, dandomi le spalle. Era un aggeggio alto all’incirca due metri e mezzo, a forma di piramide arrotondata, larga tre o quattro metri, dalla quale si apriva una porta grande che lasciava intravedere solo il pavimento di plastica nera. Ogni volta ammiravo quello che era considerato “il destino della Norvegia” e immaginavo sempre a cosa sarebbe potuto servire e se, soprattutto, avrebbe funzionato.
«Hai mai letto libri sui viaggi indietro nel tempo?»
Scossi il capo.
«Credo che siamo riusciti a sviluppare la prima macchina del tempo funzionante di tutta la storia dell’umanità. Ci pensi? Potremo viaggiare nel tempo, andare nell’epoca dei dinosauri, dell’uomo preistorico, addirittura scopriremo come si è formata la Terra miliardi di anni fa! Potremo conoscere dei grandi uomini come Leonardo Da Vinci e Albert Einstein, studieremo la cultura dei popoli passati e vivremo tutte e tre le guerre mondiali osservando le armi e i metodi di combattere! Rachel, con questa noi abbiamo in mano l’evoluzione della specie!»
Dovette fermarsi a prendere fiato, si era gasato troppo. In effetti a pensare a quante cose avremmo potuto fare con quella presunta macchina del tempo mi ero emozionata tantissimo, avrei avuto l’opportunità di tornare nel vecchio millennio, farmi una vita normale, sposare qualcuno e avere tanti amici. Era qualcosa che potevo fare anche in quel periodo, ma con più restrinzioni. E odiavo le restrinzioni.
«L’avete già sperimentata?» chiesi alzandomi dalla sedia, scrutando il vecchio scienziato pazzo che conoscevo da quando ero piccola. Papà e Kris erano amici dalle elementari, ed erano cresciuti insieme e quando mi aveva abbandonata dandosi al suicidio avevo appena compiuto diciotto anni. Perciò, quando andai a Oslo, era Kris che si era preso cura di me.
«Abbiamo mandato un robot munito di telecamere, ma non riceviamo segnali. Evidentemente all’epoca le onde elettromagnetiche che mandano i nostri robot non coincidono con le loro, ed è fuori uso. La vera tattica per scoprire se funziona sarebbe mandare un uomo, ma al momento non abbiamo ricevuto proposte...»
Mi si illuminarono gli occhi a quell’affermazione. «Avete bisogno di una cavia?»
Annuì, triste. «Sebbene non sia nelle nostre aspettative, è l’unico modo per testare lo strumento.»
«Mi propongo» dissi prontamente.
«Non sai quel che dici, Rach, scordatelo!» mi rimproverò portandomi via dalla sala in cui c’era la macchina del tempo.
«Ho intenzione di provare, tanto la mia vita fa già abbastanza schifo.»
Si lasciò sfuggire un’amara risata. «Perché dovrebbe far schifo?»
«Ho una madre che è andata fuori di testa ed è continuamente sotto medicinali e cure terapeutiche elettroniche, non ho parenti, non ho amici, non ho un marito e questo Paese è sul punto di scoppiare in una rivoluzione.»
«Sono ventun’anni che ti conosco, e hai la possibilità di farti una vita come gli altri» sibilò, ma non mi scosse affatto.
«Tutti potrebbero farsi una vita come gli altri se mi ficchi in quella cazzo di macchina» risposi a toni duri.
«Non ci pensare nemmeno, e se rimanessi chiusa nel passato? Se dovessi restare per sempre in un’epoca che non ti appartiene?»
Sorrisi maliziosa. «Non desiderei di meglio.»
Sospirò, quasi sconfitto. Forse lo avevo convinto, ma Kris era testardo quasi quanto me e non sarebbe bastato poco a convincerlo a farmi fare da cavia per il progetto.
Quando rifiutò la mia avance, decisi che ci sarei tornata il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, fino a frequentare il laboratorio ogni giorno per una settimana.
Al settimo giorno consecutivo, Kris scoppiò.
«Inutile che vieni ogni giorno, non entrerai mai in quella capsula!» urlò facendo girare verso di noi più di uno studioso del laboratorio. Uno di loro si avvicinò e portò Kris in disparte e per un attimo mi parve di vedere Kris ribattere secco e poi annuire. Osservai attentamente le labbra del secondo uomo, più giovane del mio amico, e non riuscii ad afferrare nemmeno una parola. Quando il vecchio tornò da me sospirò afflitto.
«Abbiamo intenzione di inaugurare la fine del progetto il 23 alle 17.00, potresti venire a quell’ora. Dovremmo attrezzarti di microspie video e audio, in modo da ricevere le informazioni direttamente sul nostro computer... ma ne sei davvero convinta?»
Mi strinsi nelle spalle, con un sorriso fin troppo sincero stampato sulla faccia. «Non sarei venuta qui tutti i giorni se non avessi voluto davvero. Mi sa che sei tu che non mi ci vuoi mandare.»
«Appunto, perché sei come una figlia per me... ma sei grande, sei adulta, hai fatto la tua scelta e io la rispetterò.»
Gli sorrisi di nuovo. «Grazie, Kris.»
I giorni passarono in fretta, richiusi la maggior parte dei vestiti invernali che avevo nell’armadio in una valigia non troppo grande e alle 16.30 ero già davanti al laboratorio, a osservare Kris e i suoi colleghi spostare la capsula al centro della piazza ribattezzata in onore di Luke Margaret, uno scrittore del 2400.
Passavano i minuti, e il battito del mio cuore aumentava. Finalmente sentivo l’ansia che si impossessava della mia testa, e forse il buon senso iniziava a tormentarmi dicendo di non farlo.
Sembrai sul punto di mollare, ma avevo promesso a me stessa e alla scienza che avrei dato una svolta al Paese. Si piazzarono i giornalisti e i fotografi davanti all’aggeggio, e immaginai che dopo quell’impresa la mia faccia e il mio nome sarebbero finiti ovunque. Ma poco mi importava, non avrei di certo avuto il tempo di ascoltare ciò che avrebbero detto di me.
«Il viaggio durerà esattamente quarantotto ore, allo scadere del tempo dovrai tornare al punto esatto in cui sei atterrata, e il portale spazio-temporale ti riporterà avanti nel tempo, ai giorni nostri. La data fissata per l’arrivo è il 23 dicembre 2014. Non sappiamo a che ora né dove arriverai, ma appena sarai a destinazione questo orologio a timer inizierà a fare il conto alla rovescia» mi spiegò Kris con poca allegria nella voce porgendomi un bracciale largo quanto il mio polso, che aveva uno screen che segnava le quarantotto ore «se non dovessi farcela a tornare in tempo potresti rimanere bloccata lì. E non oso pensare a cosa potrebbe succederti.»
Gli sorrisi, più agitata che mai. «Nel caso non dovessi tornare immaginami in compagnia di un bellissimo ragazzo con gli occhi chiari e i capelli scuri, dato che qui in Norvegia quasi tutti abbiamo i capelli biondi.»
Rise leggermente e poi mi strinse la mano, notando i giornalisti che fissavano. Non potevamo abbracciarci, era contro la legge.
Erano quasi le 17 e camminai verso l’entrata della capsula, nel frattempo la piazza si era riempita di gente e di curiosi che volevano assistere all’evento. Mi chiedevo se al mio ritorno le cose sarebbero cambiate.
«Buona fortuna» mormorò uno degli scienziati, guardai Kris ed entrai, portandomi con me la piccola valigia all’interno della capsula buia e soffocante. Per un attimo avrei voluto uscire e scappare a casa, non andare da nessuna parte e non rischiare, e poi la paura e l’ansia si trasformarono in adrenalina. Premetti il pulsante per richiudere la porta e prima di essere avvolta dal silenzio sentii un grosso applauso e tanti fischi dalle persone che mi guardavano. Chissà, forse era l’ultima cosa che avrei visto e sentito.
Un tremolio che si fece sempre più forte, una scossa che divenne un raggio elettrico azzurro si diramò in tanti piccoli fulmini celesti, blu, bianchi, grigi. Mi sentii attraversare il corpo e per un attimo quella che fu paura divenne soddisfazione. Funzionava. La testa mi girò forte e caddi in avanti, battendo la testa sul ferro caldo della capsula. Chiusi gli occhi e rimasi a fissare il buio nel quale si proiettavano le scariche blu che volevano buttare il mio corpo chissà in quale punto del pianeta.
Non ricordai quante ore passarono, non le contai. Quando tutto smise di tremare e le scariche elettriche si fermarono, si illuminò il bottone d’uscita. Lo premetti e una folata di aria gelida mi investì, menomale che con me avevo il cappotto di tessuto sintetico riscaldabile.
Misi un piede fuori dalla capsula, incerta, e ne uscii completamente. Non c’era granché intorno a me, solo qualche casa e una strada larga e deserta. Non c’era tutto quello che ero abituata a vedere a Oslo, non c’era nulla, le casette erano ricoperte di neve e così gli alberi, spogli e silenziosi, i muri giallognoli o biancastri, il cielo grigio e cupo. Cercai di realizzare che ero tornata a mille anni addietro nella storia, ancor prima della Terza guerra mondiale, ai primi anni del ventunesimo secolo, in un’altra civiltà. Era tutto così dannatamente reale e antico. C’era qualche cavo elettrico attaccato a dei pali altissimi, non come a Oslo che tutto aveva energia elettrica a sé. Se uno di quelli non avrebbe funzionato sarebbe saltato tutto.
Guardai il timer, mancavano 47 ore e 54 minuti. Ero appena arrivata. Mi incamminai su quella che era la stradina di campagna e seguii la striscia bianca che c’era al centro, anche se non capivo a cosa servisse. Osservai le casette poco colorate e rudimentali ricoperte di neve bianca e mi chiesi se avessi dovuto suonare. Mi ricordai che sicuramente non erano vestiti come me, infatti Kris dopo accurate ricerche mi aveva procurato quegli abiti bizzarri che usavano mettere in quell’epoca: degli stivali neri, pantaloni che si chiamavano jeans e una felpa calda tutta grigia. Li osservai e richiusi la valigia, cercando un luogo dove cambiarmi. Sperai almeno che si parlasse inglese.
Arrivai su una strada poco più affollata rispetto a quella di prima, c’erano due o tre persone sul marciapiede a fumare un oggetto corto e bianco, forse la famosa sigaretta che avevano mandato a rotoli un’intera generazione. A pochi metri da me vidi in alto un’insegna colorata, dove c’era scritto “Edward’s”. Sperai fosse una cabina di ristoro – o come l’aveva chiamata Kris, locanda – e entrai senza bussare. Un uomo con le spalle larghe, bassino, i capelli castani che gli ricoprivano il viso fino a metà collo mi guardò sussurrano un “buonasera” per mia fortuna in lingua inglese.
Ricambiai il saluto, forse un po’ timorosa. «È una, uhm, locanda questa?»
Annuì facendo una smorfia di disapprovazione. «Non esattamente una locanda, ma... entra! C’è il gelo fuori.»
Sorrisi e chiusi la porta in legno scuro alle mie spalle. Era così insolito. Le abitazioni in legno erano sparite nella mia epoca, e mi guardai intorno alla ricerca diqualche dettaglio da segnarmi a mente da raccontare se avessi fatto ritorno a casa. Ero completamente spiazzata.
L’uomo mi tese la mano. «Mi chiamo Chris. Ti vedo un po’ confusa, sei straniera?»
Gli strinsi la mano tentennando, da dove venivo io era un gesto che equivaleva ad un abbraccio e ritirai la mano subito dopo averla stretta. «Diciamo... diciamo di sì.»
«E ce l’hai un nome?»
Afferrai la sua domanda con ritardo perché ero impegnata a guardare un pezzo di carta stampato, probabilmente una di quelle fotografie. «Rachel Hetfield.»
«Piacere di conoscerti, Rachel. Sono molto solo qui, quindi vedere una persona che passa ogni tanto mi rincuora molto.»
Mi commossero quelle parole, nessuno era mai stato così cordiale con me. «Chi è quello con te in quella...fotografia?» Dissi cercando di non sbagliare l’accento della parola. Il suo inglese era leggermente più pulito del mio, si vedeva che ci toglievamo mille anni di evoluzione.
«Questo?» indicò il ragazzo che gli cingeva il braccio intorno alla spalla afferrando il pezzo di carta «Lui si chiama Dan, è un mio caro amico. Hai fame?»
Mi porse la fotografia e negai, tutto quel subbuglio mi aveva fatto passare l’appetito. L’afferrai rigirandomela fra le mani. La toccai più volte vedendo che ci rimanevano le mie impronte digitali e temetti di averla rovinata. Chris la guardava insieme a me. C’era lui, basso, più robusto e piazzato, e poi c’era questo Dan, alto e magro, con dei capelli tendenti al nero, e gli occhi di un blu oltreoceano, come tutta Oslo, quel blu metallizzato che ti toglieva il respiro se non ci fossi abituata.
«È molto bello» mi limitai a dire «dove potrei cambiarmi?»
Mi indicò con l’indice la porta, sempre in legno, alla sua destra, più in fondo, dove c’era inciso un pupazzo stilizzato con la gonnellina. A Oslo i bagni degli uomini e delle donne erano distinti da dei segni ben precisi.
Ringraziai e mi portai dietro la valigia, cambiandomi i vestiti. Tutto calzava alla perfezione, ma mi sentivo impacciata in quegli stivali così stretti e alti, e quella felpa mi dava un’aria veramente goffa. L’unica cosa che non era particolarmente strana era il cappotto, che era lungo fino a metà coscia e nero e voluminoso, imbottito e caldo. Ma quando lo infilai rabbrividii, faceva davvero freddo lì. Coi vestiti sintetici non si sentiva freddo, e invece con quei tessuti così elementari e poco elaborati non riuscivo a riscaldarmi.
Sistemai i vestiti della mia epoca nella valigia e uscii insicura di apparire normale. Chris mi sorrise, e solo dopo notai che il mio amico e questo ragazzo avevano lo stesso nome, cambiava solo il modo in cui si scriveva. Quale coincidenza.
«Sei appena arrivata?» mi chiese quando mi sedetti su una sedia alta e senza spalliera di fronte a lui. Annuii.
«E hai un albergo, un posto dove dormire?»
La mia risposta fu negativa e a lui scappò una risata. «Potrei farti dormire nella stanza di Dan, lui è fuori ora. Non credo che tornerà a casa questa sera.»
Mi strinsi nelle spalle. «Non vorrei disturbare.»
«Quale disturbo! Per me è un piacere se rimani con noi stasera, e poi a lui piace conoscere gente nuova» ammiccò, forse rammentando quel commento che avevo fatto sul suo amico.
«E va bene, ma solo per questa notte... avrei del... lavoro, da sbrigare in giro per questo posto.»
Non gli chiesi dove ci trovavamo, era sicuramente qualche posto in cui si parlava inglese. Confusioni a parte, trascinai la valigia fino a una stanza angusta e cupa, dai colori che andavano dal marrone al giallo, molto rustica e rude. Mi accomodai sul materasso morbidissimo, era un letto molto grande.
«Beh, ti auguro di dormire» mi sorrise e socchiuse la porta.
Mi chiesi se avessi resistito al freddo glaciale di quella notte, con degli sconosciuti che erano di un’altra epoca e chissà con quale concezione delle regole e della cordialità. Ma già dal modo in cui mi aveva accolta Chris  pensai che non sarebbe stato impossibile sopravvivere per due giorni lì.
Chiusi gli occhi raggomitolandomi sotto le coperte, tremando per il troppo freddo. Non avrei dormito quella notte.
Guardai il timer, mancavano 46 ore e 35. Richiusi gli occhi e poi dei passi mi fecero sobbalzare, seguiti da una porta che si apriva e delle voci che si salutavano e chiaccheravano. Mi salì un groppo alla gola. Qualcuno si avvicinò alla stanza e l’aprì, entrando. Finsi di dormire e non aprii gli occhi. Temetti il peggio.


Writer's wall
Salve plebee (e plebei), che ve ne pare come primo capitolo? Sono molto emozionata perché è una storia a cui tengo molto, e potrei scriverla in poco tempo se non avessi altre due ff da completare..comunque conto sul vostro giudizio e spero che recensirete in tanti!
Baci,la vostra Angelica.
  
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