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Autore: Soqquadro04    06/01/2014    1 recensioni
[Bromance!Johnlock | Possibile OOC | Qualcosa a metà fra il malinconico e il fluff | Possibile Spoiler!3x01]
L'ha contagiato con la sua insonnia nervosa, Sherlock, con l'incapacità di rilassare il corpo e la mente fino a quando non si è veramente al limite delle proprie forze – ci sono state notti e poi giorni e poi settimane in cui John aveva davvero creduto che sarebbe morto sotto il peso della stanchezza e dei ricordi che si contendevano la sua attenzione (era stato all'inizio, quando ancora era a Baker Street e gli sembrava di sentire i suoi silenzi e le melodie fantasma del violino echeggiare fra le pareti, e invece era solo la pioggia – pioggia che scendeva dal cielo come lacrime). [...]
Sherlock può leggere la tua vita con uno sguardo – può indicarti ciò che hai fatto e quando l'hai fatto meglio di quanto tu possa ricordare.
E, se ti guarda negli occhi, Sherlock è capace di rubarti l'anima.

Ipotetici momenti seguenti a The Empty Hearse - ipotetici e utopici momenti. Soprattutto utopici.
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Autore: Soqquadro04
Fandom: Sherlock (BBC)
Disclaimer: appartengono a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto l'idea per primo - e poi a Mark Gatiss e Steven Moffat. Comunque, in ogni caso, non sono miei - infatti scrivo fanfiction, altrimenti scriverei i copioni.
Generi: Malinconico, Introspettivo, Fluff
Avvertimenti: OOC, Spoiler!, What if?
Rating: Verde
N/A - Note dell'Autrice: Okay, sono ufficialmente emozionata. Questa storia è il mio esordio nel fandom, e sono convinta di aver fatto un disastro non da poco con le caratterizzazioni (quindi, in caso sia esattamente così, siete naturalmente autorizzati a tirarmi qualsiasi cosa abbiate in mano). Sono sicurissima di aver abusato di parentesi, trattini e discorsi che non c'entrano un piffero con quello che stavo dicendo la riga sopra - perdonatemi. >.<
E' lunghina (5990 parole, secondo il contatore di Open Office), e la immaginavo quasi completamente diversa e decisamente più breve, ma è venuta fuori così - il titolo è quello che è perché l'idea è nata tutta da qua, in particolare da questo prompt: "Sherlock/John: separation anxiety after a traumatic event. Keeping the other person in one's line of sight, fidgeting if not in the same room,  touches for reassurance, this kind of behaviors...". E infatti noterete che sparsi qua e là ci sono tentativi di ritrovare la traccia. Non che ci sia riuscita, comunque.
Spero che, nonostante le varie imperfezioni che sono abbastanza certa siano seminate in giro, non sia poi così orrenda ;)

A presto (forse),
la vostra Soqquadro
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Anxiety

Ansia. Questo penoso sentimento d'attesa.
Éliane Amado Lévy-Valensi

 


Sherlock è tornato – dopo due anni, dopo Mary, dopo due anni, dopo che il suo ricordo è sbiadito così tanto da impedirgli di riconoscere la sua voce, dopo due maledetti anni.
Ma è tornato – è vivo.
Fantastico. Meraviglioso. Davvero.

Un miracolo – l'aveva chiesto, no, il suo miracolo?

Certo, il suo miracolo, in meno di una settimana di esaltante, frenetica, familiare vita da consulting detective redivivo ha rischiato di farlo finire ammazzato due volte ma, ehi, questo non è niente, routine, a chi importa se lui dovrebbe sposarsi – a maggio, in teoria, a quanto pare, dovrebbe essere maggio (sempre se ci arriva, a maggio)? Figurarsi. Baggianate senza importanza.

Sentimentalismi riguardo l'effettivo valore della sua vita, addirittura – brr. Non c'è limite a quanto Sherlock Holmes detesti tutto ciò che è possibile ricollegare ai rapporti umani. E i sentimentalismi fanno orrendamente, in modo a dir poco raccapricciante, le veci del più temuto di quei legami – amore romantico, bah.
Ancora, baggianate senza importanza.

Dio, quanto gli è mancato.

 

Sherlock è tornato, sì – lui è tornato, e il 221B di Baker Street ha di nuovo la sua processione di gente e Mrs. Hudson reclama ancora la sua posizione di donna libera (non sono la tua domestica, Joh- Sherlock Holmes!) e alle cinque del mattino o alle quattro del pomeriggio o alle tre di notte le dita di Sherlock fanno scivolare componimenti dalle corde del violino.
Ma John non c'è, non può tornare a Baker Street – non ora che c'è Mary e che si sente così in colpa ogni volta che si ritrova a pensare che quella vita non fa per lui, che sì, è vero, gli manca Sherlock ma gli manca soprattutto la sensazione dell'adrenalina che scorre nel sangue e il battito che gli ruggisce nelle orecchie mentre segue (seguiva) il lembo svolazzante di un lungo cappotto nero che spariva dietro un angolo, cercando di raggiungerlo.

 

John Watson capisce che ha bisogno di passare un po' di tempo a Baker Street – un po' di tempo con quel pezzo di idiota che prima o poi si farà ammazzare davvero, sicuro, se non lo farà prima John – quando, durante una di quelle visite di cortesia che piacciono così tanto a Mary – si premura sempre di informarsi sulla disposizione dei casi di Sherlock, prima di organizzarle. Una volta è capitato che finissero fra tutti e tre a rincorrere un gruppo di contrabbandieri di gioielli in riva al Tamigi. Non era stato piacevole, considerando il rischio di venire affogati perché, ovviamente, tale banda di contrabbandieri era formata da una quindicina di persone (il commento più utile di Sherlock era stato atto a spiegare loro che erano troppi, veramente troppi per sperare di passare inosservati, fino a che non era riuscito a liberarli tutti e farli tornare vivi a casa e allora sì, che si era dimostrato utile. Come al solito, durante gli ultimi trenta secondi prima che venissero gettati nell'acqua nauseabonda del fiume). Vista la sua prima esperienza con Sarah, forse avrebbe dovuto evitare proprio che Mary conoscesse Sherlock ma, sapete, doveva essere morto e invece no, sorpresa –, Sherlock apre la porta e per poco il sopracitato John Watson non gli tira un pugno. Dritto in un occhio – l'altro occhio, cioè, quello non circondato da un alone viola scuro parecchio orrendo a vedersi. Per non parlare della ferita che gli sfregia lo zigomo.
Mary si lascia sfuggire un verso strozzato e angoscioso, John lo fissa per qualche secondo, le dita già piegate che tremano quasi, mentre respira profondamente.
Uno. Due.

«Cosa diamine ti è successo?»
È vagamente consapevole del fatto che il suo tono sfiori l'isteria – gli sembra quasi di sentire la sua voce rimbombargli in testa insieme all'occhiata di cui lo degna prima di sparire dentro casa (cielo, John, un po' di contegno) –, mentre lo segue attraverso la soglia e il salotto gli si apre davanti.

 

L'ambiente è una follia; la poltrona di Sherlock è rovesciata e per terra ci sono i cocci di una tazza e i fondi del the macchiano il tappeto; la finestra è aperta e sparse in giro ci sono cose che sì, no, potrebbero essere dita umane – non ha molta voglia di scoprire quale esperimento si sia ribaltato mentre la stanza veniva ridotta in quel modo.
«Ripeto: Sherlock, cosa diamine è successo qua dentro?» gira la testa a destra e a sinistra, cercando di capire se i danni sono più estesi – sembra di no –, per poi riportare gli occhi su Sherlock – Sherlock che, indifferente al disastro, scavalca la poltrona per chinarsi e rimetterla in piedi, sempre ignorandolo tranquillamente, per poi sedersi e alzare lo sguardo su di lui.

 

Salta fuori che livido e taglio sono vecchi di un paio di giorni – un qualche insulso, stupido assassino che non è riuscito a distrarlo nemmeno per mezza giornata, ma con una dolorosa passione per i tirapugni – e che quindi non c'entrano assolutamente nulla con la lotta furiosa conclusasi circa cinque minuti prima che lui e Mary arrivassero (a quanto pare è riuscito a tirarsi addosso le mire di un paio di esperti combattenti slavi – e considerato che è nuovamente a Londra e ufficialmente vivo e vegeto da meno di tre settimane, il buon dottore è convinto che tutto ciò non sia per nulla esilarante. Solo, in qualche modo, paradossale) – e John comprende che anche se sono passati due anni e due anni sono tanti, e in due anni le cose non sono più le stesse e le persone sono cambiate (forse), la sensazione di perdita è ancora talmente forte che al pensiero che se non vedendolo per meno di cinque giorni si è ridotto in questo modo, Dio, la volta che non lo incontra per un mese (perché potrebbe capitare, naturalmente, ora che John non è più lo scapolo John Watson ma sta per diventare John Watson il marito-di-Mary-Morstan-in-Watson) e si perde la comparsa di un nuovo mostro dagli occhi colmi di pazzia lo troverà morto – ma per davvero, questa volta, non per un abile giochetto di burattini. Morto.

 

Prima non si è mai preoccupato particolarmente dell'incolumità di Sherlock – certo, non che gli avrebbe fatto piacere vederlo con un braccio rotto o peggio (o meglio, a volte sì, ma diciamo che per la maggior parte del tempo andava bene tutto intero) ma ricordava (gli veniva ricordato) spesso e volentieri che Sherlock Holmes sapeva badare a se stesso e non aveva certo bisogno di una balia –, ma non è più prima.
È perché, proprio perché non è più prima, che John Watson chiede a Mary di poter tornare a Baker Street – glielo chiede una settimana dopo quella sera, dopo che avevano lasciato Sherlock a sistemare il salotto (John aveva provato a convincerlo a farsi aiutare, ma aveva lasciato perdere quando un dito mozzato aveva fatto la sua comparsa pericolosamente vicino alla sua tazza di the); aveva passato tutte le notti di quella settimana a rigirarsi nel letto senza poter dormire, l'agitazione crescente.

Le chiede solo un paio di settimane, solo un po' di tempo per... non lo sa neanche lui, ma Mary deve leggere l'ansia (anche angoscia, anche paura) nei suoi occhi, perché gli mette una mano sulla spalla e stringe un po' per calmarlo e annuisce, leggera, e gli dice ridendo che gli darà tutto il tempo che vuole per assicurarsi che Sherlock rimanga dov'è, basta che torni a casa in tempo per il matrimonio. John le sorride e le dice che basteranno solo un paio di settimane – sì, solo un paio di settimane –, che sarà di nuovo lì presto, e che domani mattina dovrà chiamare Sherlock e dirgli che per un po' starà a Baker Street e che, sempre per un po', potrà tornare ad approffittarsi della sua abilità nel preparare il the (in realtà il the di John è orribile, il the di John è l'unica cosa per cui Sherlock è disposto ad alzarsi e fare da sé, ma questo Mary non lo sa perché John si è sempre rifiutato di preparare il the).

Non le dice che se gli desse veramente tutto il tempo che vuole potrebbe addirritura non tornare più – non perché non ami Mary, lui ama Mary ed è convinto del suo matrimonio e, davvero, lui ama Mary. Solo perché gli manca – perché gli manca Baker Street e quel violino alle cinque del mattino o alle quattro del pomeriggio o alle tre di notte e il non dormire, non mangiare, preoccuparsi solo di evitare che Sherlock inizi a sbattere la testa contro il muro per la noia, e le finte lamentele di Mrs. Hudson e tutto questo sommato insieme che è il 221B.
Gli manca terribilmente – gli è mancato abbastanza per tutta una vita, in quei due anni.

 

Ed è così che la mattina dopo – il suo giorno libero (John è un tipo responsabile) – sta trascinando una valigia su per i gradini cigolanti di casa e Mrs. Hudson si affaccia sul pianerottolo per controllare chi stia facendo tutto quel rumore e gli sorride e lo informa che Sherlock sta armeggiando con non si sa cosa di acido e... corroborante, no, corrosivo e quindi, caro, stai attento ad entrare in cucina. John non aveva intenzione di entrare in cucina, in realtà, ma di tirare dritto fino alla sua camera e poi passare la giornata con Mary e tornare la sera, ma ringrazia Mrs. Hudson e grida qualcosa che assomiglia a un saluto quando entra in casa e non si preoccupa quando non riceve risposta perché Sherlock è Sherlock e se sta studiando qualcosa di anche solo vagamente interessante non lo degnerà di attenzione – gli è mancato anche questo.

 

Riempie i cassetti di abiti, risistema le sue cose in bagno, abbandonando la valigia aperta sul letto – la metterà in qualche angolo, più tardi –, scende le scale e quasi inciampa in Sherlock (l'occhio nero è quasi guarito, il taglio ci metterà un po' di più) – sta infilandosi il cappotto di corsa, diretto evidentemente verso il mondo esterno (un caso, dev'essere un caso. E anche particolarmente interessante, se fa muovere Sherlock così in fretta e così impazientemente), e gli agguanta una mano prima che John possa fare qualsiasi altra cosa (per esempio osservarlo uscire per poi continuare per la sua strada e magari chiamare Mary per dirle che va tutto bene e che sì, certo, è confermato che possono vedersi fra dieci minuti davanti all'appartamento); Sherlock ignora le sue proteste e se lo trascina dietro fino in strada, alza un braccio, ferma un taxi e dà un indirizzo mai sentito prima (da qualche parte nei quartieri alti), il tutto in circa due minuti d'azione, senza mai lasciargli la mano – è un contatto strano (del resto, Sherlock fa di tutto per toccare il meno possibile la gente, di solito, e l'unica volta in cui lo ha preso per mano o, se è per questo, ha azzardato un contatto maggiore del semplice sfiorargli la pelle, per sbaglio, per afferrare qualcosa dalle sue mani, è stato esclusivamente per farlo correre più in fretta e non c'era assolutamente niente di romantico, e John è fortemente sicuro che anche stavolta sia capitato solamente perché è riuscito a raggiungere le sue dita prima che il polso o magari il braccio o persino una spalla. Non c'è assolutamente nulla di romantico, come potrebbe esserlo con Mary – Dio, Sherlock e romantico non sono due parole che può pensare contemporaneamente), caldo, e le dita di lui sono lunghe ed esili fra le sue. Quando l'altro si ritrae, mentre sono seduti sui sedili e sta studiando distrattamente l'auto, carpendo particolari che John non riuscirebbe a vedere nemmeno in un milione di anni di lezioni di Holmensiana Capacità di Osservazione (meglio non fargli sapere come ha soprannominato il suo modo di vedere il mondo – né a lui né a Mycroft. Oh, no, non c'è alcun bisogno che lo sappiano), John stringe l'aria, avvertendo il freddo invernale di Londra insinuarglisi nella manica.

 

«Dove stiamo andando?» lo sguardo di Sherlock è di vetro mentre lancia un'occhiata veloce al suo viso confuso – effettivamente, non sa dove si stanno dirigendo (non ha capito nulla della conversazione con il tassista) e magari sarebbe utile per comprendere, più o meno, quanto ci metterebbe a prendere un altro mezzo e tornare indietro e quanto ritardo stimare a Mary.
«Hai sentito benissimo dove stiamo andando» apre la bocca per protestare che no, non ha sentito proprio un bel niente, ma Sherlock alza una mano e lo zittisce con un gesto mentre conclude, categorico, sbuffando appena. «non mi sembra il caso di sprecare fiato per dirtelo ancora.» non gli fa notare che sarebbe stato molto più semplice rispondergli con l'indirizzo e che, così facendo, le sue preziose corde vocali si sarebbero consumate decisamente meno. Sa che sarebbe davvero fatica sprecata, la sua.

«D'accordo, allora: perché ci sono anche io? Sherlock, dovevo vedermi con Mary, oggi. Sai, per passare la giornata insieme e fare le cose che fanno i fidanzati, di domenica mattina.» non si aspetta che Sherlock lo lasci andare dopo la brillante esposizione dei suoi impegni per la giornata, memore del clamoroso insuccesso al tentativo di spiegargli perché esistono cose tanto insulse quanto gli appuntamenti o, anche, quello decisamente più imbarazzante sulla sensazione quanto meno piacevole che si prova a stare insieme a qualcuno con cui si sente una certa affinità. Sherlock aveva ribattuto che con lui sentiva una certa affinità, ma non per questo provava il pressante desiderio di portarlo fuori a cena – e John aveva scosso la testa e si era arreso senza ulteriori tentativi.

 

«Oh, credo non sarà un problema avvertirla che non puoi – chiamala, no, John? Non c'è certamente bisogno di una lunga lettera appassionata per spiegarle che hai un altro impegno.» Sherlock sbuffa di nuovo, impaziente, osservando il paesaggio grigio di palazzi e auto e giacconi per l'inverno che sfila fuori dal finestrino, stringendosi addosso il cappotto con gesti disinvolti.
John corruga la fronte, scontento, sospirando – ma ha già una mano infilata in tasca, e quando Sherlock lo nota con la coda dell'occhio le sue labbra si sollevano in una curva che John non avrebbe nemmeno mai visto se non fosse abituato a lui.

Mentre digita il numero, il tono del soldato è di rimprovero – e in fondo, ben nascosti, ci sono i ricordi che si accavallano e tornano, prepotenti, e il sangue che pompa più forte nelle vene, pregustando la giornata. Tenta di non darlo a vedere.

«Impegno che non ho saputo di aver preso fino a che non mi hai praticamente rapito e infilato a forza in un taxi.» Sherlock si volta verso di lui, cercando di incastrare le gambe troppo lunghe nello spazio esiguo, con un'aria terribilmente seria – mitigata dal sorriso che si fa appena un po' più largo, appena un po' più caldo. Appena un po' più interpretabile.
«Sei tornato, John – ho bisogno del mio dottore. Per favore.» e John lo guarda, e quel sorriso lo scalda proprio come farebbe una piccola fiamma – proprio come non ha fatto in due anni di lutto. Si porta il telefono all'orecchio e preme il tasto per avviare la chiamata. Mary capirà, solo per stavolta.

È tornato, già. Sono tornati entrambi – anche se è solo un istante, solo un'illusione.

 

Alla fine il caso si rivela nient'altro che un banale, squallido omicidio per gelosia – da un sette e mezzo circa ad a malapena un uno in meno di dieci minuti, un record persino per gli standard di Lestrade, che pure ne ha viste di situazioni ritenute immeritevoli di attenzione da un momento all'altro.
Tornano a casa nel pomeriggio, con uno Sherlock già preda di una terribile noia divorante e John già intento a pentirsi della sua decisione di passare la giornata con lui anziché con Mary – c'è da dire che si prospettava più divertente rispetto allo scegliere fra rosa salmone, avorio e giallo paglierino (ce n'era anche un altro, ma sinceramente non ricorda) per le tovaglie al ricevimento.

Lancia la giacca sul divano – la vede volare verso la poltrona dopo qualche secondo, non appena Sherlock entra, dietro di lui, raggiungendo quell'angolo e buttandosi a peso morto sui cuscini, le mani fra i capelli.

«John, facciamo qualcosa. Posso sentire i miei neuroni raggrinzirsi e morire uno dopo l'altro, ogni secondo che passa.» se c'è una cosa che non gli è mancata (no, nemmeno un po', nemmeno per sbaglio) è la tendenza al melodramma di Sherlock e le lamentele infinite nel tempo passato fra un omicidio e l'altro – sono probabilmente gli unici dettagli per cui non ha rimpianto ogni giorno passato in sua compagnia.
John rimane in silenzio a guardarlo e non propone nulla – ha imparato presto che parlargli mentre è in questa fase della giornata, della settimana o del mese, indifferentemente, porta a rifiuti e commenti caustici di varia natura qualsiasi cosa dica (e anche se i primi tempi ci ha provato, davvero, ormai ha capito) –, inarcando un sopracciglio quando si tira a sedere di scatto per poi ricadere sdraiato, incapace di stare fermo.

Lo ignora – si siede alla scrivania, gettando un'occhiata incerta a un contenitore appoggiato lì accanto (ecco dove sono finite le dita) e tamburellando nervosamente sul piano in legno.
Rimangono così per quasi tutto il resto del pomeriggio – a fissarsi di tanto in tanto, con Sherlock che a intervalli regolari si alza per passeggiare avanti e indietro qualche secondo, maledire Londra, la scarsità di criminali e la noia (è talmente annoiato da non poter fare nient'altro che annoiarsi, perdio!), sparire in cucina per preparare il the (per uno, naturalmente) e tornare a sedersi sul divano. John si limita a scambiare qualche messaggio con Mary – a quanto pare si è deciso per l'avorio –, controllare la posta elettronica e osservare Sherlock come se, per una buona volta, si fosse trasformato in uno dei suoi esperimenti.

 

Quella notte John si rigira nel letto per un tempo che sembra lungo secoli, temendo l'insidia del riposo – gli incubi in cui vedeva Sherlock sfracellarsi al suolo sono passati, lasciando però in eredità un'ansia maligna che gli prende la bocca dello stomaco, impedendogli di calmare i pensieri, e lo tiene sveglio fino a che le palpebre non si chiudono senza poter resistere più. I primi tempi, dopo, quando si svegliava urlando il suo nome nel buio, il sapore della bile sulla lingua e il panico a stringergli il petto, pensava che non sarebbe riuscito a dormire mai più – poi era arrivata Mary, e Mary lo stringeva a sé quando il grido gli prorompeva dalle labbra e gli accarezzava i capelli, mormorandogli parole senza senso all'orecchio, lo cullava mentre il sonno tornava, incerto e leggero. Ma tornava.

Mary si addormenta facilmente, però – Mary non ha mai saputo che a John servono ore per arrendersi e chiudere gli occhi.

L'ha contagiato con la sua insonnia nervosa, Sherlock, con l'incapacità di rilassare il corpo e la mente fino a quando non si è veramente al limite delle proprie forze – ci sono state notti e poi giorni e poi settimane in cui John aveva davvero creduto che sarebbe morto sotto il peso della stanchezza e dei ricordi che si contendevano la sua attenzione (era stato all'inizio, quando ancora era a Baker Street e gli sembrava di sentire i suoi silenzi e le melodie fantasma del violino echeggiare fra le pareti, e invece era solo la pioggia – pioggia che scendeva dal cielo come lacrime, come se la città stessa piangesse il suo dolore).

Sono le due quando decide di alzarsi – bere un bicchiere d'acqua, magari, o guardare fuori dalla finestra o sedersi sulla sua poltrona e aspettare che lo sfinimento raggiunga il livello massimo. Non ne può più di voltarsi e rigirarsi, senza null'altro da fare che fissare il soffitto –, i piedi nudi che non fanno rumore mentre si dirige verso il salotto.
Si ferma quando lo vede, un sospiro bloccato in gola – Sherlock è ancora sveglio (non che John fosse convinto del contrario, in fondo), immobile davanti alla finestra, nella posizione che aveva pensato di occupare, le luci spente.

Sarebbe incredibilmente simile a una statua, fermo così, una mano a scostare le tende, con la pelle bianca e il volto a malapena illuminato dalla luce dei lampioni. Lo sarebbe, se non fosse per il respiro che gli alza il petto, quasi impercettibile. Per un attimo, Joh si chiede se non sia stato tutto un sogno – se quello non sia lui, ma solo una proiezione della sua mente esausta.
Una voce spezza il silenzio – e la realtà si impone, e John si dà dell'idiota.

«Non riesci a dormire.» la domanda – anzi, non è una domanda. Sherlock Holmes non fa domande, elargisce deduzioni – non viene da John – anche perché già conosce la risposta, a quell'ipotetico quesito (lui non dorme quasi mai, e se non ci fosse qualcuno a ricordarglielo probabilmente non ci proverebbe nemmeno, ignorando i segnali e limitandosi a cadere dal sonno, sfinito, di tanto in tanto).
«Devi avermi attaccato l'insonnia.» scherza, un mormorio quasi indistinto, mentre fa un paio di passi avanti e viene incorniciato dal rettangolo della porta – ha temporaneamente dimenticato che Sherlock non apprezza l'ironia altrui. L'altro contrae l'angolo della bocca, scontento, voltandosi verso di lui, la schiena appoggiata al vetro.

«L'insonnia non è un raffreddore,» John dubita che Sherlock abbia mai preso un raffreddore, in realtà. «non è contagiosa, John – dovresti saperlo. Sei un dottore.» John sospira ancora, scuotendo la testa – rimane zitto, la mano sullo stipite, gli occhi socchiusi.

Sherlock si allontana dalla finestra – per un secondo, assurdo e cristallizzato nel tempo, il buon dottore crede che voglia avvicinarsi a lui. Avvicinarsi per fare qualcosa di così poco da Sherlock come abbracciarlo, per esempio. Poi, John vede che si sta muovendo verso il profilo del violino, delicatamente sistemato sul tavolino – lo prende in mano, le dita che accarezzano il legno e stringono con sicurezza l'archetto.

Sa che suona per due motivi, principalmente: quando il silenzio è troppo denso persino per riflettere e quando si diverte a deliziare le orecchie degli ospiti, magari pavoneggiandosi un poco. Solo un poco, figurarsi – per tutto il resto, fa abbastanza quotidianamente, senza bisogno di occasioni speciali.

E, poi, suona per John – per le sue orecchie distrutte dagli spari dell'Afghanistan e dalle grida notturne, per quietare la sua voce quando non ha voglia di ascoltarla (e succede spesso, perché quando Sherlock pensa vuole silenzio o, tuttalpiù, suoni rilassanti. E John, come qualsiasi altro essere umano, non fa parte della lista).

Sherlock appoggia il violino sotto il mento, e la prima nota riempie la stanza – dolce. È dolce.
John sa che, probabilmente, può associare dolce a Sherlock solo in questi momenti – quando, gli occhi aperti che forse, solo forse, per qualche istante (non per molto, davvero, solo quei pochi momenti, all'inizio) guardano ma non osservano, è così concentrato su qualcosa di semplice quanto la prima vibrazione di un'aria da essere, per una volta, quasi raggiungibile nella sua fortezza di ragionamenti e logicità.

Entra finalmente in salotto – si siede sulla sua poltrona, pochi passi lontano da lui, e lo osserva mentre si lascia scorrere fra le dita (quasi come acqua, quasi come qualcosa che può realmente toccare ma che non riesce a trattenere) una composizione che non ha mai udito prima.

 

John beve la musica proprio come fosse liquida, ne apprezza i movimenti bruschi e i cambi repentini che si sostituiscono a quella dolcezza iniziale (è come un serpente che striscia, lento e metodico, e senza preavviso si arrotola su se stesso, e si contorce straziato da qualcosa che non si può comprendere) e il cuore si fa pesante quando tutto si conclude – tutto finisce, con la morte di quel serpente, una morte incisa nei suoi timpani da una nota cruda, bassa (e la consapevolezza che il serpente è Sherlock, forse che è la parte di Sherlock che lui non ha mai conosciuto, quella tormentata dal passato e forse, forse anche dal presente e fragile, fragile come il vetro dei suoi occhi, si fa strada nella sua mente e gli dilania l'anima con i denti).

«Quando...» si schiarisce la voce, pensando che non riuscirà mai a dormire – che ascoltarlo, questa volta, è servito solo a risvegliare fantasmi. «quando?»
Non si aspetta che gli dica ora – sa che anche per qualcosa di tanto meraviglioso, tanto crudele (tanto istintivo), Sherlock ha preparato ogni sfumatura e spostato note qua e là sulle righe impersonali del pentagramma, e programmato pause e perfezionato passaggi, perché John sa anche che, quando compone, si prende il suo tempo (non fa niente all'improvviso, quando si tratta di musica).

«Un paio d'ore fa – devo ancora scriverla.» come a conferma delle sue parole, Sherlock riappoggia lo strumento nella sua precedente posizione, prendendo poi posto alla scrivania e tirandosi vicino uno spartito vuoto, abbandonato lì accanto.
John non dice nulla – rimane seduto lì, così, come una bambola su uno scaffale, fino a che l'alba non irrompe dalle finestre e dipinge di rosa pareti, pavimento, sedie e scatole di dita umane in decomposizione.

Che colore, il rosa – così stonato per quella stanza, con il disordine familiare che impregna l'aria e la carta da parati bucherellata, qualche libro impilato distrattamente con appunti frettolosi di cose che a nessuno dei due servono più chiusi fra le pagine.
Nemmeno Sherlock parla – non che sia una novità, quel suo mutismo volontario (si alza, il viso piegato in una smorfia scontenta – chissà a cosa sta pensando, stavolta. John se lo chiede, e per un attimo è sicuro di saper trovare una risposta).

Se c'è un dettaglio che sa di nuovo, però, è il fatto che dopo una decina di minuti Sherlock torni in salotto portando il the – due tazze di the. John continua a non fare commenti mentre gliene porge una, ma quando gli sfiora, per caso, la mano, mentre afferra il manico della chicchera, sa che il suo grazie è sottinteso e lui lo ha capito. Non si ritrae.

 

Esattamente una settimana più tardi, John Watson è nuovamente seduto sulla sua poltrona, insonne, ma Sherlock non è davanti a lui, intento ad allungargli una tazza di the – Sherlock è di sopra (è andato a dormire di sua spontanea volontà, un evento più unico che raro – ma quando erano rientrati John non riusciva quasi a contenere la voglia di fargli molto, molto male. Abbastanza male da fargli capire cosa si prova a pensare di vederlo morire per la seconda volta. Non riusciva nemmeno a smettere di tremare – non riesce a smettere di tremare –, e non sa che Sherlock ha acconsentito soprattutto per questo. Odia osservare il dolore, anche se non lo dà a vedere.)

John Watson respira appena, gli occhi chiusi, qualcosa che somiglia al terrore che continua a strisciargli addosso come un mostro dai tentacoli viscidi.
Maledetto idiota.

John aveva mostrato una certa diffidenza (diciamo pure che aveva tentato di opporre un rifiuto netto) quando Sherlock aveva lanciato un'occhiata che diceva tutto quello che doveva sapere alla scala anticendio e al tetto al quale conduceva – John non vuole mai più sentir parlare di tetti, John non vuole mai più vedere Sherlock in una posizione che lo allontana dal terreno di più di mezzo metro.
Tutto per inseguire un bastardo che, alla fine, non avevano nemmeno preso – non vivo.

Quell'uscita non era stata prevista – erano già un paio di giorni che Sherlock sembrava intenzionato a rifiutare tutti i casi che gli presentavano, e stava trasformandosi in un concentrato di insofferenza potenzialmente autodistruttiva quando, finalmente, Mycroft non aveva salito le scale chiedendo aiuto per una questione delicata e lui aveva avuto un guizzo di vitalità negli occhi che poteva voler dire solo una cosa e, ovviamente, John c'era finito in mezzo (turno di notte in ambulatorio, fortunatamente, perché stava diventando complicato riuscire a incastrare i rapimenti di Sherlock e il suo lavoro nello stesso lasso di tempo), e non si sa, ancora non si sa, come erano finiti a rincorrere una figura scura sui tetti di Soho. A quanto pare si trattava di qualche infiltrato nei servizi segreti inglesi da scovare – avrebbe potuto essere di competenza di Mycroft, ma figurarsi –, cosa che Sherlock aveva fatto in circa dieci minuti.

Non si sa nemmeno come si fossero ritrovati faccia a faccia, o come, di preciso, a Sherlock sia venuto in mente di fronteggiare il loro uomo a meno di un metro di distanza dal bordo del tetto dell'ultimo palazzo su cui erano riusciti a bloccarlo – su cui Sherlock era riuscito a bloccarlo, perché John aveva decisamente valutato che quell'ultimo salto era fuori dalla sua portata e che era più utile tenere sotto tiro l'uomo.

Quando gli si era avventato contro, John aveva sparato – John aveva anche urlato, a dire il vero (aveva gridato il suo nome con tutto il fiato che poteva soffiare fuori dai polmoni, e per un attimo immobile era di nuovo in strada, lo sguardo rivolto in alto e il cellulare che gli scivolava dalle dita mentre Sherlock cadeva, e cadeva, e cadeva e il sangue sull'asfalto), e aveva guardato impotente il colpo mancare il bersaglio e i due corpi avvinghiati lottare per qualche secondo (o per qualche minuto o per qualche ora o per un'eternità conclusasi in quell'istante), in una sottospecie di macabro balletto (John era quasi certo di aver visto anche brillare alla luce dei lampioni lo scintillio affilato di una lama, e il panico si era serrato più forte di quanto credesse umanamente possibile attorno alle sue viscere), finché Sherlock non era riuscito a sovrastare l'altro.

L'aveva spinto contro il muretto – troppo basso, troppo basso – che chiudeva l'orlo del tetto, il volto contratto per la fatica di trattenerlo e poi – e poi l'uomo era riuscito a fare forza sulle braccia e a scambiare le posizioni e Sherlock, Sherlock invece si era sbilanciato all'indietro ed era caduto, Dio, era caduto ancora.

Si era trascinato dietro l'altro, ma era caduto – e John aveva urlato di nuovo, ed era rimasto fermo a tremare (aveva iniziato e non aveva più smesso, e non smetterà finché i ricordi mescolati di due cadute differenti non se ne andranno a rintanarsi in qualche angolo nascosto della sua testa e verranno accantonati e cercherà di dimenticare – anche se la notte gli incubi torneranno, e nessun violino li farà andare via perché fra poco tornerà da Mary e Mary non sa suonare il violino), su quel tetto. Immobile, senza il coraggio di scendere e ancora una volta vedere il suo corpo riverso sulla strada con un'aureola rossa a circondargli il capo. Non c'erano stati trucchi – era successo per davvero.

Non ci sarebbe stato nessun miracolo – non ci sarebbe stato più nessuno da supplicare, e non lo avrebbe visto rispuntare fra due anni o tre o cinque o dieci. O venti.
Si era inginocchiato, lentamente – aveva tenuto la testa fra le mani, gli occhi chiusi (se li avesse aperti sarebbe stato tutto reale e non poteva essere successo ancora, non poteva), e il peso del dolore sembrava più grave di quanto non fosse stato la prima volta.

Ed era stato quando aveva finalmente racimolato abbastanza coraggio – abbastanza coraggio da non impazzire, quando l'avesse visto –, che aveva sentito la sua voce (i cassonetti di Londra non sono migliori di quelli di qualsiasi altra città – non si era posto troppe domande, in quel momento) e si era alzato in piedi, e si era voltato di scatto. Gli si era lanciato addosso – non sapeva bene se per tirargli un pugno o per abbracciarlo (alla fine gli aveva tirato un pugno – John non è un uomo fatto per gli abbracci pacificatori –, e Sherlock l'aveva lasciato fare, esattamente come l'aveva lasciato fare la sera in cui era ricomparso) – e aveva tremato un po' meno nel vederlo vivo e vegeto e terribilmente inorridito da qualcosa che più tardi aveva scoperto essere il modo in cui si era salvato la vita.

Maledetto idiota. Di nuovo.

Era caduto in un cassonetto – proprio fra i rifiuti di condominio. Non si era fatto nulla (così non si poteva dire dell'altro uomo, che non era stato così maledettamente fortunato e aveva terminato il suo volo dieci centimentri più spostato di lato rispetto a Sherlock – che forse così idiota non era, perché quel coltello l'aveva visto decisamente prima di lui e, non appena ne aveva avuta la possibilità, l'aveva spinto il più lontano possibile da sé).
Era vivo – Dio, era vivo.

Per un qualche assurdo calcolo del destino o di chi per lui (checché ne dicesse Sherlock, John sa benissimo che lui non aveva la minima idea ci fosse la possibilità di sopravvivere), era vivo – ancora una volta, era caduto ed era vivo.

È vivo.

 

Il cigolio di un'asse del pavimento lo riporta indietro dal ricordo – si accorge che il tremore sembra essere diventato più sordo, quasi impercettibile, ma ancora non se n'è andato.
Aspetta – aspetta che succeda qualcos'altro che gli riporti alla mente quelle prime settimane dopo l'inizio del lutto, quei momenti prima di risentire la sua voce, in modo da tornare forte e crudele e talmente devastante da impedirgli di tenere in mano gli oggetti.

Sherlock gli si avvicina da dietro, zitto – sa che l'ha sentito arrivare, però. L'avrà scorto nel sobbalzo leggero delle sue spalle, forse.
Quando finalmente lo sorpassa e si siede davanti a lui, la vestaglia annodata in vita e lo sguardo serio – lo zigomo che gli ha colpito è ancora arrossato e può vedere che ha riaperto leggermente la ferita inferta dal tirapugni. Si sente in colpa, ma non lo dice ad alta voce (si limita a stringere la bocca in una linea sottile, e sa che lui capirà – Sherlock capisce sempre) –, John parla.

Ed è rabbia l'emozione che predomina nel suo tono – ma se sai ascoltare, e non c'è dubbio che Sherlock sappia fare anche questo, quando lo vuole, il dolore e la paura di dover riaffrontare tutto ancora sono lì, nascosti. John non è un soldato per niente.

«Quante possibilità c'erano che quel trucco da cartone animato funzionasse? Quante?» un numero così infinitesimale che persino lui non può dirglielo – in realtà ci prova, ma John non ha voglia di sentire come e perché avrebbe sicuramente funzionato.

Sherlock Holmes si crede un supereroe, ma la verità è che, seppur geniale ed eccentrico e decisamente al di sopra della norma, è semplicemente un essere umano.
Un mortale, imperfetto essere umano – per quanto rifiuti la cosa, così è.

E quando la voce di John risuona di nuovo, dura, nascondendo anche la paura, Sherlock studia il suo viso con un'occhiata rapida e il suo sguardo silenzioso cade fra loro.

«Non farlo mai più. Non fare mai più una cosa simile – non importa quale incarico così tremendamente importante tu debba portare a termine. Mai più.» John si tende in avanti, come a volerlo toccare – non lo fa. Solo, lo guarda fisso, senza distogliere l'attenzione o soccombere alle iridi troppo chiare e troppo profonde che lo scrutano.

Sherlock può leggere la tua vita con uno sguardo – può indicarti ciò che hai fatto e quando l'hai fatto meglio di quanto tu possa ricordare.

E, se ti guarda negli occhi, Sherlock è capace di rubarti l'anima.

A John non importa.

Ha imparato a guardarlo negli occhi da molto tempo, ormai – Sherlock sa già tutto ciò che c'è da sapere su di lui e sulla sua anima (non sa nemmeno se crede di avere un'anima, Sherlock – ma quando osserva in quel modo le persone, scavando nei loro pensieri, dovrà pur sentire qualcosa).

«Non posso promettertelo.»



 

   
 
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