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Autore: Francine    07/01/2014    2 recensioni
Azzurro
Il pomeriggio è troppo azzurro
E lungo per me
Mi accorgo
Di non avere più risorse
Senza di te
E allora
Io quasi quasi prendo il treno
E vengo, vengo da te
Ma il treno dei desideri
Nei miei pensieri all'incontrario va
(Pallavicini, Conte, 1968)

Prima pubblicazione: 28.02.2008
Genere: Malinconico, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cancer DeathMask, Nuovo Personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Caleidoscopio'
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Azzurro



Azzurro
Il pomeriggio è troppo azzurro
E lungo per me
Mi accorgo
Di non avere più risorse
Senza di te
E allora
Io quasi quasi prendo il treno
E vengo, vengo da te
Ma il treno dei desideri
Nei miei pensieri all'incontrario va
(Pallavicini, Conte, 1968)




L’aria entra dalla finestra. Non vuole condizionatori o altre diavolerie ronzanti che le sputino in faccia brezze artificiali. È arrivata l’estate e l’unica cosa che vuole è sentirne il respiro caldo mentre fissa quello scorcio terso che fa capolino oltre la finestra aperta. Le fronde degli alberi le permettono di vedere solo uno scampolo d'azzurro, ma le basta. Almeno per adesso.
È proprio una bella giornata, pensa chiedendosi se fuori ci saranno quei gran bei nuvoloni bianchi che chiazzano il cielo come sbuffi di panna montata.
 Quand’era bambina li vedeva salire dal mare, verso mezzogiorno. La pausa pranzo sarebbe scattata solo all’una e mezzo, sempre che quel giorno lui si fosse alzato con il piede giusto; ma quei nuvoloni d'ovatta bianca la mettevano di buonumore, anche se il masso che lui chiamava scoglio era ancora di fronte a lei. Intatto.
Lui le ha insegnato che il mondo è costituito da atomi che se ne vanno a passeggio sottobraccio. Spezzare il legame tra questi atomi equivale a spezzare la materia. Essere forti, in sostanza, significa rompere queste connessioni, con il miglior apporto scenografico possibile.
«Se dividi gli atomi, poi puoi anche ricomporli e dare loro l’aspetto che più ti aggrada.»
Ecco spiegata, signore e signori, la nebbiolina viola angoscia che lui faceva vorticare lenta attorno al suo indice alzato.
Lui aveva una risata beffarda, malvagia, di gola, che risuonava forte dal diaframma, e pretendeva che anche lei facesse lo stesso. Si sentiva molto stupida, ma lui riusciva sempre a farle fare quello che voleva. O così, oppure… meglio non pensarci.

Lei si sforzava di accontentarlo il più possibile. 
È il tuo maestro, si ripeteva nei momenti bui, anche quando lui le assegnava degli esercizi che erano sadismo allo stato puro. Come quando fuori pioveva e lui la spedì a farsi una corsa in riva al mare, con l’acqua a metà polpaccio per irrobustire le gambe a stecchino. Peccato che l’acqua pullulasse di tracine e che lui avesse omesso di avvisarla…
Ma ridere… no, ridere no. Ci provava, certo. Ma le usciva fuori una imitazione della sua risata, e lui non gradiva. Affatto.
«Devi ridere. Ridere, capito? Devi far sentire al tuo avversario di essere un topo tra le zampe di un gatto. Anche se ti ha fatto male. Anche se un po’ lo temi. Anche se non sai come finirà la battaglia. Devi fargli credere che per te sia tutto un gioco!»
E rideva.
Quando lei si sfiancava contro gli scogli sotto un cielo azzurro. 
Quando si spezzava le braccia in flessioni sulla battigia, dall’alba sino a quando il cielo non era un’enorme distesa trapuntata di stelle.
Quando doveva afferrare i granchi senza farsi pizzicare, e finiva, invece, per ritrovarsene cinque o sei attaccati stoicamente addosso.
Le hanno detto che rideva anche un attimo prima di morire.

«Lo conoscevi meglio di me, no?», le aveva detto il cinese abbassando gli occhi smeraldo. Evidentemente non amava ricordare quei momenti: la mascella contratta e i pugni chiusi erano un chiaro segnale. Ho visto la morte in faccia, dannazione!, le urlava ogni fibra del suo essere. Ma lei no. No. Doveva sapere com’era andata quella giornata disgraziata. E come primo passo, per non farsi scoprire, aveva scelto di parlare del suo maestro.
«Ero appeso con un paio di dita all’orlo del crepaccio e rideva, rideva, rideva. Me la sogno ancora la notte, quella risata…»
Però non aveva riso quando la mano dell'avversario era calata sul suo polpaccio e l’aveva trovato nudo. No. A quel punto non rideva più…

E dire che è anche riuscita a crearsi una risata tutta sua. Sì, sa un po’ di naftalina, come quella di ogni cattiva da operetta che si rispetti, teatrale, senza dubbio, ma è già un passo avanti.
A lui sarebbe piaciuta. Gliel’hanno detto in molti, nel corso del tempo; tutti quelli che hanno conosciuto prima lui e poi lei. Però…
Però è la sua voce che lei vuole sentire. Non gli piacerebbe, almeno a parole. Direbbe il suo classico: «Devi lavorarci ancora per qualche millennio…», e scuoterebbe la testa. Però, sotto sotto sarebbe soddisfatto dei suoi sforzi.
E lei lo sa.
I suoi occhi corrono all’orologio. Quanto ci mette? L’Armatura è stata lucidata e le si è disposta addosso, come al solito, con uno schiocco delle dita. Sarà una sorpresa. Lui non gliel’ha mai vista indossare. Immagina quali saranno i suoi commenti, anche se sa già che la sfotterà. Le dirà qualcosa come: «Ma che siamo a Carnevale?», e riprenderà a ridere. A sfotterla. Magari si accenderà una sigaretta, riempiendole la stanza dell’odore pesante delle Marlboro Rosse che teneva sul comodino.

Quelle erano off limits per lei, assieme ad un’altra mezza dozzina di cose. Lo aveva deciso lei stessa, dopo avergliene fregata una, insieme ad un accendino usa e getta di plastica colorata. Azzurro.
«Vado a correre!», gli aveva urlato dalla porta spalancata, ed era arrivata in riva al mare col cuore in tumulto per paura che lui se ne fosse accorto. 
L’approdo di scogli, col più piccolo che stava in punta alla struttura, più basso e riparato dal vento. 
La sigaretta un po’ storta, stretta coi denti non sapendo come fare. La fiamma azionata con l’indice, provata dal vento. 
La prima boccata.
Niente.
La seconda.
Amaro in bocca.
La terza non c’era stata. Un conato improvviso l’aveva costretta a vomitare anche l’anima con l’aria salata che le scorticava gli occhi e lo stomaco che aveva deciso, di punto in bianco, di uscire a prendere un po’ di sole.
Quando era ritornata, lui era seduto a gambe larghe sul divano, la Gazzetta tra le mani.
«Vieni qui», le aveva detto senza guardarla veramente. «Avvicinati», e quando lei aveva sporto il viso verso il suo, l’aveva afferrata per la nuca e aveva respirato il suo alito.
Lei era andata nel panico.
«Ti sei fatta due spaghetti alla bile?» e aveva ridacchiato, stringendole i capelli, tirandoglieli. «Che ti serva da lezione.»
E l’aveva scaraventata lontano da lui, accendendosi un’altra sigaretta.

Se ci ripensa le viene da rimettere ancora adesso. Forse gli chiederò di spegnerla, pensa, anche se sa che lui non lo farà. Ammesso che lui possa accendersi una sigaretta.
Poco importa, oramai. Basta che si spicci. Basta che arrivi. Perché lei non ne può più di aspettare. Verrà lui a prenderla, lo sa. La porta si aprirà ed usciranno insieme nell’Azzurro. La porterà da lui. Ovunque sia. E lei gli parlerà. Lo picchierà. Piangerà. Lo picchierà di nuovo, fino a quando non sentirà le braccia stanche e pesanti. E poi, forse, ascolterà le sue spiegazioni. Forse.
Ma prima…

Bussano alla porta. Un fremito, il cuore che si ferma e lei che si alza dal letto. «Chi è?»
«Sono il Lupo Cattivo…»
Ride. «Entra, Lupo», e lui appare sulla soglia, sfolgorante con il mantello che danza ad ogni suo passo.
«L’ho fatta aspettare, signorina?»
«Un bel po’, direi…», risponde lei guardandosi il polso dove dovrebbe esserci l’orologio.
«Me ne dolgo profondamente assai…», risponde strafottente incrociando le braccia. «Di' un po’, ma che siamo a Carnevale?», aggiunge squadrando dalla testa ai piedi il corpo sul letto.
«Spiritoso…»
«Scommetto che non hai nemmeno imparato a fare una risata decente…»
«Guarda e stupisciti!», gli dice con aria di sfida. Chiude gli occhi, e con le labbra serrate produce un ih, ih, ih che sa di naftalina. Poi porta la mano destra a coprirsi la bocca e solleva le palpebre di colpo. «Allora, che te ne pare?»
«Sembri un gatto che deve sputare il pelo…»
«E quando mai?», sbuffa lei alzando le braccia. «Allora, andiamo?»
Lui sgrana gli occhi. «Di già?» Nessuna sigaretta. Solo il profumo dei gigli sul comodino.
«Perché? Che t’aspettavi? Un caffè?»
«No, no. Contenta tu», replica lui. Si sistema il mantello, poi aggiunge: «Pronta? Non vuoi ricordarti nulla prima che tutto diventi bianco?»
Si volta verso il letto, senza guardarsi. Un guscio vuoto. Una lettera sotto al cuscino. Un sorriso sulle labbra. 
«Nossignore.» Ho pregato tanto perché tutto andasse così.
«E allora via!», le dice mentre tutto attorno a lei diventa luce. Il tavolo, l’armadio, la flebo che pende trasparente sopra la sua testa che pare addormentata, l’orologio, la finestra.
Le prende un polso e la trascina con sé verso l’Azzurro. Verso i suoi ricordi che si riaffacciano a ritroso, dal più recente a quelli sepolti sotto le sabbie della memoria. Verso la luce. Verso lui.
   
 
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