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Autore: wordsaredeadlythings    07/01/2014    1 recensioni
« Come ti senti oggi? »
« Come sempre. »

{...}
Cinquanta giorni dopo, aveva trovato il modo perfetto.
Era facile, dopotutto: premere, attendere, andarsene. Un po’ come una corsa. Una corsa breve: venti minuti al massimo, aveva controllato. Venti minuti e se ne sarebbe andata, avrebbe chiuso quel capitolo deludente di una vita deludente. Stava arrivando ai capitoli finali, ormai.

{...}
Perché tutti erano di plastica e lei di carta? Perché non poteva essere anche lei di plastica? Impermeabile, finta come tutti.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Paper girl;


Quel giorno, che forse era il primo e forse no, pensò che non ce l’avrebbe fatta.
Era come se qualcuno le avesse aperto il petto, preso il cuore e poi pugnalato molteplici volte, davanti al suo sguardo impotente, immobile. Era come se non ce l’avesse più, un cuore. Come se gliel’avessero tolto tanto tempo prima, come se gliel’avessero rubato nel bel mezzo della notte e lei non se ne fosse accorta.
Guardava il soffitto e pensava semplicemente che non avrebbe potuto reggere un giorno di più. Che non poteva farcela. Non così, non a queste condizioni. Non senza un cuore. Perché dove cazzo lo avrebbe trovato, un altro cuore?
Sentì il forte desiderio di piangere, ma non lo fece. Rimase solo lì, a guardare il soffitto, pensando che forse farla finita in quel momento sarebbe stato meglio per tutti – per lei. Ma rimase ferma, non si mosse: non ne aveva più le forze.
 
*
 
« Hai ripreso a dormire? »
La guardò. Sembrava una donna così dolce: i tratti del viso rotondi, i capelli lunghi e lisci. Quei maledetti occhiali appuntati sopra il naso, uno strumento non indispensabile. Sembrava dolce.
« Sono qui per aiutarti. » si tolse gli occhiali, a dimostrazione della sua teoria. « I tuoi genitori sono preoccupati. »
« Mi giunge nuova. » borbottò lei: non era riuscita a trattenersi. Era solo così piena di rabbia: la sentiva salire come la marea, a poco a poco. Come un mare in tempesta nel suo stesso petto: al posto di quel cuore, la rabbia.
« Che cosa senti? »
« Tutto. »
La donna parve perplessa solo per un istante, poi annuì, mostrandole un sorriso leggero, dolce, comprensivo. Sorrisi studiati, facce finte, finta comprensione. Era la solita routine di sempre, dopotutto.
« Prova a spiegarti meglio. »
Sentiva solo così tanta rabbia, e quella voglia di urlare che le premeva contro lo stomaco come un’urgenza fisica, come se non potesse reprimerla per un altro secondo.
« Mi spieghi perché se ne sono andati, allora. » ringhiò « Me lo spieghi. La prego, mi illumini: perché? »
La donna sospirò, e per la prima volta dopo quei quattro incontri, sembrò diventare sincera. « Le persone fanno sempre cose che ci deludono, vero? »
« Non mi hanno deluso. Sapevo che sarebbe successo: era solo questione di tempo. »
« E cosa te lo fa pensare? »
A questa domanda non rispose. Troppe domande, nessuna risposta. Quella donna sapeva perché lo pensasse, eppure voleva farglielo sputare fuori. Per farla sentire la classica adolescente problematica, probabilmente. Non lo sapeva, questo: l’unica cosa che sapeva per certo, è che non avrebbe parlato.
 
*
 
Trentatré giorni dopo – o forse erano di più? – decise che non ce la faceva più. Che non avrebbe più retto, perché il suo cuore si era spezzato troppe volte e lei si era dimenticata di ricucirlo. E ora non c’era più, e lei senza cuore non voleva e non poteva vivere.
Afferrò uno degli innumerevoli barattoli di pillole che suo padre teneva nella credenza. Pillole per il cuore e il fegato, per la milza, per il mal di testa. Pillole che servivano solo a riparare delle spaccature con la carta velina: inutili, perfettamente inutili.
Forse avrebbe potuto usarle meglio, lei. Chiuderla lì. Concludere quella vita così deludente con un altrettanto deludente finale; come un libro a lungo osannato che alla fine non era niente di che: questa era la sua vita. Solo un libro deludente. Un enorme libro deludente.
Giocherellò con i barattoli delle pillole per un po’, sentendole tintinnare e muoversi all’interno di quegli involucri di plastica; come se la stessero chiamando, implorando. “Usaci in modo utile”, dicevano. “Ti faremo bene.”
E forse gliene avrebbero fatto, di bene. Già, forse.
Le ripose nella credenza: non era la scelta giusta. Avrebbe potuto fare di meglio, molto di meglio. Poteva trovare un modo ancor più deludente di concludere quella storia, lo sapeva benissimo.
 
*
 
« Come ti senti oggi? »
« Come sempre. »
Quella donna sembrava non voler demordere. Era così intenzionata ad andare avanti, a perseguire nel suo scopo: cavarle di bocca i suoi più tetri segreti solo per poi riferirli ai suoi genitori. I genitori. Coloro che l’avevano abbandonata a sé stessa tanto tempo prima, ora la spedivano da uno psicologo, e per cosa? Aveva solo saltato un po’ di pasti. Non era niente di grave. Niente di che.
« Hai mangiato? »
Non rispose, di nuovo. Non aveva voglia di rispondere: il cibo non era importante, non era indispensabile. Poteva andare avanti per giorni bevendo acqua, perché non glielo lasciavano fare? L’acqua è così buona, dopotutto. Fresca.
« Perché non mangi? »
« Me l’hanno fatta in tanti questa domanda. »
« E tu cosa rispondi, solitamente? »
« Perché non ho fame. »
La donna la osservò nuovamente, e lei vide un guizzo nei suoi occhi. Un guizzo che riconosceva. Compassione. Sempre la solita vecchia amica, la compassione. Prima o poi afferrava tutti.
« E qual è la verità? »
Sorrise appena. Un sorriso sbagliato, di carta. Un sorriso fatto di scotch e sangue.
« Che non ho fame. »
 
*
 
Cinquanta giorni dopo, aveva trovato il modo perfetto.
Era facile, dopotutto: premere, attendere, andarsene. Un po’ come una corsa. Una corsa breve: venti minuti al massimo, aveva controllato. Venti minuti e se ne sarebbe andata, avrebbe chiuso quel capitolo deludente di una vita deludente. Stava arrivando ai capitoli finali, ormai. Le ultime righe, scritte col sangue che colava copioso dalle sue braccia. Tagli verticali, non avrebbero smesso di sanguinare. Non aveva fatto troppo male, dopotutto: era stato un attimo, ora bruciavano.
Seduta su quel tavolo, aspettava. Fissava l’orologio ed aspettava. Nessun biglietto, nessuna nota: doveva finire in modo deludente, essere coerente con se stessa, con la sua vita, con quel libro. E poi, non aveva nessuno da salutare, dopotutto. Nessuno a cui dire “E’ stata una bella corsa”.
Cominciava a perdere le forze: erano passati dieci minuti. Altri dieci e si sarebbe chiuso tutto quanto. Sarebbe finito tutto.
Cominciò ad abbandonarsi al nulla. Prima che la prendesse, una porta. Un urlo cupo, sordo.
 
*
 
Le lenzuola erano schifosamente bianche. Ricami azzurrini, coperta verde, le pareti blu chiaro: colori calmi, tranquilli. Dovevano farla stare tranquilla, ma si sentiva solo terribilmente irritata. Era tutto di plastica, un mondo fatto di plastica non biodegradabile. Plastica che bruciava, e i vapori tossici le avevano ammazzato il cuore.
Su una sedia, lì accanto, una persona. La guardava, sorrideva. Nei suoi occhi, compassione e preoccupazione. Sempre lì, la compassione: non aveva bisogno di quella compassione. Non la voleva. Era scomoda, irritante. Era i vapori tossici della plastica bruciata, quella compassione del cazzo. Quella compassione le aveva strappato il cuore dal petto, le aveva impedito di concludere il suo libro deludente.
« E-Ehy. » balbettò la ragazza, senza smettere di sorridere. Era un sorriso malato, sempre e comunque un sorriso malato. Pieno di tristezza, perché lei era La Tristezza. Di cosa non lo sapeva bene nemmeno lei.
« Non ho concluso. » aveva la voce roca: da quanto dormiva?
« Cosa? »
« Ho detto che non ho concluso. Il libro. Non l’ho concluso. »
« Quale libro? »
Scosse la testa.
« Non capiresti. »
 
*
 
Molte delle persone che erano andata a trovarla le conosceva a malapena. Parenti, così diceva sua madre. Vecchi parenti preoccupati: eppure nei loro occhi non riusciva a vedere altro che confusione. “E’ pazza”, era stampato a caratteri cubitali nelle loro iridi; “E’ solo pazza.”
E forse un po’ lo era. Giusto un po’. Ma era pazzia voler concludere rimanendo coerente? Era pazzia voler chiudere e basta, dopo tutto quanto? Non aveva motivi per alzarsi di mattina, e allora perché non dormire per sempre? Sarebbe stato più facile.
Sessanta giorni e non aveva ancora concluso. Non ci era riuscita: gliel’avevano impedito, chi fosse stato non gli era ancora chiaro. Sarebbe tornata a casa martedì. A scuola, quando voleva lei, o almeno così diceva sua madre.
 
*
 
Tornò a scuola una settimana dopo essere tornata a casa. Era maggio ormai, ma indossava una maglia a maniche lunghe: sua madre l’aveva implorata di mettersela. “Ti sta bene”, diceva. Falso. Aveva solo paura che considerassero sua figlia una povera pazza – e forse lo era, un po’.
Disse di aver avuto la mononucleosi, a scuola. Non importò a nessuno, ovviamente: c’era così tanta plastica nei loro occhi e nei loro cuori. Perché tutti erano di plastica e lei di carta? Perché non poteva essere anche lei di plastica? Impermeabile, finta come tutti.
La chiamarono fuori dall’aula trentacinque minuti dopo l’inizio della lezione. Era la sua prof di italiano: cara donna, si preoccupava sempre. Ma era di plastica, come tutti gli altri.
« Tua madre mi ha detto che.. che cosa è successo. » sembrava imbarazzata, terribilmente. Osservò la prof, in silenzio, in attesa. La donna, semplicemente, si chinò e l’abbracciò forte.
Lei rimase interdetta, immobile: perché? Non si abbracciano i pazzi, qualcuno avrebbe dovuto dirglielo. Quindi, perché?
« Va tutto bene. » le disse, sorridendo.
Lei scosse la testa e basta, per poi voltarsi e tornare in classe.
Alle compagne disse che era per le assenze.
A se stessa disse che no, non andava tutto bene. Doveva concludere.
 
*
 
Libreria.
Dieci di mattina: aveva deciso di non andare, quella mattina. Sua madre aveva solo annuito: erano passate meno di due settimane, probabilmente pensava che accontentarla senza se o ma fosse ciò che voleva.
Passò l’indice sulle copertine dei libri, disposti tutti in fila come soldatini. Erano di carta anche loro, biodegradabili, permeabili. Tutti meno deludenti del suo libro, probabilmente. Aveva cinquanta euro in tasca: doveva convincere tutti che stava migliorando, e riprendere a leggere sembrava la cosa migliore.
Si allungò per afferrare un libro dalla copertina affascinante, e lo agguantò tra le dita, osservandolo con un mezzo sorriso. Non sorrideva in quel modo da settantadue giorni circa. Finalmente, in un mondo di plastica, qualcosa di carta.
« Ottima scelta » disse una voce, poco lontana. Si voltò: occhi grandi, scuri. Un bel sorriso, sincero. Niente compassione. Diciotto anni circa.
« Dici? » soppesò il libro tra le mani « La copertina non è niente male. »
« Ti stupirà. » affermò poi, sfiorando le lettere che componevano il titolo. « E tu hai l’aria di una che ha bisogno di una bella sorpresa, eh? »
Lei lo osservò. Come faceva a sapere? Che fosse fatto di carta? Magari sì. Magari no. Non c’era bisogno di saperlo: voleva solo chiudere.
« Possibile. » replicò lei, vaga. Strinse il libro al petto, tornando ad osservare gli altri.
Il ragazzo la guardò per un po’, poi si allungò, afferrando un altro libro, più sottile del primo e seminascosto tra tutte quelle opere monumentali. Lo porse alla ragazza.
« Ti stupirà anche questo. »
Lei lo osservò, per poi prenderlo. Le loro dita si sfiorarono: primo contatto umano da quell’abbraccio, tre giorni fa. Primo vero contatto da secoli.
« Stai cercando di farmi svaligiare la libreria per caso? »
« Non credo che tu abbia bisogno di essere spinta a svaligiarla, dopotutto. »
Sorrisi da tutte e due le parti. La ragazza agguantò un altro libro ancora: edizione economica, copertina rosso fuoco. Se li strinse al pezzo, per poi voltarsi.
« Siccome né io né te siamo a scuola » cominciò lui « E invece di andare in giro a drogarci siamo capitati in una libreria, che ne diresti se capitassimo al parco? »
Lo guardò. Le probabilità che fosse carta anche lui erano alte: c’era quella strana malinconia, nei suoi occhi scuri, una malinconia che si trovava anche nei suoi occhi.
Sorrise appena.
« Sì. Capitiamo al parco. »
 
*
 
Capitarono in quella libreria per un po’.
Capitarono al parco altrettante volte.
Cento giorni perché lei si riaccendesse un po’.
Centotré affinché lui la baciasse davanti ad un libro.
 
 
Forse quella era una conclusione migliore, dopotutto.
O forse era solo l’inizio di un libro nuovo.





 
Eccomi qua. Con l'ennesima shot.
Questa è davvero una delle cose più intime che abbia mai scritto, e non so perché, ma mi va di condividerla con voi.  Mi piace l'idea che qualcuno la leggerà e mi dirà "Merda, capisco come si sente, sono fatta di carta anche io."
Spero che ci sia qualcuno fatto di carta per ciasciuno di noi.
Un bacio,
_Cris


PS. Comunque, ho notato solo ora: tra i preferiti di 59 persone? Ma siete delle meraviglie! Vi mando un grosso abbraccio. Grazie, grazie, grazie.
   
 
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