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Autore: Emrys_____    08/01/2014    5 recensioni
-Sherlock, apri. Lo so che sei lì-
Tuffo.
Così lo chiamavano: una specie di tuffo, come se il cuore facesse una capriola anche se non poteva muoversi nella complessa rete di nervi, sangue e ossa che lo teneva fermo. Era intrappolato in se stesso ma poteva palpitare.
Per un momento restò immobile poi decise di andare ad aprire ma quando lo fece, evitò accuratamente lo sguardo di John, ancora in abito da cerimonia. Anche se gli bastò un’occhiata per registrare quello che gli serviva: il fiore all’occhiello un po’ sciupato, tracce di stanchezza sotto gli occhi. Il corpo di John gli parlava, gli sussurrava le cose direttamente all’orecchio ed era così anche dopo due anni di distanza.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Non scrivo quasi mai su Sherlock, ma questo fandom è così bello che è impossibile non innamorarsene.
Abbiamo aspettato la terza stagione per due anni e ci sta regalando così tanti feeels che non si può non scrivere. Soprattutto dopo la 3x02. Infatti questa è ambientata appena dopo il matrimonio di John, di sera, quando Sherlock lascia la festa per tornarsene a casa da solo.
Premetto subito che questo non è il mio fandom, nel senso che sono specializzata in Merlin ^^’ quindi se a un certo punto doveste storcere il naso, in mia difesa posso dire di averci messo tutta la passione e l’impegno possibili. Risultare IC, specie per quanto riguarda Sherlock è un’IMPRESA. Sul serio. Un’impresa titanica. Invidio profondamente chi ci riesce.
Grazie a quanti leggeranno o lasceranno un commento, un insulto, anche un pomodoro virtuale in faccia.
P.s. Il titolo potrebbe essere grammaticalmente scorretto senza una virgola oppure suonare strano ma è voluto. 
Vi metto il link dell’unica shot che ho mai scritto su Sherlock così magari se decidete che vale la pena leggere qualcos’atro di mio avrete questa :)


http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=933771&i=1

Un bacio, buona lettura!

 

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Si scrive di cicatrici guarite, ma non esiste una cosa simile nella vita di un individuo. Vi sono ferite aperte, a volte ridotte alle dimensioni di una punta di spillo, ma sempre ferite.

                        Francis Scott Fitzgerald

 
Vicino sulla pelle
 


Il cellulare vibrò. A lungo.
Sherlock gli lanciò appena un’occhiata, le braccia dietro la testa, disteso sul divano.
Posizione stranamente scomoda quella, gli sembrava troppo ordinaria per consentire al cervello di lavorare.
Lui era abituato a congiungere le mani sotto il mento.
Mentre rifletteva sull’inconscio cambio d’abitudine, il cellulare vibrò nuovamente, stavolta così a lungo da far cadere un giornale dal tavolino.
Chiuse gli occhi.
Vibrò di nuovo.
Serrò le labbra.
Di nuovo.
Si mise a sedere con uno svolazzamento di vestaglia e afferrò quell’aggeggio inceppa pensieri con l’intenzione, nell’ordine, di mandare al diavolo il suo disturbatore e scacciare quella fastidiosa vibrazione dalla sua coscienza.
C’erano cinque messaggi di John e quasi altrettante chiamate.

Ho l’impressione di averti perso di vista? Dove sei?

Sherlock, sul serio, dove sei? 

D’accordo, qui mi dicono che ti hanno visto uscire… non mi hai piantato in asso la sera del mio matrimonio, vero?

Dannazione Sherlock! Non posso crederci!


Quando cancellò quest’ultimo ne rimase uno soltanto. Il display glielo mostrò con la stessa cruda semplicità delle lettere che recava.

Buonanotte.

Cancellò anche quello e gettò il cellulare oltre il divano, girandosi nuovamente su un fianco.
Lo smile giallo sulla carta da parati sembrava prendersi gioco di lui.
Si stropicciò i capelli, si alzò e si levò la vestaglia da camera, il fiore all’occhiello, lo smoking, sbottonò qualche asola della camicia. Ripassò le mani nei capelli.
Lungo i polsi era rimasto ancora il profumo che la signora Hudson lo aveva costretto a mettere. Strano come ultimamente riuscisse a persuaderlo. No, non a persuaderlo: a convincerlo. Era diverso.
La sua faccia gli si disegnò nella mente, prendendo un’intera stanza del Mind Palace.
Cambierà tutto, gli aveva detto.
Si avvicinò alla finestra: Baker Street si accoccolava nel buio. Una scia di bolle gialle dove i lampioni illuminavano il lastricato lucido di umidità.
Aveva acceso tutte le bajour e adesso c’era una luminosità soffusa. Ciononostante sentiva freddo. Freddo nelle ossa.
Restò a fissare quell’ambiente per un attimo, la bocca stretta tanto che si stava mordendo da solo.
Come un importuno flash il volto di Mycroft scacciò quello di Mrs. Hudson e reclamò la solita stanza nel Mind Palace, quella che gli era sempre appartenuta.
Sei coinvolto, diceva la curva soddisfatta delle sue labbra. Sei ancora un fragile bambino asociale.
Se l’era figurato perfettamente mentre era al cellulare: gli occhi assottigliati dalla gioia di averlo colto in fallo. Solo che sbagliava. Credeva gli sarebbe passata. Mycroft pensava che quello fosse l’ennesimo capriccio di un ragazzino. Un ragazzino incapace di fare amicizie senza rovinarle ancor prima che fossero tali, che si attaccava ad un’ancora e non la mollava più, credendo che l’avrebbe tratto in salvo.
John era quello per lui. 
A conti fatti, l’aveva salvato. A quella deduzione poteva arrivarci con chiarezza estrema soprattutto adesso, dopo che era tornato e che tutti in qualche modo, erano andati avanti.  
Non riusciva a capire dove stava lo sbaglio, dove si nascondeva la variante che lo rendeva così furioso o meglio, Mycroft l’aveva trovata prima di lui e gliel’aveva sbattuta in faccia con la pochissima grazia che lo contraddistingueva.
Felicità domestica.
Eccolo lì, l’effetto collaterale.
Gli ultimi mesi lui li aveva trascorsi da solo a Baker Street senza il rassicurante suono delle pantofole di John, il fruscio del suo giornale, il tintinnio della sua tazza di Earl Grey contro il piattino.
Mentre lui non c’era John era andato avanti e altruisticamente era quello che lui avrebbe dovuto volere, che fosse felice, che trovasse qualcuno in grado di riempire le sue giornate, possibilmente non un sociopatico iperattivo.
Ma dentro, egoisticamente, in una maniera che per lui equivaleva alla realtà nuda e semplice, se l’era figurato ad aspettarlo. Nient’altro.
Lo aveva sempre immaginato andare avanti ma aspettare. Che cosa, non lo sapeva. Qualcosa.
Del resto era quello che lui, Sherlock, avrebbe fatto al suo posto: messo la propria vita in pausa nonostante nuovi incontri, nuovi incarichi, una routine diversa.
Ma forse quello valeva solo per lui, uno così complicato che il mestiere aveva dovuto inventarselo da solo, talmente glaciale da non capire quando le parole ferivano le persone, così manipolatore da crogiolarsi negli stessi vicoli ciechi del proprio cervello, certo che se una linea era dritta per natura non c’era alcuna possibilità che diventasse curva. Se le cose erano in un certo modo, se le persone erano in un certo modo, non potevano cambiare. Era un fatto di neuroni, un fatto meccanico.
Eppure negli ultimi tempi sentiva crescere il dubbio che lui stesso stesse diventando un’eccezione alla regola. Che sotto sotto, fosse cambiato qualcosa. Qualcosa dove?
Un forte bussare alla porta lo sbalzò di colpo dall’angolo di mente dove si era rifugiato.
-Sherlock, apri. Lo so che sei lì-
Tuffo.
Così lo chiamavano: una specie di tuffo, come se il cuore facesse una capriola anche se non poteva muoversi nella complessa rete di nervi, sangue e ossa che lo teneva fermo. Era intrappolato in se stesso ma poteva palpitare.
Per un momento restò immobile poi decise di andare ad aprire ma quando lo fece, evitò accuratamente lo sguardo di John, ancora in abito da cerimonia. Anche se gli bastò un’occhiata per registrare quello che gli serviva: il fiore all’occhiello un po’ sciupato, tracce di stanchezza sotto gli occhi. Il corpo di John gli parlava, gli sussurrava le cose direttamente all’orecchio ed era così anche dopo due anni di distanza.
Profumava di Mary.
Si allontanò verso la finestra.
-Sai che è notte fonda. Te ne sei accorto vero?-
John non rispose.
Rumore di porta che si chiudeva. 
Passi.
-Che cosa ho fatto?-
Sherlock si girò appena.
-Scusa?-
-Non farmelo ripetere-
Prese a sbottonare i gemelli ai polsi.
Non sapeva perché ma quando John era in giro fare tutte quelle cose che le persone normali fanno diventava semplice.
Bere. Sbottonarsi la camicia. Stiracchiare il collo. Nessuno di quei gesti si portava dietro implicazioni razionali, una complicata spiegazione, niente. Negli ultimi due anni invece si era sentito rigido, dentro e fuori.
-Non mi sentivo bene, scusami-
Negli occhi di John non c’era delusione ma rabbia.
Sherlock lo fissò.
-Sei… arrabbiato con me?-
John si passò le mani sugli occhi.
-No. No. Sono solo stanco-
-E perché si venuto a dirmelo alle tre del mattino? Dov’è Mary?-
-C’è davvero bisogno che te lo dica? E a casa, dove vuoi che sia? Ti ricordo che vivo a mezz’ora da qui-
-Uhm, è comunque troppe tempo da percorrere per trovarti su una scena del crimine-
Sherlock abbozzò un sorriso ma sentì che si spegneva subito.
Si tolse la camicia ma quando fece per andare in corridoio, diretto alla sua stanza si rese conto primo, di non aver dedotto qualcosa e secondo, di aver compiuto uno sbaglio madornale. Ecco, aveva mancato di dedurre che stava per darsi la zappa sui piedi.
-Che cos’hai lì?-
Le mani di John sulla pelle. I polpastrelli che scostavano la canotta percorrendo i dorsali e le cicatrici che le torture di Mycroft avevano lasciato. Non quelle dell’infanzia.
-Nulla-
Fece per girarsi ma lo trattenne. Non sentiva dolore perché dopo tanti mesi erano ridotte a striature di carne bianca, carne morta, dove non scorreva sangue. Morta dentro.
-Sherlock sono un dannato dottore. Sta fermo-
Piegò la bocca in un mezzo sorriso.
-E’ il tuo giorno libero-
-Sta zitto-
Lentamente sollevò il tessuto e lui glielo lasciò fare, inerte come la propria carne. Il respiro di John si fermò.
Poté quasi sentirlo intrappolarsi nella cassa toracica.
-Queste sono…-
-Frustate. Esatto-
Le sue dita scostarono tutto il tessuto, quasi arrabbiate cercando di non fargli male ma al contempo tremando, come se volessero fare a pezzi quella stoffa. Non gli ordinò di spogliarsi perché sapeva che non l’avrebbe fatto per puro puntiglio.
-Quando ti hanno…-
Sherlock si schiarì la voce, divincolandosi e piegando accuratamente la camicia sull’avambraccio sinistro.
-Gentili ricordi degli uomini di Mycroft. Mi catturarono poco prima che io tornassi a Baker Street. Il mio caro fratello non riuscì a contenere l’entusiasmo dei suoi amici stranieri-
Mentre parlava si era diretto nella stanza e aveva gettato la camicia sulla sedia, anche se l’aveva trattata con cura fino a lì.
-John- ammonì- non guardarmi in quel modo -
-In quale modo?-
Voce lontana. Fredda. Incolore.
-Non mi compatire. Detesto quando lo fai-
-Perché non me l’hai mai raccontato?- 
Adesso era sulla porta. La sua tonalità di voce era cresciuta di una mezza ottava.
Sherlock si voltò.
-Perché avrei dovuto? Ormai non possono essere più rimosse-
John sospirò. Di frustrazione? Rabbia? Esasperazione? Cosa? Senza poter leggere i suoi occhi era più difficile analizzarlo.
Certe volte era l’essere umano più complicato che avesse mai incontrato. In lui la ragione si lasciava costantemente dominare dai sentimenti.
Lo vide passarsi ancora le mani sugli occhi.
-Posso sapere cosa vuoi adesso?- domandò Sherlock, arcuando un sopracciglio. –Ti ho detto che sto bene-
-No, veramente mi hai detto che non ti sentivi bene- lo rimbeccò l’altro, fissando il pavimento con scetticismo, le braccia incrociate, una spalla contro la cornice della porta.
-Si. Ma adesso mi sento meglio-
-Sherlock-
-John-

Silenzio.
-Io… credevo che…-
-Non mi stavo leccando le ferite se era questo che sospettavi-  disse Sherlock, alzando la voce senza accorgersene. -Sono un sociopatico, ricordi? Ho la stessa varietà emozionale di una teiera-
-Non significa che non provi nulla- 
Ma lui sbuffò, allargò le braccia.
-Non mi ascolti vero?-
Lo superò, fuggì da quella stanza, da quei pochi passi. Improvvisamente furioso, impaurito, seccato e oltraggiato tutto insieme. Aveva ragione. Aveva dannatamente ragione.
-Mi mancherai- 
La voce di John lo raggiunse dal corridoio.
-Non vivi più qui da quasi tre anni- esclamò.
Lo sentì ridere.
-Mi mancherai lo stesso.
E mentre si avvicinava di nuovo, accorciando le distanze, Sherlock abbassò lo sguardo, osservando il suo riflesso nei vetri della finestra. Baker Street sparì per mostrargli l’incertezza di John, i suoi occhi lucidi.
-Voglio curare quelle cicatrici. Permettimi di farlo-
Sherlock aggrottò la fronte.
-Posso farle sparire-
-Non sono tipo da dimenticare una ferita, John-
-Per favore-
Sherlock lo fulminò con uno sguardo glaciale.
-Ero io a doverti risposte. Tu non hai debiti. E non si possono curare, te l’ho già detto-
-Ma posso…-
-No!-
Si tolse la canotta con rabbia e la gettò di lato per mostrargli tutta la ragnatela di tagli che gli attraversava a schiena. Tutti i danni che si era procurato da solo.
-E’ intricato! E’... - sospirò, ogni centimetro del suo viso provava a non tremare tanto che si girò di nuovo. -E' irrecuperabile- mormorò
Non riusciva nemmeno a sentire la propria voce. Gocce di sudore lungo le tempie. Le dita cercarono un appiglio contro il vetro, lasciandovi un alone che cancellò il riflesso di John. Non si vedeva più. Era così  incastrato nella propria ombra da confondersi con i confini del suo corpo.
-No. Questo non è vero- mormorò, una mano sulle vertebre.
Calda.
Una fiammata. Una fiammata lungo tutta la spina dorsale.
-Si che lo è. Non c’è cura-
-E io non vorrei che fosse altrimenti-
La sua fronte contro la pelle. Il profumo di Mary sarebbe entrato nei pori, avrebbe continuato a rovinarla, a consumarla.
Gli bruciarono gli occhi.
-Voglio curare solo quello che non si vede- sussurrò John. –Ciò che resta mi va bene così com’è-
Sherlock sentì le parole mangiarsi l’un l’altra mentre si accavallavano in gola.
-Non dovrebbe. Non sono mai stato il miglior amico di nessuno-
-Le cose cambiano Sherlock-
-Si ma io non amo le vie di mezzo-
Era strano sentire il corpo di John così vicino. Lo aveva sentito vicino per tutta quell’interminabile giornata. Vicino con gli occhi, con la mente. Ma in quel momento tutto quello che avrebbe voluto era che restasse lì, vicino sulla pelle.
Non riusciva a giudicarlo uno sbaglio. Il suo cervello si era adattato come fosse una falla nel sistema. Si era incrinato. John l’aveva incrinato sin dalla prima volta in cui si erano incontrati e gli andava bene così.
Solo che per lui John non poteva essere una via di mezzo.
-Dovresti andare ora-
Scostò le sue mani, dovette cercarle perché non riusciva a capire dove si fossero fermate. Era tutto caldo. Ovunque. Le ritrovò appena all’altezza dei fianchi.
Si allontanò senza guardarlo. Registrò solo la solidità del suo corpo, la rabbia nelle sue membra irrigidite e di nuovo, il profumo di Mary. Addosso. Nella stanza. Ovunque.
-Buonanotte John-
Lo disse mentre spariva in corridoio , poi chiuse la porta della propria stanza. Schiena contro il muro. 
Ci fu un lungo minuto di silenzio.
Poi dei passi che sfumavano.
Chiuse gli occhi.
Possibile che una cicatrice ricominciasse a bruciare?




Questa stagione di Sherlock è così piena di angst che potremmo sguazzarci. T___T
Li amo ç_ç
Spero sia stata una piacevole lettura, ogni commento o critica è ben accetta ^_^
Putroppo ho una specie di amore/fissa per le cicatrici sulla schiena e quando le ho viste nella 3x01 sono partita in quarta *_*
Alla prossima, e buona visione dell’ultimo episodio.
Forse sopravvivremo alla tortura, chissà. U_U
   
 
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