Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Yssel    09/01/2014    0 recensioni
A volte dovevi andare in contro alla morte per temerla davvero, no? Perché è ovvio, tutti siamo bravi a fare i gradassi, “chi se ne frega se muoio”, poi ti dicono che ti stai ammalando e tutti si rovescia.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
































Aprii lentamente gli occhi e mi stupii di non aver sentito suonare la sveglia; mi stropicciai gli occhi, afferrai il cellulare dal mobile e lo sbloccai, erano le 5.30.
Era troppo presto per prepararsi ma troppo tardi per rimettersi al letto.
Lentamente mi alzai e scesi le scale, arrivai in cucina e misi la macchinetta del caffè sul fuoco, aprii una finestra, accesi una sigaretta e rimasi appoggiata al mobile.
Ogni mattina avevo il vizio di perdere parecchi minuti a cercare di ricordare i sogni che avevo fatto nella notte precedente, lo feci anche quella mattina e ciò di cui mi accorsi mi lasciò fin troppo confusa: Mi accorsi che per tutta la notte non avevo fatto altro che perdermi nel verde degli occhi della tatuatrice incontrata il giorno prima.
Avevo sognato,  tutta la notte, ininterrottamente, gli occhi di Sam.
Non era normale, non era da me.
Non mi fissavo mai sulle persone perché tutti mi lasciavano a me stessa, perfino i miei genitori; non lasciavo mai che la mia mente si contorcesse su una sola persona per più di due minuti, ma qualcosa era andato storto.
Avevo pensato ad una stessa persona per tutto il giorno, mi ero sbilanciata parlando di lei con le mie amiche, l’avevo sognata tutta la notte e ora continuavo a pensare a lei.
Mandai giù in un sorso il mio bicchiere di caffè e appoggiai la faccia sul tavolo, rimasi così per una manciata di secondi che parvero infiniti poi mi tirai su e andai a farmi una doccia.
Quando fui pronta e fu ora di uscire di casa decisi di non pensare a Sam per tutto il giorno e così cominciai a concentrarmi sull’intricato simbolo di Sempiternal stampato sulla maglia dei Bring me the Horizon che avevo addosso.
La mattinata trascorse tranquilla, a pranzo però successe qualcosa che avrei volentieri evitato.
Stavo entrando in mensa per prendere al volo  il panino e scappare via quando mi sentii chiamare.
Ignorai la voce e continuai a camminare.
“FANNIE!” ripeté la voce e io feci l’errore di ignorare di nuovo e continuare a camminare.
Improvvisamente davanti a me si piazzò Adam, l’enorme capitano della squadra di rugby della scuola, alto fin troppo, pieno di muscoli, capelli biondo cenere e occhi azzurri, con un odio incredibile per quelli che reputava stupidi sfigati, quelli come me.
“Sei diventata sorda, depressa di merda ?” mi disse.
Dovevo stare zitta se volevo sopravvivere, l’avevo imparato con anni e anni di pestaggi vari.
Io ero meno di zero, lui era il più figo della scuola –secondo quali canoni ancora non so spiegarmelo, ma era così- o facevo silenzio o mi avrebbe spaccato le ossa.
Così feci finta di niente e provai a superarlo ma quello mi prese per i capelli e mi fece cadere di schiena sul pavimento.
“Fannie, cara, piccola, depressa e stupida Fannie… Non dovresti essere così maleducata. Volevo solo una sigaretta. Quindi ora provvederai a farmene avere una, magari anche tre.. magari..-“
“Magari te le compri.” Conclusi io mentre mi tiravo su massaggiandomi la schiena.
Quando ripensai a ciò che avevo appena fatto, feci appena in tempo ad afferrare al volo la borsa ed iniziare a correre all’impazzata verso l’uscita della mensa che continuava ad affollarsi sempre di più.
“Non scapperai ancora a lungo!” gridò Adam, rimasto incastrato tra un gruppetto di persone.
Uscii dalla mensa con il fiatone e corsi in classe, ogni classe aveva un professore che passava ogni ora lì a controllare che le cose andassero bene, “così il fenomeno del bullismo sarà debellato” aveva detto l’idiota del preside ma non sapeva che il bullismo non esisteva solo in classe, non sapeva che c’erano persone costrette ad arrivare prima, o dopo, per evitare di essere pestate come animali e non sapeva che c’erano persone, come me, costrette a passare le ore del pranzo nei cessi per poter mangiare uno schifoso panino senza rischiare che ti pestassero, ti rubassero il  pranzo, i soldi e la dignità, per quanto poco poteva essertene rimasta dopo un solo anno in quello schifo di scuola.
Quantomeno in quel momento ero al sicuro, mi misi seduta al mio posto ad ascoltare la musica e mi scappò anche un sorriso quando Kellin e Vic iniziarono a gridarmi le parole di King for a Day nelle orecchie, in un momento simile.
Nelle ore successive fui distratta solo da una pallina di carta lanciatami da Adam con su scritto “Sei morta.”.
Arrivata all’ultima ora non mi guardai neanche intorno, suonò la campanella ed io scattai in corridoio, cominciai a correre a perdifiato imprecando.
Come mi era venuto in mente di rispondere così ad Adam ? Quel tizio aveva rotto le gambe ad un ragazzo solo perché quello gli aveva detto che non aveva l’orologio e di conseguenza in quel momento non sapeva dirgli che ore fossero.
Continuai a correre e arrivata in cortile mi stupii nel vedere che il gruppo degli scagnozzi di Adam non mi stava aspettando, così continuai a correre.
Vivevo una vita da fuggiasca, dovevo corre di mattina per non essere pestata, correre a pranzo per non essere pestata, correre il pomeriggio per arrivare a casa e tutto questo perché ? Perché avevo gusti diversi da quelli di tutte le fotocopie che circolavano in quella gabbia di matti chiamata scuola.
Guardai l’orario sul telefono e vidi che erano le 16.00, io avevo l’appuntamento per il tatuaggio, dato che ero abbastanza lontana da scuola e molto vicina al negozio decisi di calmarmi e camminare per riprendere fiato.
Fu, come sempre, un errore.
Adam sbucò, con dietro i suoi due scagnozzi, dalla via di fronte a dove mi trovavo io.
Cercai di correre nella direzione opposta ma Adam mi prese, di nuovo, per i capelli e mi buttò a terra facendomi cadere di faccia.
Rimasi a terra, sapevo fin troppo bene cosa sarebbe successo così mi arrotolai in posizione fetale e con le braccia coprii le costole cercando di salvare il salvabile.
Strinsi i denti e gli occhi ad ogni calcio che mi arrivava, ogni calcio era un ondata di dolore accentuata dai pensieri che continuavano a tormentarmi “Sei sbagliata, è colpa tua, se tutto questo ti succede è perché lo meriti. Ogni livido, ogni taglio, ogni osso che si romperà sarà solo uno dei tanti segnali che devono ricordarti cosa sei, un fallimento totale.”
Non so quanto durò, non ne ho idea, fatto sta che dopo un po’ se ne andarono.
La testa girava, gli occhi bruciavano, sentivo l’odore ed il sapore del sangue, avevo dolori ovunque.
A fatica raccolsi borsa e telefono, poi mia appoggiai al muro ed iniziai a camminare o meglio, iniziai a trascinarmi, verso il negozio di Sam dato che era il luogo più vicino.
Non sapevo in che condizioni fossi, non sapevo come lei avrebbe reagito vedendomi in quello stato ma a casa non potevo tornare, non potevo rischiare che qualche vicino mi vedesse e chiamasse i miei genitori, sarebbero serviti solo a farmi sentire ancora più uno schifo.
Avevo la vista annebbiata dalle lacrime che premevano per uscire e faticavo a respirare, in più avevo la bocca impastata di sangue.
Arrivai davanti la porta del negozio e mi lascia cadere a peso morto, aprendola e cadendo all’interno del negozio biascicando un “aiuto” con la poca voce che mi rimaneva, sentii dei veloci passi avvicinarsi e rimasi in attesa, lasciando uscire le lacrime a ricordarmi che facevo schifo, che ero solo l’avanzo dell’odio che mi avevano inculcato in corpo.


 













“Alex, cazzo, aiutami!”
Le tenevo la testa, per non farla cadere a terra- almeno non del tutto. Era crollata davanti ai miei occhi, e meno male che non ero dietro il bancone ma che stavo pulendo uno degli specchi vicini all’ entrata del negozio, perché altrimenti non avrei avuto i riflessi abbastanza pronti per poterla tirare su. Avevo sgranato gli occhi all’ improvviso e lasciato ogni cosa a terra, senza la premura di sistemarla, dopodiché mi ero buttata verso la ragazza e l’ avevo tirata su per le spalle, piano. Teneva gli occhi chiusi, tremava, ed i capelli le avevano in parte coperto il volto. Alex, una delle mie colleghe, si precipitò a chiudere la porta con un calcio e a piegarsi verso di me.
“Aiutami a sollevarla, la porto di là.”, le dissi, e lei annuì, preoccupata. Presi la ragazza in braccio, Alex la stabilizzò sul mio petto ed io camminai velocemente verso i lettini per tatuare. Mentre divoravo la stanza con ampie falcate, sentivo il respiro mozzato della piccola infrangersi sulle mie braccia nude e pensavo, pensavo a che diavolo le era preso e perché stesse correndo a perdifiato, pensai a come si chiamava. Me ne ero completamente scordata, ma era da me: mi scordavo persino del mio nome, a volte, non era cosa strana che io chiamassi qualcuno con versi onomatopeici o intercalari privi di senso. La poggiai delicatamente sul primo lettino verso la parete e le distesi braccia e gambe, così che la circolazione potesse riprendere a fluire. I corsi di pronto soccorso erano serviti a qualcosa, no? E, sì, anche le ore di volontariato che mi venivano assegnate a scuola quando finivo dal direttore dell’ istituto erano servite.
Ma non era il momento per pensare ai miei passati, presi uno sgabello e mi misi a sedere di fianco alla ragazza inerme, che lentamente riprendeva a respirare. Tossicchiai, per vedere se riprendeva i sensi, ma niente, rimase immobile. Le mie braccia slittarono conserte al petto e mi sistemai gli occhiali con un dito, in attesa. Non mi era mai successo che qualcuno svenisse così, di fronte ai miei occhi, ma c’ era sempre una prima volta. Non era stata un’ esperienza da rifare, assolutamente no, un po’ perché mi sentivo in colpa- senza un motivo apparente- e un po’ perché ero preoccupata che quella ragazza si potesse sentire male una volta sveglia. Feci suonare le ossa del collo ed incassai la testa fra le spalle, curiosando con gli occhi sul corpo che, a scatti, tremava ancora. Vista così, quella ragazza era ancora più magra. Lo stomaco era un’ onda sotto le costole, piatta, che si alzava e abbassava al muoversi dei polmoni, le forme dello stomaco prendevano forma sotto il tessuto della maglia, i fianchi spigolosi spiccavano come se fossero la gola, uno dei peccati peggiori secondo la Bibbia, lì, in bella vista, morbidi e al contempo rigidi come se avessero reazioni diverse a seconda dell’ aria che li carezzava. Salii con lo sguardo, e forse non avrei dovuto farlo.
Non ero assolutamente una maniaca, ma quel petto era stato disegnato da un Dio. Non c’ erano forme prosperose, erano piuttosto dolci… pancakes. Pancakes gonfi al centro che a prima vista parevano invitanti. Scossi la testa, cercando di deviare i pensieri poco consoni alla situazione e mi concentrai sulla linea del collo bianco e pallido della ragazza. Aveva pianto, i capelli verdi le si erano appiccicati sulle vene e sulle corde vocali, la ornavano come tentacoli di polpo, la avvolgevano e quasi la strozzavano. Allungai i polpastrelli verso di lei e la liberai da quella presa luminosa, cercando di essere il più delicata possibile, ma non avrei dovuto fare neanche quello, perché intravidi una macchia scura attraverso il colletto della maglietta che portava la piccola. Mugugnai, quella macchia non aveva niente a che fare con atti sessuali, conoscevo bene quel tipo di macchie perché io in primis le avevo create sulle pelli degli altri.
Lividi.
Erano lividi appena formati e che si stavano espandendo, collegai lo svenimento a quel male. Mi sollevai dalla sedia abbastanza titubante, ma non pensai due volte a scoprire la pancia della ragazza per darle un’ occhiata. Era ricoperta di graffi, segni ingialliti dal tempo e cicatrici chiare che, normalmente, non si sarebbero viste se non con un’ attenzione spiccata. Evitai di passarvi su le dita, la prima cosa che mi venne in mente fu che dovevo alleviare il dolore, o lei non si sarebbe mai alzata dal lettino. Vagai per lo studio, rimuginando sul da farsi, poi il muso di Jason sbucò da una tenda accompagnato da quello di Alex ed entrambi mi puntarono, senza rivolgermi la parola. Non volevo svegliare la piccola, e loro lo avevano capito senza il bisogno che glielo spiegassi. Feci cenno a tutti e due di prendere dell’ acqua, così si ritirarono. In realtà, l’ acqua era per me.
Perché mi tornarono alla mente ricordi che sarebbero dovuti rimanere coperti dalla sabbia, e le rughe sulla mia fronte si stavano corrugando troppo per i miei gusti, nascondendo i sudori freddi. Scrollai le spalle e mi diedi una botta pesante sulla schiena, coprii lo stomaco della ragazza e supposi che un quadro astratto del genere doveva essere stato dipinto anche sulle sue gambe.
Sia chiaro, io non avevo mai picchiato per divertimento. Quello davanti ai miei occhi era puro divertimento, perché dubitavo fortemente che una cosa così piccola avesse potuto fare del male a qualcuno a tal punto. A primo impatto, non sapevo cosa fare, l’ acqua mi aiutò a darmi una calmata. Alex annunciò che stava chiudendo il negozio dato l’ inconveniente e Jason prese posto più lontano, con l’ attenzione fissa su me e… F, il nome della ragazza cominciava con la F.
“Come diavolo ha fatto?”, mi domandò, come se io sapessi la risposta.
“Penso sia svenuta dal dolore. Qualcuno deve averla picchiata, e lei non ha fatto resistenza.”, lo guardai, lui sospirò. “Mi porti il suo zaino? devo chiamare i suoi genitori.”
Peccato che non trovai alcun numero di telefono, se non quello di alcune “troiette mie” che, per quanto mi riguardava, non potevano essere sua madre o suo padre. Non trovai né indirizzi di residenza né informazioni che mi dicessero almeno dove era nata, di chi era figlia. Nulla, come se vivesse da sola e non avesse bisogno di niente.
“Va di moda portarsi gli sconosciuti a casa, ti va se per una volta ti attieni alla massa?”, scherzò lui, ed io mi passai una mano sul volto. Non era male come idea, anche perché dubitavo, dati i lividi lasciati ad ingiallire la pelle, che la ragazza sapesse medicarsi. C’ erano dei piccoli tagli sparsi per il suo torace, specialmente sulle costole, e se non li avesse disinfettati le sarebbe venuta un’ infezione- non bastavano semplici cerotti per graffi del genere. Dovetti attenermi all’ idea di Jason e buttare giù il boccone che non avrei avuto ospiti quella notte, o se non altro degli ospiti che mi avrebbero intrattenuto.
Quando mi resi conto che la ragazza dormiva, la presi e Jason prese il suo zaino, la portammo in macchina e la sistemammo sui sedili posteriori. Il viaggio verso casa fu una sottospecie di travaglio: non accendemmo la radio, dovevamo stare attenti alla ragazza, ai movimenti che faceva, perché se cadeva si svegliava e ci mandava a fanculo senza neanche il tempo di spiegare il perché era rinchiusa in una Jeep con due facce mai viste. Fortunatamente, fu questione di minuti, e l’ unico rumore che fece muovere il volto della ragazza che adesso teneva in braccio Jay fu il tintinnio delle chiavi di casa fra le mie mani. Una volta dentro il mio appartamento, nessuno badò a nessun altro, ci affrettammo a portare la ragazza sul mio letto e a stenderla bene. Non accesi le luci, lasciai aperta la finestra per far entrare luce e mi feci aiutare dal moro a togliere i vestiti macchiati da quel corpicino ossuto, piano, con anche la minima accortezza. Mentre Jason cercava una mia maglia che le stesse larga, io mi occupai di disinfettare e curare le ferite peggiori, con tanto di cerotti appositi che coprivano l’ intera parte lesa e crema per togliere i residui di asfalto dalle ginocchia sbucciate. Lei fu proprio una brava paziente, doveva aver sofferto tanto per avere un sonno così profondo, se contiamo che a me bastava il minimo rumore per destarmi dal sonno, figuriamoci se mi bruciavano le ferite sparse dappertutto.
Una volta messa la maglia, coprii la ragazza ed io e Jason ce ne andammo in salotto, con i piedi sul tavolo davanti al divano, in silenzio.
“Ti stai prendendo una responsabilità spaventosa, lo sai?”
Non risposi. Lo sapevo. Il moro sbuffò, non per il mio silenzio ma per non essersi fermato per un’ ora intera tra corse esagerate per raggiungermi dal posto di lavoro- e sicuramente lo aveva chiamato Alex, dato che io non avevo neanche minimamente pensato al mio cellulare-, bottigliette d’ acqua da comprare al bar di fronte al negozio, zaini da cercare, numeri nascosti ed inesistenti, auto da guidare, scale da fare con una piuma fra le braccia e… ed era stato stressante anche per me, nonostante non me ne rendessi conto.
Avrei avuto dei problemi a lavoro, non esisteva che si chiudesse il negozio così, di punto in bianco, ed io non avevo l’ autorità per un’ azione del genere in quanto a possederlo era Richard, il marito di Alex. Avrei dovuto vedermela con il responsabile del mio appartamento, perché dubitavo che la ragazza si sarebbe mossa dal letto e quella notte avrei dormito sul divano dove adesso sostavo soltanto. Avrei dovuto prepararle la cena, la colazione, e probabilmente anche il pranzo, a quella ragazza. Avrei dovuto ricordarmi il suo nome e sopportarla mentre parlava o mi chiedeva chi fossi; ma da una parte, mi aveva già vista, mi aveva prenotato lei stessa un appuntamento per farsi tatuare. La tensione, riuscii a sentirla solo quando le coperte si mossero e le mie orecchie le captarono. Con la coda dell’ occhio puntai la camera, Jason si era addormentato docilmente sul bracciolo del divano ed i riccioli scuri gli ornavano il viso rilassato- che angelo, quando dormiva. Continuai a sbarrare gli occhi per ore, non le contai. Vidi il sole tramontare, non mi azzardai ad accendere il televisore in nessun modo dato che tutti i rumori mi stavano tormentando, in proposito mi appoggiai a degli stupidi videogiochi sul mio telefono, cosa che non era da me in quanto non usavo mai quell’ affare. In un certo senso, non svegliai Jason per non farlo andare a casa sua per un desiderio egoista. Se ero da sola, la tensione aumentava, se avevo un’ altra figura a fianco, dormiente o non, mi sentivo meno sotto pressione. Strano come, al contrario, odiassi il contatto umano quando stavo bene.
Non appena una vocina proruppe nell’ appartamento, tirai Jason per un braccio e lui si svegliò con una bestemmia ben snocciolata che gli pendeva dalle labbra, per poi accontentarmi e camminare a passo svelto verso la camera. dovetti accendere le luci per forza, era calata la sera e nella stanza non si vedeva niente. Non sorrisi, non cambiai d’ espressione neanche quando vidi la ragazza portarsi una mano sugli occhi per difendersi dalla luce troppo brusca. Ero stata anche troppo impulsiva, un punto in meno per me.
Jason rimase sullo stipite dalla porta mentre io mi avvicinai, cautamente, a quel viso scavato che spuntava, rigorosamente pallido, dalle coperte. Lei si spaventò quando mi vide, schizzò verso l’ alto e per poco non cozzò la testa contro la testiera del letto. Non urlò, assottigliò gli occhi fino a ridurli a due fessure, e non sapevo cosa le girava per la testa, continuava a muoversi da me a Jason, me, Jason, me, Jason. Presi posizione, le misi una mano sulla fronte per sentire se aveva la febbre, lei impallidì ancora di più e mi fissò spaventata.
“Stai calma, non ti faccio niente. Ti ricordi di me, vero?”
“Sam.”, pigolò.
La guardai, annuendo, dopodiché la liberai dalla mia mano e feci un passo indietro per lasciare che si tirasse su con i gomiti. Strinse i denti un paio di volte e si sistemò i capelli, riavviandoli all’ indietro e facendo scappare qualche ciuffetto ribelle sul naso, si stropicciò le palpebre e sentì attraverso lo sfiorarsi degli arti che non aveva addosso i suoi vestiti. Poverina, stava perdendo un battito dopo l’ altro ed io non la stavo neanche tranquillizzando, bensì guardando con sufficienza.
“Do- Dove sono?”, una punta di veleno mi trafisse un orecchio.
“A casa mia. Non ho trovato il tuo indirizzo e, beh, quella testa di cazzo,” ed indicai Jason, “mi ha ben consigliato di fare la buona cittadina americana.” Borbottò qualcosa, non la sentii e non le chiesi cosa avesse detto. “Come ti senti?”
“Mi gira la testa e- e le costole…”, tossì, cercando di tirarsi su del tutto. Imparò da sola, senza che io le dicessi di rimettersi giù. Anche se, un piccolo aiutino, lo aveva dato il mio fulminarla con lo sguardo. Come un cagnolino, abbassò il volto e si strinse nelle spalle. Jason si fece avanti, sottolineando con il suo passo felpato che non sapevo comportarmi bene con nessuno, e sospirò: “Io devo andare, mi sono trattenuto abbastanza. Di grazia, come si chiama la bambina?”
La ragazza serrò i pugni, visibilmente infastidita. Oh, io mi sarei alzata e avrei tirato uno schiaffo a Jay talmente forte che la testa non avrebbe smesso di ruotare su se stessa per giorni. Però la ragazza si mostrò matura e rispose: “Fannie.”
“Piacere, Fannie.”, sorrise lui. “Belli, i capelli.”
Lo sguardo della paziente improvvisata si illuminò per qualche secondo, ma si spense appena Jason lasciò la stanza. Non era stato malaccio come risveglio, dopotutto.
“Ti preparo la cena.”, volevo uscire subito di scena, il nervosismo si stava accartocciando sui miei muscoli senza un motivo sensato.
“Non ho fame.”
“Sei debole.”
“Sto sol- che porca puttana mi avete fatto?” Ah, si era accorta dei cerotti.
“Dovresti ringraziarmi.”, alzai un sopracciglio.
Fannie curvò la testa, mi fissò bene e mi squadrò. Riprese colore, come se si fosse avvicinata ad un fornello acceso in modo pericoloso, e tentò di parlare, senza riuscirci. Mossi una mano in segno che volevo i miei ringraziamenti e lei assottigliò gli occhi nuovamente, scatenandomi una risatina lieve per quanto era buffa.
“Cosa prepari per cena?”
“Certo che ti prendi troppe libertà, bambina.”
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Yssel