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Autore: Haruka_Nanase    15/01/2014    2 recensioni
Quello che legava G. e Giotto, riuscì a capirlo, era un legame che andava contro il tempo, sfidando il concetto stesso di “per sempre”. L’eternità si inginocchiava dinnanzi a loro due vergognandosi di essere incredibilmente scialba e inconsistente in confronto.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: G, Giotto, Hayato Gokudera, Tsunayoshi Sawada, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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ETERNITY

Erano tutti seduti al tavolino. La Prima Generazione dei Vongola si rifletteva negli occhi della Decima, solo Daemon e Rokudo erano assenti ma nessuno aveva avuto da ridire. Erano praticamente identici ed era nell’indole dei Guardiani della Nebbia non avere quasi nulla a che fare con il resto della Famiglia. Negli occhi di Tsuna si specchiava il viso placido e tranquillo di Giotto che con la sua calma nobiliare acquietava i cuori in tumulto senza nemmeno rendersene conto, il Decimo pensò che avrebbe tanto voluto diventare come lui, con i suoi grandi occhi ambrati e l’animo gentile e caritatevole. Alla sua destra, come sempre da quando i Vongola erano nati, sedeva G. con la schiena appoggiata alla sedia e le braccia conserte al petto. Un lieve cipiglio sdegnoso faceva capolino sul suo viso tatuato, lo stesso cipiglio che si trovava anche sul volto di Hayato, seduto alla destra di Tsuna. Faceva finta di non guardare il suo antenato mantenendosi vagamente girato nella posizione opposta, ma gli lanciava occhiatine infuocate senza un preciso motivo. Non che ne dovesse avere per forza uno per odiarlo, il fatto fosse vivo e vegeto era già un ottimo pretesto di per sé. Il primo Guardiano della Tempesta rispondeva alle sue frecciatine mute con eloquenti sguardi di superiorità che facevano imbestialire ancora di più Gokudera. Stava facendo uno sforzo immane per cercare di non ucciderlo seduta stante, quella sì che sarebbe stata una bella soddisfazione, si sarebbe liberato del suo inutile giudizio una volta e per sempre, perché lo sapeva, il compito di G. era solo quello di stargli infinitamente sulle palle – secondo lui. In confronto sopportare le urla di Lambo era una passeggiata. In quel momento capì che al peggio non c’era mai fine.
Accanto a lui era seduto Ryohei, sempre meglio dell’invasato del baseball con il quale proprio non riusciva a coesistere pacificamente. Il fratello maggiore di Kyoko e il Guardiano del Sole della Prima Generazione si guardavano con occhi infervorati sognando di sfidarsi sul ring non appena sarebbe terminata quella riunione, non erano molto per le chiacchiere e la loro concentrazione durava all’incirca una manciata di minuti, dopodiché cominciavano a pensare a tutt’altro. Vicino a Ryohei c’era un piccolo Lambo addormentato sulla sedia che sillabava parole sconnesse e senza senso sotto agli occhi annoiati di Lampo che manteneva il capo appoggiato sulla mano per non cadere vittima dello stesso sonno profondo del Guardiano del Fulmine della Decima Generazione. Si faceva comunque cullare da un intorpidimento generale dei sensi e se ne stava in silenzio con gli occhi socchiusi, decisamente poco attento a ciò che lo circondava.
Alla sinistra di Tsuna e di Giotto sedevano i Guardiani della Pioggia, entrambi composti e – al contrario di Lambo e Lampo – ben svegli. Alternavano gli sguardi sugli altri presenti emanando la solita calma e tranquillità che li avvolgeva come una seconda pelle lavando via le preoccupazioni e i pensieri. Alaude e Kyoya, i due Guardiani della Nuvola, erano separati dal resto del gruppo, sostavano in piedi appoggiati l’uno alla parete opposta dell’altro. Erano una presenza che aleggiava sulla Famiglia guardandola da lontano senza prendere confidenza con nessuno ma rimanendo quasi estranei all’intero contesto. Ciononostante, per quanto potessero essere distanti fisicamente, i loro occhi erano sempre attenti e vigili, pronti a guardare lontano per avvedersi dei pericoli prima ancora che gli altri potessero avvertirne la presenza. I Guardiani della Nuvola erano lo scudo protettore della Famiglia Vongola. Non guardavano nessuno in particolare e i loro occhi si perdevano in direzioni contrarie, ostinati e testardi.
Da diversi minuti nella sala che ospitava la grande tavolata rettangolare era calato un silenzio spesso e quasi pesante, alleggerito solamente dagli sguardi sereni di Asari e Takeshi. Gokudera allungò gli occhi acqua marina su entrambi chiedendosi come diavolo facessero a non cadere mai vittime della tensione o del nervosismo, cose che invece per lui erano pane quotidiano. Alla fine lasciò perdere, sapeva che tanto non avrebbe mai capito il loro atteggiamento spensierato, probabilmente l’invasato del baseball credeva ancora di trovarsi in un gioco di ruolo live dagli effetti speciali strabilianti. Avanzò le iridi su Tsuna che mostrava la stessa espressione appena accigliata di Giotto che gli sedeva davanti. Senza saperselo spiegare si ritrovò a paragonarli alternando lo sguardo sull’uno e sull’altro. Osservava con attenzione chirurgica il profilo di entrambi. I lineamenti del Decimo erano delicati, non femminei ma sicuramente infantili per certi versi. Quelli di Giotto erano più maturi ma preservavano una giovinezza che faceva apparire il suo viso ancora nel fiore degli anni. Quello di Tsuna si mostrava come la sua controparte, Gokudera riusciva ad immaginare che crescendo non avrebbe avuto nulla da invidiare al Primo.
G. si rese conto dei movimenti di Hayato e si mise ad imitarlo, ma i suoi occhi, quando si posarono sul profilo elegante e regale di Giotto, tradivano un’ammirazione e una devozione che non avevano eguali e che il Decimo Guardiano della Tempesta mai aveva visto negli occhi di qualcuno. Anche Tsuna li stava osservando e riuscì a cogliere sfumature che a Gokudera erano sfuggite, nello sguardo di G. si affacciavano lealtà e fedeltà e la sua indole turbolenta, in quel frangente, veniva placata dal solo rimirar il volto del Primo. Da una parte, quella di G., appariva a Tsuna come un’ossessione, non negativa ma sicuramente tale. V’erano anche altre striature alle quali non fu in grado di dare un nome, alcune erano più forti e pressanti delle altre e si accavallavano nello sguardo del Primo Guardiano della Tempesta rendendo i suoi occhi accesi e in qualche modo illuminati dall’interno, come se una costellazione intera vi si fosse trasferita dentro. Erano iridi attente e concentrate che studiavano il profilo di Giotto e lo scandagliavano senza tregua. Tsuna pensò che mantenere uno sguardo simile doveva essere enormemente stancante a livello psicologico ma G. lo faceva sembrare perfettamente normale e naturale – e forse per lui era davvero così.
Ardeva, il braccio destro di Giotto, nel fissare il Primo boss dei Vongola, e un vago sentore di irrequietezza lo obbligò a cambiare posizione sciogliendo l’intreccio delle braccia al petto per allungarle sulla superficie lignea del tavolo, perfettamente lucido, tanto che le impronte delle sue mani vi rimasero impresse sopra.
Giotto posò i gomiti sulla tavolata e intrecciò le dita tra loro appoggiando poi le labbra su queste ultime. Era visibilmente immerso nel suo flusso di pensieri che non gli fecero notare gli sguardi del suo Guardiano, tantomeno quelli di Tsuna o di Hayato. Socchiuse gli occhi dello stesso colore del miele e trasse un impercettibile sospiro. Tutto in lui faceva trasparire una preoccupazione velata che tentava di nascondere dentro di sé per non allarmare gli altri. Quello era uno dei più grandi difetti di Giotto, forse l’unico; si faceva carico dei problemi trattenendoli tutti sulle proprie spalle. Era un porto sicuro, il Primo, e quando ti guardava eri sicuro che sarebbe arrivato a leggerti l’anima, non importava quanti muri avresti alzato nel frattempo a protezione delle tue parti più vulnerabili, non esisteva ostacolo che non si facesse da parte al cospetto di Giotto. Scioglieva i cuori e li faceva riprendere a battere.
Per Gokudera quello spettacolo aveva perso d’importanza e si stava concentrando su un punto non ben definito fuori dalla grande finestra che occupava la parete alle spalle della Prima Generazione. I suoi pensieri sembravano viaggiare in un’altra direzione. Il capo venne chinato appena e le iridi schizzarono lateralmente, alla propria sinistra, dove il Decimo era seduto. Lo scrutò di sottecchi, era ancora impegnato ad osservare Giotto e G. così Hayato poté rubare lunghe occhiate al suo viso privo d’imperfezioni, la sua espressione era rapita mentre lo fissava sempre più insistentemente. Nonostante di quel volto conoscesse a memoria ogni centimetro di pelle visibile non si era mai stancato di guardarlo, lo faceva sentire a casa, gli dava una ragione per essere ed esistere, gli dava un luogo cui appartenere, perché Hayato apparteneva a Tsuna prima ancora di appartenere a sé stesso. Non aveva idea di come quella sensazione di scalpitante frenesia che scaturiva dall’averlo affianco si sarebbe potuta tradurre a parole ma mai avrebbe permesso a qualcuno di avvicinarsi, mai avrebbe accettato l’idea di vedere il Decimo ridere con chicchessia, mai avrebbe lasciato che i suoi occhi cercassero ristoro e conforto, forza e vitalità, salvezza ed energia in un volto che non fosse il proprio. Senza rendersene conto il suo sguardo aveva accolto le stesse sfumature idolatranti di G. che continuava ad osservare Giotto.
Il Primo riaprì completamente gli occhi e premette le labbra tra di loro allontanando le mani dal viso per farle ricadere con estrema leggiadria sul tavolino. Solo in quel momento, abbandonata in parte la concentrazione sugli avvenimenti discussi, si rese conto delle profonde occhiate del suo braccio destro. Si voltò verso di lui, scostandosi una ciocca di capelli biondissimi da davanti agli occhi con una mano. I loro sguardi si incrociarono e Tsuna ebbe l’impressione che non avessero bisogno delle parole per parlare. Li vide fondersi come se di colpo fossero diventati un’unica entità, un’unica anima, un unico cuore, erano una cosa sola e quello sguardo era talmente profondo e intenso che il Decimo si sentì quasi a disagio, stava distruggendo la privacy di due persone che, attraverso gli occhi, riuscivano ad unire anche i loro corpi senza la necessità di toccarsi – anche se immaginava che lo stessero desiderando ardentemente. Ma che..? Come gli era venuta in mente una cosa simile? Vide Giotto sorridere al Guardiano, uno di quei sorrisi che solo lui era in grado di fare, ma in quel momento era addirittura più travolgente, non aveva idea di come avrebbe fatto G. a sopportare una tale, schiacciante sensazione, era come essere abbracciati da un raggio di sole. Spostò le iridi cioccolato sull’arciere e capì, non la stava sopportando, né stava resistendo, non cercava di allontanarla perché l’unico modo per non farsi mancare il respiro da quel sorriso che aveva scatenato l’alta marea era cedervi. Sentì le guance più calde, probabilmente stava arrossendo nel vederli, perché una scena simile di ti sbatteva dentro anche se non eri il diretto interessato.
G. chiuse gli occhi e chinò appena il capo sollevando un solo angolo delle labbra verso l’alto in un accenno di sorriso appena percepibile.
« G.. » dopo un’eternità intera di silenzio fu il Primo ad infrangerlo. La sua voce era calda e gentile come il sole di giugno. Sbocciava come una rosa delicata tra le sue labbra e il suo Guardiano formava le spine che lo avrebbero sempre protetto fino alla fine dei loro giorni. L’arciere riaprì gli occhi e tornò a guardare il boss. Non gli rispose a voce ma il Decimo riuscì a cogliere un fiume di parole nel suo sguardo. Tutte premevano per uscire ma non ne liberò neppure una, sapeva che non ce n’era bisogno. Giotto avrebbe capito comunque ogni cosa. Si osservarono nuovamente entrambi per un tempo lunghissimo e per quanto tentasse di imporsi di guardare altrove Tsuna non riusciva a dar retta al buonsenso. Vederli lo riscaldava e desiderò profondamente di essere guardato come stava facendo G. Non si rese conto che Gokudera, seduto alla sua destra, stava già esaudendo quel muto desiderio.
Quello che legava G. e Giotto, riuscì a capirlo, era un legame che andava contro il tempo, sfidando il concetto stesso di “per sempre”. L’eternità si inginocchiava dinnanzi a loro due vergognandosi di essere incredibilmente scialba e inconsistente in confronto. Quando l’arciere avvicinò il volto a quello del Primo istintivamente Tsuna abbassò gli occhi al tavolo per cercare di distrarsi. Immaginava che da un momento all’altro si sarebbero potuti baciare per suggellare tutte le loro silenziose promesse. Invece non accadde nulla del genere – e il Decimo ne rimase quasi deluso. Sentì G. bisbigliare qualcosa, parole che si persero nel silenzio. Non tentò di decifrarle e in quel momento si sentì addosso lo sguardo di Gokudera. Voltò il capo verso di lui al rallentatore e i loro occhi si imbrigliarono gli uni negli altri. Gli mancò il respiro ed annaspò muto alla ricerca dell’aria, il suo cuore ebbe un fremito fortissimo dopodiché si mise a mancare una serie infinita di battiti. Lo stomaco gli si capovolse e i polmoni presero a bruciare per ricordargli di respirare. Schiuse le labbra ma non riuscì a parlare, di colpo si sentì trasportato nelle stesse, identiche sensazioni che fino a poco prima aveva visto dipinte negli occhi di G.
V’erano devozione, lealtà, fedeltà, protezione. Non mancava nulla e per qualche strano motivo sentì l’intenso bisogno di accarezzarlo, di placare le sue sensazioni trepidanti che gli scalpitavano dentro – seppur positive – per acquietarlo così come era stato in grado fare il Primo, ma non si mosse, né riuscì a parlare. Sapeva che se ci avesse provato non ce l’avrebbe fatta ad imitare il tono caldo e inconsapevolmente suadente di Giotto, anzi, forse avrebbe addirittura balbettato. Rimase sconvolto con le labbra schiuse e gli occhi appena più grandi del solito.
« Juudaime.. » sussurrò lui, basso e roco, rimbombante come un tuono. C’era altro nel suo sguardo, qualcosa che al Decimo apparve come desiderio. Si guardarono arrivando dritti al centro dei loro cuori che sincronizzarono i battiti. Fu in quel momento che Tsuna sorrise e inclinò lateralmente la testa. Sapeva cosa voleva dire, neppure loro avevano bisogno di parlare.
Era “per sempre” e per sempre sarebbe stato.
   
 
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