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Autore: frances bruise    19/01/2014    4 recensioni
[One shot]
Nel corso della Festa dei Folli, Quasimodo viene incoronato Re. Ma, per ordine del giudice Frollo, viene deriso e torturato dalla folla, che lo lega ad una pedana rotante e gli getta addosso pomodori e altri frutti.
Qui viene presentato il punto di vista di Esmeralda.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Claude Frollo, Esmeralda, Quasimodo, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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GIUSTIZIA!


Non si sapeva molto sul nuovo Re dei Folli.
Sapevamo solo che aveva vinto perché aveva il volto più brutto che l’intera Parigi avesse mai visto, e perché non aveva avuto bisogno di alcuna maschera per incrementare la sua bruttezza.
Quando lo avevo visto per la prima volta, era stato per caso, nella mia tenda: era inciampato ed era caduto praticamente ai miei piedi, così lo avevo aiutato ed avevo incrociato il suo sguardo. La sua mi era sembrata una maschera, la maschera migliore che avessi mai visto in vita mia. Per questo, fin da quel momento, seppi che avrebbe vinto.
Così accadde.
Non sapevamo il suo nome, né da dove venisse. Sapevamo solo che era il nuovo Re.
Non appena fu incoronato come più brutto di Parigi, venne caricato su una portantina e portato in mezzo alla folla urlante ed euforica. Io lo seguii con lo sguardo: tutta la gente gli tendeva la mano e cercava di stringere la sua, o almeno di toccare per un istante quello che era il loro nuovo mito. Per quel giorno, e per quel giorno solo, la gente lo avrebbe amato e lo avrebbe acclamato. Poi tutto sarebbe tornato alla normalità.
Non riuscivo ad assistere ad un simile spettacolo.
Non mi piacevano i commenti dei parigini sulla sua bruttezza, tanto meno mi piaceva il modo in cui lo trattavano. Amore e poi indifferenza, ecco a cosa era destinato il nuovo Re. Come sempre.
Così, dopo che fu caricato e portato via – diretto all’altare – mi ritirai nella mia tenda per cambiarmi d’abito. In quel momento stavo indossando un abito di scena, che consisteva in un vestito rosso, lungo fino ai piedi, dalla gonna larga e morbida che permetteva anche i movimenti più complicati. Lasciava molto spazio alla fantasia maschile, comunque.
Me ne liberai immediatamente.
Era solo un costume di scena, niente di veramente importante: il suo unico compito era quello di distrarre gli uomini dai loro soliti pensieri, che erano quasi sempre rivolti al disprezzo verso i gitani o, più in generale, verso gli stranieri. Però, quando avevano davanti una bella donna, tutti – nessuno escluso – non facevano distinzione di razza.
Indossai la mia solita blusa, che era un po’ sporca di fango su una delle maniche bianche. Non me ne curai granché. La indossai quasi con indifferenza, mentre il mio orecchio era tutto rivolto alla piazza cittadina: la gente stava gridando ed acclamando il re, come era giusto che fosse. Immaginai che, in quel momento, fosse giunto sull’altare.
Mi infilai la lunga gonna color lilla, che con il mio costume di scena aveva in come solo l’ampiezza. Anch’essa, come la blusa, era lievemente sporca di fango sugli orli inferiori. Pazienza.
Ora, veniva la parte più difficile: il corsetto verde smeraldo, che riprendeva un po’ il mio nome. Lo indossai con un po’ di difficoltà e fui costretta a fare tutto da sola, perché non ero la figlia del re e non avevo qualcuno che si occupasse esclusivamente del mio vestiario. Lo aggiustai alla bell’e meglio, insomma.
Poi venne il momento dell’ultimo capo che dovevo indossare: il pareo viola cui erano appesi tanti piccoli campanellini che trillavano ogni volta che facevo un passo. Esso si indossava piuttosto semplicemente, allacciandolo alla vita e stringendolo in modo che il nodo non si sciogliesse. Era davvero semplice.
Lo afferrai, ma – prima ancora che potessi indossarlo – sentii uno strano rumore proveniente dalla piazza.
Mi sembrava che qualcuno stesse insultando il nuovo Re dei Folli e che la piazza si stesse agitando.
Così, scostai la mia tenda ed uscii per accertarmi dei miei sospetti.
E ciò che vidi mi lasciò senza parole.
 
Il nostro nuovo re, sì proprio lui, se ne stava sulla pedana rotante che faceva parte dell’altare. Se ne stava lì chino, costretto da disparate funi ad aderire col proprio corpo alla superficie di legno, e – nonostante opponesse tutta la forza che possedeva alla stretta micidiale – non riusciva a liberarsi in nessun modo. Ogni volta che tentava di alzarsi, tornava indietro e sbatteva il petto contro la pedana.
Allora mi sembrò quasi di sentirlo.
Le schegge di legno che si staccavano dalla pedana e penetravano nella sua carne nuda (la blusa che indossava, infatti, si era lacerata per via dello sforzo che stava esercitando), le corde che strusciavano sulla sua pelle e che la irritavano, la forza esercitata da tutti gli uomini che - insieme - tiravano e lo costringevano a rimanere immobile.
Ma lui si dimenava a più non posso, anche se non ce la faceva. La sua forza non era nulla contro quella di una ventina di uomini.
Sentii che dovevo fare qualcosa per lui. Alle mie orecchie giungevano gli insulti che gli rivolgevano, che rimandavano tutti alla sua naturale bruttezza, e – più li ascoltavo – più sentivo una morsa prendermi alla bocca dello stomaco. Sentii anche dell’amaro in bocca. Quella era un’ingiustizia!
Mi feci spazio tra la folla, spalleggiando di qua e di là ed infischiandomene delle persone cui facevo del male. Perché nulla poteva fare più male di ciò che stavano facendo a quel povero ragazzo.
Davanti a me c’erano migliaia di persone, ma non mi importava perché dovevo raggiungere il mio obiettivo, ossia l’altare cui il Re veniva tenuto legato. Diedi un po’ di spintoni, lì dove occorreva, ma alla fine raggiunsi i gradini in legno che conducevano alla pedana.
A quel punto, il mondo piombò nel silenzio. Nessuno parlò più: erano tutti intenti a guardarmi mentre salivo i gradini e mi avvicinavo al ragazzo, che mi guardava con la coda dell’occhio. Quando gli fui abbastanza vicina, slacciai il pareo che tenevo legato in vita, e mi chinai un po’.
«Non avere paura», gli dissi con un tono di voce dolce e rassicurante. Ma lui sottrasse il suo volto al mio tocco, come se avesse paura che potessi fargli del male. Io insistetti, ma con delicatezza.
«Mi dispiace tanto», gli dissi ancora, «Questo non sarebbe dovuto succedere». Gli asciugai il volto sporco di sugo di pomodoro con l’orlo del mio pareo.
E, in quell’istante, la voce del giudice Frollo mi fece gelare il sangue nelle vene.
«TU, ZINGARA!», esclamò, alle mie spalle. Ed io mi voltai.
Vidi il suo indice ossuto puntato contro di me ed un’espressione severa sul suo volto. Quell’uomo... Il giudice Frollo era quel genere di uomo che mi dava la nausea, anche se non lo conoscevo. Odiava il mio popolo e faceva di tutto per estirparlo, e ciò mi bastava per odiarlo. Non vedeva il cuore delle singole persone, ragionava per razza.
«Scendi immediatamente», mi ordinò.
Sì, sarei scesa prima o poi. Ma non ora.
«Lo farò, Vostro Onore! Non appena avrò liberato questo povera creatura!»
«Te lo proibisco!»
A quel punto, estrassi il piccolo pugnale che tenevo sempre nel mio corsetto e tagliai una delle funi che tenevano legato il povero malcapitato. Quello non solo era un gesto di sfida nei confronti del giudice, che mi aveva proibito severamente di liberare quel ragazzo, ma soprattutto un gesto di solidarietà: nessuno meritava di essere trattato così.
Il giudice reagì all’istante. «Come hai osato?»
Io mi voltai nuovamente.
«Voi maltrattate questo povero ragazzo nello stesso modo in cui maltrattate il mio popolo», esclamai, «Voi parlate di giustizia, e poi siete crudele nei confronti di coloro che maggiormente hanno bisogno del vostro aiuto.»
«Silenzio!», ordinò Frollo.
 
«GIUSTIZIA!», esclamai io. 
   
 
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