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Autore: GreedFan    19/01/2014    4 recensioni
Nascere su Nenya significa entrare a far parte di una delle tre Categorie.
Non c'è scampo dalla classificazione: i Beta contribuiscono con il loro lavoro alla costruzione di una società più solida, gli Omega procreano e crescono le nuove generazioni, gli Alfa, semplicemente, dominano. Ciascuno secondo la propria natura.
Lienhard Heisenhover, però, intuisce che c'è qualcosa di storto nella gerarchia delle classi sociali - un pezzo del puzzle non collima, l'ombra della menzogna si avviluppa alle fondamenta di una civiltà solo apparentemente solida. A volte basta la pressione lieve di un frammento di ghiaccio per spaccare la più dura delle rocce.
«Il fuoco insegna parecchio». Sussurrò, gli occhi di Joseph nei suoi. «Se non te prendi cura si spegne. Se non lo controlli ti scotta non appena abbassi la guardia. Ma il bello è che a volte si spegne o ti brucia lo stesso, anche quando ci hai messo tutto l'impegno possibile».
«Mi ricorda qualcuno».
«Dovrebbe. Quella di essere imprevedibili è una prerogativa di tutti gli uomini».
«Di alcuni più che di altri».

[Omegaverse]
Genere: Angst, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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α.


La luce che pioveva dalle finestre spalancate della biblioteca era calda, un torrente dorato in cui turbinavano, oziosi, vortici impalpabili di pulviscolo. Camminando pacatamente sotto la finestra più grande, i tacchi a scandire un ritmo lento e cadenzato sul piano di una costosa scrivania di legno scuro, il professor Lienhard Heisenhover leggeva.

«No rest without love, no sleep without dreams of love». Aveva una voce roca e musicale, un timbro denso e vibrante che accarezzava ogni sillaba con l’emozione incontentabile di un attore di teatro ‒ la poesia sulle sue labbra diventava materia vivente, tangibile, passione infusa in parole e trasformata in arte: «Be mad, or chill, obsessed with angels or machines, the final wish is love».

La biblioteca aveva un’acustica perfetta, e a quell’ora ‒ le due del pomeriggio ‒ non c’erano altri suoni a turbarne il silenzio assoluto. Gli studenti sedevano dove capitava, sui davanzali delle finestre e sui tavoli, sui tappeti lisi stesi tra una scrivania e l’altra, e tutti guardavano con il fiato sospeso la figura del professore, il piccolo miracolo che la sua voce e i suoi occhi e la sua energia stavano compiendo. C’era tensione, e aspettativa, un’atmosfera raccolta e vagamente stupefatta, quasi Heisenhover stesse officiando il rituale di una misteriosa religione tribale.

«… the hand moves to the center of the flesh, the skin trembles in happiness and the soul comes joyful to the eye». Creava un armonia bizzarra, Heisenhover, con l’arredamento severo della libreria: sullo sfondo di scaffali scuri alti fino al soffitto, zeppi di volumi dalle rilegature pesanti e impolverate, la sua giacca color ruggine sembrava quasi mimetizzarsi, sparire. Aveva poco più di trent’anni, ma il completo dal taglio antiquato e la cravatta ‒ un autentico pezzo da museo ‒ lo facevano sembrare molto più vecchio, così come gli occhiali da lettura in bilico sul naso affilato.

L’uso di indossare lenti correttive invece di sottoporsi alla correzione chirurgica della presbiopia era completamente scomparso da almeno quattro secoli.

«Yes, yes… that’s what I wanted, I always wanted, I always wanted ‒ to return to the body where I was born». Concluse la poesia con un sussurro pieno di dolcezza e chiuse il libro, lasciando che il silenzio facesse da eco alle sue ultime parole. Passò qualche istante prima che, sedutosi sul bordo della scrivania con le gambe penzoloni, ricominciasse a parlare.

«Allen Ginsberg». Scandì, agitando il libro per richiamare l’attenzione di qualche alunno che, conclusa la lettura, aveva lasciato vagare lo sguardo distratto fuori da una finestra «Uno dei migliori poeti arcaici, secondo la mia modesta opinione. Che ne pensate? Lo conoscevate già?».

Non ci fu nessun cenno d’assenso, ma il professore non si aspettava nulla di diverso. Sorrise ‒ aveva occhi scuri e sottili, intelligenti ‒ e scosse piano la testa. Alla domanda seguì un certo scompiglio ‒ una trentina di studenti giovani e lievemente intontiti che lottavano per sfilarsi gli istan-traduttori dalle orecchie e riporli nelle apposite custodie ‒ e poi, di nuovo, silenzio imbarazzato.

«Ok, del resto la Federazione non si preoccupa troppo di mandare in onda programmi culturali. Allora, vediamo…» tentennò, lasciando vagare lo sguardo tra gli studenti «… Cooper».

Un ragazzo magro, con gli occhi sporgenti e il viso coperto di efelidi, sollevò la testa di scatto e arrossì fino alle orecchie. Non doveva avere più di diciotto anni.

«Il tema portante della poesia è l’amore. Secondo te qual è la visione che i poeta ha dell’amore?».

«Di sicuro... be’, una visione positiva. Perché anche se l’amore è un… fardello, come dice il poeta, è anche alla base delle passioni positive, è una specie di forza creatrice. Lo descrive come la sua essenza, in qualche modo». Parlò in modo affrettato, il viso paonazzo, e puntò lo sguardo dritto a terra. Se anche Heisenhover non avesse imparato a memoria le generalità di ciascuno degli iscritti al suo corso, non sarebbe stato difficile capire che David Cooper era un omega.

«“Il peso dell’amore”… sono parole scritte parecchi secoli fa, eppure quanto ci riguardano?». Enfatico, si tirò nuovamente in piedi e squadrò gli alunni dall’alto del suo palco improvvisato «In che modo, esattamente, l’amore può essere un peso per noi? E perché continuiamo a cercarlo ‒ perché continua a renderci così felici ‒ se è tanto difficile da sopportare?».

Una ragazza in prima fila, con il naso all’insù e corti capelli spettinati, alzò la mano.

«Marie Shaw, giusto?». Beta, aggiunse tra sé e sé. Aveva cercato in tutti i modi di togliersi quel vizio, ma ogni volta che si trovava a parlare con qualcuno non poteva fare a meno di classificarlo in base al sesso biologico. Riusciva a percepire l’odore della ragazza, una fragranza scialba e poco attraente, anche se lei era a quasi tre metri di distanza in linea d’aria.

«Sì. Allen Ginsberg era un omega, giusto?».

«Mh, come mai questa domanda?».

Marie Shaw scrollò le spalle e gli lanciò un’occhiata vagamente imbarazzata, forse temendo di aver detto qualcosa di stupido. «Boh,» aggiunse, giocherellando con l’orlo della maglietta «questo fatto di desiderare disperatamente l’amore, ma allo stesso tempo di vederlo come qualcosa di gravoso. Un alfa non parlerebbe così… per loro non è mai stato un peso».

Qualcuno protestò ‒ sicuramente un alfa punto sul vivo ‒ e Marie Shaw esclamò una risposta che, se ne avesse avuto il tempo, Heisenhover avrebbe sicuramente rimproverato. Il suo richiamo, però, fu coperto dal rumore di una porta che sbatteva. Trenta teste si voltarono simultaneamente verso il portone della biblioteca, qualcuno emise un gridolino di sorpresa ‒ il professore per un attimo pensò, stizzito, che qualche collaboratore scolastico avesse infranto il divieto tassativo di disturbare le sue lezioni.

Si ritrovò, invece, a fissare il nuovo arrivato con le sopracciglia decisamente inarcate e la bocca piegata in una linea sottile e rigida: nella biblioteca, inguainato dalla testa ai piedi in un’uniforme completa di mostrine, era appena entrato un soldato.

Era alto, con i capelli neri pettinati all’indietro e una fisionomia curiosamente delicata ‒ non aveva la struttura possente tipica dei militari, e il suo viso un po’ lungo era tutto un susseguirsi di linee graziose. Rivolse un cenno di saluto impettito alla sala piena di gente e batté i tacchi a terra (gli anfibi di cuoio fecero un rumore infernale sul pavimento di parquet), poi lanciò un’occhiata incuriosita ad Heisenhover, ancora in piedi sulla cattedra. Non portava armi.

Lienhard era quasi sul punto di trovarlo simpatico, quando il soldato decise di aprire bocca e spezzare impietosamente l’incantesimo.

«Sono qui per conto dell’Amministratore del quinto distretto di Fegith» annunciò, le braccia lungo i fianchi «affinché venga posto un freno a questa attività illegale».

Heisenhover emise un mezzo verso di sorpresa e spalancò le braccia. Notò, con la coda dell’occhio, che alcuni studenti stavano radunando in fretta le proprie cose.

«Attività illegale? Con tutto il rispetto, non c’è nulla di illegale in quello che‒».

«La legge vieta agli omega non reclamati di frequentare corsi scolastici, a meno che non siano in possesso di un lasciapassare dell’Amministratore. Ci è stata segnalata la presenza di numerosi» storse il naso «omega non reclamati all’interno di questo corso. Certamente saprà, professor Lienhard Heisenhover, che è assolutamente vietato e passibile di arresto favorire un simile comportamento. È difficile credere che non si sia mai accorto della loro presenza».

Lienhard sogghignò, senza accennare a scendere dalla cattedra.

«Vedo che conosce il mio nome, maggiore. Gradirei avere la stessa fortuna». Gli era bastata un’occhiata veloce per riconoscere il grado delle mostrine: in quanto sostenitore di numerosi movimenti studenteschi, spesso immischiati in rivolte e manifestazioni turbolente, aveva avuto modo di familiarizzare con le forze dell’ordine. Il soldato corrugò le sopracciglia, irritato, ma non poteva evitare di rispondergli.

«Maggiore Joseph Redthorn». A quel nome, Lienhard assottigliò lo sguardo e si fece più attento «Ora, tutti gli omega non reclamati sono pregati di seguirmi fuori da questa stanza fino alla centrale del quinto distretto, dove risponderanno delle loro azioni. Non verrà tollerata alcuna resistenza».

Qualcosa si mosse, al di là della porta, e il professore scorse alcuni militari appostati silenziosamente vicino allo stipite. Erano una decina, forse più, e, a differenza di Joseph Redthorn, alla cintura portavano le armi d’ordinanza.

«Signore!». Alzò la voce, mentre gli studenti cominciavano a radunarsi contro la parete della biblioteca opposta rispetto alla porta, rispetto ai soldati «La legge si pronuncia in termini di istruzione pubblica, ma il mio non è che un club di lettura che si riunisce ogni venerdì pomeriggio nella biblioteca dell’Universitas. Non svolgiamo nessuna attività riconosciuta, e il governo non bandisce la libera associazione a fini culturali».

«Questo verrà appurato in centrale». Redthorn non fece una piega; a parte qualche rara smorfia di fastidio, il suo viso marmoreo sembrava freddo e inespressivo.

Maledizione.” Lienhard percepì un’ondata di senso di colpa, amaro e inevitabile, e capì che per nulla al mondo avrebbe permesso che i suoi studenti venissero arrestati davanti a lui. “Ci deve pur essere un modo…”

Scese con un balzo fluido e si avvicinò in pochi passi al maggiore, cercando di mantenere un’apparenza imperturbabile nonostante la morsa di paura avviluppata allo stomaco. Avvertì il suo odore, quello sì, un afrore denso e soffocante di alfa ‒ per un attimo gli girò la testa, tanto era puro.

«Ascolti, sono disposto a dichiarare che li ho obbligati contro la loro volontà. Sono omega, la loro natura gli impedisce di opporsi agli ordini di un alfa…» era piuttosto consapevole delle idiozie che gli stava dicendo, ma finché quelle stesse idiozie collimavano con la coscienza comune di cosa fosse esattamente il rapporto alfa/omega andavano benissimo «Ha capito? Mi costituisco, è stata una mia idea. Non è la prima volta che succede».

«Lo so». Redthorn abbassò la voce, la appiattì in un sussurro irato «Il suo cognome l’ha salvata già più di una volta, Heisenhover. In fede, credo che lei sappia che anche questa volta non sarà diverso».

Ah, ma allora anche tu sei un essere umano”. Ghignò, inclinando la testa di lato.

«Non mi sarei mai aspettato che un Redthorn facesse un discorso del genere. Vuole arrestarmi, maggiore, o preferisce che io le dia modo di accusarmi anche di oltraggio a pubblico ufficiale?».

Joseph Redthorn emise un sospiro appena percettibile, carico di frustrazione, e fece un cenno annoiato agli altri soldati. «Lienhard Heisenhover, la dichiaro in stato di fermo con l’accusa di imposizione. Ha il diritto di rimanere in silenzio».

Si definiva “imposizione” il reato per cui un alfa obbligava un omega non reclamato a compiere una qualsiasi azione contro la sua volontà; la convinzione comune ‒ coadiuvata da studi che Lienhard, in quanto ricercatore genetista dell’Universitas, riteneva paradossali ‒ era che un omega, specialmente se vicino al calore, non potesse rifiutarsi di obbedire agli ordini di un alfa. Le motivazioni, piuttosto fumose, andavano ricercate nella biochimica e nel complesso linguaggio ormonale che legava i due sessi. In ogni caso, plausibile o meno, il reato di Imposizione era così grave e malvisto che poteva portare all’ergastolo.

Le manette magnetiche scattarono ai polsi di Lienhard, che fu scortato con insolita gentilezza fino alla vettura della polizia. Levitava a qualche centimetro da terra, già pronta ad inserirsi nel traffico sempre in movimento delle piste magnetiche, una sorta di uovo gigante con un lato schiacciato e un guscio di leghe polimeriche praticamente indistruttibile. L’abitacolo, protetto da una cupola di vetro antisfondamento, ospitava la cabina del pilota; tutta la parte posteriore del veicolo era adibita a container, e si aprì come le ali di un coleottero per permettere a Lienhard e a una mezza dozzina di soldati di prendere posto sulle panche di ferro incassate nel pavimento. Joseph Redthorn, seduto davanti ad Heisenhover, sollevò leggermente la manica della divisa e sfiorò in punta di dita quella che sembrava una fascia di lattice nero, avvolta intorno al polso; il bracciale si illuminò, strie fosforescenti che si avvolgevano e si disfacevano sulla superficie liscia senza assumere nessuna forma concreta, e il maggiore cominciò a muovere le dita davanti al suo viso come se stesse toccando una superficie invisibile. “O-screen,” Lienhard si sporse in avanti, incuriosito “chissà che cosa sta leggendo”.

Sapeva che, se si fosse seduto accanto al Maggiore, avrebbe visto comparire, come per magia, uno schermo piatto sospeso a mezz’aria, completo di sensori touch e grafica full HD. Non era mai stato un amante della tecnologia ‒ il che, nel mondo iper-tecnologico un cui viveva, gli aveva causato non pochi problemi ‒ e pensava che ci fosse del ridicolo nel gesticolare di Redthorn, ma in quel momento avrebbe voluto un o-screen personale per avvertire suo padre della situazione.

Tanto lo saprà comunque”, si disse “se non dovessero avvertirlo, ci penserà la sua intelligence personale”.

«La sua fedina penale è terrificante». Redthorn spezzò il silenzio con un tono casuale, annoiato, mentre la vettura scivolava silenziosamente nel traffico «Ha commesso tanti crimini antigovernativi che verrebbe da chiedersi come possa essere ancora in libertà. Quantomeno dovrebbero assegnarle una pattuglia di sorveglianza in pianta stabile, ma immagino che il Ministro Heisenhover non sarebbe d'accordo con una cosa del genere. Sbaglio?».

«Mi sta autorizzando a parlare, Maggiore?». Nella domanda di Lienhard, più simile alle fusa di un gatto, era in agguato una mezza risata «Vuole che aggravi la mia situazione?».

Redthorn gli lanciò uno sguardo affilato − era incredibile, pensò Heisenhover, come spiccassero le pupille nell'azzurro lattiginoso delle iridi. L'intensità di quegli occhi era quasi fisica.

«Se intende tirare di nuovo in ballo il mio cognome, la prego di non farlo».

«E perché? È un cognome illustre, lo stesso del Gerarca. Non vedo alcun motivo di vergognarsene». Lienhard scoppiò a ridere, e un lieve rossore affiorò sulle guance del soldato.

«A differenza di quanto lei crede, non mi sono mai fatto scudo del mio cognome». Sibilò, e il suo sguardo era diventato una freccia sul punto di essere scoccata «Non ne ho mai avuto bisogno».

"Oh, ecco l'orgoglio alfa che torna. Ma allora siete veramente tutti uguali".

«Dev'essere la pecora nera di famiglia».

«Non del tutto, Heisenhover. Non quanto potrebbe esserlo un primogenito beta in una famiglia di alfa». La frecciata era evidentemente rivolta a lui, e Lienhard sentì che, per quanto cercasse di frenarlo, un ghigno involontario gli si andava allargando sul viso.

«Beta? Sta parlando di me, Maggiore?». Fece schioccare la lingua contro il palato, scuotendo la testa «No, no, no. Rilegga con più attenzione la mia fedina penale... sono sicuro che c'è un documento d'identità allegato».

Heisenhover toccò un paio di volte lo schermo dell'o-screen e arrossì di nuovo, le labbra contratte.

«Mi sono ingannato, la credevo un beta. Ha un odore inusuale per un alfa».

«Copro il mio odore con dei prodotti specifici. Nella facoltà di genetica dell'Universitas lavorano diversi omega reclamati e persino qualche non-reclamato fornito di permesso... da parte mia sarebbe piuttosto indelicato lasciare che i miei ferormoni diventino una distrazione».

Joseph lo guardò a lungo in silenzio, incuriosito. Lienhard poteva quasi leggere il pensiero che scorreva nella mente del soldato, e sorrise.

Non sembri affatto una persona delicata, Heisenhover.

"Non sai nemmeno quanto hai ragione".


α٠β٠ω


Le pareti della cella erano spoglie ma pulite, coperte da un rivestimento di lattice grigio spesso una decina di centimetri. Quella stanza veniva utilizzata soltanto per permanenze brevi, in particolare per gli alfa (se beta e omega riuscivano, in genere, a sostare nella stessa cella senza farsi a pezzi, gli alfa necessitavano di totale isolamento) e non presentava nessun tipo di mobilio. A gambe incrociate sul pavimento morbido, lo sguardo fisso sulla lastra di plexiglas spesso trenta centimetri che lo separava da un corridoio su cui si affacciavano altre diciannove stanze identiche alle sua, Lienhard attendeva l'inevitabile conclusione di quella giornata.

Se la situazione era rimasta invariata, il giorno successivo avrebbe dovuto sostenere un processo.

Se, invece, il vecchio Heisenhover aveva mantenuto intatto tutto il suo smalto, le accuse contro di lui sarebbero cadute − e poco importava che la sua fosse una confessione spontanea, il denaro esisteva per un motivo − e, con tanto di cauzione pagata, gli avrebbero affibbiato due giorni di sospensione lavorativa e un'ammonizione firmata dal Procuratore.

Lienhard si slegò i capelli − lisci, biondi, gli arrivavano fino alle spalle − e, dopo un tentativo non propriamente riuscito di pettinarli con le dita, li sistemò nella consueta coda bassa.

"Ho bisogno di tornarmene a casa e farmi una doccia". Espirò, abbandonando la testa contro la parete "Maledetto Joseph Redthorn. Tu e la tua sorveglianza inutile del cazzo".

Ci fu un momento, dopo ore di attesa, in cui pensò che non sarebbe venuto nessuno e l'avrebbero lasciato lì a morire di noia. Quando la sagoma nera di un soldato si profilò dall'altra parte della parete di plexiglas, Lienhard si tirò in piedi in fretta e furia e per poco non gli andò incontro sorridendo.

Il soldato portava pesanti guanti neri, di pelle. Sfilò il destro e appoggiò il palmo della mano al plexiglas; dai tutti i punti in cui la pelle toccava la superficie trasparente si diramarono delle linee geometriche e angolose, di un bianco abbacinante, che costruirono in pochi secondi un disegno complicato e molto simile ad un labirinto. La guardia, ad una velocità impressionante, toccò alcune di quelle righe e le spostò da una parte all'altra della parete, cambiando completamente la struttura del labirinto. Quand'ebbe finito fece un passo indietro e la parete scivolò da una parte senza emettere il minimo suono.

"Wow," Lienhard era rimasto a bocca aperta "quando mi hanno fatto entrare qui dentro non è servito tutto questo casino. D'altra parte è prevedibile che per aprire una cella vuota ci siano misure di sicurezza diverse rispetto a quelle che servono per una occupata".

«L'accusa di imposizione che le era stata rivolta è caduta». Lo informò il soldato, scortandolo lungo il corridoio «Quella di oltraggio a pubblico ufficiale no. Il Ministro Thomas Heisenhover ha pagato la cauzione e la sta aspettando qui fuori».

«Ci saranno conseguenze dopo quanto accaduto oggi?».

Quando il soldato annuì Lienhard ebbe un tuffo al cuore, ma si sforzò di rimanere impassibile.

«Il Procuratore, per evitare che possano ripetersi episodi spiacevoli, le ha assegnato una scorta facente parte delle Forze Armate che presiederà ai suoi incontri pomeridiani all'Universitas».

«Quindi li hanno riconosciuti come attività legittime?».

«Sì. Potrà continuare a tenerli».

Lienhard represse a stento un'esclamazione di gioia.

Il soldato lo scortò attraverso una serie di corridoi e sale d'attesa, solcate da un viavai di impiegati statali e militari in uniforme, fino ad una sala d'aspetto arredata molto semplicemente. Non c'erano altro che sedie di metallo, disposte in file ordinate sulla moquette azzurrognola, e teleschermi appesi alle pareti.

Suo padre, come sempre impeccabile in un completo di alta sartoria, lo accolse con un mezzo sorriso.

«Mi chiedo quando la smetterai di farmi dilapidare il patrimonio di famiglia in cauzioni, Lienhard».

«Il nostro non è un patrimonio facile da dilapidare, devi ammetterlo».

Thomas Eisenhover, Ministro della Salute in carica, aveva più di cinquant'anni e ne dimostrava una decina in meno. Somigliava in modo incredibile al figlio, con lo stesso viso dai tratti spigolosi e l'espressione intelligente, ma aveva la pelle molto più chiara e gli occhi grigi come l'acciaio; i capelli, che tingeva regolarmente a seconda della moda, erano di un castano scuro appena venato d'argento, pettinati all'indietro.

«La ringrazio». Il Ministro indirizzò un cenno di saluto al soldato, che si defilò silenziosamente, e appoggiò una mano su una spalla di Lienhard «Usciamo di qui. Non è un buon posto per parlare».

Il ragazzo annuì, passandosi una mano sugli occhi.

«Sono stanco e stufo». Annunciò, seguendo il padre nei corridoi asettici della Centrale di Polizia del quinto distretto «Che ore sono?».

«Le dieci e mezza». Nell’androne sostava qualche gruppetto di impiegati in procinto di tornare a casa, e dalle grandi porte a vetri Lienhard poteva vedere l’oscurità della notte e il chiarore azzurrognolo dei lampioni. In altro, in un cielo privo di nubi, sembravano rincorrersi le due lune di Nenya.

Thomas Eisenhover cominciò a parlare davvero, con la voce più bassa e gli occhi scintillanti, solo quando si furono allontanati di diversi metri. La serata era piacevolmente tiepida, e spirava una brezza decisa che, se mai ce ne fossero stati, avrebbe sabotato tutti i microfoni nascosti.

«Tua madre stava letteralmente impazzendo». Sibilò, irato, afferrando il figlio per un braccio «Se potessi brucerei le loro aule di tribunale, maledetti schifosi. Tu come stai? Ti hanno fatto qualcosa? Analisi?».

«Nah». Lienhard fece spallucce «Sono il figlio di un ministro, per quante volte finisca nelle loro carceri mi trattano sempre con i guanti bianchi. La mamma come va?».

«Bene, ma si avvicina il calore e ne risente gli effetti».

«Si ostina a non prendere soppressanti». Suonava come una constatazione priva di sentimento, ma chi conoscesse bene Lienhard avrebbe potuto avvertire una scintilla di rabbia sotto la scorza di indifferenza «Dov’è, adesso?».

«Fuori città, in una delle proprietà di campagna». Negli occhi del Ministro il dolore era così intenso che il ragazzo sbuffò, alzando gli occhi al cielo.

«Ma guardati. Questo è il motivo per cui io non smetterò mai di prendere soppressanti».

«Non dirlo nemmeno per scherzo. Se qualcosa dovesse trapelare verrei condannato all’ergastolo o all’esilio su qualche pianeta ostile dall’altra parte dell’Universo». Scivolarono in un vicolo laterale, dove, nascosta nell’ombra, stava una sottile vettura biposto dall’aria costosa «Sul navigatore sono già impostate le coordinate della casa. Appena uscirai dalla città sarà meglio attivare gli scudi anti-rilevamento, c’è sempre il rischio che ti stiano sorvegliando dopo l’incidente di oggi».

«Tu non vieni?». Lienhard si sistemò al posto di guida e allacciò le cinture di sicurezza «Ah, tanto conosco già la risposta: devi lavorare».

«Gestire una carriera ministeriale e un traffico illecito di farmaci richiede tempo, Lienhard». Thomas fece l’occhiolino al figlio e gli diede una pacca sulla spalla «Salutami tua madre e vedi di rimanere un po’ con lei. Ho fatto in modo che ti assegnassero un paio di giorni di ferie extra al lavoro».

Lienhard scoppiò a ridere, per niente colpito. Suo padre non sarebbe mai cambiato.


α٠β٠ω


Il viaggio durò quasi tre ore.

Fuori da Fegith, imponente con la sua skyline di grattacieli dalle forme affusolate, si snodavano i complessi tracciati delle piste di campagna; intorno alla città gli appezzamenti di terreno somigliavano quasi ad una vecchia coperta fatta con scampoli di tessuto quanto mai eterogenei, dall’azzurro pallido delle colture di erbe medicinali al verde opaco dei papaveri da oppio. I campi venivano gestiti e protetti con attenzione scrupolosa, e drappelli di guardie armate passeggiavano oziosamente lungo i vari perimetri.

Impostato il pilota automatico, Lienhard incrociò le braccia dietro la testa e si rilassò come poteva nell’abitacolo della vettura. Aveva sempre amato i viaggi, il moto incessante del paesaggio che scorre sotto gli occhi come l’acqua vorticosa di un torrente, e lasciò vagare lo sguardo nelle campagne appena rischiarate dalle due lune di Nenya fin quasi ad addormentarsi. Conosceva quelle zone a menadito: non era raro che da ragazzo, appena acquistata la sua prima vettura, fuggisse dal caos cittadino per respirare un po' d'aria pulita tra le dune calcaree dell'outland.

La proprietà di campagna si trovava in mezzo ai campi di papaveri. Una villa di pietra biancastra, costruita secondo uno stile semplice e lineare che ne sottolineava le dimensioni imponenti, spiccava con eleganza al centro di un parco alberato. Sul lato frontale si aprivano tre ordini di grosse finestre squadrate, e al centro esatto della facciata faceva bella mostra di sé un portale di legno dall’aria antica a cui si accedeva tramite una doppia scalinata dai bracci ricurvi; il resto della costruzione, parzialmente celato dagli alberi, si divideva in due ali che abbracciavano un cortile interno ‒ era un gusto antico, quello, che il padre di Lienhard aveva scelto senza curarsi delle mode correnti.

Sceso dalla vettura, Lienhard macinò velocemente la distanza che lo separava dall'ingresso; prima che potesse suonare il campanello il portone si spalancò senza un fruscio, e sua madre gli gettò le braccia al collo con un grido di gioia.

«Ciao, ma'». Ridacchiò, accarezzandole delicatamente la schiena e inspirando il suo profumo, più forte del consueto per l'avvicinarsi del calore «Su, mi hanno già arrestato altre volte».

«Imbecille». Dietmut Heisenhover ridacchiò, appoggiando la fronte sul petto del figlio «Imbecille e spericolato come quell’altro matto di tuo padre. Vieni, beviamo qualcosa mentre mi racconti le ultime novità».

Si voltò, e Lienhard guardò i suoi capelli − neri e folti, una cascata di riccioli dai riflessi azzurrognoli che scendeva ben oltre le scapole − con un moto di profonda tenerezza.

Lo precedette lungo i corridoi immacolati della villa, pavimenti d’acciaio e pareti che celavano meccanismi pronti ad azionarsi al minimo tocco; Lienhard aveva sempre pensato che l’arredamento ultramoderno scelto da sua madre fosse un po’ troppo minimalista, freddo e impersonale, ma quando si trovò con una tazza di tè caldo in mano e la schiena appoggiata al divano del salotto rivalutò tutto l’insieme. Anche quel mix di vetro e acciaio poteva essere accogliente, in determinate circostanze.

«Allora, non ti sono mancata nemmeno un po’?». Nonostante il fisico minuto e sottile e il viso dai lineamenti dolci, Dietmut era una donna energica e volitiva ‒ in molti si chiedevano perché proprio a lei, così forte, fosse capitato di nascere omega ‒ capace di tenere testa ad un marito che, da scapolo, era stato il terrore dei salotti di Fegith. «Tutta sola, ad annoiarmi in questa specie di tomba ad alta tecnologia…». Sistemò l’orlo del vestito che indossava, una morbida onda di seta azzurro ghiaccio, e accavallò le gambe. «Tu come vai con la scuola? So che gli iscritti ai tuoi corsi extra di letteratura creano qualche problema».

«Non sono gli iscritti il problema…» Lienhard bevve una sorsata di tè e guardò per un po’ le fiamme sorprendentemente realistiche di una proiezione olografica che, sulla parete davanti al divano, riproduceva un camino acceso «… ma suppongo che tu lo sappia già. Se potessi ficcare una bomba sotto il culo del Gerarca lo farei volentieri».

Dietmut scosse la testa con tristezza.

«E per cosa? Il mondo è pieno di gente come lui».

«Lo so». Sul viso di Lienhard si allargò un sorriso sghembo «Ma non sarebbe male togliersi una soddisfazione ogni tanto».

«Su questo potrei essere d'accordo. Tuo padre mi ha detto che ti hanno assegnato una scorta in pianta stabile... stavolta li hai fatti arrabbiare». Arricciò le labbra in un ghigno che chiunque avrebbe definito orgoglioso e bevve un sorso di té, socchiudendo leggermente gli occhi; aveva la mimica facciale di un felino, una gatta pigra e sorniona che non vedeva l'ora di tirare fuori gli artigli.

«Non me ne preoccupo più di tanto. L'importante è continuare a tenere i corsi».

«E se dovessero cercare di ficcare il naso nei tuoi programmi? Da quello che mi racconti ci sono alcune parti del corso che trattano temi leggermente anticostituzionali».

«Ficcare il naso?». Lienhard rovesciò il capo all'indietro e rise di gusto «Mamma, andiamo. Sono anni che ho a che fare con quegli imbecilli, è matematicamente impossibile che mi faccia dire da loro come impostare i miei corsi».

«Parli così perché sei fortunato, hai tuo padre che ti copre le spalle».

«Forse. In ogni caso non vedo perché sprecare questa splendida opportunità».

Continuarono a parlare per quasi due ore di fila, con il tè che si raffreddava nelle tazze e la notte sempre più chiara fuori dalle finestre della villa. Lienhard raccontò alla madre le ultime novità − arresto a parte, stava conducendo una ricerca sull'ereditarietà del caratteri sessuali primari che prometteva risultati interessanti − e scoprì che una lontana cugina di Seylaf, la seconda città di Nenya per importanza, aveva appena partorito un maschio beta in perfetta salute.

«Brindiamo alla salute di questa nuova ape operaia, allora!». Lienhard sollevò la tazza, di una porcellana così fine da risultare, in alcuni punti, semitrasparente, e accolse con un ghigno l'occhiata ammonitrice di Dietmut «Com'è che si chiama il poveretto? Vita triste, quella dei beta».

«Friedlieb, si chiama Friedlieb». La donna sospirò, riavviandosi i capelli con un gesto stanco «Forse è ora che tu vada a dormire, Leny. Vorrei evitare certi pensieri a quest'ora».

«Friedlieb... cognome?». Proseguì Lienhard, ignorandola «Non che gli serva, il cognome, visto che probabilmente lo costringeranno a rimanere celibe per evitare di dover lasciare parte dell'eredità ad un ramo secco».

«Schultz. Sono una famiglia importante, non so se ti ricordi, il marito di Isolde commercia in−»

«Papaveri da oppio, me lo ricordo. Fagli le mie congratulazioni e digli se me ne manda un mezzo quintale, eh». Si alzò in piedi, poggiando la tazza su un tavolino da caffè a poca distanza dal divano, e fece l'atto di stiracchiarsi «Avevi ragione, ho sonno e voglio farmi una doccia. Oggi sono successi decisamente troppi casini».

Dietmut annuì, lo abbracciò prima che uscisse dalla stanza.

«Il Progestal è in bagno». Sussurrò, il viso appoggiato sulla spalla del figlio «Riposati, hai tre giorni per dimenticare tutti questi problemi».

La smorfia che si dipinse sul viso di Lienhard era triste, amara.

«Non penso che bastino tre giorni, ma'. Non basta nemmeno tutta una vita».




















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Sono mesi che non mi faccio viva su questo sito. Un po' perché ho portato avanti vari progetti autonomi (questo è uno dei tanti) un po' perché la scuola si è trasformata in una bestia affamata pronta a divorare tutto il mio tempo... insomma, Greedfan è diventata una lavativa ancora peggiore di quanto già non fosse.

Quella che vi trovate davanti è una longfiction (credo verrà lunga una decina di capitoli al massimo) che ho progettato per lungo tempo e già in parte scritta. In pratica è il riassunto di tutto ciò che vorrei vedere io nella sezione "Fantascienza": Omegaverse (se non sapete cosa sia vi propongo questo link, che contiene una spiegazione abbastanza dettagliata), slash e un po' di citazionismo selvaggio da "I Canti di Hyperion" di Dan Simmons :3

Naturalmente non pretendo di aver scritto un'opera particolarmente interessante o originale, ma mi auguro che questa storia vi appassioni e vi diverta almeno quanto mi sono divertita io a scriverla. Fatemi sapere cosa ne pensate, è il mio primo esperimento in campo fantascientifico... per non parlare del fatto che non ho scritto molte "Originali" :P

Al prossimo aggiornamento,

Greedfan


ps. Il banner è tutto quello che sono riuscita a realizzare con le mie scarse doti di grafico. Perdonatemi.

pps. Se avete domande sull'ambientazione risponderò molto volentieri!

   
 
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