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Autore: Timcampi    20/01/2014    2 recensioni
«Tu sei già stata qui» confermò. «In molte vite. E tutte le volte ho commesso l'errore di lasciarti andar via»
Si accasciò contro la statua e si lasciò scivolare ai suoi piedi, le ginocchia al petto e la borsa accanto a sé, il capo contro la fredda pietra.
«Vorresti che rimanessi qui?» domandò.
«Vorrei venire via con te»
Trasalì. Un piccolo sorriso era sbocciato sul suo volto, estendendosi anche ai suoi occhi grigioazzurri bagnati dal sole del tardo pomeriggio.
«Puoi farlo?»
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Christa Lenz, Jean Kirshtein, Marco Bodt, Ymir
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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(Anata no) Oni

 

 

 

 

Jinji wo tsukishite tenmei wo matsu.”

Dopo aver fatto del tuo meglio, puoi soltanto affidarti al destino.

 

[Proverbio giapponese]

 

 

 

 

Giappone, 1946

 

Un paio di pesanti stivali di cuoio scivolava tra incolti cespugli di azalee e rododendri in fiore, a passi flemmatici, come per non disturbare.

Lo sciabordio d'un torrente bagnava alte canne di bambù oltre una schiera di antichi ginepri storpi, solleticando la vista dell'avventore con i riflessi d'argento che filtravano tra i rami; statue muschiose di lupi, leoni e altre bestie dall'aria temibile facevano capolino fra giovani alberi di ginkgo, e oltre di essi scalini consunti e assaliti dalla vegetazione serpeggiavano in alto, tra il rosa dei ciliegi e il rosso degli aceri, fino al torii di pietra.

Il giovane si chinò tra la vegetazione, in cerca della sua preda: un gatto candido, dalla coda color miele, con una macchia scura sopra uno dei due grandi occhi cerulei.

«Ti ho trovato!» proruppe, alla vista della bestiola che s'affrettò a schizzare via, agile e silenziosa, su per gli scalini. Il giovane lo seguì a ruota, sfilandosi la giacca della divisa e annodandola in vita, e ravviandosi i capelli biondi che, durante la guerra, s'era abituato a portare rasati. Faceva caldo, nel Sol Levante, molto più che in Virginia.

Nonostante la stanchezza e il percorso accidentato, riuscì a coprire in pochi passi la distanza che lo separava dalla cima della gradinata e, quando si rese conto d'aver perso nuovamente di vista la sua insolita guida, il suo sguardo venne attratto dal portale di pietra. Passò le lunghe dita sottili sopra la ruvida supeficie del torii, sul quale erano incise scritte che non sapeva decifrare, e varcò poi la soglia del tempio, lasciando alle spalle le cose profane e avventurandosi in quel luogo in rovina, imbevuto d'un'atmosfera sacrale e pacifica. Ben poco era rimasto dell'altare, e alcune tegole erano cadute; un salice cresceva tanto vicino al tempio che le radici vi erano penetrate all'interno, arrivando a insidiarsi tra le crepe del pavimento. Ogni cosa sembrava immersa in un tempo fuor dal tempo, in un universo divino, quieto, irreale, dominato da spiriti addormentati ai piedi di statue guardiane.

Una di esse, posta non lontano dall'uscio del tempio e stretta tra la morsa di prepotenti rampicanti, raffigurava il mostro più strano che il giovane avesse mai visto.

Sgranò gli occhi, avvicinandovisi e osservandola con aria curiosa: era forse non troppo dissimile da un gargoyle, sebbene di gran lunga più sgradevole, forse per via dei suoi grandi occhi sofferenti o della spaventosa mazza ferrata che stringeva a mò di scettro tra grandi mani ossute; un'agghiacciante dentatura faceva bella mostra di sé tra le fauci, due alte corna si curvavano dalla fronte verso l'alto.

Il giovane reclinò il capo da un lato. Qualsiasi cosa rappresentasse, se era là per proteggere la pace di quel luogo, certamente quell'aspetto non avrebbe potuto che rendere molto più semplice l'adempimento di quel compito.

Sotto il dolce fruscio d'un vento profumato di fiori, udì un miagolio alle sue spalle.

«Ecco dov'eri» sorrise, individuando il gatto ai piedi del salice e facendo per lanciarsi nuovamente all'inseguimento, quando una voce sorse dal nulla, pietrificandolo a metà d'un passo: una voce che era uno scampanellio e l'ululato del vento, lacrime di pioggia e il rombo d'una frana.

«Non andartene... ancora»

Si guardò intorno, in cerca della fonte di quelle parole quasi supplichevoli, ma il vento fu tutto ciò che percepì.

«C'è qualcuno?» mormorò.

E la risposta non si fece attendere.

«Soltanto tu e io, come sempre»

Benchè gli occhi del giovane guizzassero rapidi, non colsero nulla che potesse somigliare a un essere umano e, se anche vi fossero stati degli esseri umani nelle vicinanze, certo era che mai la loro voce avrebbe potuto giungere alle sue orecchie tanto nitida e chiara.

Però, nonostante i brividi che correvano lungo la sua spina dorsale, non fuggì. C'era qualcosa, in quella voce, che lo convinse a restare. Qualcosa di incredibilmente, sbalorditivamente rassicurante.

«Chi sei?» domandò ancora.

Passò un istante, questa volta, prima che la voce rispondesse.

«Sai cosa sono gli oni

Scosse il capo, certo che, chiunque fosse il suo interlocutore, potesse vederlo.

«Voltati» disse la voce. E il giovane obbedì.

Alle sue spalle, però non trovò nessuno a osservarlo, eccetto la grande statua dagli occhi colmi d'angoscia. E, per quanto continuasse ad aguzzare la vista, non notò nulla muoversi tra la vegetazione, né traccia di compagnia.

«Io vedo soltanto una statua» dichiarò. Non comprese se fosse una risata, quella che seguì, o soltanto il soffio del vento.

«Guarda oltre la pietra» disse la voce «Guarda ciò che rappresenta»

Si fece nuovamente avanti, gli occhi grigioazzurri ridotti a due fessure, studiando la mostruosa figura appollaiata ai margini della zona sacra come un fedele mastino.

«Un... oni

«Questo è ciò che sono. Qui è dove vivo, e dove ti ho aspettato»

«Io non ti conosco» obiettò il giovane. Osservava la statua come se si aspettasse di vederne muovere la bocca, ma quella restava immobile, ferma, nella stessa posizione nella quale la mano dell'artista l'aveva cristallizzata. D'un tratto, però, si ritrovò a dubitare delle sue stesse parole.

Vi era, per quanto fosse strano riconoscerlo, qualcosa di familiare in quel luogo, così lontano e differente da quelli nei quali era vissuto. «Ci siamo già incontrati?» domandò allora.

«Sì... e no» fu la risposta. Si morse un labbro.

Gli era stato insegnato a diffidare, a restare all'erta, a non lasciarsi corrompere da ciò che non sapeva per certo essere vantaggioso per se stesso, ma ora stava parlando con qualcuno che non poteva vedere, realmente convinto si trattasse d'uno spirito posto a guardia d'un rudere cadente.

Aveva davvero vinto una guerra perchè ci si potesse far beffe di lui in quel modo, perchè potesse dar credito alle ombre d'un popolo sconfitto?

Tuttavia, non riusciva a non vederla in un altro modo: aveva davvero vinto una guerra soltanto per divenire incapace di credere in niente che non fossero i bossoli carichi nella sua arma?

«Qual è il tuo nome? Ce l'hai, almeno, un nome?»

Il frullo d'uno stormo in volo precedette un'unica parola.

«Ymir»

Ripetè quel nome in un soffio, lo chiamò una, due volte, soppesando il gusto che aveva mentre fluiva sulla sua lingua e defluiva dalle labbra.

«Io non so il tuo nome, però» replicò la voce.

Il giovane scrutò il cielo oltre la collina, alle spalle del tempio, dove l'ovest si tingeva dei colori caldi del tramonto. Era tardi, e doveva tornare in città per unirsi al resto del reggimento.

Ma desiderava lasciare qualcosa di sé, in quel luogo in cui sentiva d'aver trovato tanto.

Una promessa, forse.

«Te lo dirò domani. Domani tornerò qui, te lo prometto» asserì. Tese un mignolo, come aveva visto fare alla gente del posto: era un gesto che gli piaceva, ed emularlo gli donò un senso di tepore e di sicurezza, sicurezza in se stesso e nella propria volontà.

«Tornerai?»

«Parola d'onore» scandì il giovane, esibendosi in un impacciato saluto militare prima e in un inchino poi, secondo l'usanza nipponica, prima di svanire oltre il torii e poi giù per le scale, là dove la vegetazione diveniva via via sempre più rada e meno selvaggia.

L'oni rimase solo, ancora una volta, in attesa.

«Torna davvero, questa volta»

 

 

 

Giappone, 2010

 

Era un'editor, e amava il suo lavoro: il suo dedicarsi con passione alla lettura le veniva finalmente retribuito e il tempo per dedicarsi a se stessa non le mancava mai.

Finalmente, quando le sue tasche glielo consentivano, poteva concedersi la libertà di lasciare la sua casa in Germania e di vedere quel mondo che, fin da bambina, aveva bramato e sognato: nella borsa, un libro da correggere, spray al peperoncino e una macchina fotografica, ed era fatta.

Non aveva una famiglia di cui occuparsi, amici, qualcuno ad attenderla a casa; non aveva alcuna fretta, né vincoli, e questo, a volte, era un vantaggio.

Gettò nell'acqua verdastra del lago l'ultimo boccone del suo anpan, sporgendosi dal parapetto del ponticello per vedere la moltitudine di pesci dalla livrea iridescente che sciamò verso di esso.

Vi era pace, in quel luogo. Là in Giappone, la differenza tra la campagna e la città era abissale, perfino maggiore di quella che c'era tra i sereni paesaggi campestri del Tirolo e la sua Monaco.

Si guardò indietro, dalla direzione dov'era venuta, là dove s'intravedeva la struttura termale dove alloggiava, immersa nel suggestivo paesaggio collinare e verdeggiante ma non distante dalla città; e guardò poi avanti a sé, versò là dove, alla sua destra, il ponte terminava in un sentiero poco battuto, sepolto tra i rovi e incolti cespugli colmi di fiori rosa, viola e gialli. Oltre di essi, la vegetazione s'infittiva popolandosi di alberi e piante di cui la maggior parte le era ignota. Lanciò un'ultimo sguardo alle proprie spalle, prima d'incamminarsi oltre il ponte. Il sole sarebbe presto tramontato, ma aveva ancora il tempo per una passeggiata, prima che il buio rendesse quella natura selvaggia un ostacolo per il suo senso dell'orientamento.

Le sembrava di trovarsi in una sorta di eden, dove la terra e i suoi frutti facevano da padrone e tutto ciò che i suoi passi potevano fare era assecondarla, facendosi largo tra rovi, cespugli, rami troppo bassi, scortata da sporadiche apparizioni di curiosi insetti e timidi uccelli variopinti e, più in là, dallo sciacquio di un corso d'acqua.

Più saliva, e più, stranamente, sentiva le gambe farlesi leggere.

Quando giunse in cima, ai piedi d'una ripida scalinata di pietra che culminava là dove sorgeva un vecchio tempio ormai in disuso, si lasciò sfuggire un sospiro di stupore.

Zigzagò tra statue minacciose e cortine di salici che si torcevano inchinandosi al passaggio del visitatore, e un sussulto la colse quando superò il torii, la porta sacra che sanciva l'ingresso in un mondo popolato da spiriti e dei.

Scavalcò le radici d'un salice che avevano finito per spaccare la pavimentazione, scavalcò la buffa, muschiosa statua d'un oni e i cocci delle tegole cadute, per giungere di fronte all'altare.

Una folata di vento penetrò alle sue spalle, scuotendole la chioma dorata e solleticandole la nuca.

E portando con sé una voce.

«Non credevo mi sarebbe stata offerta un'altra occasione»

Sobbalzò, voltandosi di scatto alla ricerca di chiunque avesse parlato, ma non vide nulla.

Doveva essere stato il vento, si disse, in combutta con la sua fervida fantasia; non era stata poi molto dissimile dal vento, quella voce. Il fatto che essa avesse parlato in tedesco, poi, rendeva tutto ancor più surreale. Doveva averlo immaginato.

Questo, almeno, fu ciò che cercò di pensare fino a quando il vento non parlò ancora.

«Sono felice di rivederti»

Uscì dal tempio a passi svelti e scrutò la radura intorno a sé, sbirciando oltre gli alberi fin dove la vista le permetteva.

«C'è qualcuno?» domandò.

«Soltanto tu e io» rispose la voce. Istintivamente, fece correre una mano alla borsa, là dove nascondeva lo spray al peperoncino.

«Chi sei?» chiese ancora, all'erta.

«Sai cosa sono gli oni, ragazza?»

S'affrettò a mettere alcuni passi tra sé e la statua, come se potesse sbucarne qualcuno da dietro e aggredirla, ma nulla si mosse, se non le foglie cullate dal vento.

«L'ho letto su internet» borbottò. Serrò la presa sul nebulizzatore.

«Allora sai cosa sono» sostenne la voce. Ogni volta che questa parlava, la ragazza si sforzava di comprendere da dove provenisse, cosa ne fosse la fonte; ma, benchè vantasse un ottimo orecchio, non riusciva a individuarla da nessuna parte: doveva trattarsi di un buon impianto acustico, con casse distribuite tutt'intorno alla radura.

«Una trovata per i turisti, magari» bofonchiò, tentando di placare lo spavento. Ciò nonostante, il suo cuore non accennava a decelerare e, sebbene avrebbe potuto fuggire, non l'aveva ancora fatto e ancora non ne era in grado. Era come se qualcosa l'avesse attratta là, e che fosse determinata a non lasciarla andare, insinuando in lei il desiderio di restare. «E poi ti ho chiesto chi sei, non cosa sei» aggiunse.

«Nessuno viene qui da molti anni, ormai» affermò la voce. Poi si fermò, e la ragazza attese per qualche istante prima di ricevere risposta. «È bello che tu me l'abbia chiesto, è la prima volta che accade» disse, con una nota di serena malinconia. «Il mio nome è Ymir. E il tuo qual è?»

«Ymir...» sussurrò. C'era qualcosa di dolce e di familiare in quella strana parola. «Perchè non lasci che ti veda?»

Aveva quasi dimenticato d'avere la mano dentro la borsa; lo spray era ormai caduto nuovamente sul fondo.

«È raro che gli umani possano vedermi, e forse è un bene. Il mio aspetto non è certamente migliore del modo in cui mi rappresentano» si giustificò, ma la ragazza scosse la testa.

«Magari... Magari, se ti vedessi, capirei perchè ho... questa sensazione. Sai, come se ti conoscessi. Come se fossi già stata qui»

«Tu sei già stata qui» confermò. «In molte vite. E tutte le volte ho commesso l'errore di lasciarti andar via»

Si accasciò contro la statua e si lasciò scivolare ai suoi piedi, le ginocchia al petto e la borsa accanto a sé, il capo contro la fredda pietra.

«Vorresti che rimanessi qui?» domandò.

«Vorrei venire via con te»

Trasalì. Un piccolo sorriso era sbocciato sul suo volto, estendendosi anche ai suoi occhi grigioazzurri bagnati dal sole del tardo pomeriggio.

«Puoi farlo?»

«Non è così semplice» sospirò Ymir.

«Hai paura?» azzardò.

«Molta. Potrei perderti ancora una volta»

«Ma mi hai già persa tante volte, non è così? Però, almeno sapresti d'aver tentato, no?»

«Tu credi nel destino?»

La ragazza si lasciò sfuggire una risata.

«No» mentì vistosamente, scuotendo con teatralità il capo. «Ma credo negli oni, ora»

«Se rubassi il corpo di un essere umano, cosa penseresti di me?»

«Puoi farlo?» ripetè. Era una domanda difficile, quella, e lei non era in grado di rispondere. Era curiosa, fino all'inverosimile, quel tanto dall'essere incapace di predicare il valore dell'umanità, in quel momento.

«Potrei. Ma sarebbe il destino a scegliere. Potrebbe essere il corpo d'un vecchio o d'un neonato, in un angolo del mondo tanto lontano da te da rendermi impossibile trovarti; e quel corpo sarebbe per me una prigione fino quando esso non si deteriorerà. Ma questo luogo è per me come il tuo corpo è per te: custodisce il mio spirito, e non potrei uscirne senza un nuovo corpo» chiosò Ymir.

«Il destino mi ha portata da te più volte, perchè pensi che non lo farebbe ancora?» sorrise la ragazza. Una pioggia di foglie abbandonò il salice sopra di lei e volteggiò contro l'imbrunire fino a posarsi tra i suoi capelli, sul suo grembo, sulle sue gambe tese tra erba cresciuta tra le crepe del lastricato.

«Un'anima passerebbe a nuova vita, a causa mia»

«Io voglio che tu venga via con me» comandò, dolce e perentoria. «Sai, Ymir...» proseguì. «Anch'io sono stata come te: per anni ho guardato il mondo da lontano, senza mai trovare il coraggio di toccarlo con le mie mani, intrappolata tra quattro mura, o forse semplicemente dentro la mia stessa testa. Ora... voglio liberare anche te» dichiarò.

E questo, il suo desiderio, fu sufficiente.

«Davvero? Questo è ciò che vuoi?»

Annuì.

«Ancora mi sembra tutto assurdo, però... questo è ciò che voglio. Tu lo vuoi?»

«Voglio qualsiasi cosa mi permetta di restare con te»

«Anche se questo significa rischiare?»

«Rischierò» assicurò Ymir.

La radura s'era popolata di lucciole danzanti, e il vento aveva cessato di soffiare. Ora, la sua voce le giungeva limpida, come la musica d'un flauto.

La ragazza s'alzò in piedi.

«Ora devo andare. Non voglio perdermi sulla strada del ritorno. Ma... domani tornerò qui, te lo prometto. Verrò qui fin dal mattino» garantì. «Ti parlerò di me, e voglio che tu mi parli di te»

Si piegò in un lento inchino, proprio sotto il torii.

«Prima che tu te ne vada.... Posso sapere il tuo nome?»

La ragazza si voltò.

«Historia. Mi chiamo Historia» scandì, prima di scomparire saltellando giù per gli scalini.

L'oni la guardò fino a che non sparì dalla sua vista, e rincorse il suo spirito fino a che la ragazza non fu lontana.

«Questa volta non ti lascerò andar via... Historia»

 

Non riuscì neppure a formulare un singolo pensiero fino a quando non fu dall'altra parte del ponte, sul sentiero verso il ryokan.

Guardò il bosco alle proprie spalle, sepolto dall'oscurità che ormai rivestiva ogni cosa, e non riuscì a non pensare che, forse, avrebbe fatto bene a restare là per la notte, ai piedi di quell'altare, incurante del trascorrere del tempo. Cosa mai poteva accaderle?

Non s'era mai sentita tanto al sicuro come in quel luogo, cullata dallo stormire del vento tra le foglie e da quella voce che quasi vi si confondeva, una voce che sembrava affiorare con dolce prepotenza dai suoi ricordi più remoti, ricordi perduti come un tesoro sul fondo del mare. Era tardi, però, e difficilmente sarebbe stata capace di ritrovare la strada.

Ma sarebbe tornata l'indomani. Poco importava quanto quella situazione avesse dell'incredibile, desiderava realmente tornare al tempio abbandonato e ascoltare ancora quella voce, chiamare ancora quel nome dal suono leggero, addormentarsi contro la nuda pietra d'una statua come se nulla di spaventoso o crudele potesse toccarla, finchè fosse stata là.

Mancava ormai poco al ryokan, quando udì il suono dei propri passi sul sottobosco confondersi con quelli di qualcun altro. Si fermò, cercando di capire da dove provenissero, ma non fu abbastanza rapida: percepì un braccio circondarla con violenza e qualcosa di freddo e affilato sfiorarle la gola.

Una voce dura, fredda, le intimò qualcosa in giapponese, ma non riuscì a comprendere una sola parola.

«Ti darò qualunque cosa. Ti prego, lasciami andare» supplicò, prima in tedesco e poi in inglese, sperando che il suo aggressore riuscisse a capire. Lentamente, approfittando dell'oscurità e sperando di non esser vista, fece scivolare una mano nella borsa e ne estrasse il nebulizzatore.

Lo sentì sbraitare qualcosa e poi finì scaraventata al suolo, il volto premuto contro il terriccio. Quando si voltò, in tempo per vedere l'altro strapparle via la borsa, notò che nascondeva il volto sotto il cappuccio d'una felpa.

Era una donna.

Era alta, e muscolosa, ma la lieve curva dei seni sotto la felpa scura era inequivocabile. Prontamente, si gettò su di lei, facendosi forte della propria arma e puntandola al suo viso, troppo rapida perchè l'altra potesse accorgersene in tempo.

Il coltello e la borsa le caddero dalle mani, che corsero subito al volto.

Historia si precipitò sulla sua borsa, pronta a fuggire, ma l'istante che impiegò per rialzarsi fu fatale: percepì una presa alle sue spalle e, quando ricadde a terra, trovò due minacciosi, arrossati occhi del colore dell'ambra intenti a infilzare i suoi.

Il volto della donna era affilato, picchiettato d'una notevole quantità di lentiggini; forse una mezzosangue, visto che ben poco, dei suoi tratti, era orientaleggiante: un facile identikit da consegnare alla polizia, si disse, affibbiando un morso al braccio della donna, che imprecò e latrò dal dolore ma non la lasciò andare.

Chiamò aiuto, ma nessuno arrivò.

Non prima che la donna, d'un tratto, spalancasse gli occhi, come se qualcosa di terribile fosse comparso di fronte a lei; lasciò la presa, atterrando al suolo in preda a spasmodiche convulsioni.

Era uno spettacolo raccapricciante.

Historia si rialzò, barcollando un po' prima di riuscire a trovare stabilità sui suoi piedi, e poi corse via, più rapida che potè, verso le terme.

Poco importava che avesse dimenticato la borsa: non sarebbe tornata indietro.

 

Il mattino seguente, Historia si svegliò tardi.

Aveva fatto le ore piccole, tra le pratiche per la denuncia e i pensieri che continuavano ad affollarle la mente. Si rigirò nel suo futon, evitando la luce che filtrava attraverso le pareti di carta e le colpiva gli occhi ancora assonnati.

Per qualche momento, dall'istante in cui aprì le palpebre, si chiese se tutto quanto ciò ch'era accaduto fosse stato soltanto un sogno, dal tempio nella radura fino alla rapina. Poi, però, notò la mancanza della borsa là dove era solita lasciarla, e realizzò la verità: aveva perso il suo cellulare, il manoscritto che aveva portato con sé, il suo lettore mp3 e qualche yen.

Ma, si ritrovò a pensare, la verità non le risultava affatto spiacevole.

Lasciò il proprio giaciglio e si fece servire un'abbondante colazione a base di riso, pesce, alghe e zuppa di miso, e si avvalse della gentilezza dei suoi ospiti per farsi preparare un lauto bento da portare con sé; indossò poi lo yukata che aveva acquistato al suo arrivo e si alzò i capelli, e si concesse poi un istante di autocompiacimento, prima di sfrecciare fuori dal ryokan.

Il bosco non le sortiva alcuna paura, alla luce del mattino che filtrava tra i rami nodosi e le illuminava il cammino. In pochi minuti raggiunse il punto in cui era stata aggredita.

Là, trovò l'ultima cosa che si sarebbe aspettata di trovarvi.

Raccolse la borsa e spolverò via la terra da essa, prima d'aprirla: tutto ciò che vi aveva lasciato dentro era ancora là, al suo posto. Benchè ne fosse felicemente sorpresa, non riuscì a non domandarsi cosa fosse accaduto, quando lei era corsa via.

Passò oltre, fino al ponte e poi dall'altro capo di esso, e sul sentiero nascosto, che conduceva al tempio.

Quando vi giunse dinanzi, s'accertò che tutto, nella sua figura composta, fosse impeccabile, prima di cominciare a salire lungo la scalinata accidentata, osservando con attenzione i propri passi per non rischiare che le geta le facessero perdere l'equilibrio.

«Sei bellissima»

Alzò la testa di scatto, quando quelle parole le solleticarono le orecchie.

Davanti a lei, sotto il torii, il volto disteso in un sorriso beato, le braccia conserte e un fianco contro il pilastro, c'era una donna.

Una donna dalle iridi d'ambra, con il volto costellato di lentiggini.

Sgranò gli occhi e si portò le mani alla bocca. Per poco non cadde all'indietro.

Si voltò e fece per fuggire, ma si fermò dopo pochi gradini. Nessuno la stava inseguendo.

La donna era ancora là, in attesa.

Ripensò a quanto era accaduto la sera precedente, al rischio che aveva corso, a quel che avrebbe potuto accaderle, come pegno per aver visto quel volto abbastanza vicino da poterne fornire una descrizione dettagliata alla polizia; ripensò a com'era scappata, lasciando la donna in preda ad atroci spasmi, riversa a terra, sola con le sue grida agghiaccianti e con la refurtiva, disperata come se il suo corpo la stesse... abbandonando.

E capì.

«Sei veramente tu?» domandò, in un soffio.

L'altra annuì.

Lentamente, assaporando fino in fondo quel momento, Ymir mosse il primo passo oltre la soglia dell'area consacrata, varcando il confine imposto dal torii.

E fu libera.

 

 

 

Germania, 2012

 

Non c'era nulla, in quella vita, che non amasse: amava il sapore del cibo sulla lingua e la sensazione dello stomaco pieno; amava mettere a dura prova quel fisico del quale, tutto sommato, era felice; amava gli odori che la circondavano, da quello del pane appena sfornato fino a quello dell'olio per motori che aleggiava nella piccola officina in cui aveva imparato in fretta a lavorare.

Ma sopra tutto, amava lei, la persona alla quale il destino aveva inconfutabilmente voluto unirla.

Amava il modo in cui i suoi occhi la guardavano, scrutando oltre la semplice carne di quel corpo scelto a sorte tra miliardi e che lei aveva saputo rendere proprio, amandolo e modellandolo e plasmandolo in modo che fosse davvero il corpo di Ymir, quello con il quale lei poteva amarla a sua volta.

Amava la sua voce impastata al mattino, e il riverbero dell'alba sul suo sorriso dormiente.

Amava la sensazione di poter finalmente toccarla, baciarla, ed essere toccata e baciata a sua volta; l'amava a tal punto che non trascorreva giorno senza che si domandasse cosa l'avesse sempre trattenuta dal lasciare la sua prigione.

Ma aveva imparato che, quando il gioco vale la candela, è sempre, sempre bene correre rischi, per quanto possa sembrare sciocco o insensato o impossibile.

Perchè la sua stessa esistenza, in fondo, poteva sembrare impossibile.

«Buongiorno, dolcezza!» trillò una voce, prima che due piccole mani l'artigliassero per le caviglie, trascinandola fuori dal varco sotto il fuoristrada a cui stava lavorando.

«Non ti ho sentita arrivare» mormorò, tirandosi a sedere sulla tavola a rotelle.

Historia si chinò su di lei, posando piccoli baci su ogni punto del suo viso che non fosse sporco di grasso. Si sfilò i guanti unti e l'attrasse sul suo grembo, incurante dello sporco sulla maglietta e sui jeans.

«Ti ho portato qualcosa da mettere sotto i denti» pigolò Historia, agitando sotto il suo naso un sacchetto bianco con una fantasia a fragole rosse.

«Non era necessario, sarò a casa per pranzo»

S'era scoperta ad amare il proprio sorriso: era qualcosa che fioriva regolarmente sulle sue labbra pur senza alcun esercizio, senza sforzi o allenamento. Non era come cucinare o riparare un'auto o annodare una cravatta.

Era più come fare l'amore.

«In verità la mia mancanza era tanto insopportabile da costringerti a venire a trovarmi, non è così?» ghignò, ma Historia scosse il capo.

«Sono di strada, sto andando a fare la spesa» affermò, per poi posare le proprie labbra screpolate su quelle di Ymir, e schiuderle in un bacio. «Però sì, mi mancavi» capitolò, la propria bocca ancora abbastanza vicina da sfiorare quella dell'altra.

«Devi andarci per forza, a fare la spesa?»

Historia annuì.

«E tu devi lavorare» tagliò corto. Fece per rialzarsi, quando Ymir la baciò ancora.

Si domandò se avrebbe mai trovato meno straziante, con il passar del tempo, l'idea di doversi separare da lei anche solo per un secondo. Ma forse, si ripeteva, l'aveva attesa abbastanza da giustificare ogni folle, rovente attaccamento nei suoi confronti.

A malincuore, la lasciò andare.

Historia lasciò il pacchetto sul tavolo degli attrezzi e si diresse verso l'uscio.

«Buon lavoro» cinguettò. Ymir fece per coricarsi nuovamente sotto il fuoristrada, un'aria vagamente inebetita stampata sul volto, quando un lieve “Pssst” catturò nuovamente la sua attenzione: Historia era di nuovo sulla soglia.

«Quello sporco ti dona» confessò, prima di schizzare via, per attraversare la strada.

Ymir non fece in tempo a rimettersi al lavoro, che un assordante fragore le inondò i timpani.

Perse un battito.

 

«Saputo qualcosa di Armin?»

«Non te l'ho detto? Ho ricevuto una sua e-mail stamattina»

«Allora?»

Il ragazzo seduto sul sedile del passeggero sospirò, andando a strofinarsi la nuca con fare pensoso.

«Pare che lui e Annie se la stiano spassando, in Australia. Cosa ci sarà poi di tanto speciale, in Australia? I canguri?»

Il giovane alla guida ridacchiò a quelle parole, senza però distogliere lo sguardo dalla strada.

«...E le infinite occasioni lavorative, l'oro, le splendide barriere coralline, i villaggi aborigeni, il Sydney Opera House, i parchi nazionali, le spiagge... e anche i canguri»

Rimasero in silenzio per un paio di minuti, poi il conducente lanciò all'altro uno sguardo fugace, sfiorandolo appena con la coda dell'occhio.

«Di' un po', Jean...» sorrise «Ti piacerebbe andare in Australia?»

Ma la risposta non ebbe il tempo di arrivare.

Una decappottabile rossa fiammante veniva verso di loro, contromano, a velocità folle. Come avevano fatto a non notarla prima?

Era troppo tardi per domandarselo.

Più rapido che potè, Marco sterzò.

Forse fu una défaillance, forse semplicemente la paura, ma lo fece nella direzione sbagliata: invece di uscire fuori strada, nell'erba alta, invase la carreggiata accanto, evitando la decappottabile che continuò la sua corsa indisturbata, continuando a seminare il panico tra gli automobilisti.

Non notò la giovane donna che, proprio in quel momento, stava attraversando la strada, e tutto avvenne troppo velocemente perchè quella potesse allontanarsi dalla traiettoria dell'auto ormai fuori controllo.

Rumori di clacson impazziti, la voce di Jean che chiamava disperatamente il suo nome e il grido straziante di una donna furono le ultime cose che percepì, prima che il suo mondo diventasse orribilmente silenzioso.

 

Avevano cercato di fermarlo, di convincerlo a sedersi e a lasciarsi medicare la fronte, ma Jean non aveva voluto sentir ragioni. Aveva sbraitato contro tutto il personale medico e spintonato chiunque avesse trovato sul suo cammino, per raggiungerlo prima che entrasse in sala operatoria.

Rincorse la barella al fianco di un'équipe di medici e infermieri in camice, per nulla curandosi delle loro preghiere di restare indietro.

Il volto di Marco, in parte coperto da una mascherina, era sfigurato, esangue, coperto di rivoli e macchie scarlatte.

Due infermieri lo trattennero per le braccia, quando la porta della sala operatoria si chiuse dietro il suo compagno in fin di vita, e Jean era troppo, troppo debole per reagire. Facendosi strada a passi zoppicanti percorse a ritroso il corridoio.

Fu allora che la vide, seduta su una panca, la testa china tra le mani e i gomiti sulle ginocchia: era la stessa donna che era accorsa in un lampo un attimo dopo l'incidente, che s'era stretta a quel piccolo corpo esanime come per non lasciarlo andare, e ch'era stata letteralmente trascinata in ambulanza sotto shock, scalciando e mordendo ogni malcapitato a tiro.

Non disse nulla. Si limitò a sedersi accanto a lei con un profondo sospiro stanco, prima reclinando il capo all'indietro, poi curvandosi in avanti. Accavallò prima una gamba, poi l'altra; emise un grugnito soffocato; tamburellò coi piedi sul pavimento. Non riusciva a star fermo, quand'era nervoso.

D'un tratto, la donna alzò il capo, rivelando un paio d'occhi arrossati e un volto affilato, coperto di lentiggini e molle di lacrime.

«Dacci un taglio, ragazzo» ringhiò, con voce roca.

Jean si strinse nelle spalle. In quel momento, sentiva di non essere capace d'aprir bocca senza vomitare insulti, o semplicemente vomitare, così preferì tacere, per il bene di entrambi.

Dal canto suo, Ymir gridava dentro. Gridava dal fondo di quel corpo troppo debole perchè potesse dar voce al dolore d'un mostro, di un demone, di un dio.

Nel momento in cui aveva percepito lo spirito di Historia abbandonare il suo corpo, ne aveva perso le tracce: poteva essere finito in qualsiasi posto del globo, e lei non sarebbe mai riuscita a trovarlo. Forse, si ritrovò a dire a se stessa, il destino aveva semplicemente voluto giocarle un brutto tiro, e burlarsi di lei, di loro, rendendole parte d'un'utopia destinata a non durare.

Aveva sempre sperato, e forse anche dato per scontato, di andarsene per prima. Mai, mai s'era sentita infelice, in quei due anni trascorsi lontana da quella che era stata, per secoli, la sua gabbia. E prima di essa, non ricordava nulla. Probabilmente ci era nata, là dentro.

E non aveva mai davvero creduto d'essere davvero al mondo fino a che non aveva incontrato la luce che aveva scandito le tappe della sua altrimenti tediosa, vuota esistenza: la principessa, il guerriero, il mercante, la miko, la geisha, il giramondo, il soldato. L'editor.

Ancora una volta, l'aveva persa.

Ancora una volta, non le era corsa dietro.

Per qualche motivo, i suoi occhi s'impigliarono sul ragazzo seduto accanto a lei, scosso da singulti silenziosi, mente i suoi sensi da oni erano aggrappati allo spirito del ragazzo che avevano condotto in sala operatoria: per questo, quando esso lasciò la carne che aveva abitato, lei lo seppe prima che la porta si aprisse e il giovane al suo fianco schizzasse in piedi, mentre il medico, il camice sporco di sangue e la fronte imperlata di sudore, scuotesse mestamente il capo.

«Come sta?» mormorò Jean, andandogli incontro a passi incerti, incapace di accettare l'inequivocabile responso dell'uomo, che gli passò accanto, come incurante, e lo superò. Il ragazzo d'accasciò nuovamente sulla panca, le ginocchia al petto e le braccia a circondarle, cercando di non tremare.

«Perchè?» domandò soltanto, come se s'aspettasse sul serio una risposta. Se c'era, però, neppure Ymir la conosceva.

Improvvisamente, la donna guizzò in piedi, afferrandolo per la collottola e costringendolo ad alzarsi.

«Ma che cazzo...!»

«Pulisciti quel sangue dalla faccia, ragazzo. E seguimi» gl'intimò, facendosi strada tra camici e fasciature fino alle porte dell'ospedale.

«Ma che razza di scherzo è questo? Che significa?» brontolava Jean, pur seguendola a ruota. Erano già fuori dai cancelli, quando seguì il suo suggerimento, estraendo un fazzoletto dalla tasca della giacca, bagnandolo di saliva e cercando di eliminare alla meglio il sangue rappreso.

«Quel ragazzo...» disse Ymir. «Ti amava molto, sai?»

Lo guidava tra le vie fermandosi ogni otto, nove passi, come un seguguio nel bel mezzo della caccia, quasi fiutasse l'aria.

Jean trasalì.

«Sei strana. Io me ne torno indietro» abbaiò, ma Ymir lo teneva stretto per il lembo d'una manica.

«Manca poco»

Avevano superato appena tre isolati, quando Ymir si fermò e, alle sue spalle, Jean fece altrettanto.

Erano nel parcheggio d'un supermercato.

C'era un viavai di automobili e persone, carrelli e buste colmi d'acquisti.

«Che ci facciamo, qua? Devo tornare da Mar...»

«Il tuo Marco è »

Jean seguì lo sguardo di Ymir.

«Non riusciva proprio a starti lontano, eh?» sorrise la donna.

A un passo da loro, impegnata a caricare la spesa dentro il bagagliaio della sua vettura, c'era una donna sui trent'anni dai lunghi capelli corvini. Fasciato dall'abito color lavanda, sotto il suo seno, si poteva facilmente intuire un vistoso rigonfiamento.

«Fanculo» borbottò Jean, rigando dritto verso l'ospedale. Ma aveva fatto appena quindici passi, quando si fermò e, dopo qualche istante, si voltò.

Ymir era ancora là, un doloroso sorriso impresso sul volto.

Un attimo dopo, percepì un tocco sulla sua spalla.

«Perdona la mia scortesia, potresti darmi una mano a tirar su questi blister? Se non è di troppo disturbo, certo»

Di fronte a lui, forse una spanna più in basso della sua faccia, c'erano un sorriso vagamente, spaventosamente familiare, e un paio di grandi, languidi occhi scuri. Per un istante, restò interdetto. Spostò nuovamente lo sguardo, cercando quello della strana donna che l'aveva condotto là, ma era scomparsa.

«Se non ti va, chiederò a qualcun altro, non preoccuparti. È che io...»

La donna accennò al ventre gonfio, stringendosi nelle spalle. Jean scosse la testa, cercando di scacciare ogni pensiero. Che male c'era, ad aiutare qualcuno? Non c'era nulla di strano.

«Si figuri, l'aiuterò molto volentieri» mormorò, sollevando due blister e caricandoli sul fondo del bagagliaio.

«Sei molto gentile. Come ti chiami, ragazzo?»

«Jean» rispose. «Lieto di conoscerla, signora»

«Il piacere è tutto mio» replicò la donna. Quando ebbe finito, Jean si sfregò le mani, soddisfatto.

«Ecco fatto. Ha bisogno di qualcos'altro?» domandò.

«Oh, no, direi di no. Grazie, infinite, Jean»

«Allora... Arrivederci» si congedò. Ma Jean aveva messo non più di qualche metro tra sé e la donna, quando la sentì nuovamente chiamare il suo nome.

«Mi chiedevo... se ti dispiacerebbe darmi una mano, in questi giorni. Io e mio marito abbiamo appena traslocato, la casa è piena di scatoloni e lui è fuori città per lavoro, così... Potresti racimolare qualche soldo, magari»

Jean si lasciò sfuggire un sorriso.

 

A pochi passi ma abbastanza lontana perchè Jean non potesse vederla, Ymir fece lo stesso.

 

 

 

Germania, 2032

 

Bip. Bip. Bip.

Se un oni imprigionato nel corpo di un essere umano incontra la morte di propria volontà, egli morirà insieme al corpo che lo contiene.

Questo, Ymir lo sapeva perfettamente.

Bip. Bip. Bip.

Ed era per questo motivo che, quando Historia era morta, non aveva fatto del suo meglio per liberarsi di quel corpo e rincorrerla, ovunque ella fosse.

Bip. Bip. Bip.

Aveva atteso per anni di essere liberata di nuovo, e mentre i suoi occhi d'ambra danzavano pigri sul soffitto candido e il ritmico, fastidioso suono della diavoleria che lampeggiava alla sua destra era l'unico che sue orecchie captavano, lo sentì: stava per essere liberata di nuovo.

Bip. Bip. Bip.

«Neanche stavolta ti lascerò andar via, Historia»

Biiii...

 

Jean si svegliò di colpo.

Se aveva avuto un incubo, non ne ricordava nulla.

Ogni cosa era avvolta in un silenzio quasi irreale, religioso, e la rosea luce dell'alba penetrava tra le tende proiettando una lunga linea bianca sul pavimento e sulle coperte.

Accanto a lui, la testa posata sul suo torace e un sorriso estatico sul volto picchiettato di lentiggini, c'era la persona che più avesse amato in tutta la sua vita.

Sua moglie.

Benchè vi fossero vent'anni di differenza, fra loro, nessuno aveva mai trovato strano che Marceline si fosse innamorata di lui: l'aveva stretta tra le braccia sin dai primi momenti della sua vita, l'aveva vista muovere i suoi primi passi, l'aveva aiutata a fare i compiti, viziata, consolata, adorata. Era stato un fratello e un amico, prima d'un fidanzato.

Qualche volta, quando Jean la guardava, la sua mente ritornava a quel giorno. A Marco. All'incidente. Alla strana donna che, senza alcuna spiegazione, l'aveva condotto da lei per poi svanire nel nulla.

Chi fosse realmente e come fosse a conoscenza di cose oscure all'umanità, questo non aveva mai cessato di domandarselo. Non c'era stato giorno, sin dal momento in cui, per la prima volta, aveva posato gli occhi sul suo amore, che, in cuor suo, non l'aveva ringraziata.

Lentamente, la donna aprì gli occhi e chinò il capo da un lato, curiosa.

«Hai un'aria pensierosa» furono le sue prime parole. Una mano di Jean andò a carezzarle la lunga chioma di pece. Era incredibile come, benchè fosse tanto giovane, fosse in grado di leggergli dentro.

Era come se lo conoscesse da sempre.

«Di' un po', Marcy... Ti piacerebbe andare a vedere i canguri?»

 

 

Australia, 2034

 

Suonò il campanello quasi con titubanza, ritraendo la mano come se si fosse scottato.

«Dovremmo prendere in considerazione l'idea di venire a vivere qui...» ridacchiò Marceline, affibbiandogli una lieve gomitata.

L'Australia le era piaciuta fin da quando erano atterrati all'aeroporto di Sydney; non avevano ancora visto dei canguri, ma l'idea di conoscere Armin, per qualche motivo, la eccitava.

E quando l'uomo aprì la porta restò in silenzio per un istante, intento a scrutarla con un misto di gioia e stupore. Benchè l'avesse vista in fotografia, vederla dal vivo gli causò un piacevole shock.

Le tese la mano, che la donna strinse con vigore.

«Sono contento di rive... di conoscerti, Marceline» dichiarò. Li invitò a entrare, facendo largo all'ingombrante passeggino che Marceline spingeva avanti a sé, e lasciò che si accomodassero nell'ampio salotto dal sapore in stile vistosamente europeo. Quando anche Annie li raggiunse, sfoggiando il suo solito sorriso timido insieme a un vassoio di biscotti appena sfornati, la scena si ripetè. Lanciò un'occhiata eloquente al marito, che rispose con un cenno del capo. Entrambi sapevano di star pensando la stessa cosa.

E Jean, della donna misteriosa, non ne aveva mai parlato a nessuno.

Qualche istante più tardi, quando avevano già conversato tanto a lungo che sembrava non fosse trascorso un solo giorno, dal loro ultimo incontro, una figura silenziosa comparve sulle scale.

«Ah, eccoti qui» brontolò Annie.

«Jean, Marceline, vi presento nostra figlia: lei è Christa»

Quando Jean la vide, impiegò forse una frazione di secondo per ricordare dove avesse già visto quel volto: ma non era facile dimenticare un viso tanto bello, specialmente se imbrattato di sangue.

«Lieta di conoscervi. Mamma e papà mi hanno tanto parlato di te, Jean» si fece avanti la ragazza, tendendogli una mano che Jean strinse debolmente.

Uno mugolio interruppe le presentazioni, e Marceline si chinò sul passeggino, prelevandone il prezioso fagotto.

«Temo d'averla svegliata» si scusò Christa, ma Marceline scosse la testa, facendole cenno di non darvi peso.

La bambina, forse un anno o poco più, si protese verso la ragazza, agitando le piccole dita olivastre. Aveva il colorito della madre, compresa la spruzzata di lentiggini che ne adornava il volto, gli occhi taglienti di suo padre, benchè d'un colore diverso, caldo e ambrato, e ciuffi di capelli scuri raccolti in un codino in cima al capo.

«Permetti?» chiese Marceline a Christa, e quest'ultima annuì, aprendo le braccia in segno d'assenso.

La donna lasciò che la bambina sgambettasse sul tappeto verso la giovane, che la issò sulle ginocchia.

«È una bambina meravigliosa» osservò Christa.

La bimba alzò lo sguardo in cerca del suo, prima di volgerlo verso Jean.

«I...to...ia» sussurrò. Jean aggrottò la fronte. Le affibbiò un buffetto sulla guancia.

«Cosa, tesoro?»

La figlioletta picchiettò dolcemente sul petto della ragazza.

«Hi. Tto. Ia!» scandì.

La sua mente tornò indietro di ventidue anni.

 

 

 

Germania, 2012

 

Quando aprì gli occhi, prima uno e poi l'altro, non fece caso al dolore, né alla fronte che pulsava, né al fiume di sangue che scorreva sul suo viso.

C'era tanto sangue, che grondava dal cruscotto: sopra di esso, vi era il volto di Marco.

Non riuscì a urlare, non riuscì a muovere un solo muscolo. Era paralizzato.

Qualcun altro, oltre il finestrino, lo fece per lui.

La vide precipitare in strada come un animale impazzito, con la morte e le fiamme negli occhi, portando con sé un grido, una semplice parola, un nome.

«HISTORIA!»

 

 

 

Australia, 2034

 

Sbattè le ciglia, cercando di tornare alla realtà ancor prima che Armin parlasse.

«Jean, stai...?» mormorò l'uomo, accennando alla sua guancia.

Stava piangendo.

«Mh? Oh, non è nulla, dev'essermi entrato qualcosa nell'occhio» assicurò, sfregandosi energicamente la palpebra.

Sua figlia sorrideva, pacificamente adagiata sul petto di Christa, che le carezzava dolcemente i capelli.

Prese la mano di sua moglie tra le proprie.

«Credo che tu abbia ragione, dolcezza: dovremmo davvero prendere in considerazione l'ipotesi di trasferirci qui. Ho come l'impressione che...»

«...che nostra figlia non vorrà andarsene» concluse Marceline.

Dopo anni trascorsi nella logorante attesa di poterla incontrare di nuovo, Ymir, l'oni, era felice: il destino aveva finalmente deciso di unirle ancora una volta. 

   
 
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