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Autore: JSTR4    22/01/2014    2 recensioni
DEAD OR ALIVE è la mia quinta FanFiction, scritta all'incirca nel 2011/12. E' basata sul cartone animato Kimagure Orange Road. Questo anime fu trasmesso per la prima volta in Italia nel 1989, e io ne fui così colpito che presi la macchina da scrivere di mio padre e iniziai a realizzare quelle che chiamai Johnny Special Story; anche se non lo sapevo, stavo scrivendo quelle che oggi vengono chiamate FanFiction. Nel corso di alcuni anni, dal 1989 fino al 1994, realizzai 4 storie.
Poi, dopo quasi vent'anni, mi tornò la voglia di inventare storie basate sull'universo narrativo di Orange Road, e così mi misi al lavoro su questa quinta FF.
La trama: a causa dei poteri di Johnny, il nostro eroe e tutta la sua combriccola (Sabrina, Tinetta, Simona, Manuela, Renato, Michael e Carlo) si ritrovano catapultati nel vecchio west! Accusati ingiustamente di omicidio, dovranno fuggire, e lungo le impervie piste dell'Arizona dovranno vedersela con sceriffi, banditi, indiani, e chi più ne ha più ne metta! Sulle loro teste è stata messa una altissima taglia; i nostri eroi dovranno lottare per salvarsi la vita, poiché sono ricercati vivi o morti!
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Quella che state per leggere è la mia quinta FanFiction, scritta all'incirca nel 2011/12. E' basata sul cartone animato Kimagure Orange Road, anche se in questo caso sarebbe più preciso chiamarlo col suo titolo italiano: E' quasi magia Johnny. Questo anime fu trasmesso per la prima volta in Italia nel 1989, e io ne fui così colpito che presi la macchina da scrivere di mio padre e iniziai a realizzare quelle che chiamai Johnny Special Story; anche se non lo sapevo, stavo scrivendo quelle che oggi vengono chiamate FanFiction. La sigla JSTR indica le storie dedicate all'universo di Johnny. Nel corso di alcuni anni, dal 1989 fino al 1994, realizzai 4 storie.
Poi, dopo quasi vent'anni, mi tornò la voglia di inventare storie basate sull'universo narrativo di Orange Road, e così mi misi al lavoro su questa mia quinta FF, intitolata DEAD OR ALIVE.
Naturalmente, quando scrissi le mie prime storie ero un ragazzino o poco più, e tutte le imprecisioni e le idiozie che costellavano quei racconti erano perdonabili. Ma al momento di scrivere questa ero ultratrentenne, perciò ho fatto attenzione a non commettere errori di continuità, errori ortografici e cose simili (non so se ci sono riuscito, ma ho senz'altro fatto del mio meglio). Chiaramente, comunque, stiamo parlando di una FanFiction basata su un cartone semiserio, perciò anche la mia storia deve essere leggera e spensierata, perché ciò che mi premeva era rispettare lo spirito di E' quasi magia Johnny. In questa DEAD OR ALIVE non uso i nomi originali giapponesi dei protagonisti (Kyosuke, Madoka ecc....), perché, vista l'ambientazione che ho scelto, i nomi italiani si prestavano meglio ad una certa trovata narrativa che leggerete.
La trama: a causa dei poteri di Johnny, il nostro eroe e tutta la sua combriccola (Sabrina, Tinetta, Simona, Manuela, Renato, Michael e Carlo) si ritrovano catapultati nel vecchio west! Accusati ingiustamente di omicidio, dovranno fuggire, e lungo le impervie piste dell'Arizona dovranno vedersela con sceriffi, banditi, indiani, e chi più ne ha più ne metta! Sulle loro teste è stata messa una altissima taglia; i nostri eroi dovranno lottare per salvarsi la vita, poiché sono ricercati vivi o morti!
La storia si svolge in un momento imprecisato durante la serie, prima quindi delle puntate finali. Buona lettura.
 
 
Prologo
 
Il giorno dopo la scomparsa
 
Il telefono che inizia a suonare in piena notte è un brutto segno.
Quando i ripetuti squilli lo svegliarono, il vecchio si alzò dal letto intontito, per andare a rispondere.
Sua moglie, confusa, controllò l’ora: erano circa le quattro del mattino.
“Caro, chi può essere a quest’ora?”. Si alzò anche lei, s’infilò la vestaglia e seguì il marito.
“Oh, speriamo non sia nulla di grave” disse.
-Già, speriamo- pensò il nonno, augurandosi anche lui il meglio. Però non ci contava: ci sono pochi motivi per chiamare la gente a notte fonda, e di solito non significano buone notizie.
Appena alzò la cornetta, la voce concitata di suo genero confermò i suoi timori:
“Nonno, nonno, sono Serghej…. i ragazzi…. i miei ragazzi…. sono scomparsi….”.
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“Dunque, com’è successo?” chiese il nonno. Portò alla bocca la tazza di caffé all'americana e ne bevve un sorso.
Lui e sua moglie erano partiti in piena notte, in fretta e furia, appena ricevuta la chiamata del genero; adesso, poche ore dopo, erano già a casa sua. La nonna accarezzava distrattamente Ercole, il gatto di famiglia, che le si era addormentato in grembo, e ascoltava trepidante.
Serghej, il vedovo della loro adorata figlia, seduto di fronte al nonno, era in preda all'ansia.
Quando spiegò cosa era accaduto, buttò fuori la storia d'un fiato, come se volesse liberarsene
velocemente: “I ragazzi e i loro amici avevano deciso di andare in campeggio fuori città, hanno fatto i biglietti del treno e sono saliti, ma non ne sono mai scesi” disse, guardando a terra.
Poi aggiunse, sospirando: “Non so altro, per ora, come ti ho già detto al telefono”.
“Mmh” bofonchiò il nonno. “Tu come stai? Mi sembri provato”.
“Nonno, come potrei mai stare?” rispose Serghej. “Sono preoccupato da morire. Stanotte non ho chiuso occhio. Ieri ho passato l’intera giornata tra la stazione da cui i ragazzi sono partiti e il posto di polizia, insieme agli altri genitori”.
“La polizia cosa ne pensa?” chiese la nonna.
“Non sanno che pesci pigliare. Nessuno si spiega come sia successo. Sono certi che i ragazzi sono partiti, molti testimoni dicono di aver notato il gruppo fare i biglietti e salire sul treno…. alcuni passeggeri del loro stesso vagone dicono che avevano occupato un intero scompartimento. Sono stati notati perché, pare, fossero molto chiassosi (non faccio fatica a crederlo). Comunque, nel corso di una lunga galleria il treno ha subito un forte scossone; tutti i passeggeri hanno temuto che si trattasse di un deragliamento, e si sono spaventati a morte, ma non ci sono state conseguenze. Sembra però che i ragazzi siano scomparsi più o meno in quel momento….”.
“Chi c’era coi nostri nipoti?” chiese il nonno.
“Oltre a Johnny, Simona e Manuela, c’erano Tinetta, Sabrina, Renato, Michael e Carlo”.
“Mmh” mormorò il nonno: “il gruppetto al completo….”.
“Già. La polizia ha ritrovato sul treno i loro zaini, tranne quello di Michael; avrei voluto chiamarvi prima ma nella fretta avevo dimenticato a casa l’agenda e non ricordavo il vostro numero…. così vi ho telefonato appena tornato a casa”.
“Hai fatto benissimo” disse la nonna.
“Senz’altro, ma avrei dovuto avvertirvi prima; sono sicuro che la scomparsa dei ragazzi è legata in qualche modo al loro potere, e voi siete le persone più indicate per capire cosa può essere accaduto”.
“Quando sono partiti?” chiese la nonna.
“Ieri mattina, alle nove circa”.
“Quindi un po’ più di ventiquattr’ore fa…. mmh”. Il nonno rifletté: “Dunque, al più presto prenderò il loro stesso treno e farò il loro stesso itinerario; se qualcosa legato al nostro potere è accaduto dovrei essere in grado di percepirlo. Magari, se c’è qualcosa di strano in quel percorso, scomparirò anche io”.
“Verrò anch’io, nonno” disse Serghej.
“Non credo sia una buona idea” obiettò il vecchio.
“Perché?” chiese Serghej.
Il nonno bevve un altro sorso di caffè.
Disse: “Se io venissi trasportato dove si trovano i ragazzi (e sinceramente me lo auguro) da solo me la caverei meglio: tu non hai i poteri”.
Serghej rimase in silenzio, con gli occhi bassi; non poteva dare torto al nonno. I suoi tre figli avevano ereditato i loro poteri soprannaturali dalla madre. Le loro capacità erano straordinarie, così come quelle di suo suocero; una persona normale, come lui, in caso di emergenza o di pericolo sarebbe stata soltanto un peso. Il nonno era stato più diplomatico, ma quello era il senso del discorso.
“So come ti senti” gli disse la nonna, con tono comprensivo. “Non dimenticare che anche noi abbiamo avuto una figlia dotata di poteri, e quando era giovane li usava spesso a sproposito”.
“Già” mormorò il nonno, concedendosi un sorrisetto nostalgico sotto i baffi; poi guardò il genero e gli disse: “Serghej, la verità è che questi poteri cacciano nei guai più di quanto siano utili, se non li si controlla a dovere, e tuo figlio non è proprio la persona più assennata di questo mondo. Ma sa tirare fuori coraggio e buon senso, quando serve; inoltre non è la prima volta che si trova in strane situazioni. Poi, parliamoci chiaro, con la telecinesi, il teletrasporto e tutto il resto, i nostri ragazzi sono di fatto supereroi: se si troveranno in difficoltà, usando le loro capacità se la caveranno”.
“E se non volessero usarle per non smascherarsi di fronte agli amici?” chiese Serghej.
“Questo non ha senso, lo sai anche tu. In situazioni di emergenza, mantenere il segreto passa in secondo piano”. I tre fecero silenzio per un po’, ognuno immerso nelle proprie considerazioni.
Alla fine, Serghej ruppe gli indugi: “Va bene, nonno. Ti accompagnerò a prendere il treno, e aspetterò tue notizie”.
“Perfetto. Allora sbrighiamoci, non c’è tempo da perdere”.
Pochi minuti dopo, i due erano pronti a uscire.
“Sarò di ritorno tra un’oretta, nonna” disse Serghej. “Non ti dispiace occuparti di Ercole, vero?”
“Non c’è nessun problema” disse lei; poi si rivolse a suo marito, che era già sulla porta: “Caro?”. “Si?” chiese lui.
“Fa attenzione” si raccomandò.
“Attenzione?” il nonno rise. “Sono giovane e forte, non mi accadrà nulla, sta tranquilla. Ci vediamo più tardi.”
Uscendo insieme al genero, rideva ancora, allegro.
 
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Il giorno della scomparsa
 
Mancavano dieci minuti alle nove, quando i ragazzi salirono sul treno; allegri e scalmanati, percorsero le carrozze fino a trovare uno scompartimento tutto per loro. Sistemarono gli zaini sulle reticelle portabagagli e si sedettero.
“Staremo un po’ stretti” osservò Johnny. “Questi scomparti sono da sei posti e noi siamo otto”.
“E che problema c’è?” chiese Tinetta, stringendosi tra lui e Manuela, che si erano seduti uno accanto all’altra. “Staremo più stretti e quindi più vicini”.
“Siiii, più vicini” disse sornione Carlo, avvicinandosi a Simona, seduta accanto a lui.
“Falla finita” disse lei, allontanandolo col gomito.
Pochi minuti dopo, al momento della partenza, Tinetta schizzò in piedi per appiccicarsi al finestrino. “Yeeeh! Si parte, ragazzi!” esclamò eccitata.
Sabrina, seduta di fronte a Johnny, rise di gusto -ma senza perdere la sua abituale compostezza-, e disse: “Tinetta, sei proprio un folletto irrequieto, non stai ferma un attimo”.
“Eh?” disse lei girandosi.
“Proprio così” disse Michael, “siamo su questo treno da cinque minuti e ti sei già seduta e rialzata quattro o cinque volte”.
“Ehi, non esageriamo” disse lei mentre gli altri ridevano, e si sedette di nuovo, stavolta tra Renato e Carlo, seduti di fronte a Michael e Manuela.
“Tinetta!” protestò Simona: “Da questo lato siamo già in quattro: con te stiamo troppo stretti e invece di là stanno larghi!”.
“Ma io voglio stare vicina a tutti voi, uffa!” disse di nuovo lei alzandosi e andando a mettersi tra Sabrina e Simona.
“Ehi, qui ci sono io!” esclamò Simona.
“Siiii” disse di nuovo Carlo. “Rimani pure lì, Tinetta, così io e Simona saremo ancora più stretti”. “Certo, figurati” disse Simona alzandosi e andandosi a sedere dall’altro lato, tra Michael e sua sorella.
“Noo! Simona! Rimani accanto a me!” dissero insieme Tinetta e Carlo.
“Basta! Smettetela di fare baccano!” esclamò Johnny.
“Ma non fare il guastafeste, Johnny” gli disse Michael. “E’ una bella giornata, ce la spasseremo. E’ divertente iniziarla in allegria”.
“Ehi!” rimbrottò Johnny, cercando con lo sguardo il sostegno di Sabrina: lei però sorrideva serena, e osservava la scena con quella sua aria matura, come una maestra di scuola che accompagna in gita una classe irrequieta.
Dopo il siparietto iniziale, i ragazzi si calmarono e iniziarono a chiacchierare del più e del meno.
 
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“Io ho una sete, gente” disse Simona dopo qualche tempo.
“C’è dell’acqua negli zaini” disse Johnny.
“Bibite ce ne sono?” chiese lei.
“Non le abbiamo portate” le rispose Carlo. “Ma te ne vado a comprare una al bar, se vuoi”.
“Ehi, grazie” disse lei.
“Ne porti una anche a me, Carlo?” gli chiese Michael, prendendo i soldi dal portafoglio.
“E anche a me, grazie” disse Manuela.
“Un momento” li bloccò Carlo, “se devo prenderne per tutti, da solo non ce la faccio”.
“Vengo con te” disse Johnny alzandosi. “Ho voglia di fare due passi”. Raccolsero i soldi da quelli che volevano da bere (a quel punto, praticamente tutti) e uscirono, lasciando gli altri alle loro chiacchiere.
Erano usciti da pochi secondi, quando Michael scattò in piedi, come per seguirli; invece tirò giù il suo zaino dalla reticella, dicendo: “Cavolo, mi è venuto il dubbio di aver lasciato la cartina geografica a casa”.
“Possiamo comprarne una dopo” disse Manuela.
“Potremo, ma intanto controllo” disse Michael sedendosi e posandosi lo zaino sulle ginocchia.
“Ehi! E questa cos’è?” chiese Renato, attirando l'attenzione dei suoi amici; da sotto il proprio sedile tirò fuori una sacca.
“Cos’hai trovato?” domandò curiosa Simona, mentre anche gli altri si sporgevano dai propri posti per vedere di cosa si trattasse.
“E’ una sacca di tela” rispose Renato: “era sotto il mio sedile”.
“E l’hai vista solo adesso?” gli chiese Tinetta. “Siamo partiti da venti minuti”.
“E’ scura” si difese lui. “L'ho notata perché mi è caduto il biglietto e mi sono chinato a raccoglierlo”.
“Cosa ci sarà dentro?” chiese Simona avvicinandosi.
“Ehi, non ti riguarda! Non è tua” la rimproverò Manuela.
“Ma dai!” disse Simona. “Che male c’è se ci guardiamo? Non vogliamo mica rubare niente. E io sono curiosa!”.
“Ha ragione tua sorella, Simona” disse Sabrina. “Sarà meglio cercare il capotreno e consegnargliela”.
“Uffiiii” sbuffò Simona indispettita, incrociando le braccia. “Sono solo un po’ curiosa”.
“Beh” disse Renato, “comunque, al tatto sento benissimo cosa contiene”.
“Ah, si?” disse Tinetta. “Cosa?”.
Renato stava per rispondere, ma fu interrotto da Simona. “Guardate, c'è un tunnel più avanti!” esclamò la ragazza, scattando in piedi per aprire il finestrino. Si affacciò entusiasta. “Ahhh, la corrente mi spettinaa!!” gridò, ma più divertita che infastidita.
“Chiudi, Simona! C'è troppo vento!” disse Michael.
“Su, non lamentarti per così poco” disse Manuela affacciandosi a sua volta. “Ci vuole proprio un po' di aria fresca”.
Anche Tinetta si unì alle gemelle.
La sacca scoperta da Renato era già dimenticata.
Le tre ragazze restarono affacciate finché il treno non fu in prossimità della galleria, poi rientrarono e chiusero il finestrino.
Pochi secondi dopo il convoglio entrò nel tunnel, lasciandoli al buio.
“Ah, non si vede niente!” esclamò Simona. “Accendete la luce”.
“Ma non ce n'è bisogno, ragazze” disse Michael: “Se avete paura del buio venite tra le mie braccia, vi difenderò io”.
“Piantala!” esclamò Manuela, sulla quale Michael doveva aver allungato le mani. “Non approfittarti dell'oscurità”.
Qualcuno accese una luce.
“Lascia in pace mia sorella, Michael!” esclamò Simona, quando vide che l'impunito cercava di abbracciare Manuela.
In quel momento si aprì la porta dello scompartimento, e Johnny comparve con un carico di lattine. Fece appena mezzo passo e incespicò, cadendo in avanti. Simona lanciò un gridolino e usò istintivamente il potere per fermare la caduta del fratello. Johnny si bloccò per una frazione di secondo a mezz’aria; poi Carlo, anche lui con la sua parte di carico, cadde sopra Johnny, che lo precedeva. Il peso del corpo di Carlo, non previsto da Simona, ebbe la meglio sul potere della ragazza e fece cadere entrambi a terra: Johnny cadde lungo disteso a braccia alzate.
Tutto il parapiglia era durato meno di due secondi. Nel momento in cui toccò terra, il potere di Johnny si attivò contro la sua volontà. In quell’istante il treno intero fu percorso da uno scossone,
brevissimo, ma sufficiente ad allarmare i passeggeri.
Molti uscirono spaventati dai loro scompartimenti, alcuni vollero raggiungere altri vagoni per sapere cosa succedeva. In quel momento di confusione, nessuno notò che lo scompartimento occupato prima dal gruppo di Johnny adesso era deserto.
 
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Di nuovo, il giorno dopo la scomparsa
 
Il nonno scese pensieroso dal treno; era sconfortato, poiché non aveva ottenuto niente.
In un certo qual modo si sentiva, però, anche ottimista.
Trovò un telefono pubblico e chiamò a casa di Serghej.
“Pronto” rispose la voce di suo genero, ma lui avvertì benissimo anche il respiro di sua moglie, evidentemente appiccicata alla cornetta per conoscere le novità.
“Sono io” disse il nonno.
“Allora, parla” disse agitata sua moglie.
“C’è poco da dire” cominciò lui. “Sono sceso adesso alla stazione dove avrebbero dovuto scendere i ragazzi. Lungo il percorso non è successo niente di strano”. Silenzio dall’altra parte del telefono.
“Ho pensato una cosa, Serghej.” Sentì il respiro di suo genero fermarsi un istante, e continuò: “Dal momento che io non ho avvertito niente di anormale, dobbiamo supporre che i ragazzi abbiano usato il potere di proposito, per scomparire”.
Altri istanti di silenzio, poi Serghej chiese: “Perché avrebbero dovuto?”.
“Questo non possiamo saperlo” rispose il nonno. “Però, questa eventualità mi tranquillizza”.
“Come mai?” chiese Serghej.
“Perché esclude che una forza estranea di cui non sappiamo niente li abbia portati via” rispose il nonno.
“Oh, è vero” disse la nonna, sospirando.
“Volete dire” rifletté Serghej, “che come hanno deciso di andarsene possono decidere di tornare?”.
“Più o meno” rispose il nonno. “Probabilmente, però, non l’hanno deciso, viste le modalità dell’accaduto; è plausibile che siano stati costretti ad usare il potere, o che l'abbiano usato per errore”.
“Capisco” mormorò Serghej, e dopo alcuni istanti aggiunse: “Conoscendo quei due pasticcioni di Johnny e Simona, ritengo più probabile la seconda ipotesi”.
“Già” concordò il nonno.
“Cosa facciamo adesso?” chiese la nonna.
“Beh, io torno alla base, per ora” rispose suo marito. “Sarò da voi tra poche ore. Comunque non mi arrendo. Domani mattina prenderò di nuovo il treno dei ragazzi, però alla stessa ora in cui lo hanno preso loro, e controllerò ancora il percorso”.
“Grazie, nonno” disse Serghej. “Ti confesso che saperti alla loro ricerca mi fa stare molto meglio. Ma sei sicuro di non volere il mio aiuto? Devo dire che stare a casa ad aspettare senza far niente è frustrante”.
“Me ne rendo conto, ragazzo mio, ma cerca di resistere. Ti assicuro che, in caso di emergenza, io me la posso cavare egregiamente”.
“Si, lo capisco, ma è dura lo stesso....”.
Restarono in silenzio, per un po'. Poi il nonno disse: “Coraggio, Serghej, vedrai che li ritroverò, quei ragazzacci.... ora vi lascio, va bene? Devo ancora fare il biglietto per tornare indietro”.
“Va bene” disse la nonna. “Ci vediamo più tardi”.
“Certo” disse il nonno, “a più tardi”. Dall'altra parte, il telefono fu riagganciato.
Il nonno tenne l’orecchio sulla cornetta per alcuni istanti, meditabondo, poi la riappese sbuffando.
“Johnny, ma che hai combinato stavolta?” sbottò, mentre si avviava impensierito verso la biglietteria.
 
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Sandro Lunghini
 
JSTR 5 ---- JOHNNY SPECIAL STORY -- 3 --
 
 
DEAD OR ALIVE
 
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Capitolo 1
 
Come in un film
 
Lo smarrimento più totale seguì i momenti successivi al capitombolo di Johnny. Tutti si sentirono cadere nel vuoto per qualche istante, per poi ritrovarsi effettivamente a terra. Si rialzarono un po’ alla volta, scrollandosi di dosso quella che sembrava polvere. Erano al buio, perciò per pochi secondi non si resero conto di non essere più sul treno. Il primo a parlare fu Johnny: “State tutti bene?”. Non ci fu risposta per qualche secondo. “E…. ehi….” balbettò Tinetta.
“Tutto bene, Tinetta?” le chiese Johnny.
“Si, credo” rispose lei. “Ma…. che è successo?”.
“E dove siamo?” chiese Renato, che guardava in direzione di Johnny, ma oltre le sue spalle. Johnny si voltò, e si dovette schermare gli occhi con una mano sulla fronte, perché da quella parte c’era una apertura da cui entrava una luce accecante. Si guardò intorno perplesso, e si rese conto che si trovavano all’interno di una formazione rocciosa. Sabrina fece alcuni passi verso l’apertura, lentamente. Si fermò sull’ingresso, e gli altri videro la sua sagoma nerissima stagliarsi nella luce abbagliante; poi proseguì, uscendo.
“E’ una grotta” disse la ragazza, con voce bassa e piatta.
Gli altri si incamminarono verso di lei; quando raggiunsero l’apertura, videro che era l’ingresso di una grotta, davanti alla quale si apriva uno spiazzo lungo una decina di metri e largo almeno quattro: i ragazzi uscirono e si affiancarono all’amica, che osservava rapita davanti a sé.
Ai loro occhi si presentò uno spettacolo meraviglioso: una distesa immensa e quasi desertica, ocra e rossa, puntellata di raro verde e giallo, oltre la quale svettavano lontane le cime di altissime montagne.
Si trovavano su una collina rocciosa, a circa trenta metri di altezza, dalla quale dominavano l’intero scenario.
“Dove siamo?” chiese ancora Renato, senza distogliere gli occhi dal panorama e col tono di chi non si aspetta una risposta.
Invece una specie di risposta arrivò: “Il treno deve aver deragliato” disse Michael.
Johnny cercò con lo sguardo le sue sorelle: Simona, come gli altri, guardava allibita il panorama, ma Manuela ricambiò il suo sguardo con sgomento. Johnny fece alcuni passi indietro e le fece segno di raggiungerlo. Lei obbedì. Nessuno dei loro amici si accorse di niente.
“Cosa è successo?” chiese a voce bassissima Manuela a suo fratello quando fu vicino a lui.
“Dobbiamo aver viaggiato nel tempo a causa della mia caduta” mormorò lui in risposta.
“E in che epoca ci troviamo?” chiese Manuela.
“Non ne ho idea, ma una cosa è certa: alla prima occasione devo tentare di tornare indietro”.
“Da solo?”.
“Immagino che se sarete tutti abbastanza vicini a me, come è accaduto per il viaggio fin qui, saremo trasportati assieme”.
“Quindi dobbiamo far restare i nostri amici il più vicino possibile gli uni agli altri, e poi farti cadere in mezzo a loro? E’ questa l’idea?”.
“Si, più o meno. Anche se non ho la certezza che partiremo…. anzi, in effetti ci credo poco: quasi mai sono riuscito a viaggiare nel tempo intenzionalmente, è sempre successo in seguito a cadute accidentali”.
Manuela abbassò lo sguardo pensierosa per qualche secondo, poi disse: “Io ho un altro dubbio, fratellone”.
“E quale?”.
“Se tu riuscissi a partire, ma senza portarci con te? Noi resteremmo bloccati qui, visto che io e Simona non abbiamo il potere dei viaggi temporali”.
Johnny non aveva considerato questa ipotesi, e non seppe che dire; comunque, prima che riuscisse a trovare un argomento per replicare a sua sorella, Renato, per l’ennesima volta, domandò: “Dove siamo?”. In risposta a questo giunse il grido di Tinetta, che fece trasalire l’intera compagnia.
Tutti corsero vicino a lei, allarmati.
“Tinetta, cosa c’è?” chiese Sabrina.
“Tutto bene?” le domandò Renato. La ragazza squadrò gli amici con un’espressione frustrata, e gridò in risposta: “NON VA BENE AFFATTO!!!!”. Gli altri si scostarono da lei, colti di sorpresa.
“E’ troppo assurdo!” sbraitò ancora lei. “Cos’è questo, uno scherzo che ha organizzato qualcuno di voi?”.
Gli altri si osservarono, sgomenti: in quel momento si resero conto della follia di quello che stavano vivendo; qualunque cosa fosse accaduta, infatti, semplicemente NON ERA possibile che dall’interno di un treno in corsa si fossero trovati improvvisamente all’esterno, e in un luogo totalmente sconosciuto. Poi Sabrina chiese: “Ci siamo tutti?”.
“Eh?” fece Carlo, mentre anche gli altri si voltavano verso di lei senza capire cosa avesse in mente.
“Cominciamo a provare a dare un senso a tutto questo” spiegò allora Sabrina “E per prima cosa controlliamo che non manchi nessuno e non ci siano feriti”.
Un rapido controllo confermò che erano tutti presenti, e tutti sani.
“Qualcuno ha idea di cosa può essere successo?” chiese Sabrina, dopo aver lasciato ai suoi amici qualche istante per elaborare. La ragazza non amava farsi notare, e certamente non amava l’idea di dover dirigere il gruppo, ma si rese immediatamente conto che occorreva sangue freddo in quella strana situazione, e nessuno degli altri ne aveva. I suoi amici, da parte loro, si sentivano rassicurati dalla sua presenza di spirito, e accettarono senza alcuna obiezione di seguire le sue indicazioni.
“Il treno potrebbe aver deragliato” propose nuovamente Michael.
“Se prendiamo per buona questa idea si presentano almeno altre due domande: prima, dove sono i rottami del treno, e seconda, dove sono altri superstiti. Senza contare, ma di questo ce ne occuperemo dopo, che credo non siamo più in Giappone”.
“Che vuoi dire?” le chiese Johnny preoccupato, che fino a quel momento supponeva di aver viaggiato involontariamente nel tempo, come gli era accaduto più di una volta, anche se mai si era portato dietro altre persone. Ma il viaggio nel tempo non comprendeva anche sbalzi spaziali, non era mai successo. Dovevano trovarsi ancora in Giappone, anche se in un’epoca diversa;
così, sfoderando il suo notorio, inguardabile sorriso d’imbarazzo, -che lo faceva sempre sembrare un perfetto idiota-, disse: “Come potremmo non essere in Giappone, Sabrina?”.
“Questo non lo so” rispose lei. “Credimi, però: questo paesaggio non appartiene al nostro paese”.
“Ho capito!” esclamò Carlo, facendo voltare tutti verso di lui. “Ho visto un film, tempo fa, oppure era un fumetto (ora non ricordo), in cui il protagonista finiva in coma in seguito ad un incidente e sognava cose che gli sembravano vere!”.
“Dunque?” gli chiese Renato.
“Dunque” rispose Carlo, “il treno forse ha veramente deragliato, noi siamo tutti finiti in coma e questo è solo un sogno”.
Michael, Renato e Johnny lo affiancarono contemporaneamente, minacciosi.
“Che…. che c’è? Potrebbe essere, no?” si difese lui.
“Certo” gli disse Michael. “Infatti la tua è un’ipotesi che va appurata. E come si fa a sapere se si sta sognando o no?”.
“Beh” rispose Carlo, “il sistema più usato è il pizzicot….” gli altri tre ragazzi lo pizzicarono forte nello stesso momento.
“AAAAHIO!” urlò.
“No, direi che non è un sogno” affermò Renato allontanandosi.
“Già” concordarono gli altri due.
“E allora dove siamo?” chiese Tinetta a Sabrina; quest’ultima, prima di rispondere, osservò gli altri.
Poi, sospirando, rispose: “In America”.
“IN AMERICA!?!?” esclamò l’intero gruppo all’unisono.
“Non ne sono sicura, è chiaro, ma come sapete i miei genitori vivono negli Stati Uniti, e li hanno visitati quasi tutti per lavoro. A casa ho moltissime loro cartoline, e questo paesaggio me le ricorda molto”. Un lungo silenzio seguì queste parole.
-Possibile che io abbia involontariamente viaggiato nello spazio invece che nel tempo?- pensò Johnny. -Sarebbe la prima volta-.
“Giudicando dal territorio direi che ci troviamo in uno degli stati del sud, come Texas, od Oklahoma” aggiunse Sabrina.
“WOW!” esclamò Simona all’improvviso, guardando all’esterno. “Un film con i cowboy e gli indiani!”. Tutti le si avvicinarono e guardarono nella direzione da lei indicata.
In lontananza, nella prateria sottostante, videro una scena che sembrava uscire direttamente da un western: una carrozza trainata da quattro cavalli al galoppo e inseguita da un gruppo di cinque o sei uomini. Potevano sentire anche l’eco lontana degli spari.
“Stanno girando un film!” esclamò entusiasta Michael, e abbracciò felice Carlo.
“Che bello!” esclamò Simona.
Anche Tinetta, ora visibilmente più calma, si godeva lo spettacolo.
Renato, dal canto suo, aveva già iniziato a tifare eccitato: “Dai, dai che ce la fate! Quelli sono banditi, e quella dev’essere la diligenza portavalori”.
“Come fai a saperlo?” gli chiese Carlo. “Hai già visto questo film?”.
“Ma no, è un classico dei western!” rispose Renato. “Ehi, guardate, un bandito a terra!”.
“Yuuuuhuu!!!” gridarono tutti insieme gli spettatori abbracciandosi, ormai appassionati alla vicenda.
“Dai che ce la fate!”.
“Oh, no, un bandito è riuscito a saltare sul tetto della diligenza!”.
“No, lo hanno ributtato giù”.
Soltanto Sabrina, Manuela e Johnny osservavano lo svolgersi degli eventi con sincera preoccupazione. Sabrina perché si domandava dove fosse l’attrezzatura scenica (se si trattava di un film), e Johnny e Manuela perché temevano che non fosse affatto una finzione.
Dopo una ventina di secondi uno dei cavalli che trainavano la diligenza cadde a terra; i ragazzi immaginarono fosse stato colpito da un proiettile. “Nooooo!!” esclamarono dispiaciuti.
Dopo questo, l’abbordaggio fu rapido: la diligenza fu obbligata a fermarsi, i suoi occupanti furono fatti scendere e passati in rassegna.
“Non è giusto.” disse contrariata Tinetta. “Hanno vinto i banditi….”.
“Non è detto” ribatté Carlo, “potrebbe arrivare la cavalleria”.
“O forse questa è una scena iniziale del film, che ci mostra le scorribande dei fuorilegge prima che arrivi l’eroe a punirli” disse Renato.
“Sono io l’eroe!” esclamò Carlo, chinandosi e trottando. “E arrivo al galoppo sul mio destriero per salvare gli innocenti”.
“Yuuuhuu! Sei grande!” lo incitarono Simona e Tinetta ridendo.
“E io cavalco te!” esclamò Michael saltando sulla schiena del suo amico, e incitandolo: “Trotta, trotta, cavallino” ma più che trottare Carlo ruzzolò quasi subito a terra trascinandosi dietro il suo cavaliere, e scatenando in tutti una risata, anche in Sabrina, tutto sommato tranquillizzata dalla presenza (anche se lontana) di altri esseri umani. Questo perché, nonostante la stranezza, anche a lei sembrò ovvio, dopotutto, che la scena cui avevano assistito doveva essere una finzione.
Solo Johnny e Manuela continuarono a preoccuparsi.
 
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Pochi minuti dopo, i banditi raccolsero il loro complice esanime, e lo issarono su un cavallo; poi, montati in sella, se ne andarono col bottino.
“Era una diligenza passeggeri, non portavalori, dunque” commentò Renato.
“Credo dovremmo provare a raggiungerli” propose Sabrina.
“Faremo in tempo?” chiese Renato.
“Proviamoci” disse lei. “Restare qui mi sembra inutile”.
“Io porto il mio zaino” disse Michael. “Quando mi sono ritrovato qui lo avevo in mano”.
“Secondo me è una buona idea. Dovremmo portarci dietro quello che avevamo al momento di finire qui” propose Johnny. “Tutto potrebbe tornarci utile”.
“Lo dici come se dovessimo sopravvivere in chissà quale situazione estrema” lo canzonò Tinetta, sorridendogli. “Una volta raggiunta la troupe di quel film ci faremo accompagnare alla città più vicina”.
“E’ vero…. ah ah….” balbettò Johnny col suo sorriso idiota. “Ma per arrivare fin lì ci dovremo fare una bella scarpinata…. ah ah…. ehm.... quanta strada credi ci sia da fare, Sabrina?”.
“Mmh, è difficile valutare la distanza, ma a occhio e croce direi che si tratta di tre o quattro chilometri” rispose lei.
“Temevo peggio” si tranquillizzò Johnny. “Anche se sarà comunque dura, con questo sole a picco”.
“Comunque portarci dietro lo zaino di Michael non è affatto una brutta idea” concordò Sabrina.
“Si, purché dentro non ci siano solo riviste sconce” rise Carlo.
“Ehi” protestò Michael, “se vuoi saperlo ci sono solo cose utili. Come….” dicendo questo infilò la testa nel proprio zaino, e cominciò a rovistare. “Come…. come….”.
“Si, certo,” disse Carlo. “Foto di ragazze, eh?”.
“Un accendino! Anzi due!” esclamò trionfante Michael, alzando la mano per mostrarli a tutti.
“Bene” disse Johnny. “Non mi aspettavo che tirassi fuori qualcosa di utile”.
“Uff!” sbuffò Michael. “Ce ne ho messo per trovarli in mezzo a tutte le mie rivis….” si chiuse fulmineo la bocca con la mano, rendendosi conto di ciò che aveva detto, ma ormai era troppo tardi.
Tutto il gruppo sospirò sconsolato, e disse all’unisono: “Come volevasi dimostrare….”.
“C’è qualcos’altro di sensato, lì dentro?” chiese Tinetta guardandolo storto.
“Eh eh…. ma certo, che vi credete? Questo è lo zaino che mi ero portato per il campeggio, dopotutto” assicurò lui, aprendo un’altra tasca e ricominciando a rovistare.
Alla fine, dallo zaino di Michael qualcosa di utile (oltre gli accendini) saltò fuori: una bussola, due torce elettriche con delle batterie di ricambio, un paio di bottigliette di plastica d’acqua, fiammiferi, nastro adesivo, infine qualche barretta di cioccolato.
“Per fortuna lo avevi in mano quando ci siamo ritrovati qui, altrimenti non ci sarebbe ora” disse Tinetta a Michael.
“Tu credi?” le chiese dubbiosa Sabrina.
“Perché?” chiese a sua volta lei. “Non è cosi?”.
“Non saprei, non ci avevo neppure pensato” rispose Sabrina. “Come sei giunta a questa conclusione?”.
“Beh, Michael è stato l’unico a portarsi dietro qualcosa” disse Tinetta. “Aveva lo zaino e se lo è ritrovato qui”.
“E io ho queste!” esclamò Carlo raccogliendo le bibite che portava al momento del trasferimento, e che erano sparse sul terreno. “Le ho tenute strette quando sono caduto”.
“Uff” sbuffò Johnny, “a me sono sfuggite di mano subito”.
“Il solito imbranato” commentò Simona.
“Bene, che ne dite se ci incamminiamo?” propose Manuela.
“Un momento” intervenne Renato. “C’è ancora questa da controllare” tutti si voltarono verso la sua voce, che proveniva da un punto più profondo e oscuro della caverna; videro la sua sagoma avvicinarsi alla luce e farsi sempre più distinta. In mano teneva la sacca di tela che aveva trovato sotto il sedile. “L’avevo con me quando siamo finiti qui” disse il ragazzo.
“Speriamo che ci siano cose da mangiare!” esclamò Simona, impaziente.
“Non credo” disse Renato, “So cosa c’è dentro….” la aprì e ci infilò la mano, estraendo una palla bianca con le cuciture rosse. “Attrezzatura da baseball” annunciò.
Rovesciò il contenuto della sacca in terra: ai loro piedi si sparsero tre palle da baseball (in totale quindi quattro, con quella che aveva in mano lui), due guantoni e due mazze di legno.
“Mmmh, queste possono rivelarsi molto utili, per difesa” mormorò Sabrina raccogliendo una delle mazze. “Direi comunque di portarci dietro tutto”.
“Si, l’avevo pensato anch’io” concordò Renato rimettendo il materiale nella sacca. “Se non altro potremo improvvisare una partitella per passare il tempo, se ci annoiamo”.
“Allora, siamo pronti?” chiese Sabrina; non ci furono repliche, dunque uscirono dalla grotta.
Manuela restò indietro intenzionalmente, e prese suo fratello per un braccio, portandolo discosto dagli altri.
Mentre i loro amici, affacciati sul fianco della collina, cercavano un sistema per scendere, i due fratelli tennero conciliabolo.
“Hai sentito, Johnny?” chiese Manuela, sottovoce.
“Che cosa?” domandò lui.
“Quello che ha detto Tinetta, sul fatto che lo zaino di Michael ha viaggiato con lui perché lo teneva in mano”.
“Si, ho sentito” disse lui, “ma lo supponevo. Se si ha qualcosa con sé al momento della partenza ce lo si porta dietro”.
“Ma allora non potrebbe essere per questo che noi tutti ti abbiamo seguito nel viaggio?” ipotizzò Manuela. “Il contatto fisico tra te e noi?”.
“Ma io non vi stavo toccando quando sono caduto: soltanto Carlo che era sopra di me”.
“Veramente, hai toccato anche me” obbiettò lei.
“E come?”.
“Mi sei caduto sui piedi, Johnny” spiegò lei. Lui rimase a bocca aperta: nel volo non si era certo reso conto su cosa fosse atterrato; ma lo scompartimento era stretto ed evidentemente era caduto sui piedi di tutti i suoi amici, che in quel momento erano seduti.
Quel semplice contatto era bastato per farli partire tutti assieme? Sembrava di si.
“Quindi” rifletté il ragazzo, “dovrò toccarvi tutti contemporaneamente e poi tentare il viaggio….”.
“Oppure….” iniziò Manuela, ma fu interrotta dalla chiamata di Simona: “Ehi, voi due, noi scendiamo!”.
“Ne parliamo dopo” disse Johnny a Manuela mentre raggiungevano gli altri.
L’altura su cui si trovavano non era poi tanto ripida, perciò dopo aver cercato invano un sentiero o un passaggio i ragazzi decisero di scendere direttamente dalla parete di fronte a loro; sarebbe bastato lasciarsi scivolare verso il basso, facendo estrema attenzione alle molte rocce disseminate sulla parete; il fondo era sabbioso, e questo li avrebbe agevolati nello scendere.
I primi a iniziare la discesa furono Sabrina e Renato, seguiti a ruota dal resto del gruppo.
Manuela, però, ebbe un’idea: “Aspetta!” disse trattenendo suo fratello. “Johnny, credo che tu debba provare a tornare indietro adesso”.
“Come!?”.
“Ma si, prova a cadere da qui” e indicò la parete davanti a loro.
“Stai scherzando? Come posso viaggiare con tutti voi gettandomi da qui?”.
“No, Johnny, non devi portarci con te. Devi cercare di tornare da solo, e una volta a casa dovrai trovare coi nonni un sistema per tornare a prenderci”.
Johnny non riuscì a credere alle sue orecchie. “Sei impazzita?! Lasciarvi qui da soli? Ma se poco fa proprio tu hai espresso la paura che senza di me non potreste tornare indietro”.
“E’ vero, ma sbagliavo…. non ci lasceresti qui” puntualizzò sua sorella. “Dovresti trovare il modo di tornare per portarci via. Pensandoci attentamente credo che sia la cosa migliore”.
“No, no, non se ne parla” protestò Johnny.
“Ascolta, fratellone: io sarei molto più tranquilla se sapessi che i nonni sono al corrente di tutto. Ho piena fiducia in loro, mentre rimanendo tutti qui cosa risolviamo?”.
Johnny aprì la bocca per ribattere, ma non trovò argomenti; invece sua sorella continuò: “Johnny, so che non ti piace l’idea, ma credimi, è la cosa migliore…. io e Simona coi nostri poteri siamo in grado di cavarcela benissimo, mentre i nonni sono la nostra unica speranza di andarcene”.
Nel frattempo gli altri erano quasi arrivati a terra, senza grossi problemi:
sia ragazzi che ragazze indossavano pantaloni, e sopra magliette o camicie senza troppe pretese; abiti comodi, insomma, adatti alla scampagnata e al campeggio che avevano programmato. Questo agevolò senz'altro la loro discesa.
Giunsero quasi tutti ai piedi dell’altura senza danno, tranne Carlo che scivolò e fece gli ultimi metri rotolando.
“Sei una frana” lo rimproverò Michael.
“Ehi” si difese lui: “si era detto campeggio, non alpinismo”.
Johnny controllò che nessuno si fosse fatto male, poi si rivolse alla sorella: “Resta il fatto che potrei comunque non riuscire a partire. Come ti ho detto prima, è difficilissimo che riesca a viaggiare nel tempo volontariamente”.
“Devi provarci, però” insisté Manuela.
Johnny guardò lo strapiombo davanti a sé. “Non sono molto sicuro, comunque…. qui è alto….” disse titubante.
“Si, ma non è ripido”.
“Vuoi vedermi morto?”.
“Non esagerare, Johnny, si tratterebbe solo di ruzzolare un po’”.
“Già, la fai facile tu….” mormorò Johnny sporgendosi.
“Scusa, fratellone” disse Manuela.
“Scusa di cos….?” riuscì a dire Johnny prima che Manuela lo spingesse di sotto.
“AAAAHHH!!” urlò Johnny cadendo.
“Johnny!” gridarono i suoi amici dal basso, vedendolo rotolare come un pallone.
Manuela si lasciò scivolare subito dietro di lui, ripetendo: “Scusascusascusascusa….”.
La caduta di Johnny si fermò a mezza strada contro un gruppo di cespugli; Manuela lo raggiunse poco dopo: lui si rialzò polveroso e dolorante, guardò sua sorella e urlò: “MANUELA! SEI IMPAZZITA?”.
“Scusami fratellone” ripeté lei, costernata, “ma dovevo provarci”.
“MI SAREI ASPETTATO UNA SIMILE SCIOCCHEZZA DA SIMONA, NON DA TE!” urlò ancora lui.
“Ehi!” gridò Simona dal basso. “Cosa vuoi da me?!”.
“Uff” sbuffò Johnny dandosi una spolverata.
“Se sei un imbranato non è colpa mia!!” esclamò Simona.
“Simona!” esclamò lui. “Non ti ci mettere anche tu!”.
“Ma se è stato lui a cominciare” brontolò Simona incrociando le braccia.
“Come stai, tesoruccio?” chiese Tinetta preoccupata.
“Tutto bene, Tinetta” rispose Johnny.
“Oh, per fortuna” disse la ragazza, con un sospiro di sollievo.
“Acc….” borbottò Renato, “speravo si fosse almeno rotto qualche osso”.
“Cosa hai detto!?!?” lo aggredì Tinetta.
“Eh eh…. niente…. ehm…. niente…. parlavo del tempo…. eh eh” farfugliò lui.
“Sbrigatevi a venir giù” disse Carlo ai due ragazzi.
Johnny e Manuela ricominciarono a scendere; dopo pochi secondi, Johnny disse: “Non ha funzionato, purtroppo”.
Manuela lo guardò. “Fratellone…. mi spiace, veramente, ma….”.
“Non importa” la interruppe lui sospirando. “Hai fatto bene. E’ stato giusto tentare”.
“Grazie, fratellone….” disse, sollevata.
“Si, ma non riprovarci, va bene?” le intimò Johnny.
Manuela rise. “Va bene, va bene”; anche suo fratello rise.
Arrivarono tranquillamente a terra, dove i loro amici li aspettavano.
“Siamo pronti?” chiese allora Sabrina: tutti assentirono. Si avviarono dunque di buon passo in direzione della diligenza.
 
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“Però” disse Tinetta dopo alcuni minuti di cammino, guardandosi intorno, “che bel posto, vero?”.
“Io non lo chiamerei bello” disse Simona. “E’ così desolato”.
“Si, ma è suggestivo: sconfinato e silenzioso; sembra di essere in un altro mondo” osservò Sabrina.
“Già” confermò Tinetta, “è davvero perfetto per un film western”.
“Sei tranquilla ora, Tinetta” constatò Manuela. “Sono contenta”.
“Ma certo” cinguettò lei. “Cosa c’è da aver paura? Siamo capitati su un set cinematografico.
Chissà, forse quando arriveremo laggiù mi diranno che manca loro un’attrice e mi chiederanno di girare qualche scena”. Dicendo questo, mimò una pistola con le mani. “Sarò un’impavida pistolera”.
“Ehi” protestò Simona, “anche io voglio partecipare al film”.
“Tu sarai l’eroina in pericolo” la stuzzicò Carlo. “E io ti salverò”.
“Nooo” s’oppose lei. “Voglio fare la pistolera anche io!”.
“Ma quel posto è già occupato” disse Tinetta.
Renato ascoltava pensieroso questo scambio di battute. Ad un certo momento disse: “Sono contento che siate tutti così calmi. Io però sono ancora preoccupato”.
“Perché?” gli chiese Michael.
“Scusate, ma qualcuno di voi ha capito come siamo arrivati qui?” domandò Renato.
“Semplice” disse Simona. “Quando Johnny è cadu….”.
“AAAAAH!” gridarono Johnny e Manuela insieme, andando a chiudere la bocca della sorella.
“Che bella passeggiata!” esclamò Manuela trascinando con sé Simona. “Non è vero, sorellina? Guarda, laggiù c’è un…. una farfallina…. andiamo ad osservarla….”.
Quando furono a distanza di sicurezza, Manuela fece segno a Simona di tacere e le tolse la mano dalla bocca.
“Ma cosa fai?” si lamentò Simona.
“Sei impazzita?” disse Manuela. “Non puoi rivelare i nostri poteri”.
Simona rifletté qualche secondo, poi replicò: “Ma ormai siamo qui, te ne sei accorta? Come credi di spiegare questa situazione?”.
“Non spetta a noi spiegarla, Simona” le disse sua sorella. “Siamo tutti sulla stessa barca, nessuno sospetta che la responsabilità sia di Johnny. Ognuno troverà la spiegazione che preferisce”.
“Beh, ma Renato ha chiesto se….”.
“Tu lascia perdere!” disse Manuela. “Non è necessario che gli altri sappiano come stanno le cose. L’importante è che lo sappiamo noi, e d’altronde se anche lo spiegassimo nessuno potrebbe farci niente. Gli unici che possono trovare il sistema per tornare indietro siamo noi tre; inoltre, finché siamo qui, dobbiamo usare i poteri per proteggere i nostri amici, senza naturalmente farci scoprire”.
“Uffa!” sbottò Simona. “Voi fate sempre tutto difficile! E poi dobbiamo proteggerli da che? Dai banditi finti?”.
Manuela guardò in direzione della diligenza, che era sempre ferma nel punto in cui l’avevano abbordata i fuorilegge. “Finti.... chissà” mormorò.
“Come hai detto?” le chiese Simona.
Manuela la guardò, poi si voltò verso gli altri: si erano allontanate di un bel po’.
“Niente” rispose; poi prese il braccio di sua sorella e la diresse gentilmente in direzione dei loro compagni. “Raggiungiamo i nostri amici” disse, “chissà che prima di arrivare alla carrozza non si riesca a trovare una parte nel film per ognuno di noi”.
Quando furono abbastanza vicine, sentirono che nel gruppo si stavano ancora facendo ipotesi su ciò che poteva essere successo.
“Io rimango dell’idea che questa è tutta un’illusione, o un sogno” stava dicendo Carlo.
“Ma ti sembra di essere addormentato?” gli chiese Michael.
Dopo qualche istante di riflessione, Carlo rispose: “No, ma non significa niente; per esempio, ieri notte ho sognato che mi avevano regalato una torta gigantesca tutta per me, e mi sembrava proprio vero; non vi dico la rabbia quando mia madre mi ha svegliato proprio un momento prima che la assaggiassi…. perciò anche questo può essere un sogno, benché sembri reale”.
“Un sogno che stiamo facendo tutti?” obiettò Renato.
“Che c’entra?” disse Carlo. “Per quanto ne so, voi potreste semplicemente far parte del mio sogno”.
“Sssiii” sibilò Michael con una luce maligna negli occhi. “Sai che ti dico, Carlo? Questo è veramente un tuo sogno, che stai facendo mentre sei addormentato sul treno”.
“Davvero?” fece Carlo guardandolo.
“Ma certo, se te lo dico io” insisté Michael. “Stai sognando, amico mio. Pensa all’occasione che hai: tutte le ragazze sono in tuo potere, sei tu che comandi in questo momento”.
Carlo non se lo fece ripetere due volte; si portò subito dietro Tinetta, che era la più vicina a lui, dicendo: “E’ vero, non ci avevo pensato. Le ragazze sono tutte per me, eh eh….” e la abbracciò forte. “Eh eh ora ci divert….” il colpo che gli sferrò la ragazza lo fece stramazzare al suolo come uno straccio.
Michael rise di gusto. “Ah ah ah ah! Che bello, sei proprio un fessacchiotto, amico mio”.
Renato tirò su Carlo prendendolo per la camicia e gli disse: “Sai che devo fartela pagare per aver allungato le mani su Tinetta?”.
“Gh gh gh…. sei tu, mammina? Non mi sento tanto bene, sai?” bofonchiò Carlo, senza rendersi conto di chi aveva davanti. Renato lo lasciò andare, dicendo: “Non c’è bisogno del mio intervento, a quanto pare”.
“Quindi” chiese Sabrina, “se non è un sogno, cos’è successo?”.
“Io rimango dell’idea che il treno ha deragliato e ci ha sbalzato tutti lontano” ribadì Michael.
“Questa è ancora più assurda dell’ipotesi del sogno” disse Renato.
“Uff” sbuffò Michael, “non vi va bene niente”.
Johnny, tutto sommato, si divertiva ad ascoltare le supposizioni strampalate dei compagni.
“A me a questo punto non interessa” disse Tinetta. “Siamo quasi arrivati, quei signori ci spiegheranno dove siamo, e faranno di me una stella del cinema”.
Avvicinandosi alla loro meta, i ragazzi videro che attorno alla carrozza si affaccendavano un paio di persone, mentre altre, quasi tutte donne, stavano in disparte riparandosi dal sole con degli ombrellini.
Il caldo faceva tremolare le immagini davanti ai loro occhi, rendendole sfocate, ma si accorsero comunque, ad un certo punto, che anche quelli che stavano intorno alla diligenza dovevano averli visti. Ormai erano solo a qualche centinaio di metri di distanza. Entro breve avrebbero avuto le risposte che cercavano.
 
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«E voi chi siete?» chiese, sospettoso, uno dei due uomini che si trovavano vicino alla diligenza, quando i nostri eroi li raggiunsero.
Gli altri presenti fecero commenti incuriositi: «Ma sono dei ragazzi».
«E che abiti stranissimi indossano».
«Ci sarà da fidarsi?».
Di queste frasi Johnny e gli altri non capirono niente.
“Ehi, ma che lingua parlano?” chiese Tinetta.
“Forse sono attori stranieri” disse Michael.
Anche nell’altro schieramento si fecero considerazioni simili, a quel punto:
«Ma sono stranieri».
«Ecco perché indossano quei curiosi abiti».
«Comunque sono giovanissimi. Chissà cosa ci facevano a piedi nella prateria».
-Accidenti- pensò Johnny. -Proprio come temevo. Stavolta il mio potere mi deve aver giocato qualche strano scherzo. Non solo abbiamo viaggiato nel tempo, ma siamo finiti anche all’estero-.
«Si può sapere chi siete?» domandò nuovamente l’uomo che aveva rivolto loro la parola per primo, stavolta con atteggiamento più minaccioso. Del gruppo della diligenza lui sembrava essere il capo: era un uomo basso, anziano, con bianchi e lunghi capelli e baffi folti. L’altro uomo, accanto a lui, era un signore dall’aspetto distinto, molto vecchio. Discoste, un gruppo di tre donne osservavano la scena con apprensione.
«Siamo stati appena rapinati» disse il vecchio signore distinto parlando per la prima volta. «Il nostro uomo di scorta è stato ucciso, e anche uno dei cavalli della diligenza. Potreste aiutarci a ripartire?».
«Cosa possiamo fare per aiutarvi?» chiese Sabrina: i suoi amici la guardarono sbalorditi.
“Ma…. ma…. Sabrina, tu capisci la loro lingua?” disse Johnny.
“Parlano inglese” rispose lei. “Anzi, americano, per essere precisi. Io lo capisco”.
“E che…. cosa dicono?” domandò Tinetta, esitante. “Ci…. ci stanno rimproverando perché abbiamo interrotto le riprese del film, vero?”.
Sabrina la guardò, con un mesto sorriso. “Ho paura di no, Tinetta”.
“Oh, cavolo….” mormorò Renato. “E ora che facciamo?”.
Anche se neppure lei aveva idea di cosa accadesse, Sabrina doveva prendere le redini della situazione, perché i suoi amici erano ancora più spaesati. «Come possiamo aiutarvi?» domandò.
«Fa venire qui i tuoi amici» le disse l’uomo coi capelli lunghi e i baffi, avvicinandosi al cavallo morto. «E’ stato colpito uno dei cavalli della coppia interna, e la carrozza ci è finita sopra. Una delle ruote si è incastrata tra una delle zampe e una buca. Dobbiamo spostare il corpo per riuscire a ripartire».
Sabrina osservò compassionevole i poveri resti della bestia, quindi si rivolse ai maschi del suo gruppo: “Ragazzi, venite” e raggiunse l’uomo.
“Che…. dobbiamo fare?” chiese Michael, esitante.
“Dobbiamo aiutare a spostare il corpo di questo cavallo” rispose lei, andando a posizionarsi vicino alla schiena dello sfortunato animale.
I suoi amici, però, erano piuttosto titubanti: “Ma…. ma…. questo cavallo è morto davvero?” chiese Renato.
Sabrina si era già chinata, e incitò i suoi compagni: “Ragazzi, coraggio”. In quel momento però giunse il grido di Manuela, che allarmò l’intero gruppo.
La raggiunsero di corsa: la ragazza aveva girato intorno alla carrozza, forse per curiosità, e si era imbattuta nel corpo dell’uomo di scorta, steso a terra e col volto coperto da un fazzoletto.
Anche Simona e Tinetta urlarono, vedendo il cadavere; Sabrina, nonostante il suo coraggio, distolse lo sguardo con un singulto, e dovette trattenersi dal gridare.
I ragazzi non urlarono, ma erano comunque sotto shock. Renato, quasi inconsapevolmente, si chinò sul corpo, e gli poggiò la mano sul petto, per sentirne il battito cardiaco; mormorò: “Quest’uomo sta male, ha bisogno di cure….”.
“Io cre…. credo sia morto….” balbettò Johnny.
“No, non può essere” mormorò ancora Renato, con tono assente.
«Ehi, tu!» esclamò l’uomo coi baffi. Tutti si voltarono verso di lui: aveva in mano una pistola e la puntava dritta su Renato. Gli altri si scansarono urlando; Renato parve invece rendersi conto in quel momento della situazione in cui si trovava. Si gettò all’indietro con un grido, senza togliere lo sguardo dal foro dell’arma puntata su di lui. “Che…. che succede? Io…. non ho fatto niente”.
Ma l’altro ovviamente non capì le sue parole. «Cosa stai facendo al vecchio Bob? Lo frughi in cerca di denaro? Non sarai un ladro anche tu, come quei banditi che lo hanno ucciso?».
Sabrina comprese l’equivoco e, temeraria, si interpose tra la pistola e Renato. «No, signore! Sta sbagliando! Non faccia del male al mio amico, per favore».
«Spostati, ragazza. Non mi avete convinto fin dal primo momento, tu e questi altri strani marmocchi».
«Per favore, il mio amico non voleva derubare quel pover’uomo».
«E perché lo stava frugando?».
«Stava solo ascoltando il suo cuore, per sentire se…. se effettivamente non c’era più niente da fare».
«E che cos’è, idiota? Perché pensa che gli abbiamo messo un fazzoletto sul viso? Crede che non sappiamo riconoscere un morto da queste parti? Oppure è un dottore in grado di resuscitare i defunti?.» Gli altri osservavano la scena senza muovere un muscolo.
«Aspetti, signor Mulligan» intervenne il vecchio signore distinto, avvicinatosi all’uomo con la pistola: aveva un’aria decisamente più rassicurante dell’altro. «Metta via la sua arma, a me sembra che questi ragazzi siano solo molto spaventati».
«Anche se me lo dice lei, giudice» disse quello chiamato Mulligan, «non mi fido di questi tipi. E per prima cosa voglio sapere cosa stava cercando quel ragazzino sul corpo del povero Bob».
«Gliel’ho detto, non cercava niente» ribadì Sabrina. «E’ solo che…. credo cercasse di rendersi conto di quello che aveva di fronte…. noi…. noi non siamo abituati a vedere gente uccisa sotto i nostri occhi».
Mulligan osservò allora il gruppo di Johnny, e notò l’ aspetto frastornato e smarrito dei ragazzi. Ripose la pistola, con uno sbuffo. «Ma da dove saltano fuori questi mocciosi?».
Poi si rivolse a Sabrina: «Tu mi sembri la più sveglia della compagnia, anche se sei una ragazza. Spiega ai tuoi compari che se mi aiutate a ripartire vi accompagnerò tutti a Tucson, che ormai è a poche miglia; sulla diligenza starete un po’ stretti, ma meglio che andare a piedi, immagino».
-Tucson….- pensò Sabrina, -dunque siamo in Arizona-.
Mulligan si voltò e si portò di nuovo vicino al cavallo morto; anche il giudice si apprestò ad allontanarsi, per dirigersi verso il gruppetto delle signore: Sabrina notò in quel momento che era leggermente zoppo. Lo chiamò: «Mi scusi».
Il giudice si voltò. Lei gli si avvicinò e fece un leggero inchino di ringraziamento, dicendogli: «La ringrazio, signore, per l’aiuto».
«Oh, non creda che il vecchio Mulligan vi avrebbe fatto del male» ribatté il giudice con un sorriso gentile. «E’ un uomo di frontiera, è rude e le buone maniere non sono certo il suo forte. In più il suo lavoro è postiglione, come avrà capito; deve affrontare periodicamente assalti di banditi o indiani, perciò è il minimo che sia così aggressivo. Però le assicuro che è innocuo».
«Io…. capisco» disse Sabrina. «Comunque la ringrazio per la sua gentilezza».
«Non stia a pensarci. Sono io che devo ringraziare lei e i suoi amici per il vostro provvidenziale arrivo: come vede io sono troppo vecchio e malandato per essere di qualche aiuto nel lavoro pesante» e dicendo questo fece una risata sdentata e genuina. «Se non foste arrivati voi chissà quanto saremmo rimasti bloccati qui».
«Già, a questo proposito» disse Sabrina, «sarà meglio che andiamo ad aiutare Mulligan, se vogliamo andar via».
«Direi di si» concordò il giudice. «Ma credo che prima lei debba spiegare cosa è accaduto ai suoi amici, perché mi sembrano particolarmente turbati».
Sabrina si voltò verso i suoi compagni, che la osservavano silenziosi. «Si, è una buona idea», poi si rivolse a lui: «Prima, però, vorrei presentarmi, io mi chiamo Sabrina».
Tese la mano al giudice, che invece di stringerla si profuse in un perfetto baciamano, poi tenne la mano della ragazza tra le sue e le disse: «Io sono il giudice Robert Pearson. Onorato, signorina».
Sabrina arrossì, visibilmente imbarazzata, e questo rallegrò il giudice, che le sorrise. «Oh, mia cara, le assicuro che non era mia intenzione metterla a disagio. Non faccia troppo caso alle mie smancerie, anche se le garantisco che la ritengo meritevole di ogni gesto di galanteria sia possibile manifestare; è che io sono un vecchio del sud…. anzi diciamo pure, per essere più specifici, un vecchio gentiluomo del sud, e per me la cavalleria è un atto dovuto».
Sabrina, senza saper cosa dire, si limitò a sorridere impacciata, e questo fece scoppiare l’uomo in una risata. «Ah ah ah, su, ora la lascio andare, anche se la sua compagnia è un toccasana per un povero rudere bacucco come me». Poi le si avvicinò e le disse, a bassa voce: «In confidenza, le dame con cui ho condiviso il viaggio in diligenza, oltre a non essere proprio giovinette, hanno una certa tendenza ai discorsi noiosi».
Sabrina, allora, rise di gusto. Quel vecchio le faceva una buona impressione, era una persona gentile e pura.
Gli disse: «Lei è proprio una linguaccia, giudice».
«Beh…. vedo che ha già inquadrato uno dei miei difetti…. su, a questo punto la lascio libera dalla mia presenza» e le lasciò la mano; Sabrina gli fece un sorriso e un altro leggero inchino, prima di allontanarsi.
Il giudice tornò dunque sui suoi passi. Gli amici di Sabrina fecero capannello attorno a lei, che spiegò loro ciò che era successo.
“Ma…. ma…. dove siamo capitati?” balbettò Carlo incredulo alla fine del discorso di Sabrina, dando voce con quella frase ai pensieri di tutti.
“Meglio pensarci dopo” disse Johnny. “Ora cerchiamo di andarcene da qui” e si diresse verso Mulligan, che li aspettava.
Michael, Carlo, Renato e Sabrina lo raggiunsero.
“Sabrina” disse Johnny, “forse tu non dovresti farlo”.
“Perché?” chiese lei.
“Beh, è un lavoro da uomini, questo” rispose timidamente Renato. “E poi tu hai fatto anche troppo, finora…. tra l’altro io… io…. non ti ho ancora ringraziato per l’aiuto di poco fa”.
“Non è il momento questo per stare a pensarci” rispose lei. “Ora cerchiamo di concentrarci sul nostro compito”. Si rivolse a Mulligan: «Siamo pronti».
«Era ora» disse lui. «Ho già tolto i finimenti al cavallo morto, separandolo dagli altri della diligenza. Dobbiamo solo trascinarlo via».
Si chinarono tutti e sei sul corpo dell’animale, e iniziarono a spostarlo. Dopo pochi centimetri, Michael scivolò addosso a Carlo, che cadde addosso a Johnny che finì addosso a Renato.
“Ahio! Sta attento, scemo” disse Renato a Johnny.
“Non è colpa mia” si difese lui. “Carlo mi è caduto addosso”.
“E’ che siete tutti imbranati” disse Michael rialzandosi.
“Ma se sei stato il primo a cadere” disse Johnny. “Hai anche il coraggio di parlare?”.
“Che c’entra?” disse Michael. “Io sono scivolato, ma voi avreste potuto evitarmi”.
“Ma falla finita!”.
“Ehi, non parlatemi così”.
“Te le cerchi perché hai torto”.
“Io comunque non ho colpa”.
“Figurati io, allora”.
Sabrina osservava il battibecco tra i suoi amici con rassegnazione. Mulligan li guardò basito per alcuni istanti, poi scosse la testa e sputò in terra, con espressione di disprezzo. «Puah, neanche i piedidolci* sono così sprovveduti. Che manipolo di donnicciole!».
 
* «....Piedidolci....». Gli abitanti dell’Ovest degli Stati Uniti chiamavano in questo modo dispregiativo gli abitanti dell’Est, più urbanizzato e civile, considerandoli dei damerini abituati alla vita comoda e agiata delle città.
 
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«Mi piacerebbe sapere da quale paese provenite» chiese il giudice Pearson a Sabrina. «Il suo accento mi ricorda quello cinese, ma sentendo parlare i suoi amici non ho riconosciuto la lingua».
«Siamo giapponesi» rispose Sabrina. «Siamo in…. viaggio per…. ehm…. studio….».
«Non si preoccupi, signorina» le disse Pearson strizzandole l’occhio. «Non ha bisogno di inventare storie»; Sabrina arrossì. Le dispiaceva aver dovuto mentire (senza successo, tra l’altro), ma non poteva certo dire la verità, anche perché comunque neppure lei la conosceva.
Sabrina e il giudice sedevano a cassetta della diligenza, che ballonzolava tra le asperità della pista: erano partiti in direzione Tucson da circa cinque minuti. Dopo aver spostato il corpo del cavallo morto, avevano dovuto staccare anche il suo compagno di pariglia, che adesso veniva cavalcato da Mulligan, che si trovava alcune decine di metri più avanti: la diligenza era così trainata da una sola coppia di cavalli. Pearson era salito a cassetta perché era l’unico in grado di condurre la carrozza (in realtà ne sarebbe stata capace anche Sabrina, ma non voleva mettersi troppo in mostra, finché non avesse avuto un quadro più chiaro della situazione), e aveva chiesto a Sabrina se voleva salire accanto a lui, così avrebbero fatto conversazione durante il viaggio. Lei aveva accettato volentieri: il giudice le andava a genio e la sua compagnia era piacevole; inoltre da lui avrebbe dovuto cercare di trarre quante più informazioni possibili sul periodo e sul territorio in cui si trovavano.
«Sono giudice da tantissimi anni» continuò Pearson. «So riconoscere delle canaglie quando le vedo, e lei e i suoi amici non lo siete senz’altro, quindi non mi interessa sapere cosa facevate a piedi nella prateria. D’altronde, guardando i vostri assurdi abiti non sono neppure sicuro che potrei credere alla vostra storia, qualunque essa sia, perciò diciamo che la cosa non suscita la mia curiosità».
«La sua pare di no, giudice» osservò Sabrina. «Ma temo che altri vorranno conoscere le nostre faccende».
«Ed è così terribile, ciò che vi riguarda?» chiese Pearson.
«No» rispose Sabrina, assorta. «E’ solo che se dicessimo la verità, ci prenderebbero per pazzi».
Per un paio di minuti restarono in silenzio, poi il giudice disse: «Giappone, eh? Non so quasi nulla di quel lontano paese. Ma tu devi aver studiato molto la nostra lingua, visto che la parli benissimo».
«Ehm…. i miei genitori vivono qui da tanto tempo».
«Capisco».
All’interno della diligenza, Johnny e gli altri erano piuttosto silenziosi, un po’ perché imbarazzati dalla presenza delle tre signore con cui dividevano la cabina, e soprattutto perché erano ancora scioccati dagli avvenimenti: se spostare il cavallo morto era stato faticoso, dover aiutare Mulligan a caricare e poi legare sul tetto della carrozza il corpo dell’uomo ucciso li aveva proprio sconvolti. «Non lasceremo qui il povero Bob» aveva detto Mulligan. «Lo porteremo al ranch di suo figlio, che si trova lungo la strada per Tucson. Solo che dentro la cabina siete già troppi; dobbiamo caricarlo sul tetto». Così avevano fatto. Michael e Carlo, però, non avevano avuto il coraggio di toccarlo, e si erano tirati indietro piagnucolando, provocando altro disappunto in Mulligan; i loro amici non avevano potuto biasimarli, nonostante tutto. Johnny, dal canto suo, aveva cercato di rendere meno penoso il compito ricorrendo ai suoi poteri, senza che gli altri se ne accorgessero.
Adesso erano silenziosi e mogi, pressati come sardine nella cabina della diligenza, con la compagnia delle tre signore che confabulavano: anche se non le comprendevano, era evidente che parlassero di loro. Da quel poco che avevano saputo da Sabrina, che lo aveva a sua volta sentito dal giudice, dovevano essere tutte e tre imparentate: due sorelle e una cognata, o qualcosa del genere; andavano a trovare i rispettivi figli. Inoltre dovevano essere delle pettegole incredibili: osservavano gli abiti delle ragazze del gruppo con occhi increduli e bisbigliavano tra loro senza sosta; senz’altro delle donne con pantaloni dovevano apparire di una indecenza imperdonabile a quelle signore. Tinetta, ad un certo punto, scocciata dalle loro insistenti occhiate, disse: “Ma che vogliono queste vecchie galline?” e le fulminò con una boccaccia; le tre donne si ritrassero scandalizzate.
I suoi amici dissero: “Tinetta! Cosa fai?”.
“Mi hanno stancato” rispose lei.
“Hai fatto bene, Tinetta” disse Simona, e calcò la mano facendo una serie di smorfie alle tre signore, subito imitata da Tinetta che stavolta eseguì anche una serie di plateali gesti minacciosi. Le sventurate donne ne furono talmente sconvolte che si gettarono sullo sportello come per lanciarsi fuori.
“Ora basta, ragazze!” le rimproverò Manuela. “Non ti ci mettere anche tu, Simona!”.
Le due pesti cessarono la loro attività di disturbo, ma si guardarono di sottecchi e si scambiarono un sorrisetto complice.
Johnny, improvvisamente, ebbe un sobbalzo: gli altri lo guardarono incuriositi, mentre lui si affacciava al finestrino e chiamava: “Sabrina!”.
“Si?” disse lei.
“Puoi chiedere a quel signore come si chiamava il luogo dove ci siamo trovati?”.
“Quella altura, vuoi dire?”.
“Esatto” confermò Johnny.
“Credi che sia importante?” chiese Sabrina.
“Non saprei….” rispose il ragazzo. “Non si sa mai, no?”.
Lei, allora, chiese a Pearson: «Mi perdoni, giudice, può dirmi come si chiama quell’altura che si trovava nella direzione da cui siamo venuti io e i miei amici?».
«Suppongo intendiate la Mesa de Arena».
«Credo di si».
«Mesa significa altopiano, e arena vuol dire sabbia, in spagnolo; altopiano della sabbia, ovvero Mesa de Arena».
Sabrina riferì il nome del luogo a Johnny, che la ringraziò e tornò a sedersi al suo posto, mormorando: “Mesa de Arena, bene”.
“Perché glielo hai chiesto, Johnny?” domandò Michael.
“Eh?” fece Johnny, colto di sorpresa, e sfoderò il suo miglior sorriso da idiota farfugliando: “Eh eh…. niente…. ehm…. curiosità…. solo curiosità”.
In realtà gli era venuto in mente che il luogo in cui erano apparsi potesse avere una qualche importanza, ed era meglio saperne almeno il nome, per poterlo eventualmente ritrovare se necessario; forse era un posto dotato di particolari caratteristiche che interagivano con i suoi poteri, come sembrava essere nel suo tempo la scalinata su cui aveva incontrato Sabrina (cadendo dalla quale aveva viaggiato nel tempo più di una volta). Considerando questo, la Mesa de Arena avrebbe potuto facilitare il loro ritorno in seguito, benché il suo tentativo precedente fosse fallito. Johnny poi pensò che, comunque, era stata una gran fortuna materializzarsi lontano da occhi indiscreti. Comparire nel pieno centro di qualche paese, per esempio, avrebbe davvero scatenato curiosità indesiderata.
Il filo delle sue riflessioni fu interrotto da Carlo: “Ragazzi, vi rendete conto di dove siamo?”.
Gli altri lo guardarono. Il ragazzo continuò: “E’ come un film di fantascienza, abbiamo viaggiato nel tempo”. Il suo tono era eccitato.
“Non sembri affatto preoccupato” notò Tinetta.
“E perché dovrei preoccuparmi?” disse lui. “Non poteva capitare niente di più appassionante. Diventerò un eroe del west: sconfiggerò i banditi e gli indiani e il mio nome farà tremare tutti i fuorilegge”. Dicendo questo roteò e infilò nel suo immaginario cinturone la sua altrettanto immaginaria pistola.
Simona lo provocò. “Tu non sei nessuno. Io diventerò più brava di te e ti sconfiggerò”; guardò Carlo negli occhi, e portando la mano all’altezza del fianco, gli disse: “Ti sfido a duello; coraggio, vediamo chi è il più veloce a estrarre”.
Renato, al pari degli altri, li osservava perplesso. “Meno male che la prendete sul ridere. Io non sono molto tranquillo all’idea che altri pazzoidi come quello di prima possano cercare di spararmi addosso”.
“Infatti, Simona” le disse Johnny, “questo non è un gioco. Sembri non rendertene conto affatto”.
Simona lo guardò fisso con aria minacciosa. “Hai detto le tue ultime parole, bandito Johnny!”.
“Eh?” fece lui, poi Simona alzò di scatto la mano con l’indice puntato e fece fuoco: “Bang!”.
“Ah, Johnny, non ti sei difeso” disse Carlo ridendo. “Sei stato colpito”.
Le tre signore, che si erano sedute una accanto all’altra e stavano già strette, si avvicinarono ancora di più le une alle altre, guardando i ragazzi con espressioni sbigottite.
“Ehi, gente” disse allora Manuela. “Mi fa piacere che abbiate voglia di scherzare nonostante tutto, ma non dimenticate cosa stiamo trasportando” e indicò il soffitto della diligenza. “Dobbiamo mostrare un po’ di rispetto”.
Carlo abbassò lo sguardo. “Scusate, l’avevo scordato”.
“Anch’io chiedo scusa” disse Simona calmandosi.
“Wow, che gran capacità di ripresa avete” disse Michael. “Io sono ancora scombussolato da tutto l’accaduto, e voi invece avete la forza di giocare. Un po’ vi invidio”.
“Ma in effetti non c’è niente di cui preoccuparsi” cominciò a dire Simona; Johnny e Manuela si tennero pronti a chiuderle la bocca se avesse parlato a sproposito, cosa che avvenne puntualmente: “Questa è una specie di vacanza avventurosa. Quando ci saremo stancati di stare qui Johnny proverà a….”; sua sorella, seduta accanto a lei, le pizzicò un braccio. “AHI!” esclamò Simona e poi guardò storto Manuela, ma solo per una frazione di secondo, prima di rendersi conto di aver detto qualcosa di sconveniente.
“Cos’è che proverà a fare Johnny?” domandò Michael.
“Eh? Niente, niente” rispose Simona imbarazzata. “Stavo solo scherzando…. eh eh”.
“Ma quanto ci vuole per arrivare, eh? Ehm….” disse Johnny per cambiare discorso.
“Già” concordò Tinetta. “Con tutti questi scossoni arriveremo con le ossa a pezzi”.
“Mh” fece Renato, “le diligenze, nei film, sembrano più comode”.
Johnny sospirò, guardando Manuela, che ricambiò il suo sguardo con un’occhiata d’intesa. Entrambi pensarono: -Pericolo scampato-.
Quando, poco prima, Johnny si era affacciato per chiedere il nome della Mesa de Arena, il giudice aveva chiesto a Sabrina, con un sorriso: «Uno di quei giovanotti è per caso il suo fidanzato? Magari proprio quel ragazzo che le ha fatto quella richiesta?».
“GIUDICE!” esclamò Sabrina diventando rossa, sentendosi a disagio; per lo sgomento, senza rendersene conto, aveva esclamato in giapponese.
Ma l’uomo le sorrise con dolcezza. «Mia cara, non era mia intenzione metterla in imbarazzo, e di questo mi scuso, ma mi lasci dire: alla vostra età non c’è vergogna nelle questioni di cuore». Poi distolse lo sguardo da lei, e fissò davanti a sé, taciturno.
«Mi scusi se ho reagito scortesemente, giudice, ma….» disse Sabrina, senza però sapere come andare avanti.
L’uomo rimase assorto nei suoi pensieri alcuni momenti. «Non c’è niente di cui scusarsi» disse poi. «Capisco che l’argomento possa mettere a disagio dei ragazzi come voi, ma…. proprio perché siete giovani, così giovani, dovete capire che l’unica cosa di cui vergognarsi alla vostra età è reprimere i sentimenti, trattare le emozioni come qualcosa da nascondere….».
Il vecchio, sembrò a Sabrina, si era accalorato e aveva gli occhi lucidi: per la prima volta aveva perso il suo contegno, e ad un certo punto se ne rese conto anche lui; si ricompose, tornando alle sue meditazioni.
Restarono in silenzio per un poco: Sabrina in ambasce perché timorosa di aver offeso il suo interlocutore, lui semplicemente troppo concentrato nei suoi pensieri.
Poi il giudice si voltò verso Sabrina, senza parlare, solo osservandola: la ragazza si sentì a disagio per una frazione di secondo, prima che le labbra del vecchio si atteggiassero in un mesto sorriso. «Mia nipote avrebbe avuto circa la tua età, oggi» e guardò nuovamente la prateria davanti a sé. Sabrina non seppe che replicare, ma non ce ne fu bisogno, poiché il giudice proseguì: «Lei non ha potuto godersi la vita come sarebbe stato giusto facesse, perché se n’è andata troppo presto: per questo mi sono scaldato, prima». Sembrò quindi asciugarsi una lacrima.
«Ne ho altri, di nipoti, ma quando nacquero ero troppo giovane e troppo occupato dal mio lavoro per dedicarmi loro. Quando invece nacque lei, ero ormai già in pensione, e avevo tantissimo tempo libero: tempo che, comunque, non avevo assolutamente intenzione di dedicare ad una bambina. Mai amati i bambini: chiassosi e indisciplinati. Pensavo: nel nostro duro mondo devono sbrigarsi a crescere; anzi, dovrebbero nascere e (come i cavalli) sapersi reggere sulle proprie gambe nel giro di qualche ora».
Sabrina ascoltava con attenzione. L’uomo continuò, senza mai distogliere gli occhi dal paesaggio davanti a sé: «Ma lei nacque e si comportava come una bambina normalissima: piangeva e strillava e aveva costante bisogno di cure, era insomma un tormento continuo. Per me, nel suo caso, tutto si sarebbe svolto esattamente come per i miei figli e per gli altri miei nipoti: cresciuti e vezzeggiati dalla madre e dalla governante, e puniti dal padre (se necessario). Ma il mio senso di responsabilità prevalse: il resto della famiglia era impegnato, mia moglie era morta già da qualche anno; dunque restavo io, che non avevo assolutamente niente da fare, se non ammazzare il tempo. Fu così che decisi, per puro senso del dovere, di dedicare parte delle mie giornate alla piccola. All’inizio ero talmente impacciato che lei non voleva saperne di avermi intorno. Avrei potuto rinunciare (dopotutto non era un impegno al quale mi dedicavo volentieri), ma mi ritrovai a pensare che dopo aver studiato per diventare giudice, dopo aver vissuto una vita durissima e piena di responsabilità, dopo insomma aver raggiunto gli obbiettivi che mi ero prefisso, non mi sarei tirato indietro di fronte a una marmocchia».
Di nuovo una pausa; stavolta l’uomo si girò verso Sabrina e sorrise. «Oh, avresti dovuto vederla: era così piccola, non mi sembrava possibile che un esserino del genere potesse creare tanti grattacapi; era davvero una immane e chiassosissima rompiscatole…. ma a volte, quando si calmava e non aveva bisogno di niente, se non di essere controllata, era un piacere osservarla intenta nelle sue curiose attività. Mi resi conto, per esempio, che pur senza neanche camminare, sembrava scoprire cose nuove ad ogni battito di ciglia: bastava che chi le stava vicino cambiasse espressione e lei sgranava gli occhioni sorpresa, come se avesse veduto chissà quale meraviglia, e improvvisamente capii il senso dei giochi che mia moglie faceva coi nostri figli quando erano piccoli, e che a me sembravano stupidaggini. In breve tempo, senza rendermene conto, divenni un nonno a tutti gli effetti, presente e premuroso, e lei col passare dei mesi diventò sempre più bisognosa delle mie attenzioni: alla fine voleva stare quasi sempre con me, e il bello è che questo non mi pesava affatto. I suoi genitori ne erano felici: accollandomela io, rendevo un favore non indifferente al resto della famiglia. Mentre cresceva, poi, stare con lei era ancora più stimolante; mi parlava di un sacco di cose, organizzava i suoi giochi e me li illustrava perché potessi parteciparvi, e mi ascoltava sempre con attenzione quando le spiegavo questo o quell’aspetto della vita, anche se credo che spesso non capisse bene cosa intendevo dire. Quando fu abbastanza grande, sui sei o sette anni, iniziai a portarla in giro in paese con me, oppure a fare delle lunghe passeggiate in campagna».
Seguì una lunga pausa di silenzio, che Sabrina non ebbe la forza di rompere: aveva intuito come andasse a finire quella storia.
Il giudice sospirò, e riprese: «Io, che avevo avuto tempo solo per lavorare e costruirmi una posizione, avevo dovuto raggiungere quasi i settanta anni per poter dire di avere di nuovo un amico, dopo quelli di quando ero molto giovane: e questo amico aveva sette anni ed era una bambina».
Il vecchio si volse verso Sabrina, che sembrava triste, e non lo guardava; l’uomo si rese conto di averla turbata, e disse: «Mi spiace, non intendevo farti star male…. è solo che….» abbassò lo sguardo «….sono sicuro che sarebbe una persona simile a te, oggi…. se non si fosse ammalata…. aveva un carattere forte ed era molto intelligente…. e ad occhio e croce le vostre età coincidono….».
«Lei….» iniziò Sabrina, sempre senza guardarlo in viso, «….lei….sua nipote ha avuto una bella vita».
«Si» concordò il giudice, «l’ha avuta….».
 
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Ormai la giornata volgeva al termine, il sole era sempre più basso, e le montagne -che erano lontane al momento della loro partenza dalla Mesa- ora erano molto più vicine. Dopo qualche minuto di silenzio, Sabrina chiese: «Quelle montagne sono vicine alla città?».
«Si» rispose l’uomo. «Pochissime miglia da Tucson».
«Conosce bene questo territorio. Lei è di queste parti?».
«Sono nato proprio in queste terre; te lo avevo detto che sono un vecchio gentiluomo del sud».
«Sta tornando a casa, dunque?».
«No» rispose l’uomo. «Sono tanti anni che non torno in questa parte del paese. Ho vissuto e lavorato all’est per molto tempo: poi il sindaco di Tucson, che è un mio vecchio amico, mi mandò un telegramma. Mi scrisse che la città era senza giudice, che tutti si rifiutavano di assumere l’incarico perché avevano paura».
«Paura di che?» chiese Sabrina.
«Della città stessa» rispose Pearson. «E’ in mano a gente senza scrupoli, e l’ultimo giudice è stato ucciso in casa sua: così mi scrisse il mio amico. Lui ha più o meno la mia età, e non riesce ad arginare l’ondata di criminalità, nonostante l’aiuto dello sceriffo che, a quanto pare, è un uomo molto in gamba. Così ha chiesto il mio sostegno. Sapeva che ero in pensione, e mi domandò se ero interessato a ricoprire la carica».
«Ma…. così lei sarà in grave pericolo, giudice….» disse allarmata Sabrina.
«Alla mia età il pericolo è vivere nell’apatia gli ultimi anni della vita, mia giovane amica. I miei figli e nipoti sono tutti in salute e ben avviati sulla loro strada, la mia presenza per loro è superflua.
L’unica cosa che mi legava all’est era la mia nipotina, ma senza di lei…. beh, sono venuto in questa città per combattere contro il crimine, come ho sempre fatto».
In quel momento videro Mulligan che si avvicinava; quando fu a portata di voce, disse: «Giudice, ormai siamo in prossimità del Black Arrow, il ranch del figlio del povero Bob. Ancora poche decine di metri e dovremo svoltare in un sentiero sulla destra».
«Lei faccia strada, Mulligan; le starò dietro».
«D’accordo, giudice» disse Mulligan, poi spronò il suo cavallo per portarsi di nuovo all’avanguardia.
Poco dopo, infatti, Mulligan lasciò la pista principale svoltando a destra, e la diligenza lo seguì.
Dal finestrino si affacciò Tinetta, che domandò: “Sabrina, perché abbiamo voltato? Siamo quasi arrivati?”.
“Si, Tinetta. Qui vicino c’è il ranch dove faremo la prima fermata”.
Tinetta comunicò agli altri la notizia, e il gruppo si scatenò per gettarsi sui finestrini ad osservare il paesaggio e individuare il ranch, creando una gran confusione, eccitati a dispetto delle circostanze: nonostante le traversie, infatti, erano pur sempre un gruppo di ragazzini che stava vivendo una grande avventura.
Superarono un cancello di legno; su uno dei pali c’era una tavola con il disegno di una freccia nera; erano arrivati al Black Arrow ranch. La prima cosa che notarono fu un recinto con decine e decine di mucche, e alcuni cow-boy intenti ad occuparsene: cow-boy che, però, si diressero verso la diligenza quando la videro entrare nel terreno del ranch.
Appena la ebbero affiancata, iniziarono le domande: «Mulligan, che è successo?».
«Di chi è il corpo che stai portando?».
«Chi sono tutti quei passeggeri?».
«Calma, ragazzi» disse Mulligan. «Fateci fermare e riprendere fiato. E chiamate il padrone».
«Ci penso io» disse uno dei cow-boy, spronando il cavallo al galoppo sul sentiero che conduceva alla casa padronale.
«Questo posto è grandissimo» commentò Sabrina guardandosi intorno; i cavalieri si erano affollati intorno a lei e al giudice e li guardavano incuriositi.
«Ehilà, bellezza» le disse un cow-boy particolarmente giovane, con un tono sgradevole. «Cosa ci fai da queste parti?». Lei lo ignorò completamente.
«Andiamo, carina» insisté lui, con modi viscidi. «Non fare la sostenuta. Sai, io sono un tipo importante».
Sabrina si voltò verso di lui, fulminandolo con un’occhiata glaciale. «Non hai idea di quanto mi deluda aver fatto tanta strada e scoprire che anche da questa parte del mondo esistano degli idioti come te» disse.
L’altro restò di sasso, completamente sbalordito dalla risposta. «Piccola, non ti conviene fare la smorfiosa con me» disse poi abbassando la voce in un ringhio minaccioso.
«Sparisci, amico» gli disse il giudice a quel punto. «La signorina non vuole essere infastidita».
«E tu che vuoi, nonno?» ribatté lui. «Chi è questa, la tua nipotina? Devi insegnarle l’educazione, allora. O vuoi che gliela insegni io?».
«Steve Jenning!» esclamò Mulligan, che si era portato vicino a loro, rivolgendosi all’importuno: «Lascia stare quest’uomo! Lui sarà il nuovo giudice di Tucson, tanto perché tu lo sappia».
In quel momento Sabrina vide una cosa che non gli piacque: sul viso dell’uomo chiamato Jenning passò un’ombra tanto veloce che probabilmente, oltre a lei, nessun altro notò; dopo un attimo infatti Jenning stava ridendo. Ma quando aveva sentito dire che quello era un giudice il suo volto aveva assunto per una frazione di secondo un’espressione terribile, e il fatto che subito dopo l’avesse dissimulata inquietò Sabrina.
«Ah ah ah, il nuovo giudice, eh?» disse Jenning, con una risata che sembrava quasi sincera. «Mi spiace, ma sapete com’è, in questo posto non si fa altro che lavorare, non ci sono molte occasioni di svago. Vi chiedo scusa, giudice» e togliendosi il cappello fece un leggero inchino a Sabrina.
«Le mie scuse anche a voi, signorina» e voltò il cavallo per raggiungere i suoi colleghi, che iniziarono subito a canzonarlo: «Ah ah, Steve, non hai fatto colpo, a quanto pare».
«Il tuo fascino ha fatto cilecca, eh?».
«Quello è una testa calda, giudice» disse Mulligan a Pearson, «ma è innocuo. Non è altro che un bamboccio che deve essere messo al suo posto».
«Grazie, Mulligan» disse Pearson, «me ne ricorderò. Mi dica, di chi è questo ranch?».
«E’ di Rick Samson, il figlio del vecchio Bob, che stiamo trasportando sul tetto della diligenza».
«Capisco» commentò il giudice. «E’ davvero bello».
«Può dirlo forte» confermò Mulligan. «Ed è anche molto grande. E’ uno dei ranch più importanti della regione, un vero vanto per Tucson. Dà lavoro a decine di uomini».
«Tutti del paese?» chiese Pearson.
«Non tutti» rispose Mulligan. «Ci sono alcuni giovanotti volenterosi di passaggio. Quello Steve Jenning, per esempio, è un ragazzo arrivato qualche mese fa dal Kansas. E’ stato preso in prova da Samson e si è dimostrato subito un tipo in gamba, nonostante sia molto giovane».
«In gamba, eh?» disse il giudice. «Ma non molto educato, direi».
«Non si faccia impressionare» disse Mulligan. «Gliel’ho detto, è una testa calda, ma niente di più. E’ giovane, si ubriaca e finisce spesso in mezzo a qualche rissa. Cose che tutti hanno fatto, alla sua età».
«Infatti» concordò Pearson. «Non imprigionerò certo un marmocchio perché è maleducato e scortese».
«Ah ah ah» rise Mulligan, «dovrebbe ingabbiare mezza Tucson, in quel caso».
«Mi rendo conto….» mormorò Pearson. Poi aggiunse: «Mi dica una cosa, Mulligan: mi pare che non ci siano molti uomini al lavoro. Dovrebbero essercene di più in un ranch così grande».
Il viso di Mulligan si rabbuiò. «Lei ha messo il dito nella piaga, giudice».
«Che significa?».
«In città, da qualche anno, c’è una nuova legge» rispose Mulligan, abbassando la voce. «Una coppia di affaristi dell’est (chiamati Duke e Young) ha comprato quasi tutti i locali di Tucson e ha cominciato a fare il bello e il cattivo tempo». Poi, guardandosi intorno circospetto, proseguì: «Sia chiaro che non ci sono prove contro di loro: sono troppo potenti, ma tutti sanno la verità; Rick Samson è uno dei pochi che abbia abbastanza potere da contrastarli, perché è molto ricco e ha ancora quasi tutta la città dalla sua parte. Lui però è un uomo onesto, mentre questi sono due farabutti. Nell’ultimo anno sono capitati vari incidenti agli uomini che lavoravano al Black Arrow, e in certi casi c’è scappato il morto. Così trovare qualcuno che abbia voglia di correre il rischio di lavorare qui è sempre più difficile».
Mulligan alzò lo sguardo verso il tetto della diligenza, tristemente. «Il vecchio Bob, per esempio; io non metterei la mano sul fuoco che l’assalto di oggi non sia stato un trucco per uccidere lui, e non una semplice rapina. I banditi erano troppo accaniti nello sparargli addosso, a mio avviso. Qualcuno ha voluto mandare un avvertimento a Samson, si direbbe».
«Se così fosse» osservò Pearson. «La situazione sarebbe grave».
«Grave, si, ma non disperata, giudice» puntualizzò Mulligan. «Come le ho detto, la città è ancora dalla parte giusta, e appena salterà fuori uno straccio di motivo per agire, i bravi cittadini di Tucson non si tireranno indietro nel rispedire a calci i due buontemponi nelle città dell’est».
«Ma qualcuno dalla loro parte dovranno pure averlo, questi signori, altrimenti il loro potere non si spiegherebbe».
«Hanno pistoleri e desperados dalla loro parte. Tutti delinquenti che si sono portati dietro quando sono arrivati qui o dai quali si sono fatti raggiungere in seguito».
«E Tucson sopporta la presenza di questa gentaglia?».
«Come le ho detto prima, giudice, non ci sono prove; solo sospetti e dicerie. I loro tirapiedi hanno facce poco raccomandabili, questo si, e danno l’impressione di essere delle canaglie che mordono il freno in attesa che il padrone gli dia via libera: ma non si può incarcerare qualcuno solo perché sembra un tipo pericoloso. Inoltre i pezzi grossi dell’est danno lavoro onesto a moltissime persone in città. Le loro attività sono legali, almeno quelle svolte alla luce del sole».
«Mi sta dipingendo un quadro non piacevole» commentò Pearson.
«Me ne rendo conto, giudice» ribatté Mulligan. «Ma non sarà solo, si fidi». Poi spronò il cavallo per portarsi più avanti. «Giudice, ancora qualche curva e vedrete la casa padronale. Io vi precedo: preferisco avvisare Samson dell’accaduto prima che veda il corpo del padre» e sparì dietro la svolta del sentiero.
Sabrina aveva ascoltato attentamente il colloquio tra i due, e appena lei e Pearson furono soli disse: «Giudice, quel tipo…. Jenning….».
«Si?».
«Non mi piace: dovrebbe tenerlo d’occhio».
«E’ stato davvero importuno, eh?».
«Non è per questo; qualcosa nel suo sguardo mi ha spaventato. E’ stato solo un istante, ma mi ha dato l’impressione di essere malvagio…. e pericoloso».
«Si» confermò il giudice, «è una gran canaglia». Poi guardò Sabrina e le fece l’occhietto. «Ti ho detto che le riconosco quando me le trovo di fronte, no?».
«E cosa pensa di fare?» domandò la ragazza.
«Quello che hai detto tu, tenerlo d’occhio…. a proposito, complimenti per la capacità di giudizio, sei una ragazza perspicace».
Sabrina gli sorrise. «Grazie dell’apprezzamento, giudice, anche se a quanto pare non aveva bisogno del mio avvertimento: lei è davvero una vecchia volpe».
«Ah ah, vero?» poi la guardò e le fece un sorriso sornione. «Devi farne di strada, piccola, prima di raggiungere il mio livello».
«Non ne sia così certo, giudice; anzi, si prepari a cedermi il suo posto quanto prima».
«Aaaah» sospirò Pearson, «questi giovani d’oggi, così impertinenti. E’ proprio vero che non c’è più rispetto per i capelli bianchi» poi si guardarono in faccia e scoppiarono a ridere.
«Non avrei mai detto che un viaggio così potesse essere piacevole» commentò Pearson dopo qualche secondo.
«Già» concordò Sabrina, mentre la casa del padrone del ranch compariva davanti alla diligenza, dopo l’ennesima svolta. «Ora però siamo arrivati, e sembra che siamo attesi».
Un gruppo di uomini, alcuni a cavallo, altri a terra, aspettavano davanti alla casa che la diligenza si fermasse. Fino a quel momento, alcune gobbe del terreno (talmente basse e piccole che anche chiamarle collinette sarebbe stato esagerato) avevano nascosto la visuale del caseggiato principale del ranch, che adesso si presentava ai loro occhi: il sentiero terminava in un grande spiazzo, su cui troneggiava la casa padronale, una bellissima costruzione in legno di due piani, bianca con rifiniture verdi. Sulla destra, discosti di alcune decine di metri, c’erano altri edifici: un grande magazzino facilmente identificabile come un fienile o una stalla, e vicino a questo una serie di quattro o cinque baracche non molto grandi con dei cavalli legati davanti; sulla sinistra c’era un altro magazzino, simile al primo ma un po’ più piccolo; poi, dietro e intorno la casa principale, si estendeva il recinto, gremito di manzi: come aveva detto Mulligan, un ranch davvero superbo. Sabrina osservò rapita tutto questo, chiedendosi distrattamente se non allevassero anche cavalli, che lei amava molto. Pochi istanti dopo, quando la diligenza si fermò, Sabrina tornò alla realtà: si fece avanti un uomo sulla quarantina, si lanciò sulla carrozza, si arrampicò sul tetto e scoprì il volto del cadavere. «Papà….» mormorò.
Tutti restarono in silenzio, costernati, mentre Rick Samson osservava i poveri resti del padre.
Mulligan, lentamente, si avvicinò a Pearson e gli disse, a bassa voce: «Giudice, scendete pure, intanto che tiriamo giù il povero Bob, e fate scendere anche i passeggeri…. non riusciremo a ripartire prima che faccia buio».
Sabrina e Pearson scesero, e la ragazza disse ai suoi amici di fare altrettanto: questi scesero a terra timorosi, mentre gli occhi di tutti li scrutavano con curiosità. Istintivamente Johnny e gli altri si andarono a sistemare un po’ discosti dal gruppo di cow-boy che, nel frattempo, avevano iniziato a tirare giù il corpo di Bob Samson; le tre signore, invece, si diressero subito verso l’ingresso principale della casa, dove confabularono alcuni istanti con una cameriera e con una donna che probabilmente era la moglie di Rick Samson, dopodiché entrarono nell’edificio.
Sabrina, che era rimasta a parlare con Pearson e Mulligan, raggiunse i suoi amici.
“Sabrina, cosa dobbiamo fare?” le chiese Johnny.
“Per ora possiamo solo aspettare” rispose lei.
“Di che cosa hai parlato con quel giudice durante il viaggio?” chiese ancora Johnny.
“Un bel po’ di cose” disse lei. “Vi spiegherò tutto appena ci avranno sistemati”.
“Ci sistemeranno?” disse Renato, timoroso. “In che senso?”.
“Non preoccuparti, Renato” lo rassicurò lei. “Il fatto è che non riusciremo a ripartire prima del buio, perciò resteremo qui per stanotte”.
“Qui?” fece Tinetta sgranando gli occhi nell’osservare la casa dei Samson. “Questo posto è grandissimo, ma non credo che ci siano stanze per tutti”.
“Ci divideremo” spiegò Sabrina. “Le ragazze in casa e i ragazzi nelle baracche del personale”.
“Le baracche del personale?” chiese Johnny.
Sabrina indicò la serie di piccole costruzioni vicino alla stalla. “Vedete? Quelle sono le bunkhouse, ovvero le baracche in cui dormono i cow-boy; voi ragazzi starete lì”.
“Vuoi dire che…. dormiremo insieme a quei pazzi armati?” chiese Michael.
“Non proprio” rispose Sabrina. “Vedete, il ranch è molto a corto di personale e infatti due di quelle bunkhouse sono vuote. Possono starci fino a dieci persone, quindi voi cinque non avrete problemi ad occuparne una”.
“Cinque?” chiese Renato contando se e gli altri. “Noi siamo quattro”.
“Il giudice Pearson dormirà con voi. Dato che è molto anziano, i Samson gli hanno proposto di dormire in casa; lui però ha detto che preferisce stare meno comodo, ma più a contatto con l’aria aperta”. A Tinetta si illuminarono gli occhi a queste parole, ma in quel momento non disse niente.
“Ehm….” disse Michael, “non potremo farci neanche un bagno? Io sono polveroso e sudato”.
“Anche io” si accodò Manuela. “Mi piacerebbe veramente potermi lavare”.
“Sentite, per ora consiglio a voi ragazzi di entrare nella bunkhouse, e di non farvi notare troppo” disse Sabrina. “Praticamente tutti ci guardano con un certo sospetto, tranne il giudice. Io e le ragazze, con qualche moina da docili signorine potremo cercare di entrare nelle grazie della padrona di casa; mi sembra di aver capito, però, che in questo ambiente considerino meno degli insetti i maschi di appena più di dieci anni che non si comportino come animali. E immagino che chiedere di farsi un bagno non sarebbe considerato un comportamento da uomo”.
“Ah, bene” bofonchiò Michael.
“Ehm….” disse Manuela, “se è per questo, mi sa che ormai è troppo tardi anche per noi ragazze riuscire a dare l’impressione di graziose donzelle”.
“Perché?” chiese Sabrina.
“Eh eh eh” Simona rise, imbarazzata, “nella carrozza, io e Tinetta abbiamo un po’ sconquassato le tre bacucche”.
Sabrina sgranò gli occhi e li posò severamente su Tinetta. “Ah si, eh? Si può sapere cos’hai combinato?”.
La sua amica però faceva finta di niente, e guardava il cielo fischiettando.
“Tinetta!” esclamò Sabrina.
Allora Tinetta guardò verso di lei, e disse: “Ehm, ehm…. Sabrina, mi spiace, ma…. ma…. quelle
vecchiacce ci guardavano dall’alto in basso”.
“Si, ecco” concordò Simona, “dall’alto in basso”.
Sabrina abbassò lo sguardo sospirando, coprendosi gli occhi con la mano; poi disse: “Va bene, cercate però di comportarvi bene, da ora in poi, d’accordo?”.
Le due abbassarono a loro volta gli occhi e dissero all’unisono: “Ok, ci comporteremo bene”.
“Uff” sospirò Sabrina, “speriamo”.
Sabrina fece strada alle sue amiche verso la casa del padrone, e Johnny e i ragazzi si diressero verso una delle baracche vuote. Aprirono la porta e videro che la casetta era praticamente priva di mobili, a parte una decina di brande vecchie e logore, ognuna affiancata da un basso comodino. Su una parete c'era uno scaffale vuoto, accanto all'unica finestra della baracca; chiusero la porta alle loro spalle e si sedettero sui loro giacigli.
“Caspita, che roba” disse Renato, guardandosi intorno sconsolato; gli sguardi degli altri indicavano che si sentivano più o meno come lui.
Carlo si sdraiò, sospirando. “Io muoio di fame, ragazzi”.
Avevano tutti fame, anche se fino a quel momento avevano avuto altro a cui pensare.
Michael tirò fuori dal suo zaino le barrette di cioccolato. “Io ho queste, gente. Sono tre”.
Gli altri si avvicinarono, ma Michael disse: “Mi scoccia dividerle con voi, però…. cosa mi date in cambio?”.
“Io ti do questo, se vuoi” disse Renato alzando il pugno e agitandolo minaccioso.
“Piantala Michael, siamo tutti sulla stessa barca” lo riprese Johnny.
“Ok, ok, scherzavo” cedette lui.
“Si, come no” lo provocò Carlo. “Mi sorprende anzi che tu non le abbia tirate fuori di nascosto per mangiartele da solo”.
“Ehi, non sono così meschino” si difese Michael.
“Io si” disse Carlo. “Me le sarei mangiate tutte senza dirvi niente”.
“Ah, si, eh?” fece Renato. “E se ti avessi scoperto te l’avrei fatta pagare”.
“Ma dai, io credo che stia scherzando anche Carlo, in fondo” disse Johnny.
“Si, più o meno” confessò Carlo. “Comunque non fatene un dramma, ragazzi: parlate come se non avessimo altro cibo”.
“Infatti non ce l’abbiamo”.
“Ma non siamo dispersi nel deserto. Ci hanno dato un letto, ci daranno anche del cibo”.
Michael, Johnny e Renato si guardarono perplessi; poi Johnny disse: “Beh, senz’altro non ci faranno morire di fame, ma visto il letto che ci ritroviamo non so che roba ci daranno da mangiare”. Le espressioni degli altri due indicarono che anche loro avevano fatto la stessa considerazione.
“Ma non avete visto quanti manzi hanno qui?!” fece notare loro Carlo. “Cosa credete che ci daranno?”.
Di nuovo Johnny, Michael e Renato si guardarono l’un l’altro, stavolta con gli occhi sgranati. “Ehi, non ci avevo pensato” disse Michael.
“Neanche io” dissero insieme Johnny e Renato, poi tutti e tre si volsero a Carlo, chiedendogli: “Quindi, secondo te, ci daranno carne di manzo?”.
“Ma certo” assicurò Carlo. “Ce ne sono centinaia…. io li ho contati, più o meno”.
“Ecco perché eri così assorto nell’osservare il paesaggio mentre ci avvicinavamo al ranch” notò Johnny.
“Ma che paesaggio” disse lui. “Stavo contando i capi di bestiame e già pregustavo le prelibatezze che ci avrebbero servito”.
“E…. e che cosa mangeremo, secondo te?” chiese Renato, con l’acquolina in bocca ormai oltre il livello di guardia; anche Johnny e Michael si apprestarono ad ascoltare Carlo, trepidanti.
“Bistecche, miei cari” iniziò lui.
“Bisteeccheeee….” sospirarono gli altri tre, cantilenando.
“Filetti”.
“Fileettiiii…..”.
“Arrosti”.
“Arroostiiii….”.
Carlo si gongolò delle sue stesse previsioni, sognando anche lui il momento in cui avrebbe addentato tenera carne di vitello, mentre gli altri pendevano dalle sue labbra.
L’aprirsi della porta, però, li riportò coi piedi per terra; il giudice Pearson fece il suo ingresso nella baracca.
I ragazzi si zittirono all’istante, intimoriti dall’aspetto austero dell’uomo; dal canto suo, il giudice si limitò a salutarli con un leggero cenno del capo, poi si tolse la giacca e si mise a sedere su una branda. Li guardò, e disse loro: «Mi dispiace aver interrotto i vostri discorsi. Immagino che avreste preferito occupare da soli questa baracca, ma sapete com’è…. ora che dopo tanti anni sono tornato nella mia terra natia, non mi va di chiudermi in casa come quando vivevo in città. In realtà avrei voglia di dormire sotto le stelle, come facevo quand’ero bambino, ma alla mia età non è affatto consigliabile: mi accontenterò della bunkhouse».
Johnny e i suoi amici si guardarono un po’ preoccupati, indecisi su cosa fare.
Poi Johnny si rivolse a Pearson: “Mi scusi, signore…. noi non capiamo la sua lingua”.
Il giudice rise contento. «Non so cosa hai detto, ragazzo, ma giurerei che mi hai informato che non capisci la mia lingua. Naturalmente lo so…. ma che vuoi che ti dica, i vecchi parlano solo per il gusto di ascoltare la propria voce, a volte». Detto questo, si tolse le scarpe e allungò le gambe sulla branda, appoggiando la schiena al muro. Si tolse di tasca un sigaro e lo accese.
“Che dovremmo fare?” chiese Renato sottovoce. “Questo continua a parlarci”.
“Non credo che dobbiamo rispondere, però” disse Michael. “A me sembra che parli praticamente da solo”.
“E poi sa che non lo capiamo” aggiunse Carlo.
«Spero che il fumo non vi infastidisca» disse ad un certo punto Pearson guardandoli, alzando il sigaro nella loro direzione per far intendere che parlava di quello.
“Credo ci abbia chiesto se ci da fastidio il fumo” disse Johnny ai suoi amici.
“Beh, a me ne dà eccome” si lamentò Renato.
“Anche a me” concordò Michael, “ma sarà saggio farglielo notare? Questo tipo mi fa un po’ paura”.
“Ma no” disse Carlo. “E’ un brav’uomo. Sabrina ha detto che è l’unico che si fida di noi”.
“Quindi a te non fa paura?”.
“Un po’ si” ammise Carlo, “ma….”.
Pearson interruppe la loro discussione alzandosi in piedi, e avviandosi all’uscita. Accanto alla porta d’ingresso della baracca c’era una sedia: il giudice la prese, uscì, la sistemò contro la parete della baracca e ci si accomodò.
I ragazzi tornarono a confabulare: “Lo avremo mica offeso?”.
“Ma no, non vedi che è tranquillo?”.
“E ora noi che facciamo?”.
“E’ quasi buio. Il sole sta tramontando”.
“Quando ci porteranno la cena?”.
“Già, io ho fame”.
“Sai che novità, Carlo; tu hai sempre fame”.
«Ehi, ragazzi» chiamò Pearson dall’esterno voltandosi verso di loro, «volete darvi una lavata?».
Johnny e compagni lo guardarono incerti su cosa fare, poi Michael disse: “Mi sa che ci ha fatto una domanda”.
“Già, è sembrato anche a me” convenne Carlo.
Allora Renato ruppe gli indugi e si alzò, avvicinandosi al vecchio. “Mi scusi, signore…. noi…. noi non sappiamo cosa ha detto”.
«Guarda là» disse Pearson indicando davanti a sé: Renato guardò in quella direzione, e vide che i cow-boy del Black Arrow si lavavano attingendo acqua da un pozzo di pietra, qualche metro davanti all’ingresso della loro baracca.
“Gente!” esclamò Renato. “Possiamo lavarci!”.
“Davvero?” disse Johnny alzandosi, imitato dagli altri due; si affacciarono all’ingresso e videro il pozzo. Cinque o sei cow-boy si erano tolti le camicie e si passavano dei panni bagnati addosso, inumidendoli nel secchio colmo di acqua attinta dal pozzo.
“Meglio di niente” disse Renato.
“Già, ma chi ci assicura che quelli ci permetteranno di usare l’acqua in santa pace?” disse timoroso Carlo.
“E perché non dovrebbero?” obiettò Johnny. “Anzi, io ci vado” e si incamminò in direzione del pozzo. Gli altri lo seguirono tenendosi un po’ indietro. Gli uomini lì riuniti li osservarono con interesse, quando si avvicinarono; Johnny, a gesti, fece capire loro che avrebbero voluto lavarsi; i cow-boy si guardarono. «Credo che questi ragazzini vogliano darsi una ripulita».
«Aspetteranno che abbiamo finito noi; troppo comodo usare la nostra acqua: dovranno tirarsela su da soli».
«Più che giusto» intervenne Pearson che era arrivato dietro Johnny e gli altri; stava sempre fumando il suo sigaro; si rivolse ai ragazzi e a gesti spiegò loro che avrebbero dovuto tirar l’acqua su dal pozzo con le proprie mani. Renato si accinse dunque a raccogliere il secchio, ma uno dei cow-boy lo bloccò; Renato lo guardò intimorito, e l’uomo gli fece capire che avrebbero dovuto aspettare il loro turno.
“Ehi, ma che combini?” lo rimproverò Michael. “Non vedi che non hanno ancora finito? Tra poco toccherà a noi”.
“Cavolo” sibilò Renato, “tu non sbagli mai?”. Dopo questo veloce scambio di battute, i nostri eroi si predisposero all’attesa.
Fu uno degli uomini del Black Arrow a rompere il silenzio, rivolgendosi a Pearson: «Giudice, posso farle una domanda?».
«Certo, ragazzo».
«Mi spiega come mai ha così a cuore il benessere di questi stranieri? E’ sicuro che ci sia da fidarsi?».
«Non vedi che sono solo ragazzini?».
«L’età per premere un grilletto ce l’hanno, non crede?».
«Ah ah ah» rise Pearson, «se tu li avessi visti oggi pomeriggio non parleresti così, ti assicuro. Non penso che abbiano mai neppure tenuto in mano una pistola».
«Mmmh» bofonchiò un altro cow-boy, mentre versava l’acqua sporca a terra e consegnava a Carlo (che era il più vicino a lui) il secchio vuoto. «Mulligan ci ha detto che arrivavano dalla zona desertica a piedi, freschi come se avessero fatto una passeggiatina».
«Vero» confermò Pearson, mentre osservava Johnny e Renato calare il secchio nel pozzo per attingere l’acqua. «E allora?».
«E allora è maledettamente strano. Questi bambocci così incapaci che spuntano come se niente fosse dalle praterie dell’Arizona, soli e disarmati; come sono sopravvissuti ai coyote, ai serpenti a sonagli, alla fame, alla sete, al freddo notturno? Per non parlare del fatto che quattro ragazze giovani e belle viaggiavano con loro, e quelle per i predoni sia bianchi che pellerossa sono merce preziosa. Inoltre sono spuntati fuori poco dopo l’attacco dei banditi, no? Non mi dica che non ci ha pensato».
«Ci ho pensato» ammise Pearson.
«Dunque?».
«Dunque sono contento che se la siano cavata».
«Questa non è una risposta».
«In questo momento è l’unica che so darvi; avete ragione voi, questi bambocci sono un bel mistero, ma certo non sono i banditi che ci hanno assalito; è chiaro che sono inoffensivi» e così dicendo osservava i quattro ragazzi che cercavano faticosamente di tirar su l’acqua dal pozzo.
«In questa faccenda non c’è niente di chiaro, giudice, ecco il problema. E’ per questo motivo che tutti li guardano con sospetto»; dopo questa considerazione gli uomini del ranch, finito di lavarsi, si diressero alle rispettive bunkhouse.
Uno, però, si voltò per aggiungere: «Li faccia sbrigare, giudice; tra poco si mangia» e si allontanò.
«D’accordo» rispose Pearson; ma non disse loro niente, perché non avrebbe saputo come farsi capire: perciò tornò a sedersi e a fumare il suo sigaro.
 
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Per cena c’era zuppa di verdure, molto sostanziosa ma dal pessimo sapore; fu servita in ciotole di legno e tutti mangiarono con gusto, tranne Johnny e i suoi amici. C’era un grande tavolo all’aperto con posti a sedere a sufficienza, ma molti erano vuoti: la maggior parte dei cowboy mangiava in piedi, appoggiati alla staccionata del recinto oppure seduti direttamente a terra. Johnny, Michael e Renato erano seduti davanti all’ingresso del loro alloggio e alternavano sguardi di disgusto alla zuppa e sguardi di furore a Carlo, seduto un po’ distante, che si era fatto piccolo piccolo.
“Bistecche, eh? Filetti, eh?” gli disse Michael, minaccioso. “Accidenti a te e alle tue fantasie gastronomiche”.
“Cavolo, spero di non sentirmi male se mangio questa roba” commentò Renato.
“Chissà cosa c’è dentro” si chiese Johnny. Tutti insieme sospirarono.
Il giudice Pearson uscì dalla baracca fumando il sigaro; lui aveva già finito la cena. Osservò i ragazzi, e disse: «Mi sembra che la zuppa non sia di vostro gradimento».
Johnny e compari lo guardarono sconsolati.
«Ehi» disse in quel momento una voce conosciuta, «i nostri ospiti fanno gli schizzinosi?».
Era Steve Jenning, il giovane che aveva fatto il gradasso con Sabrina, accompagnato da altri due; si avvicinarono al gruppetto di Johnny, dicendo: «Ohhh, i signorini non amano la nostra cucina. Forse dovremmo portarli in un ristorante di gran lusso, che ne dite?».
I due assieme a lui risero, ma anche gli altri cowboy a portata d’orecchio sghignazzarono.
«Questi marmocchi vorrebbero forse mangiare in casa come i padroni e le donnine?» continuò il bullo. Johnny e gli altri si osservarono titubanti: non sapevano cosa stesse dicendo Jenning, ma capivano che li prendeva in giro.
«Lasciateli in pace» intervenne Pearson. «Sono ragazzini e pure stranieri. Non sono abituati al nostro cibo».
«Se fanno i difficili con questa cena, che cosa hanno mangiato durante la loro scampagnata nel deserto?»chiese uno dei compagni di Jenning.
«Di nuovo questa storia?»sbuffò Pearson.
«Si, giudice» disse Jenning, «di nuovo questa storia. I marmocchi dovrebbero dire da dove vengono».
«Mi sorprende che un gruppo di omaccioni come voi abbia paura di questi sbarbati».
«Non ne abbiamo paura» intervenne un altro uomo avvicinandosi, «ma non ci fidiamo. Troppe cose non quadrano».
«Infatti» disse un’altra voce dal buio, «e poi venivano dalla Mesa de Arena».
Un brusio di assenso seguì queste parole.
«Bah, queste sono cretinate» disse Jenning. «Siete troppo superstiziosi».
Pearson si guardò in giro circospetto. «Di che state parlando?».
«La Mesa de Arena è un luogo stregato, secondo loro» disse Jenning, ironico. «Gli indiani dicono che ci sono gli spiriti e qui tutti ci credono».
«Tu sei qui da poco, Steve» disse l’uomo che si era avvicinato per ultimo. «E’ vero, gli indiani considerano la Mesa de Arena un luogo proibito, abitato dagli spiriti, e loro sono molto superstiziosi…. ma è anche vero che alcuni, avventuratisi nella grotta sul fianco della Mesa, non sono mai tornati indietro; si dice, inoltre, che alcune misteriose figure sono state viste comparire come dal nulla in quella grotta».
«Assurdo» commentò Pearson, tranquillo. «Almeno in questo caso concordo con lo sgradevole Jenning nel dire che si tratta di ridicole sciocchezze».
Jenning lanciò a Pearson uno sguardo glaciale, dicendogli: «In ogni caso, giudice, faccia come vuole; per quanto mi riguarda, questi ragazzi sono sotto la sua responsabilità, visto che le stanno tanto a cuore». Fece un cenno ai suoi due compari e si allontanarono tutti e tre.
Pearson l’osservò andar via, poi domandò al cowboy che era rimasto lì: «Quei due sono i tirapiedi di Jenning?».
«Sono solo suoi amici, giudice. Si chiamano Bull e Cody» fu la risposta. «Steve è un gran lavoratore, anche se è piuttosto stupido, ed è molto benvoluto al ranch».
«Capisco….» mormorò Pearson: a lui Jenning non sembrava affatto stupido.
In quel momento una selva di fischi e grida di apprezzamento partì dal gruppo di cowboy: tutti alzarono gli occhi, e videro Sabrina, Tinetta, Simona e Manuela scendere dagli scalini della casa padronale e andare verso Johnny e gli altri, mentre tutti gli sguardi le seguivano.
“Ehi, ragazze….” chiese Johnny quando li ebbero raggiunti, “ma come siete vestite?”.
“Sono vestiti della padrona di casa” spiegò Tinetta. “Hanno detto che portare i pantaloni era sconveniente e ci hanno conciate così”.
Tutte e quattro erano vestite con gonne lunghe fino alle caviglie con pizzi e merletti.
Renato osservò incantato Tinetta, e le disse: “Tinetta, come stai bene….”.
“Grazie” rispose lei.
Michael e Carlo si fiondarono vicino a Simona e Manuela e le insidiarono con sguardo lascivo. “Ooooh, come siete carine. Non verreste a fare una passeggiata al chiaro di luna?”.
“Ehi, lasciatele stare!” esclamò Johnny.
“Ma andiamo, cognatino” gli disse Michael.
“Chi sarebbe il COGNATINO!?”.
“Su, su, tesoruccio” disse Tinetta prendendo Johnny a braccetto, “perché non mi proponi anche tu di fare una passeggiata romantica sotto la luna?”.
Renato e Sabrina insieme lanciarono occhiatacce furenti a Johnny, mentre Simona e Manuela cercavano di divincolarsi dalle tentacolari attenzioni di Michael e Carlo.
Quelle scenette scatenarono le risate dei cowboy del ranch, e anche i loro commenti.
«Però, i bambocci sanno come comportarsi con quelle signorine, vero?».
«Infatti: ci provano senza ritegno!».
«Già, ora mi sembrano meno strani. Coraggio, ragazzi, facciamo il tifo per voi! Fatele cadere ai vostri piedi!».
Mentre Johnny e gli altri finivano la loro cena (erano troppo affamati per lasciarla) Sabrina chiacchierò col giudice. Tra le altre cose, seppe che la Mesa de Arena, secondo le dicerie, era stregata. Pensò che più tardi avrebbe dovuto dirlo a Johnny, visto che pareva interessato a saperne di più su quel luogo. Finito di mangiare, sentendosi a disagio a stretto contatto con i lavoratori del ranch, i ragazzi decisero di fare una passeggiata nei dintorni. Si incamminarono lungo il sentiero che avevano percorso nel pomeriggio in carrozza, quello che portava dalla pista principale al Black Arrow.
Quando i suoi amici si misero in marcia, Sabrina restò indietro, prese sotto braccio Pearson e gli chiese: «Che ne dice, giudice, me la concede una passeggiata?».
«E’ un onore, mia cara: sarebbe triste sprecare una serata talmente bella, questa luna piena è così luminosa che sembra giorno…. ma non temi che la mia lentezza possa distanziarti dai tuoi amici?».
«Non c’è problema».
«Allora andiamo pure» acconsentì Pearson.
I due si incamminarono pochi passi dietro agli altri.
«Devi però permettermi di obiettare che dovresti farti accompagnare da un giovanotto, non da un vecchio rudere come me» disse il giudice.
Sabrina sospirò, e mormorò: «Il giovanotto da cui vorrei farmi accompagnare forse non è ancora nato».
Pearson si era già fatto un’idea di ciò che provava Sabrina; non aveva mancato di notare gli sguardi che la ragazza lanciava a Johnny.
«O forse» disse il giudice, vago, «è nato e non è neppure tanto lontano, ma non sa ancora quello che vuole».
Sabrina lo guardò. «Forse neanche io lo so bene».
Il giudice le sorrise: «Avere la certezza delle proprie azioni è impresa ardua anche da adulti; immagino che per dei giovani come voi possa essere difficilissimo. Per quel che vale, comunque, il mio parere è che una ragazza come te sia un gioiello raro, e prima o poi chi se ne deve accorgere se ne accorgerà».
Sabrina abbassò gli occhi, pensierosa. Poi li rialzò, guardando i suoi amici. «E se io le dicessi, giudice, che chi vorrei se ne accorgesse ha già sotto gli occhi un gioiello raro, uno che brilla talmente tanto che può riempire il suo sguardo?».
Pearson osservò Tinetta; capiva che la metafora si riferiva a lei. Poi si voltò verso Sabrina, e disse: «Mia cara, ognuno di noi ha il proprio gioiello personale; e non lo si scopre con gli occhi, ma con l’anima».
Sabrina sospirò. «Lei è molto saggio, giudice» gli disse sorridendo.
«Oh, è una qualità che si acquisisce con gli anni; e io ne ho tanti, credimi. Troppi, per tenere il passo di voi ragazzi. Inoltre sono pure un po' zoppo. Vedi? Gli altri si stanno allontanando».
«Oh, è vero» notò Sabrina. Il gruppo dei suoi amici, chiassosi come sempre, li distanziava con rapidità.
Pearson si fermò. «Raggiungili» disse.
«Giudice….».
«Non preoccuparti per me. Io fumerò un po’ la pipa mentre torno indietro».
Sabrina gli fece un leggero inchino, e si allontanò verso Johnny e gli altri.
Pearson la osservò andarsene, poi la vide fermarsi. La ragazza si voltò, e gli disse: «Grazie».
Lui le sorrise, senza dire niente. Sabrina si voltò di nuovo, incamminandosi per raggiungere i suoi amici. Il giudice la guardò sparire nel buio, poi si accese la pipa e si avviò sulla strada del ritorno.
 
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“Sapete cosa mi ha detto Sabrina?” chiese Renato a Johnny, Michael e Carlo, una volta rientrati nella loro baracca.
“Che cosa?” domandò Johnny.
“Che il posto dove ci siamo ritrovati noi, cioè quella Mesa-di-qualcosa, è stregato. L’ha saputo dal giudice”.
“Stregato?” esclamarono i suoi amici, con il tono di voce più alto che fossero disposti a concedersi, nel silenzio della bunkhouse rotto solo dal leggero russare di Pearson.
La loro passeggiata era durata un’oretta: nonostante la luna fosse piena e fornisse luce a sufficienza, i nostri eroi non si erano allontanati molto dal ranch, non sentendosi affatto tranquilli in quelle lande straniere e desolate.
Una volta tornati, le ragazze erano state richiamate subito in casa. Tinetta, prima di separarsi da Johnny, gli aveva fatto l’occhietto e gli aveva sussurrato: “Ci vediamo dopo, non dormire”.
-Eh?- aveva pensato Johnny. -Che cosa avrà in mente?-.
Stanchi come erano, pensavano di addormentarsi subito, ma non fu così. Una volta distesi sulle brande, iniziarono a chiacchierare.
Carlo disse che anche Simona aveva dato appuntamento a lui e Michael per più tardi, raccomandando loro di non dormire.
“Quelle due vogliono combinare qualcosa” disse Johnny. “Speriamo che non creino ulteriori guai”.
Era stato a quel punto che Renato aveva detto loro che la Mesa de Arena era stregata, come gli aveva rivelato Sabrina.
“Un luogo stregato, eh?” disse Carlo. “Allora ci ha trasportato qui uno spirito cattivo, per punirci”.
“Per punire te, di sicuro, che sei uno sporcaccione” lo accusò Michael.
“Ma la vuoi finire? Tu sei tale quale a me, sai?” gli fece notare Carlo.
“Almeno io ho classe”.
“Si, ti piacerebbe”.
Johnny voleva sapere più possibile di quella faccenda, e interrogò Renato: “Che altro ti ha detto Sabrina?”.
Renato rispose: “Sembra che gli indiani di queste zone considerino quell’altura un luogo sacro, abitato dagli spiriti; pare addirittura che alcune persone siano scomparse una volta entrate nella grotta dalla quale oggi siamo usciti noi. Nessuno da queste parti si avvicina troppo a quella Mesa, dicono”.
Johnny rimase pensieroso per molto tempo, dopo quelle rivelazioni.
-Questo potrebbe essere un fattore importante….- meditò. -Forse non è un caso che ci siamo ritrovati in quella grotta. Evidentemente quel luogo è carico di un potere di qualche tipo, e da lì la gente scompare od appare. Quindi forse dovremmo proprio tornare lassù e tentare di viaggiare di nuovo nel tempo-.
Mentre faceva queste considerazioni, il confabulare dei suoi amici diveniva via via più leggero: si stavano addormentando, alla faccia delle raccomandazioni di Tinetta e Simona.
Come se le avesse chiamate, Johnny vide i volti delle due ragazze apparire dietro il vetro della finestra sporca sopra il suo letto: per poco non gli prese un colpo. Loro gli fecero cenno di uscire. Lui si alzò e si infilò le scarpe, facendo il massimo silenzio, per non svegliare gli altri.
“Dove vai?” gli chiese Renato, a bassa voce; non era riuscito ancora ad addormentarsi.
“Mia sorella Simona e Tinetta sono qui fuori” rispose Johnny. “Mi hanno fatto segno di uscire”.
“Vengo anche io” disse Renato alzandosi, infilando le scarpe a sua volta: non avendo pigiami né cambi di nessun tipo, i ragazzi si erano sdraiati sulle brande vestiti. Johnny e Renato uscirono. Michael e Carlo dormivano beati.
“Cosa fate qui fuori?” chiese Johnny alle ragazze in un sussurro, quando le raggiunse. “Ormai dormono tutti”.
Lui e Renato videro che erano di nuovo vestite coi loro pantaloni.
“Lo sappiamo che dormono tutti” rispose Tinetta, con la stessa voce bassissima. “Abbiamo aspettato che non ci fossero scocciatori in giro per cambiarci e uscire. Sentite, spostiamoci lontano dagli alloggi dei cowboy, così potremo parlare più tranquillamente”.
Si diressero verso il recinto del bestiame.
“E Michael e Carlo?” chiese Simona a Renato quando si fermarono.
“Dormono” rispose lui.
“Avevamo detto loro di restare svegli, uffa” si lamentò Tinetta.
“Per me possono anche non esserci, quei due” sbuffò Simona. “Se tu non avessi insistito per invitarli, io non li avrei avvisati”.
“Eh no” disse Tinetta, “siamo qui tutti insieme, e dovremmo divertirci tutti insieme”.
“Divertirci a far che?” chiese Johnny. “Cosa avete in mente?”.
“Vogliamo riunirci dentro una delle baracche vuote e fare un pigiama party (senza pigiama). Alla fin fine è praticamente come essere in campeggio, però senza le tende”.
“Si, e con la differenza che qui un manipolo di scimmioni armati fino ai denti già ci guarda storto…. credete ci sia bisogno di fare bravate che potrebbero essere fraintese?” chiese Johnny.
“Giusto” concordò una voce che giungeva dall’oscurità. “Non è proprio il momento buono per attirare l’attenzione su di noi”; si voltarono in quella direzione: a parlare era stata Sabrina, che si avvicinava loro insieme a Manuela.
“Che bello, ragazze” disse Tinetta, ignorando del tutto l’ammonimento di Sabrina. “Siete arrivate, finalmente. Ce ne avete messo di tempo”.
“Perché eravamo indecise se venire o no, poi abbiamo stabilito che è meglio tenervi d’occhio”. Anche loro due erano vestite nuovamente in pantaloni.
“Sabrina, mi ha detto Renato che da queste parti considerano la Mesa de Arena stregata” le disse Johnny, al quale l’argomento premeva molto.
“E’ vero” disse lei.
“Visto che non abbiamo idea di come siamo finiti qui, forse dovremmo tornare lassù e studiare la zona”.
“Si, non è una cattiva idea” concordò Manuela. “Ora che ci penso, non ci siamo neppure presi il disturbo di esplorare a fondo la grotta…. avremmo potuto trovare qualcosa di interessante, o di utile”.
Sabrina si strinse nelle spalle. “In effetti, dal momento che brancoliamo nel buio circa la nostra situazione, direi che esplorare la grotta stregata sia un buon punto da cui partire”.
“Anche perché non abbiamo nessun altro indizio” osservò Johnny.
Mentre tutti annuivano alle parole di Johnny, uno sparo proveniente dalla loro baracca li fece sobbalzare, pose fine alla serenità della notte e complicò di molto la loro già ingarbugliata situazione.
 
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Il gruppo corse verso la baracca, mentre dagli altri alloggi si sentivano le voci di chi si era svegliato per lo sparo: «Chi è l’idiota che ha sparato?».
«Io stavo dormendo, al diavolo!».
«Scommetto che qualche deficiente ubriaco fa il tiro a segno con i gufi».
I ragazzi entrarono nella loro baracca, dentro il quale era più buio che fuori, e si fermarono a pochi passi dall’entrata perché non vedevano assolutamente niente.
Dall’oscurità però sentirono le voci di Michael e Carlo, e quello che dissero gelò loro il sangue nelle vene: “Ma cos’hai combinato, Carlo?”
“Niente, io…. io stavo dormendo”.
“Non…. non lo avrai mica ammazzato?”.
“Ti ho detto che stavo dormendo!”.
“E perché hai quella pistola in mano?”.
“Non lo so, non lo so! Me l’ha messa in mano un tipo…. credo”.
“Cavolo, vuoi dire quello che è scappato dalla finestra?”.
“Lo hai visto anche tu?”.
Gli altri ragazzi si fecero avanti, ora che i loro occhi si erano abituati all’oscurità; come era prevedibile, fu Sabrina a prendere in mano la situazione. “Carlo, cos’è successo? Spiegami!” chiese al ragazzo scuotendolo per le spalle, perché gli sembrava pericolosamente sotto choc.
“Non…. non lo so” balbettò lui. “Ho…. ho sentito lo sparo e mi sono svegliato…. ho visto qualcuno vicino a me…. che poi è uscito dalla finestra”.
“L’ho visto anche io” confermò Michael.
“Il giudice? Avete visto il giudice che usciva dalla finestra?”.
Carlo fece segno di no scuotendo la testa, indicò alle spalle di Sabrina, e disse: “Il…. il giudice è lì”.
Lei si voltò e intravide nell’oscurità il corpo del giudice steso a terra; tutti i suoi amici lo stavano osservando, inorriditi. In quel momento cominciarono ad arrivare gli occupanti degli altri alloggi, alcuni con dei fiammiferi accesi.
In molti si avvicinarono al corpo di Pearson, mentre le loro voci concitate si sovrapponevano: «Si può sapere chi ha sparato?».
«Il giudice è steso a terra».
«Fate più luce!! Portate delle lanterne!».
Johnny e i suoi amici rimanevano un po’ in disparte, consapevoli di non poter fare niente; tranne Sabrina, che stava esaminando il giudice con apprensione alla fioca luce dei fiammiferi.
Nella confusione e nelle tenebre quasi totali, però, non riuscì a capire in che condizioni fosse.
«E’ morto» disse uno degli uomini inginocchiati vicino a Pearson; Sabrina ebbe un tuffo al cuore.
Arrivò anche Rick Samson, accompagnato dalla servitù e da altri occupanti della casa, con delle lanterne. Adesso la luce era sufficiente per illuminare bene la scena: Pearson a terra, ai piedi del suo letto, mentre una macchia di sangue gli si allargava sul petto.
«Cos’è successo?» domandò Samson.
«Qualcuno ha sparato al giudice» gli risposero.
«Maledizione!» esclamò il padrone del ranch. «Chi è stato?».
«E’ stato quel ragazzino!!» gridò un cowboy indicando Carlo. «Uno degli stranieri!».
Sabrina si voltò, come tutti i presenti, in direzione di Carlo: solo in quel momento si accorse che il suo amico stringeva in mano una pistola. In quell’istante ricordò pure le parole di Michael di poco prima, che chiedeva a Carlo dell’arma; si diede della stupida per non averla notata subito.
In men che non si dica gli uomini di Samson attorniarono Carlo e lo disarmarono.
«Avremmo dovuto perquisirli! Erano armati!».
«Un momento!» esclamò Mulligan avvicinandosi a Carlo. «Fatemi vedere quella pistola».
Gliela passarono per fargliela esaminare: Mulligan la osservò alla luce di una lanterna.
«Questa è la pistola del giudice Pearson, la riconosco» concluse dopo pochi secondi;
aprì il tamburo, e aggiunse: «Manca un proiettile».
Alzò gli occhi su Johnny e i suoi amici. I ragazzi non capivano cosa diceva, ma le occhiate dei presenti li preoccuparono.
«Maledetti» disse Mulligan avvicinandosi loro. «Il giudice vi ha dato fiducia, e voi lo avete fatto fuori».
Sabrina allora intervenne: «Non siamo stati noi, i miei amici hanno detto di aver visto qualcuno uscire dalla finestra».
«Ah, si?» disse Samson guardandola. «E come mai siete tutti di nuovo vestiti, anche voi ragazze?».
Quello fu l’istante in cui Sabrina si rese conto con sgomento che qualunque difesa avesse tentato sarebbe stata inutile, perché tutti gli indizi erano contro di loro. La situazione era complicata anche prima, ma adesso il loro unico amico era scomparso.
A riprova di ciò, gli uomini di Samson si scatenarono in accuse e minacce: «Eravate già pronti a scappare, eh?».
«Assassini!».
«Prendiamoli!».
«Domattina li porteremo in città e li consegneremo allo sceriffo!».
I cowboy si fecero sotto per catturarli. Sabrina decise in un istante il da farsi: si voltò verso i suoi amici e gridò: “SCAPPATE!!” e senza aspettare di vedere se le obbedivano o no, si gettò sugli avversari per fronteggiarli. La sua azione fu talmente veloce e inaspettata che, prima di rendersi conto di cosa accadeva, non meno di cinque degli aggressori erano al tappeto. Uno dei più reattivi cowboy di Samson la prese alle spalle per immobilizzarla, e illudendosi che questo bastasse a fermarla, iniziò a dire: «Bene, vediamo se ora….»; lei lo proiettò sopra la sua testa facendolo rovinare addosso ad altri cowboy.
«Maledizione!» esclamò Samson. «Possibile che non riusciate a fermare una ragazzina?».
Sabrina si prese alcuni istanti per controllare cosa facevano i suoi amici: vide con disappunto che non erano ancora fuggiti; Tinetta e Renato cercavano coraggiosamente di combattere anche loro, ma con risultati poco soddisfacenti. “Ragazzi!” li chiamò. “Dovete scappare!”.
“E lasciarti a combattere da sola? Mai!” esclamò Tinetta, che con tutta la sua buona volontà
non riusciva a tenere a bada che pochi avversari; Renato se la cavava appena meglio grazie alle arti marziali. Subito dietro di loro Johnny stava osservando Michael, Carlo e le sue sorelle che afferravano in fretta e furia le loro poche cose e si preparavano a fuggire.
“Tu e Simona portate Carlo e Michael al sicuro fuori di qui” disse Johnny a Manuela nella confusione. “Usate il potere, se vi attaccano, ma nel modo meno evidente possibile”.
“E tu?”.
“Io resterò qui a difendere Sabrina e gli altri”.
Qualcuno sparò: il rimbombo assordò tutti i presenti.
«Ora basta!» esclamò Mulligan, che aveva sparato in aria con la pistola del giudice Pearson, prima di puntarla verso Sabrina. «Mettetevi contro il muro e statevene buoni, bambocci!».
Ma né Sabrina né Johnny obbedirono a quell’ordine. Johnny pensò: -Eh no, non vi permetterò di
giocare con le armi- e con la telecinesi fece abbassare a Mulligan la pistola verso il pavimento.
Nello stesso istante Sabrina si lanciò su Mulligan, gli fece volare via l’arma di mano con un calcio, poi la prese al volo mentre ricadeva; si voltò verso i suoi amici e gridò: “USCITE! ORA!”.
Stavolta Johnny e gli altri non se lo fecero ripetere, e corsero verso la porta facendosi largo a spintoni (aiutati dal potere). Sabrina mirò alle lanterne, fece fuoco e le distrusse, gettando nell’oscurità la baracca.
Risuonò la voce di Samson: «Dannazione! Quella femmina è un demonio!».
Nella confusione generale Sabrina raggiunse l’uscita; una volta fuori, cercò i suoi amici: li vide vicini al pozzo e li raggiunse. “Dobbiamo fuggire!” esclamò.
“Perché ce l’hanno con noi?” domandarono Carlo e Michael, del tutto spaesati.
Sabrina si rese conto che i suoi amici non avevano capito una parola di ciò che era stato detto nella baracca, e disse: “Credono che abbiamo ucciso il giudice”.
“Cooosa!?”.
“Non è il momento per le spiegazioni” continuò lei. “Ci vogliono catturare. Prendiamo dei cavalli e scappiamo”.
“Ma noi non sappiamo andare a cavallo” si lamentò Michael, parlando un po’ per tutti.
“Vi conviene imparare alla svelta” disse Sabrina guardando nella baracca. I cowboy che ne stavano uscendo non li avevano ancora individuati.
Johnny decise che era il momento di intervenire sul serio: col potere spalancò il cancello del recinto dei cavalli e iniziò a farli letteralmente volare verso gli uomini di Samson; nell’oscurità della notte sembravano galoppare con le proprie zampe (anche se in modo un po’ strano). I cowboy si gettarono di nuovo all’interno della baracca per evitare la carica degli animali. Johnny poi li fece fermare poco lontano da sé e i suoi amici, che avevano osservato la scena semplicemente sbalorditi. Johnny li incitò alla fuga, per non dare loro il tempo di soffermarsi a riflettere sull’accaduto: “Andiamo, gente” e salì sulla groppa di uno dei cavalli dando sfoggio di consumata abilità.
“Johnny!” esclamò Sabrina. “Non sapevo fossi un cavaliere così bravo. E senza sella, per giunta”.
“Da quando sei così abile, fratellone?” gli chiese Simona stupita.
“Da quando abbiamo imparato a cavalcare a casa dei nonni” le rispose Manuela, che aveva capito come comportarsi in quella situazione d’emergenza; prese sua sorella in disparte e le sussurrò: “Prendi con te uno fra Renato, Tinetta, Michael o Carlo….”.
“Voglio Tinetta!” esclamò Simona.
“Non ha importanza chi; io, te e Johnny useremo il potere per riuscire a cavalcare; Sabrina già ne è capace, ma noi quattro dobbiamo trasportare gli altri che non ne sono in grado. Fa in modo che il tuo cavallo sembri galoppare”.
“E’ complicato….” obbiettò Simona.
In quel momento Samson e i suoi uscirono di nuovo dalla baracca, e adesso più d’uno impugnava la pistola. Johnny spedì nuovamente una carica di cavalli contro di loro, che furono costretti a ritirarsi ancora una volta all’interno del rifugio, tra imprecazioni e commenti increduli: «Maledizione!!».
«Ma che succede stanotte?».
«I cavalli erano chiusi nel recinto!».
«Tutto questo è assurdo!».
A quel punto i ragazzi salirono sui loro destrieri: Sabrina prese con sé Tinetta, Johnny prese Renato, Simona prese Carlo e Manuela Michael; con disappunto di Simona, non ci fu tempo di scegliere i propri compagni di viaggio.
“Andiamo!” esclamò Sabrina, girando la sua cavalcatura verso il sentiero che portava sulla pista principale. Anche Johnny e le sue sorelle voltarono i propri animali.
In quel momento, dagli altri alloggi uscirono i cowboy che non erano intervenuti subito. Questi erano vestiti e armati di tutto punto.
“Riuscirete a starmi dietro?” chiese loro Sabrina prima di partire.
Johnny e Manuela si scambiarono un’occhiata dubbia, e dissero in coro: “Non è questo che mi preoccupa”; poi si voltarono verso Simona e le dissero: “Simona, non far correre troppo il tuo….”
ma l’espressione esaltata della loro sorellina li lasciò interdetti per un istante, giusto quello che bastò alla scatenata ragazza per far partire il suo cavallo praticamente al decollo, lasciando basiti tutti i presenti, mentre la voce di Carlo, che aveva iniziato a gridare di terrore, diveniva sempre più indistinta con l'aumentare della distanza: “Simonaaaaaa………!”.
Manuela e Johnny partirono al loro inseguimento.
Sabrina era talmente stupita che rimase immobile a guardarli mentre si allontanavano; alcuni colpi di pistola che si piantarono nel terreno a pochi metri dalle zampe del suo animale la fecero tornare in sé.
«Fermatevi!» esclamò qualcuno dei cowboy.
“Vai, Sabrina!” disse Tinetta.
Sabrina non perse altro tempo, e spronò il suo animale: “Reggiti forte, Tinetta!” e partirono al galoppo. Gli uomini di Samson salirono a loro volta sui cavalli rimasti.
I cowboy del Black Arrow partirono all’inseguimento di Sabrina, che era l’unica che ancora riuscivano a vedere.
«Prendeteli!» li incitò Samson mentre si allontanavano. «Mille dollari di tasca mia a chi li
cattura!».
Ma l’impresa si rivelò infine impossibile. Infatti, anche se Sabrina era ancora alla loro portata, la distanza che li separava divenne in pochi secondi sempre maggiore: questo perché Johnny, dopo essersi gettato alle calcagna di Simona assieme a Manuela, aveva considerato che Sabrina e Tinetta erano rimaste indietro, e il loro cavallo non aveva il surplus di potenza generato dal potere; perciò aveva gridato: “Manuela! Pensaci tu a Simona! Io devo aiutare le ragazze!”.
“D’accordo” aveva acconsentito sua sorella, e lui aveva cambiato direzione tornando verso il ranch.
“Come faremo ad aiutare Tinetta e Sabrina?” gli chiese Renato.
Johnny aveva quasi dimenticato di non essere solo. Rispose: “Non so, ma sono rimaste indietro e dobbiamo assicurarci che riescano a fuggire”.
Pochi secondi dopo i due ragazzi videro Sabrina lanciata al galoppo, e qualche decina di metri dietro il gruppo del Black Arrow: usando il potere, Johnny fece in modo che i cavalli degli inseguitori rallentassero l’andatura, permettendo alle sue amiche di prendere il largo.
Sabrina e Tinetta li raggiunsero.
“Dove sono gli altri?” chiese Sabrina.
“Più avanti” rispose Johnny.
Ripartirono al galoppo.
Sabrina si voltò indietro. “Li stiamo seminando”.
“Per fortuna” commentò Johnny; non aggiunse altro perché tutta la sua concentrazione era assorbita dall’impiego del potere, sia nel riuscire a restare in groppa che nel rallentare i nemici.
Quando, pochi minuti dopo, arrivarono all’incrocio del sentiero con la pista principale, si fermarono.
“Da che parte sono andati?” domandò Sabrina.
“Non lo so” rispose Johnny.
Guardarono da una parte e dall’altra della pista: in una direzione si tornava in prossimità della Mesa de Arena, dall’altra si andava in direzione Tucson.
“La cosa migliore sarebbe tornare verso la Mesa de Arena” disse Sabrina.
“Già” concordò Johnny, continuando a scrutare lo spazio circostante.
“Tua sorella avrebbe dovuto aspettarci al bivio” disse Renato. Poi aggiunse: “Non avrei mai detto che fosse una così brava cavallerizza”.
“E’ vero” disse Tinetta. “E anche tu e Manuela siete eccezionali, tesoruccio” e si tuffò tra le braccia di Johnny, col risultato di far barcollare pericolosamente tutti e tre i passeggeri del sovraccarico cavallo.
“Tinetta!” esclamò Johnny. “Ci fai cadere!”.
Renato fu felice dell’inaspettata visita. “Non dargli retta, sei sempre la benvenuta”.
“Tu ora dovresti andare da Sabrina” puntualizzò Tinetta.
“Ma Tinetta….” protestò Renato.
“Ehi, guardate!” disse Sabrina, indicando in direzione Tucson.
I suoi amici videro sopraggiungere un cavallo, ma non riuscivano a distinguere chi lo montava;
i loro dubbi furono subito fugati, però, poiché il loro visitatore li chiamò: “Johnny, sono Manuela. Sono riuscita a fermare Simona”.
“Manuela” la chiamò Sabrina, “venite da questa parte. Dobbiamo andare nell’altra direzione”.
Questo piano si rivelò però inattuabile, allorché il rumore di numerosi cavalli al galoppo preannunciò l’arrivo dei loro inseguitori.
“Diavolo! Ci siamo dimenticati di quelli” disse Johnny. “Credevo che avessero rinunciato. Tinetta, torna da Sabrina”.
“Non c’è tempo” disse Sabrina, partendo verso Manuela. “Dobbiamo raggiungere Simona”.
“Ma dovevamo andare dall’altra parte” disse Renato.
“E’ più importante restare uniti!” concluse Sabrina.
“Ce la fai a portarci tutti e due?” chiese Tinetta a Johnny.
“Non possiamo stare qui sopra in tre” disse Renato. “Ma io ho un piano: Johnny, tu resta qui e fai da esca” e spintonò Johnny giù dall’animale, con un ghigno diabolico.
“Tesorucciooooo!” chiamò Tinetta in preda all’angoscia.
“Ci penso io a te, non preoccuparti” le disse Renato.
“Ti sbagli….” sibilò Tinetta, guardandolo minacciosa. “IO penso a te, adesso….”.
“Ehm…. ne parliamo dopo…. dobbiamo fuggire” cambiò discorso Renato.
“Dove vuoi fuggire, impiastro? Non sai neppure cavalcare” obiettò lei.
“Se ce l’ha fatta quel deficiente posso farcela anche io” e afferrata la criniera del cavallo, diede un gran colpo ai fianchi del suo destriero, che s’impennò nitrendo.
“CAAAVOOLOO!” gridarono in coro i due ragazzi. Il cavallo ricadde sulle zampe e partì a razzo. Tinetta si voltò indietro e gridò: “JOHNNYYY!!”; poi iniziò a prendere a testate la schiena di Renato. “Torna indietro! Il mio tesoro è rimasto laggiù!”.
Ma la voce di Johnny risuonò alta in quel momento: “Tinettaaaa! Sono quiiii!”.
“Oh, tesoruccio” chiamò Tinetta. “Non ti vedo”; poi si sporse e vide il ragazzo aggrappato alla coda del cavallo, che stava letteralmente volando ad un metro da terra.
Tinetta si rivolse a Renato: “Fermati! Dobbiamo far salire Johnny”.
“Fermarmi!? E come?” chiese lui allarmato: il cavallo era fuori controllo. Poi si voltò e urlò a Johnny: “E’ COLPA TUA, SCEMO! TIRANDOGLI LA CODA LO FAI INCAVOLARE!!”.
“QUESTA ME LA PAGHI!!” gridò Johnny dalla sua scomoda posizione.
“E vabbeh, ma pensiamoci dopo” suggerì Renato in preda al panico; in quel momento superarono di slancio i loro amici, che pure erano al galoppo.
“Ma che combinano?” domandò Manuela.
“FERMATEVI!” gridò loro Sabrina.
“E’ UNA PAROLA!” ribatté Johnny.
“Ehi, perché loro possono divertirsi così e a me impedite tutto?” protestò Simona. “Ora mi scateno!” e fece di nuovo decollare il suo animale, mentre Carlo urlava sempre in preda al terrore.
-E va bene- pensò Manuela. -Ormai la cosa più importante è sganciarsi dai nostri inseguitori-
e usando il potere aumentò l’andatura del suo cavallo e di quello di Sabrina.
Tra grida di terrore (Carlo, Johnny, Renato), grida di giubilo (Simona) e silenzi allibiti (Sabrina), i nostri eroi coprirono la distanza che li separava da Tucson, seminando in breve tempo i cowboy del Black Arrow, i cui animali non potevano reggere il confronto. Quando furono in vista della città, Sabrina disse: “E’ meglio non entrare nei centri abitati! Proseguiremo verso le montagne aggirando la città! Però dobbiamo fermarci a tirare un po' il fiato!”.
Con gran sollievo dei loro destrieri, i ragazzi rallentarono l’andatura fino a portarli al passo, poi si fermarono. Johnny finalmente si lasciò andare, stremato. Tinetta saltò giù e lo prese tra le braccia. “Tesoruccio, tesoruccio…. come stai?”.
Tranne Michael e Carlo, tutti scesero per sgranchirsi le gambe e fare il punto della situazione: ormai gli avversari erano veramente troppo lontani per impensierirli.
Sabrina riunì il gruppo e domandò: “State tutti bene, ragazzi?”.
“Johnny non sta affatto bene, per colpa di chi so io” disse Tinetta, e lanciò uno sguardo furente a Renato. Gli disse: “Più tardi faremo i conti”.
Il ragazzo deglutì timoroso, ma considerò che tutto sommato era valsa la pena rischiare la punizione di Tinetta per maltrattare Johnny.
“Siete delle amazzoni eccezionali, ragazze” si complimentò Sabrina con le gemelle. “E anche vostro fratello è davvero bravo”. Poi guardò Carlo e Michael ancora in groppa, e domandò: “Perché non scendono?”.
“Oh, Carlo è paralizzato dal terrore, credo” rispose Simona; poi guardò Michael e osservò: “Però, Michael è più coraggioso di quanto pensassi; non ha mai urlato, al contrario di quella lagna di Carlo”.
“Ehm” iniziò Manuela, “veramente Michael è svenuto circa venti minuti fa”.
“Ah”.
Johnny si alzò in piedi aiutato da Tinetta, e chiese: “E adesso che cosa facciamo?”.
“Prima riposiamoci qualche minuto, poi valuteremo” disse Sabrina; furono tutti d’accordo.
 
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«Ve lo avevo detto io che erano sospetti!» stava sbraitando Mulligan nell’ufficio dello sceriffo di Tucson.
«Tranne il giudice, tutti li consideravamo sospetti» puntualizzò Samson.
«Va bene, ora spiegatemi con precisione l’accaduto» ordinò lo sceriffo Pascal; nel suo ufficio, oltre a lui e al suo vice, erano riuniti Mulligan, Samson e il sindaco Grant. «Finora abbiamo sentito solo episodi sparsi e sconnessi».
Quella stessa notte dal ranch erano partiti Rick Samson con due dei suoi mandriani e Mulligan con la diligenza, sulla quale era stato caricato il giudice Pearson, risultato essere ancora vivo, anche se incosciente e gravemente ferito; quando all’interno della baracca uno dei cowboy del Black Arrow ne aveva sentenziato la morte, era stato tratto in inganno da un’ analisi troppo frettolosa. In seguito ad un esame più attento, si accorsero che il giudice era ancora vivo, anche se in pessime condizioni. Così dal ranch erano partiti in fretta e furia per portare Pearson dal medico. La luna piena e la notte limpida avevano reso più facile il viaggio. Lungo la pista avevano incontrato il gruppo di cowboy che tornava dall’inseguimento della banda di Johnny, e avevano appreso con estremo disappunto che non erano riusciti a catturarli.
«Domani ci occuperemo di loro» aveva detto Samson a Mulligan. «A questo punto non mi sorprenderebbe affatto scoprire che sono implicati anche nella morte di mio padre».
Arrivati in città, avevano bussato alla porta del dottore, che aveva preso in consegna il giudice e si era messo subito al lavoro. Poi erano andati a tirare giù dal letto lo sceriffo e gli avevano invaso l’ufficio; infine era giunto anche il sindaco Grant, che era un caro amico di Pearson.
Ora, seduti davanti ad una bottiglia di whisky, i cinque uomini riuniti discutevano gli avvenimenti di quelle ultime ore: Mulligan e Samson raccontavano, gli altri tre ascoltavano.
«Io stesso non riesco a credere a com’è andata» disse Mulligan. «Avreste dovuto vederli quando li abbiamo raccolti sulla pista…. sembravano un branco di pagliacci del circo».
«E invece è chiaro che hanno sempre finto, dal momento che sono stati capaci di ordire un piano perfetto per uccidere Pearson e filarsela» disse Samson.
«Non così perfetto, direi, visto che il giudice è ancora vivo e li avete quasi presi» osservò lo sceriffo Pascal.
«Credo che le cose siano andate male perché Pearson ha opposto più resistenza di quanto si aspettassero» spiegò Samson. «Osservando la scena e il corpo del giudice abbiamo potuto ricostruire come devono essersi svolti i fatti».
«Dite, Samson» lo incitò il sindaco; era in pena per il giudice molto più degli altri, poiché era stato lui a chiedere a Pearson di raggiungerlo a Tucson, in virtù della loro vecchia amicizia. Si sentiva responsabile di ciò che gli era accaduto.
«Dunque» iniziò Samson, «per prima cosa hanno sorpreso Pearson nel sonno, e hanno tentato di strangolarlo. Se le cose fossero andate come avevano previsto, lo avrebbero ucciso nel suo letto e sarebbero fuggiti indisturbati. Invece lui deve essersi svegliato e ha lottato, per questo abbiamo trovato il suo corpo a terra; a quel punto avranno pensato che ormai la situazione era compromessa, e presa la sua pistola gli hanno sparato. Non sono fuggiti subito perché contavano di abbindolarci con la favoletta del tipo scappato dalla finestra».
«Una ricostruzione convincente, esclusa l’ultima parte» disse lo sceriffo Pascal. «Dovevano essere davvero degli idioti per farsi trovare sul luogo del delitto, con in mano l’arma del delitto e inventarsi la storia di un intruso sperando che qualcuno se la sarebbe bevuta».
«Contavano sul fatto di sembrare degli incapaci senza cervello» disse Mulligan. «Le assicuro che hanno recitato la loro parte egregiamente».
«Sicuri che fosse una parte?» domandò ancora Pascal.
«Visto che sono riusciti a mettere ko a mani nude quasi tutti i miei uomini, togliere la pistola a Mulligan e usarla come veri pistoleri, e infine a rubare i miei cavalli e galoppare come furie nella notte tanto da seminare i miei cowboy…. si, direi che hanno finto tutto il tempo di essere degli sprovveduti» concluse Samson.
«Senza contare che erano già pronti alla fuga» aggiunse Mulligan.
Lo sceriffo e il sindaco restarono pensierosi per alcuni secondi, poi Pascal disse: «Domattina prenderò alcuni uomini e mi metterò sulle tracce di quegli assassini».
«Verrò anche io» si propose Mulligan.
«Non devi continuare il servizio di diligenza?» gli chiese Samson.
«Mi farò sostituire da Wayne…. sono furioso per essermi fatto imbrogliare da quei dannati, e ho una gran voglia di mettere loro le mani addosso».
«Ci sarò anch’io» disse Samson. «Hanno attentato alla vita di Pearson in casa mia e forse sono coinvolti nella morte di mio padre».
«Il vostro aiuto ci sarà prezioso» disse Pascal.
Il sindaco Grant, che aveva ascoltato con attenzione fino a quel momento, chiese: «E quella famosa ragazza? Ho sentito delle voci tra i vostri cowboy su una donna incredibile».
«In effetti» confermò Samson, «chi ci ha messo davvero in difficoltà è stata lei».
«Era l’unica che parlava la nostra lingua» aggiunse Mulligan. «E oltre a questo, ha steso un bel po’ di noi e mi ha fatto volare la pistola di mano con un calcio. Era rapidissima».
«E non solo» continuò Samson, «quando ha afferrato la pistola, ha sparato sulle lanterne con una velocità e una precisione incredibili. In tutta la mia vita sono veramente poche le persone che ho visto sparare così, e certamente mai una donna».
«Confermo…. se non fosse stato per lei gli altri non ci sarebbero sfuggiti» concluse Mulligan.
«Che storia strana….» commentò Grant.
«Già» concordò Pascal; poi aggiunse: «Dovrò far disegnare i loro identikit per far preparare un avviso di taglia. Siete disposto a descriverli, Mulligan?».
«Naturalmente. Anche le signore che erano sulla diligenza li hanno osservati a lungo, poiché hanno viaggiato insieme».
«E i loro nomi?» chiese Pascal.
«Ne ho capiti con certezza solo due: Johnny e Michael…. sono abbastanza sicuro che uno si chiamasse Karl, o qualcosa di simile, ma per il resto non saprei: nomi troppo strani».
«E lei, Samson?» domandò Pascal.
«Io ho accolto le ragazze in casa mia, ma onestamente ricordo solo una certa Manuela».
«Quindi erano messicani?» chiese Grant.
«Assolutamente no. Infatti la pronuncia del nome Manuela non era alla messicana ma un po’ diversa. Comunque c’è da scommettere che ci abbiano dato nomi fasulli».
«Erano giapponesi» disse Mulligan.
«Giapponesi?!» chiesero gli altri, increduli.
«Esatto» confermò Mulligan. «Me lo ha detto il giudice, che l’aveva saputo dalla ragazza mora».
«Che cavolo ci fanno dei giapponesi in Arizona?» domandò Grant, perplesso.
«Glielo chiederemo quando li avremo presi» disse Pascal. Poi si alzò dalla sedia. «Tra poco sarà l’alba, e potremo metterci in caccia. Io devo radunare degli uomini disposti a seguirci, ma prima vorrei andare ad informarmi sulle condizioni del giudice. Vi unite a me?».
«Naturale» rispose il sindaco Grant a nome di tutto il gruppetto.
Mentre uscivano, Pascal si voltò verso il suo vice. «Affido a te l’ufficio» gli disse. L’altro si portò due dita alla tesa del cappello e se lo abbassò leggermente sulla fronte, in un silenzioso gesto d’assenso.
 
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Mentre nell’ufficio di Pascal si svolgeva questa conversazione, a casa di Duke (uno dei potenti uomini descritti quel pomeriggio da Mulligan al giudice Pearson), se ne svolgeva un’altra inerente alla stessa vicenda, ma dai toni decisamente differenti.
«Lo hai strozzato, gli hai sparato e non sei riuscito ad ammazzarlo!?» urlò Duke sbattendo il pugno sulla scrivania del suo studio, paonazzo di rabbia.
Il destinatario del suo sfogo era Steve Jenning, in piedi di fronte a lui, con lo sguardo basso e mortificato. «Non so come sia potuto succedere. Ero sicuro che fosse già morto quando ho tolto le mani dal suo collo: lo sparo serviva solo a far accorrere gente e far ricadere la colpa sugli stranieri».
«Non so che farmene delle tue giustificazioni!» sbraitò Duke; poi si accese un sigaro, e rimase assorto per alcuni secondi. «Dicono che sia tra la vita e la morte sotto i ferri del dottore. Auguriamoci che tiri le cuoia e ci risparmi un bel po’ di seccature; ma se non andasse così, ricordati che il tuo compito non sarà concluso finché Pearson non sarà defunto».
«Si, signore» mormorò Jenning.
«A parte questo» continuò Duke, «devo dire che per il resto ti sei comportato egregiamente…. far incolpare i ragazzini stranieri dell’attentato è stato un bel colpo».
«Un bel colpo di fortuna, glielo dico io» disse Jenning. «La loro misteriosa comparsa li ha messi subito in cattiva luce agli occhi di tutti, tranne a quelli del giudice che li ha accolti sotto la sua ala protettrice e ha occupato con loro una bunkhouse vuota; come se non bastasse durante la notte i bambocci sono usciti quasi tutti, non so per quali loro questioni. Io li spiavo e tentavo di mettere a punto un piano per sbarazzarmi di Pearson, quando li ho visti uscire: mi sono reso conto che si presentava un’occasione d’oro. Mi sono avvicinato alla loro finestra, che era aperta, e sono entrato; dentro la baracca erano rimasti il giudice e due dei ragazzini; ho strangolato il giudice cogliendolo nel sonno, e quando è rimasto immobile, credendo che a quel punto fosse morto, ho appoggiato il suo corpo sul pavimento. Ho preso la sua pistola, mi sono coperto il viso col fazzoletto (anche se non avrebbero potuto riconoscermi comunque, al buio), e mi sono portato vicino a uno dei due marmocchi; ho fatto fuoco sul corpo a terra, e quando il ragazzino si è svegliato gli ho ficcato a forza la pistola nella mano, e sono uscito scappando dalla finestra. Lui e il suo amico mi hanno visto, ma non hanno capito niente di quello che è successo».
«E dopo questo, le cose si sono messe pure meglio» commentò Duke.
«Proprio così» confermò Jenning permettendosi un sorriso. «Ero sicuro che nessuno li avrebbe creduti, ma se li avessero catturati c’era sempre la possibilità che qualcuno fosse disposto ad accordar loro fiducia, come aveva fatto Pearson: dopotutto sembravano davvero dei poveri scemi inoffensivi (soprattutto i quattro maschi). Invece quelli hanno lasciato tutti di stucco, me compreso, lottando e sparando come diavoli scatenati, senza sapere che in questo modo non facevano altro che aiutarmi ad incolparli. Meglio di così non poteva quasi andare».
«Già» concordò Duke raggelandolo con un’occhiata. «Dove quel quasi è rappresentato dalla sorte del giudice».
Jenning abbassò di nuovo lo sguardo.
«Ecco cosa farai» gli disse Duke tirando una boccata di sigaro. «Ti presenterai allo sceriffo e ti offrirai di partecipare alla caccia per catturare gli stranieri: se e quando li troverete, tu dovrai farli fuori con un pretesto o l’altro, e questa volta vedi di non fare idiozie; ti farai accompagnare da Bull e Cody. Io mi terrò informato sulla sorte di Pearson, nel frattempo».
«Va bene» rispose Jenning, lieto di sapere che Bull e Cody lo avrebbero aiutato; erano i due compari con i quali, quella sera a cena, aveva provocato Johnny e gli altri. Lavoravano tutti e tre al ranch di Samson, ma in realtà erano spie di Duke e Young: erano quasi sempre loro i responsabili degli incidenti accaduti in quell’ultimo anno ai cowboy del Black Arrow; quasi perché i due ricchi delinquenti potevano contare anche su sicari che agivano partendo da altre città. Erano stati pistoleri di un paese vicino a rapinare il pomeriggio precedente la diligenza di Mulligan e uccidere Bob Samson.
Duke tirò ancora una boccata dal sigaro, poi congedò Jenning: «Puoi andare, ora».
Jenning fece un leggero cenno di saluto e si voltò per uscire.
Quando fu vicino alla porta, Duke lo richiamò: «Steve, dì al mio maggiordomo di entrare. E’ sicuramente qui fuori».
«D’accordo» disse Jenning, e uscì.
Il maggiordomo di Duke sostava, impettito, appena fuori dello studio.
«Il capo ti vuole» gli disse Jenning. L’altro si limitò ad un impercettibile segno di assenso, e raggiunse il suo padrone. Prima di andarsene, Jenning si accese una sigaretta, e osservò con occhi ferini la porta dello studio del suo datore di lavoro. Aveva da molto tempo memorizzato la posizione della mobilia di quella particolare stanza, avrebbe potuto muoversi all’interno di essa anche al buio, e conosceva l’ubicazione della cassaforte nascosta di Duke (senza che quest’ultimo sospettasse niente). Il piano era di derubare il suo padrone e filarsela col malloppo: quello era stato il suo obiettivo fin da subito. Pearson aveva visto giusto nel non considerarlo uno stupido: Steve Jenning era scaltro come una volpe, e la sua lealtà a Duke e Young era un’efficace messinscena, che gli tornava utile finché non avesse colto l’occasione buona per alleggerirli dei loro dollari (o almeno di buona parte) e fuggire. Sospettava che per coprirsi le spalle avrebbe dovuto far fuori uno dei due capoccioni, o magari entrambi, ma questo non era certo un problema che affliggesse la sua coscienza. Sorrise, con occhi gelidi. Gettò la sigaretta (ormai solo un mozzicone) dietro un vaso, e si allontanò.
 
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In quella intensa notte, mentre in città si facevano piani e si ordivano intrighi, Johnny e il suo gruppo riuscivano per buona sorte a trovare un ottimo nascondiglio.
Dopo aver seminato gli inseguitori, avevano fatto una breve sosta per fare il punto della situazione: nonostante fossero in grossi guai, stavano tutti bene ed erano riusciti a portarsi via sia lo zaino di Michael che la sacca con l’attrezzatura da baseball, che costituivano tutti i loro effetti personali; una volta appurato questo, affrontarono l’argomento principale: ciò che era accaduto nella baracca.
“Si può sapere con precisione cos’avete visto voi due?” chiese Johnny a Michael e Carlo.
“Io ho visto solo la sagoma di un tizio che usciva dalla finestra dopo essersi avvicinato a Carlo” rispose Michael.
“Io mi sono svegliato di soprassalto” spiegò Carlo, “e mi sono trovato questa ombra vicinissima. Non ho visto chi era, credo che avesse una maschera o comunque qualcosa che gli copriva il viso. Mi ha detto qualcosa….”.
“Ti ha parlato?” domandò Sabrina stupita.
“Mi ha detto solo una parola, credo…. cioè, non ho capito cosa, ma dal tono e dal fatto che mi ha porto la pistola deve avermi detto qualcosa come tieni, oppure prendi. Io ho preso la pistola dalla sua mano e….”.
“Ma perché diavolo l’hai presa?” lo rimproverò Simona.
“Ero molto confuso…. non ho visto cosa mi porgeva…. non capivo cosa stesse succedendo. Dopo avermi consegnato l’arma si è diretto verso la finestra e se n’è andato. Tutto si è svolto in pochi secondi”. Carlo appariva davvero mortificato.
Gli altri non sapevano cosa dire: a questo punto era evidente che qualcuno li aveva incastrati. Comunque fossero andate le cose, di sicuro c’era soltanto che erano nei guai, che il loro unico amico in quel luogo estraneo era morto e che avevano avuto una grandissima fortuna a sfuggire alla cattura. Erano liberi, e questo era già tanto.
Sabrina, allora, disse che era venuto il momento di rimettersi in marcia: dovevano cercare un luogo sicuro per nascondersi.
Erano ripartiti a cavallo ma senza spingersi al galoppo, poiché era pericoloso correre di notte, per quanta luce assicurasse la luna piena.
“Finora abbiamo avuto una gran fortuna” disse Sabrina. “Nonostante la luce lunare, è un mezzo miracolo che nessuno dei nostri cavalli si sia azzoppato cadendo in una buca”.
Così avanzarono senza fretta, dalla parte opposta alla direzione della Mesa de Arena, puntando verso le montagne.
Dopo averne raggiunto le pendici, cavalcarono per forse un’ora, prima di trovare un canyon (ovvero un’insenatura tra le rocce), abbastanza grande per consentire il passaggio loro e dei cavalli.
Sabrina consigliò di infilarsi lì dentro. “Tra i monti sarà più semplice far perdere le nostre tracce. L’ideale sarebbe trovare un sentiero sassoso, così che gli zoccoli non lascino impronte”.
Pochi minuti dopo essersi immessi in quel passo tra due alte pareti di roccia, capitò loro il primo colpo di fortuna di tutta quella sventurata storia: lo sguardo di Sabrina, mentre la ragazza cavalcava stancamente all’avanguardia della sua combriccola, fu attratto da qualcosa che luccicava alla luce della luna. Fermò il cavallo; gli altri si fermarono dietro di lei.
“Che c’è, Sabrina?” le chiese Johnny, e seguì lo sguardo della sua amica.
Lei osservava un punto sulla sinistra, rialzato rispetto alla loro pista, un punto dove la parete di roccia era ricoperta da cespugli fittissimi.
“C’è qualcosa che brilla lassù” disse Tinetta, che era sul cavallo di Sabrina e aveva la sua stessa visuale.
“Davvero?” chiesero gli altri avvicinandosi al punto dove sostavano le due ragazze; quando furono alla loro altezza, lo videro: un leggero ma inequivocabile bagliore. Sabrina smontò da cavallo e iniziò ad arrampicarsi sulla roccia. Quando fu salita, si chinò tra i cespugli.
“Fai attenzione” si raccomandò Tinetta, preoccupata.
“Sta tranquilla” ribatté Sabrina, e infilò una mano nell’intreccio delle piante. I suoi amici, dal basso, la osservarono armeggiare per qualche tempo.
“Ehi, Michael!” chiamò lei ad un certo punto.
“Si?”.
“C’è una torcia nel tuo zaino, vero?”.
“Due” rispose lui compiaciuto. “Sono stato previdente, una avrebbe potuto rompersi”.
“Bravo, ogni tanto ne pensi una giusta” commentò Carlo.
“Passamela” disse Sabrina.
Tinetta prese la torcia dalle mani di Michael e salì per consegnarla alla sua amica.
Gli altri attesero mentre le ragazze mettevano la testa nei cespugli ed esaminavano qualcosa con interesse. Poi entrambe si ritrassero, evidentemente soddisfatte della loro analisi, e ridiscesero.
“Lassù c’è un passaggio” esordì Sabrina.
“Cioè?” domandò Manuela.
“Dietro i cespugli c’è una spaccatura tra le rocce, piuttosto stretta ma abbastanza alta da farci passare un cavallo senza cavaliere. Da quaggiù credo sia impossibile vederla, anche di giorno, perché la vegetazione è fittissima. Io l’ho notata soltanto perché mi sono infilata tra le piante per controllare cosa provocasse quel bagliore”.
“A proposito, cos’era?” domandò Renato.
Sabrina tirò fuori di tasca una moneta. “Era questa” disse; i suoi amici si avvicinarono per osservarla.
“Che bella” disse Simona.
“Chissà quanto vale” si chiese Carlo.
“E’ un dollaro d’argento” spiegò Sabrina. “Mio padre ne ha un po’ di quaranta o cinquanta anni fa: oggi sono fuori corso, ma per molti anni i dollari d’argento sono stati di uso comune”.
Se lo infilò in tasca. Quando (e se) fosse tornata, lo avrebbe regalato a suo padre.
“Cosa pensi che dobbiamo fare riguardo a quel passaggio nella roccia?” le domandò Johnny.
“Voglio esplorarlo” rispose lei, decisa.
“Ehi ehi, non sarà pericoloso?” obiettò timoroso Michael.
“Ci andrò da sola” disse lei. “Voglio scoprire se sbuca da qualche parte”.
“Non se ne parla” disse Johnny. “Non puoi andare da sola: verrò con te”.
“Come vuoi, ma non so quanto tempo ci vorrà”.
-Eh eh.- Johnny rise dentro di sé. -Più tempo ci vorrà, più avrò il piacere di restare solo con te-.
“Voglio venire anche io!” esclamò Tinetta.
“Meglio di no” disse Sabrina. “Vorrei che restassero più persone possibile qui: non preoccupatevi per noi, dopotutto là dentro potrebbe non esserci niente”.
“Ma potrebbero anche esserci dei pericoli” le fece notare Manuela.
“Allora, proprio per questo è meglio che siano in pochi a correre il rischio” disse Johnny.
Pochi minuti dopo Johnny e Sabrina salirono sulla parete, con una torcia.
Arrivarono sulla cima, e iniziarono a cercare di sfoltire un po’ di vegetazione per liberare l’accesso.
Dopo qualche minuto, però, Sabrina esclamò: “Ma qui è già tutto tagliato!”.
“Che vuoi dire?” domandò Tinetta dal basso.
Sabrina e Johnny non le risposero subito: continuarono a tirar via i rami dei cespugli, che si staccavano con facilità.
Poi Sabrina si volse agli amici rimasti in basso e disse: “Abbiamo liberato il passaggio”.
“Così presto?” domandò Manuela.
“I cespugli erano già tagliati. Qualcuno ci ha aperto un varco in mezzo, evidentemente proprio per raggiungere quel passaggio nella roccia; poi però ha ammucchiato ad arte tutti i rami tagliati sul varco per renderlo invisibile”.
“Ma questo vuol dire che qualcuno è già passato di lì” disse Renato.
“Sembra di si” concordò Sabrina.
“La situazione cambia, allora” disse Manuela, apprensiva. “Abbiamo la certezza che qualcuno usa quel luogo per nascondersi, e questo qualcuno potrebbe essere pericoloso.”
“Questo è vero” ammise Sabrina. “Ma è troppo importante scoprire se questo accesso conduce da qualche parte. Potrebbe essere un rifugio ideale per chi è inseguito come noi”.
“Allora fate attenzione, ragazzi!” esclamò Tinetta, ansiosa. “Tesoruccio, ti affido Sabrina!”.
“D’accordo” disse lui baldanzoso.
“Faresti meglio ad affidare LUI a Sabrina” obiettò Renato. “Quell’imbranato è solo zavorra”.
Tinetta lo fulminò. “Questa te la metto in conto….”.
Renato tentò un’esile difesa: “Ma Tinetta…. io…. io….” ma lei lo gelò con lo sguardo, e il poveretto si ammutolì.
“Noi andiamo” disse Sabrina dall’alto; poi entrò nel varco tra i cespugli tenendo la torcia accesa davanti a sé.
“Non allontanatevi” si raccomandò Johnny ai suoi amici, prima di incamminarsi dietro Sabrina.
I ragazzi rimasti sul sentiero li osservarono con apprensione inoltrarsi nell’oscurità; per molti secondi riuscirono a sentire i loro passi rimbombare dall’interno della montagna, poi scomparvero anche quelli.
 
 
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Capitolo 2
 
In fuga

 
Quando Johnny e Sabrina si erano infilati in quel pertugio tra le rocce, gli altri sei avevano atteso, spaventati e stanchi, di vederli tornare. Erano passati circa quaranta minuti prima che questo avvenisse.
Sia Johnny che Sabrina erano apparsi subito piuttosto eccitati, e dissero di aver trovato in fondo al passaggio una piccola radura, con una baracca in condizioni molto buone.
“L’abbiamo raggiunta in circa venti minuti” disse Sabrina. “Ma perché eravamo soltanto in due e abbiamo tenuto un buon passo. Entrandoci tutti insieme e coi cavalli ci vorrà più tempo”.
“Vuoi portare i cavalli lassù?” domandò Manuela. “Non possiamo farcela”.
“Non è così ripido” spiegò Sabrina. “I cavalli riescono a entrare sia nel varco tra i cespugli sia nel passaggio di roccia, che comunque dopo una ventina di metri si allarga un bel po’: il difficile è solo farli inerpicare fin là, ma ti assicuro che è possibile”.
“Non è meglio lasciarli qui?” chiese Michael.
“Se li lasciamo qui, li troveranno subito e riusciranno a beccarci” replicò Johnny.
“Coraggio” li incitò Tinetta, che nonostante tutto si stava ancora divertendo. “L’avventura continua”.
“Diavolo, ma la tua energia è proprio inesauribile, eh?” commentò Carlo guardandola. “Io non so neanche come riesco a reggermi in piedi. Ho tanto bisogno di un buon pasto”.
“Dai, ragazzi, dobbiamo farcela”.
Far risalire la china ai cavalli fu più faticoso del previsto: anche gli animali erano molto stanchi e non erano per niente collaborativi; per fortuna l’abilità di Sabrina nel trattarli facilitò le operazioni (con un notevole aiuto dei poteri di Johnny e famiglia, che diedero fondo alle loro ultime risorse).
Gli animali, come previsto, passarono nel varco tra i cespugli: evidentemente chi lo aveva realizzato aveva preventivato di portarci la propria cavalcatura.
Il gruppo impiegò una mezzora per attraversare il passaggio; quando uscirono si ritrovarono in una piccola radura, circondata da pareti di roccia, al centro della quale si trovava la baracca di cui avevano riferito Johnny e Sabrina. Accanto ad essa c’era un abbeveratoio per i cavalli, e una sbarra di legno per legarli; una volta sistemati i loro animali, poterono entrare nel rifugio. Nella loro prima visita Johnny e Sabrina avevano controllato che non ci fosse nessuno, e così adesso tutti insieme poterono occuparlo senza timori. All’interno c’erano due stanze; la prima con un camino, un tavolo con quattro sedie, alcune mensole e due credenze; la seconda conteneva quattro brande e un piccolo armadio. Tutta la mobilia appariva chiaramente vecchia ma sempre funzionale. I ragazzi erano talmente stanchi che decisero di buttarsi a dormire senza neanche esplorare i dintorni del luogo né l’interno della casupola.
I maschi del gruppo decisero di lasciare le brande alle ragazze: loro si sarebbero arrangiati; nella situazione in cui erano già avere un tetto sopra la testa era un miracolo. Ma le donne decisero che tutti dovevano poter dormire in un letto; stabilirono che si sarebbero divisi i giacigli a coppie, così formate: Sabrina e Tinetta in una branda, Simona e Manuela in un’altra, Michael e Carlo e Johnny e Renato nelle altre due. Alla fine, poiché erano pur sempre ragazzini e quei letti erano a misura d’uomo, la loro notte non fu poi così scomoda.
Erano talmente stanchi che il giorno dopo si svegliarono solo in tarda mattinata.
Iniziarono subito ad esplorare l’interno e i dintorni del provvidenziale rifugio: apparve subito chiaro che si trattava di un luogo sovente frequentato, poiché non mancava nulla. All’esterno era stato scavato un rudimentale ma valido pozzo, dal quale tirarono su l’acqua per lavarsi e per bere. Riempirono anche le due bottigliette di plastica che avevano portato dal loro tempo. Dentro una delle credenze nella capanna trovarono degli involti contenente carne secca.
Sabrina la esaminò per qualche minuto, prima di stabilire che l’unico modo per sapere se era commestibile era provarla; Johnny fu scelto come assaggiatore ufficiale (che a rischiare fosse una ragazza non ne volle sentir parlare, e gli altri ragazzi erano tutti meno fessi di lui per farsi incastrare): ne prese un minuscolo morso e masticò a lungo, prima di avere il coraggio di mandarla giù.
“A me sembra buona” concluse. Allora ne presero tutti. Dopo aver mangiato e bevuto, si misero a perlustrare ogni angolo della baracca in cerca di qualcosa di utile. Nell’armadio in camera da letto furono trovate cinque coperte e un cappello da cowboy, che Simona e Tinetta litigarono per indossare; su una delle mensole era rimasta una scatoletta di fiammiferi mezza vuota; dentro le credenze, oltre la carne secca, non fu trovato altro. Sotto una delle brande Renato fece un ritrovamento particolarmente felice: un bauletto che conteneva molti oggetti utili, tra cui due grossi e affilati coltelli nei rispettivi foderi, che furono subito infilati nello zaino di Michael.
“Che altro c’è lì dentro?” chiese Sabrina a Renato, che stava ispezionando il contenitore.
“Una corda” rispose il ragazzo, “tre borracce…. delle candele…. poi…. un paio di forbici, ago e filo…. è tutto”.
“Mica male” commentò Johnny.
“Già” concordò Sabrina. “Per ora lasciamo quelle cose lì dentro; prima di andarcene di qui metteremo tutto nello zaino di Michael e nella sacca da baseball”.
La scoperta più fortunata, però, fu quella di Manuela, che dietro la baracca trovò una piccola costruzione in legno; vi entrò e dentro c’erano selle, redini e tutta l’attrezzatura per cavalcare.
“Che fortuna!” esclamò Sabrina. “Potremo sellare i cavalli”.
Fecero anche un giro di ricognizione della radura, e scoprirono un cunicolo che si apriva nella roccia su un altro versante rispetto a quello da cui erano entrati: forse portava ad un’altra uscita. Stavolta Johnny, Renato e Tinetta si avventurarono alla sua esplorazione, per tornare dopo più di un’ora senza averne raggiunto la fine. Erano andati avanti per mezzora tra due alte pareti di roccia in un sentiero che saliva e digradava alternativamente. Erano tornati indietro perché avevano avuto paura di essere sorpresi dal buio, visto che era già pomeriggio inoltrato quando erano partiti. Decisero quindi che avrebbero tentato l’esplorazione il giorno dopo, partendo però di mattina; infatti si sarebbero svegliati senz’altro molto prima rispetto alla giornata in corso.
Così fu, in effetti. Il terzo giorno della loro assurda avventura si svegliarono di mattina presto, poiché erano andati a dormire ad un’ora decente e avevano ormai smaltito la stanchezza della fuga dal Black Arrow. Dopo una frugale colazione, Johnny, Renato e Tinetta ripartirono in perlustrazione. Stavolta tornarono dopo circa due ore, con delle buone notizie. Avevano trovato un’uscita in fondo al tunnel, che terminava sul fianco di un’altura non dissimile dalla Mesa de Arena, e sotto la quale si stendeva una grande prateria; avrebbero potuto portare anche i cavalli
perché il passaggio era grande abbastanza.
Decisero dunque: avrebbero passato nel rifugio un’altra notte e sarebbero partiti l’indomani mattina, portandosi via tutto ciò che poteva essere utile. Sapevano che si trattava di furto bello e buono, ma nella situazione attuale avevano ben poca scelta.
Sabrina, nel tempo che rimaneva, consigliò agli altri di fare pratica sui cavalli. “Io, Johnny e le sue sorelle prenderemo uno di voi a testa per allenarlo a cavalcare. Non diventerete campioni, ma se riuscirete a restare in sella sarà già un buon risultato”.
Gli animali furono bardati di tutto punto, grazie all’attrezzatura scoperta il giorno prima.
Tinetta volle essere l’allieva di Johnny. Il ragazzo si avvicinò timoroso al cavallo, sotto gli occhi della sua scolara che lo osservava adorante. Lui approcciò l’animale con prudenza, gli girò intorno e cercò di issarsi in groppa in vari modi.
-Cavolo, com’è alto- pensò mentre posava un piede su una staffa per salire, aggrappandosi con le mani alla criniera del quadrupede, che reagì scrollandosi il ragazzo di dosso e gettandolo a terra; lui allora si rialzò e tentò di arrampicarsi abbracciando la schiena dell’animale e tirandosi su a forza di braccia, col risultato di scivolare malamente dopo aver dondolato con le gambe all’aria per alcuni secondi; non si diede per vinto, tornò vicino al fianco del cavallo e stavolta decise di usare la testa. Mise un piede in una staffa, con la mano afferrò il pomello della sella e dopo un paio di saltelli riuscì ad issarvisi. Quando fu sopra si deterse la fronte col dorso della mano, sbuffando soddisfatto, e si guardò intorno; solo allora notò che tutti lo osservavano tra il perplesso e lo sbigottito. Lui chiese: “Che c’è?”; poi abbassò lo sguardo e si accorse di essere salito in groppa al contrario. Sfoderò dunque il suo sorriso da ebete e bofonchiò giustificazioni sconnesse.
Sabrina gli disse: “Dai, Johnny, non scherzare! E' importante che tutti facciano un po' di esperienza”.
Renato, l’allievo designato di Sabrina, disse: “Johnny, sei più cretino di quanto credevo, e guarda che credevo un bel po’”.
Simona e Manuela non avevano ancora tentato niente: aspettavano di vedere come si comportava il fratellone. Johnny allora ridiscese dall’animale e disse, con tono di scusa: “Ma io non so andare a cavallo”.
“Piantala di fare il modesto, tesoro” gli disse Tinetta. “Abbiamo visto tutti come avete cavalcato tu e le tue sorelle due sere fa”.
“Ehm…. ma veramente…. credo sia stato…. ecco, si, nient’altro che l’adrenalina del momento…. ehm, si.... ”.
“Ehi, ci prendi in giro?” domandò Sabrina, guardando Simona e Manuela per sentire cosa avevano da aggiungere.
Le gemelle si produssero in un’ottima imitazione del sorriso idiota di Johnny e confermarono imbarazzate quanto detto da lui. “Eh, si. In effetti non sappiamo andare a cavallo…. quello che è accaduto l’altra volta è stato un caso di…. forza maggiore, ecco…. la nostra famiglia ha di queste peculiarità…. in caso di bisogno, tiriamo fuori doti nascoste….già….”.
Sabrina, sgomenta, si rivolse a Manuela: “Ma tu non avevi detto che avevate imparato a cavalcare dai vostri nonni?”.
I tre fratelli presero a farfugliare, in cerca di una scusa.
“Per essere precisi, intendevo dire” iniziò poi Manuela, “che abbiamo imparato a stare in sella, non proprio a cavalcare”.
“Infatti” continuò Johnny, “solo a stare in sella. L'altra sera, nel momento del pericolo, non ci siamo fermati a ragionare, e siamo riusciti a cavalcare perché era necessario per sfuggire ai nemici”.
“E' vero” concluse Simona, “nelle emergenze tiriamo fuori doti di sopravvivenza eccezionali.... la nostra è una famiglia d'azione!”.
Gli altri li guardarono dubbiosi; non capivano se i tre li stavano prendendo in giro o dicevano sul serio.
Poi, però, Sabrina scosse la testa, e disse: “Ricordo una volta in cui Johnny salvò un bambino che stava annegando benché avesse dichiarato pochi istanti prima di non saper nuotare.... chissà, per quanto sembri assurdo, evidentemente avete davvero delle risorse celate, che si manifestano solo in caso di emergenza”.
Gli altri non sapevano cosa pensare, ma alla fine si strinsero nelle spalle; dopotutto, con Johnny erano abituati a lasciar correre, viste le sue numerose stramberie. Simona e Manuela, però, di solito erano immuni da queste stravaganze; forse crescendo prendevano la strada del fratello.
“Lasciamo stare” disse infine Sabrina, sospirando, “resta il fatto che dovrò seguirvi tutti io nell’addestramento”.
Johnny, Manuela e Simona avevano sudato freddo, ma in quel momento si rilassarono: nonostante la colossale arrampicata sugli specchi, era andato tutto bene.
Sabrina, volenterosa, si apprestò quindi ad insegnare ai suoi amici le basi dell’equitazione.
Se nelle donne del suo gruppo, però, trovò delle allieve capaci, i maschi la frastornarono con la loro inettitudine.
Dopo un paio d’ore si dichiarò soddisfatta del livello che avevano raggiunto i suoi studenti, anche perché al momento avevano solo quattro cavalli e in ogni caso sarebbero stati costretti a dividerseli a coppie.
“Cavolo, che male mi fa la schiena” si lamentò Renato una volta sceso dal suo animale.
“A chi lo dici” convenne Michael.
“Ragazzi, che ore sono? Io ho una fame” disse Carlo.
“Sono quasi le due” disse Manuela. Il suo orologio segnava sempre l'ora giapponese, ma conoscendo la differenza di fuso orario non le fu difficile indovinare che ore fossero.
“E’ ora di pranzo!” esclamò Simona felice.
“Ora di pranzo?” chiese Renato. “Hai degli orari strani”.
“Per Simona è SEMPRE ora di pranzo” specificò Johnny.
“Che mangiamo?” domandò Simona.
“Carne secca ed acqua” le rispose Manuela.
“Oh, è vero….” borbottò Simona. “Uffa, appena torno mi voglio mangiare una pizza gigante e un gelato ancora più gigante e una torta talmente grande che se le metto un paio di baffi e la macchina fotografica a tracolla la scambiano per papà, e poi….”.
“Ehm….” fece Johnny mettendole una mano sulla spalla; lei lo guardò e lui le indicò Carlo: il poveretto era accovacciato e piangeva disperatamente. “Tortaaaa…. sigh sob…. pizzaaaa…. sob sigh…. ciboooo…. sniff sniff….”.
“Oh, chiedo scusa” disse Simona.
In quel momento Manuela si avvicinò a suo fratello e gli domandò, a bassa voce: “Mi spieghi perché non hai voluto continuare con la farsa che sappiamo andare a cavallo? In questo modo abbiamo attirato l’attenzione degli altri ancora di più”.
“Già, perché?” lo sollecitò Simona.
“Perché per cavalcare adoperiamo il potere, ecco perché: non possiamo permetterci di usarlo a sproposito. Nella situazione in cui siamo potrebbe servire anche per salvarci la vita, perciò dobbiamo conservarlo per le emergenze, chiaro? E poi vi ha fatto bene imparare un po’ normalmente”.
“Certo, noi che possiamo….” mormorò Simona.
“Che vorresti insinuare?” le chiese Johnny.
“Oh, solo che se tu non usi il potere non raggiungi neppure il livello di un normale essere umano” spiegò lei.
“EHI!” gridò lui cercando di afferrarla, ma la ragazza se lo aspettava e gli sfuggì facilmente.
La rincorse fin dentro la baracca, mentre i loro amici li osservavano incuriositi.
“Che succede?” chiese Tinetta.
“Oh, nulla” disse Manuela. “Giocano”.
“Beati loro che ne hanno la forza” borbottò Michael.
“Già” concordò Carlo. “Io se non mangio qualcosa svengo”.
“Come ti capisco, amico mio” gli disse Michael passandogli un braccio sulle spalle; Carlo allora posò la testa sulla spalla dell’amico e pianse di nuovo. “Wuaaaah haaa…. perché non sono a casa mia con un bel piatto di arrosto davanti?”.
“Ma se solo l’altro ieri ti esaltava l’idea di vivere questa avventura, e volevi diventare un grande pistolero” gli ricordò Renato.
“Che c’entra?” si schermì Carlo. “Io volevo essere un grande eroe così i paesani mi avrebbero accolto nella loro città e mi avrebbero offerto un banchetto, e le splendide figlie del capovillaggio si sarebbero innamorate di me, e….”.
“Sei proprio un tonto….” disse Renato scuotendo il capo.
“Ehi, non dovresti parlare così a chi è più anziano di te” lo rimproverò Michael.
“Beh, anche Johnny è più grande di me, e io non lo rispetto di certo”.
“Wuaaaah haaaa….” pianse Carlo voltandosi verso Michael. “Perché mi tratta così? Io ho anche fameeee….”.
Renato si allontanò. “Vabeh, vi lascio soli”.
“Coraggio, Carlo” disse Michael guidandolo verso la capanna. “Quando torneremo a casa andremo in un bel ristorante e mi offrirai una cena sostanziosa”.
“Si…. ecco….” iniziò Carlo. “Graz….”; guardò torvo il suo amico. “Che cavolo stai dicendo Michael”.
“Perché?”.
“Forse volevi dire che TU mi offrirai una cena sostanziosa”.
“Ma Carlo, non potrei mai ferire il tuo orgoglio offrendoti una cena”.
“Oh, capisco…. ma non preoccuparti di ferirmi, sopravviverò”.
“Ma io lo dico per il tuo bene….”.
“Pure io lo dico per il tuo bene, AMICO”.
“Ma non dovresti preoccuparti di me, AMICO”….
Rimbeccandosi l’un l’altro in questo modo, raggiunsero gli altri nella baracca.
 
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“Strike!” urlò Simona a pieni polmoni.
Renato era in battuta, e non fu affatto d’accordo. “Ma quale strike! Era fuori di mezzo metro”.
“Strike!” ribadì Simona con entusiasmo.
“Ma che razza di arbitro sei?” chiese Renato con gli occhi al cielo.
“Calmati, Renato” gli spiegò Manuela. “Il fatto è che mia sorella si diverte a gridare strike”.
“Che cavolo di spiegazione è?” protestò lui. “Deve arbitrare seriamente”.
“Ah ah ah” rise Johnny. “Simona che fa qualcosa seriamente…. questa è forte!”.
Simona raccolse la palla che le era caduta vicino, e gliela lanciò contro, mancandolo di poco.
“Ehi!” esclamò Johnny. “Sei impazzita? Potevi farmi male”.
“Mi hai preso in giro!” gli gridò Simona. “E non te lo puoi permettere, visto che sei nella squadra delle schiappe”.
“Guarda che tu sei in squadra con me” gli ricordò Johnny.
“Si, ma io sono una ragazza ed è normale che sia negata nel baseball…. invece tu sei un uomo, e conosci a malapena le regole del nostro sport nazionale”.
Johnny arrossì a queste parole. “Che c’entra? Io…. io….”.
“Ragazzi, basta” li interruppe Manuela. “Questa partita non la finiamo più, altrimenti”.
“Beh, ma tanto cosa abbiamo di meglio da fare?” domandò Sabrina, a nessuno in particolare; gli altri si osservarono, senza obiettare: in effetti aveva ragione lei.
Avevano avuto molta fortuna, tutto sommato, a trovare quel rifugio tra le montagne, ma non si poteva dire che abbondassero gli svaghi.
Ancora doloranti per la pratica a cavallo della mattina, avevano deciso di improvvisare una partitella di baseball. Poiché non avevano l’attrezzatura di protezione, presero una tavola di legno squadrata dietro cui ripararsi, e ci fecero un buco col coltello in modo che l’arbitro designato potesse guardarci attraverso e determinare l’esito dei lanci senza correre il rischio di essere colpito.
Decisero anche, per mancanza di effettivi, di rinunciare al ricevitore.
Dopo alcuni minuti di tentativi di gioco, si erano divisi in squadre il più possibile equilibrate.
Sabrina era in squadra con Johnny, Carlo e Simona. L’altra squadra contava Tinetta, Renato, Michael e Manuela. Ovviamente Sabrina era la più forte di tutti, e perciò a lei furono assegnati i peggiori elementi: Johnny il più imbranato, Carlo il più goffo e Simona la più indisciplinata. Malgrado ciò, la sua squadra vinceva: Sabrina era potentissima sia in battuta che sul monte di lancio, ed era un osso durissimo per gli avversari, nonostante in realtà contenesse le proprie forze (anche se naturalmente agli altri non lo disse). Tutto questo, comunque, tenendo conto del fatto che la partita andava avanti in un delirio di errori assurdi, cadute rocambolesche e discussioni ridicole (come quella tra Johnny e Simona).
“Dai tesoro, fa vedere chi sei!” gridò Tinetta a Johnny.
“Ehi, non fare il tifo per gli avversari” la rimproverò Michael.
“Io tifo chi mi pare” ribatté lei facendogli una boccaccia.
“Strike! Strike! Strike!” riprese a gridare Simona senza motivo, saltellando eccitata.
“Sapevo che era meglio non farle fare l’arbitro” disse Johnny sconsolato.
“Ma ha insistito tanto….” ricordò Sabrina.
“Non c’è problema” commentò Tinetta. “Vi stracceremo lo stesso! Dopo ti consolerò, tesoro”.
“Figurati” disse Michael. “Non siamo riusciti neanche a sfiorare i lanci di Sabrina. Ci sono talmente superiori che possono permettersi di rinunciare a Simona in difesa e farle fare l’arbitro”.
“Dai, continuiamo” incitò Renato convinto; poi fissò Sabrina con sguardo di sfida, e alzò la mazza verso il cielo. Pensò: -Mi farò bello davanti a Tinetta-.
Un boato si sollevò tra i suoi compagni. “Sei grande Renato! Fa vedere chi sei”.
“Ehi ehi che succede?” chiese Simona. “Cosa ha fatto?”.
“Ha alzato la mazza verso il cielo” le spiegò Michael. “Significa che chiama il fuoricampo”.
-Ah si, eh?- pensò Sabrina. -Mi dispiace per te, Renato. Finora ci sono andata leggera, ma non posso ignorare un gesto di sfida così eclatante-.
La ragazza caricò il lancio, e lasciò partire una veloce come non ne aveva ancora tirate in quella partita: il povero Renato non riuscì neppure a vederla.
“Ahio!” gridò Simona, quando la palla colpì la tavola che teneva in mano facendogliela sbattere sul naso. “Sabrina, mi hai fatto male!”.
“Scusa, Simona” disse Sabrina mortificata. Nella concentrazione del lancio, non si era ricordata che l’arbitro era protetto solo da una tavola di legno.
“Insomma, Simona, qual è l’esito del lancio?” le chiese Johnny.
“Oh, strike! Strike!” gridò Simona esultante; in realtà non ne aveva idea, ma in questo caso ci aveva azzeccato.
Stavolta Renato non ebbe niente da obiettare, e lasciò il box di battuta con gli occhi bassi, visto che aveva subito lo strike out.
Tinetta commentò: “Ti pareva, il solito sbruffone”.
Dallo sguardo di Michael si capiva che anche lui la pensava così.
Manuela, più comprensiva, cercò invece di consolarlo.
Dopo questa sfida Sabrina tornò a giocare sotto il suo livello, altrimenti non ci sarebbe stata gara.
La partita si protrasse per qualche ora, fino al tardo pomeriggio. Avevano giocato molto più di nove inning. Non furono in grado di stabilire chi aveva vinto perché non c’era nessuno preposto a tenere il punteggio, e chi ci aveva provato aveva perso il conto. Smisero di giocare quando furono troppo stanchi per continuare. Tinetta propose allora di accendere il fuoco sul terreno antistante la baracca, benché all’interno ci fosse un camino; in questo modo sarebbe stato più o meno come essere in campeggio. Tutti accettarono con entusiasmo, e si prodigarono per cercare la legna e ammucchiare pietre per creare un focolare. Per quando il fuoco fu pronto e tutti vi furono riuniti intorno era ormai il tramonto. Bevvero acqua di pozzo e mangiarono carne secca.
“Domattina vorrei partire il più presto possibile” disse Sabrina.
“Secondo me è una buona idea” concordò Johnny. “Ma cosa dovremmo fare da ora in poi? L’unico posto in cui ha senso andare è la Mesa de Arena, e non è nella direzione che prenderemo”.
“Dobbiamo semplicemente trovare un’altra strada per arrivarci” spiegò Sabrina. “Non è prudente per noi passare dalla pista che attraversa Tucson e passa così vicina al Black Arrow”.
“Neppure di notte?” domandò Renato.
“Probabilmente ci stanno ancora cercando. Non dimenticate che ci credono responsabili di un omicidio. Potrebbero avere messo delle sentinelle, e forse un gruppo di cittadini guidati dallo sceriffo è ancora sulle nostre tracce. Di solito facevano così, nel far west”.
“Se ci prendono, cosa credete che ci faranno?” domandò timoroso Michael. Tutti osservarono Sabrina, che guardò in terra sospirando. “Non lo so. Siamo dei ragazzi, quindi forse non saranno troppo severi; ma non ci giurerei. Meglio non pensarci”.
Trascorsa circa un’ora, il sole era ormai tramontato. I ragazzi riuniti intorno al fuoco chiacchierarono vivacemente per un po’, ma poi la stanchezza della giornata li raggiunse; erano silenziosi quando sentirono quel rumore sospetto; si voltarono di scatto nella direzione da cui proveniva.
Sabrina si alzò in piedi facendo segno agli altri di tacere. Prese il secchio dell’acqua che usavano per dissetarsi e lo rovesciò sul fuoco.
“Perché?” domandò Tinetta.
“Sshh” sussurrò Sabrina. “Parlate a bassa voce. Sta arrivando qualcuno, o qualcosa”.
“Cioè?” chiese Johnny.
“Potrebbe essere un animale selvaggio” spiegò lei. “Ma potrebbero anche essere gli uomini del Black Arrow”.
“Ma perché hai spento il fuoco?” le domandò Michael. “Adesso siamo al buio”.
“Siamo stati degli idioti; il fuoco è visibile da grandissima distanza, di notte. Abbiamo praticamente rivelato la nostra posizione” spiegò lei.
“E ora che facciamo?” chiese Renato.
“Johnny, vai a prendere una di quelle candele che abbiamo trovato sotto la branda. Usa un fiammifero per farti luce” disse Sabrina.
“Ok” disse il ragazzo, ed entrò nella capanna.
“Ma perché non usiamo una delle torce elettriche?” chiese Carlo. “Ne abbiamo due”.
“Scemo” ribatté Tinetta. “Le torce elettriche dobbiamo usarle solo nei casi di emergenza, così come gli accendini. Vero Sabrina?”.
“Brava Tinetta” le disse Sabrina sorridendo. “E’ proprio così”.
“Uffa. Figurarsi se voi due non vi spalleggiate” sbuffò Carlo.
“Ehi, guarda che se non ci fosse Sabrina, che è così in gamba, non ce la saremmo cavata” protestò Tinetta.
“Hai ragione” le disse Michael avvicinandosi e prendendole la mano. “E anche tu sei una ragazza in gamba. Perché non ci scambiamo un bacetto?”.
“Ehi, giù le mani da Tinetta!” esclamò Renato.
“Ti sembra il momento di fare il cretino?” disse Manuela.
“Sono molto serio, invece” replicò Michael. “E se fossero in arrivo dei nemici spietati? Queste potrebbero essere le nostre ultime ore su questo pazzo mondo”.
“Hai ragione” concordò Carlo mettendosi tra Simona e Manuela e circondando le loro spalle con le braccia. Con voce solenne declamò: “Questo è il momento di lasciarsi andare all’amore”. Né Michael né Carlo ebbero successo: le tre ragazze li colpirono violentemente e loro si ritrovarono a mordere la polvere, lamentandosi. “Ahia…. ahio….”.
Sabrina era interdetta da quello spettacolo; quei due erano davvero indefinibili. Nemmeno un potenziale pericolo li distoglieva dal loro chiodo fisso. -Maniaci fino al midollo- pensò.
Johnny uscì in quel momento con una candela in mano, ancora spenta. Notò Michael e Carlo che si stavano rialzando da terra. “Che è successo?” chiese.
“Niente” rispose Sabrina. “Divergenze di opinioni”. Si diresse verso l’imbocco della galleria che avevano usato per entrare, seguita da tutto il gruppo. Da quella direzione, infatti, venivano i rumori. Si accovacciarono all’imbocco del passaggio e restarono in silenzio, in ascolto. Dopo pochi secondi sentirono chiaramente un soffuso rumore di passi, ma non seppero dire a che distanza fosse.
“Ci sono delle persone” mormorò Sabrina. “Credo che stiano cercando di avvicinarsi di soppiatto, perciò se li sentiamo non devono essere lontani”.
“Che facciamo?” mormorò Renato.
“Intanto accendiamo la candela” disse Sabrina. “Ci servirà per farci un’idea della situazione”.
“Non sarà pericoloso?” chiese Tinetta.
“E’ necessario” disse Sabrina. “Dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare; potrebbero anche non avercela con noi. La fiamma è flebile, e la lasceremo accesa il minimo indispensabile”.
Così dicendo fece segno a Johnny di accendere la candela: lui tirò fuori di tasca i fiammiferi e ne strofinò uno, lo avvicinò allo stoppino e la accese.
Si voltarono tutti verso l’imbocco del passaggio, mentre Johnny alzava la candela in alto per illuminare davanti a loro. Nessuno vedeva niente, però: era ancora buio.
“Ehi, ma l’hai accesa?” gli domandò Renato.
“Certo” rispose Johnny.
“Qui non si vede un tubo”.
“Forse è difettosa” si schermì Johnny.
“Tu sei difettoso, mi sa” lo provocò Renato. “Non sai neppure accendere una candela?”.
“Ehi! Come ti permetti?” replicò l’altro.
“Ragazzi, calma, su” intervenne Sabrina. Osservò la mano di Johnny e vide che la candela era accesa, ma lo stoppino bruciava senza fiamma. “Mmh, credo che tu abbia ragione, Johnny. Dev’essere difettosa. Dammi un altro fiammifero”. Il ragazzo obbedì; lei accese il fiammifero e lo avvicinò alla candela. “Ehi, c’è scritto qualcosa qui” notò.
“Dove?” domandò Carlo.
“Sul corpo della candela” rispose lei; avvicinò il fiammifero per leggere la scritta.
“Forse è la marca” ipotizzò Manuela.
“Si, è probabile. Vediamo un po’” disse Sabrina, iniziando a leggere. “D-y-n-a-m-i-t-e”.
“Dynamite?” disse Johnny. “Mai sentita questa marca”.
“Neanch….” iniziò a dire Sabrina, ma s’interruppe di colpo. Guardò i suoi amici; sul volto di tutti si fece strada la comprensione in pochi istanti. Per una frazione di secondo osservarono la miccia che si consumava come ipnotizzati.
“DINAMITEEEEEEEEEEEEEE!!!!!!!!!!” gridarono tutti in coro in preda al panico.
“BUTTALA!” disse Tinetta a Johnny.
Lui gettò il candelotto in alto, col solo risultato di farlo ricadere in mezzo a loro. Carlo lo prese al volo involontariamente, lo porse a Michael, che gridò: “NOOO! GETTALA VIA!”.
Carlo allora la gettò verso Johnny, che la respinse verso Michael, che la ricacciò verso Renato.
Nella confusione più totale e in mezzo alle urla di tutto il gruppo, il candelotto finì chissà come in mano a Tinetta, che senza rendersi conto di come fosse arrivato a lei lo fissò inorridita per un istante. Ci fu un altro attimo di sospensione, in cui tutti osservarono la loro amica.
Poi Tinetta buttò via la dinamite con tutta la sua forza, verso il passaggio , gridando: “AIUTOOOO!”.
“TUTTI GIU’!” ordinò Manuela ai suoi amici, e senza aspettare che le obbedissero, prese per il collo Simona e Johnny e si gettò a terra tirandoseli dietro.
Gli altri li imitarono. Pochi secondi dopo, la dinamite esplose con un boato tremendo. I cavalli dei ragazzi, legati davanti al rifugio, si impennarono e nitrirono terrorizzati.
Dalla galleria giunsero molte grida di uomini, mescolate al rombo delle rocce che cadevano.
Johnny e i suoi amici non osavano muoversi, ancora atterriti. Restarono immobili finché non cessò il baccano, e non ci fu altro da sentire se non l’ eco del fragore appena terminato. Si alzarono perché furono investiti da una nube di polvere. Si tirarono su coprendosi la bocca e il naso, stringendo gli occhi per proteggerli dai detriti. Si allontanarono, e raggiunsero la baracca. Si chinarono tossendo, e si sfregarono le palpebre lacrimando copiosamente. Dal momento in cui avevano scoperto di avere in mano la dinamite avevano smesso di preoccuparsi dei loro inaspettati visitatori; ora, mentre tossiva, Johnny cercò tra le lacrime di scorgere presenze che potevano giungere dalla galleria. Ma la galleria era crollata. Johnny si avvicinò alla parete di roccia, con prudenza: dove prima era stato l’imbocco del passaggio, ora c’era solo un mucchio di macerie. Da uno dei versanti della montagna erano precipitate enormi rocce che avevano ostruito l’apertura; ormai passare di lì era impossibile, a meno di non volersi sobbarcare un lavoro immane per liberare l’accesso. Lavoro che, comunque, non sarebbe stato possibile eseguire a mani nude, vista la grandezza di alcuni dei massi, che dovevano pesare molti quintali.
“Che…. che facciamo?” chiese Carlo.
“Non si sarà fatto male qualcuno?” domandò Tinetta. Johnny li guardò, poi osservò di nuovo il passaggio: si chiese se aveva abbastanza potere da sollevare quelle pietre gigantesche.
“Non possiamo fare niente” disse Sabrina. “E’ praticamente crollata la montagna”.
“Speriamo che nessuno si sia fatto male” disse Michael.
“Già” concordò Renato. “Ci manca solo che ci accusino di aver schiacciato dei poveri viandanti”.
Manuela si avvicinò alle rocce crollate, circondò la bocca con le mani e urlò: “EEHIIII, STATE TUTTI BENE?”. Restarono in ascolto ma nessuno rispose. Manuela allora gridò di nuovo; di nuovo non ci fu risposta.
Sabrina sospirò, e disse: “Possiamo solo augurarci che si siano allontanati in tempo”.
Carlo tornò a sedersi vicino ai resti del fuoco, e gli altri lo imitarono dopo pochi secondi.
Con un paio di fiammiferi, riaccesero il falò.
“Sempre dell’avviso di andarcene domattina?” chiese Johnny a Sabrina.
“Non so, ragazzi” rispose lei. “Se qualcuno di voi ha idee migliori ne parliamo”.
Si guardarono l’un l’altro; nessuno aveva niente da proporre.
“Allora io direi di seguire il piano originale” disse la ragazza. “Superare quella frana è impossibile, restare qui è inutile. Il nostro obiettivo è raggiungere la Mesa de Arena, in qualche modo”.
Nessuno contestò queste parole. I minuti successivi passarono nel quasi totale silenzio; l’incidente appena accaduto aveva smorzato il loro entusiasmo. Ma dopo un po’ tornarono a rilassarsi: la situazione non era cambiata rispetto a prima, dopotutto. Dovevano ancora preoccuparsi solo di raggiungere la loro meta.
Quando decisero di andare a letto i loro orologi segnavano circa le cinque del pomeriggio.
Manuela colse l’occasione per proporre di cambiare l’ora. “In America il fuso orario è avanti di circa sette ore rispetto al Giappone” disse “Quindi adesso è più o meno mezzanotte. Dovremmo rimettere gli orologi sull’ora giusta”. Nessuno obiettò.
Mentre spostava le lancette del suo orologio da polso, Johnny disse: “Perciò adesso a casa sono le cinque del pomeriggio. Ecco perché non ho affatto sonno”.
“Dobbiamo comunque riposarci, Johnny” disse Sabrina. “Chissà cosa ci aspetta domani”.
“Forse niente di tremendo, purché Renato non combini altri guai” disse Tinetta.
“Ma…. ma…. cosa ho fatto?” balbettò il ragazzo. “E’ Johnny che ha acceso la dinamite”.
“Si, ma sei tu che l’hai trovata in quel bauletto e l’hai scambiata per una candela” lo accusò Tinetta.
“Cavolo, Johnny rischia di ammazzarci tutti e la colpa è mia….” borbottò Renato contrariato.
“Coraggio, Renato” lo confortò Manuela. “Poteva capitare a chiunque”.
“E’ vero, a chiunque” disse lui rincuorato. Spensero il fuoco, entrarono nella capanna e si coricarono.
La mattina dopo partirono di buon’ora. Avevano preso con loro tutto ciò che poteva essere utile. Nessuno salì a cavallo, all’inizio; avevano deciso che finché non avessero attraversato il passaggio nella roccia non li avrebbero montati.
Quando arrivarono alla fine del sentiero, un panorama simile a quello che avevano visto dalla Mesa de Arena si stendeva sotto di loro. Aggirarono le pareti di roccia, in cerca di un punto dal quale scendere. Non trovarono sentieri veri e propri, perciò non rimase altro che scendere dal fianco meno ripido dell’altura procedendo a zig zag invece che andare in linea retta, per migliorare la stabilità dei cavalli. Quando arrivarono in fondo, si riposarono ai piedi del colle, e fecero il punto della situazione.
“Ci servono a tutti i costi altri cavalli” disse Sabrina.
“Ma tanto non li sappiamo cavalcare” obiettò Renato.
“Abbiamo fatto pratica apposta” replicò Sabrina. “Ragazzi, se dovessimo imbatterci nei nostri inseguitori, ci catturerebbero facilmente, perché noi montiamo quattro cavalli in otto”.
“La sera della fuga dal Black Arrow non ci hanno presi” disse Simona. “Gli sfuggiremo di nuovo. Io sono troppo in gamba”.
“Beh, ma non possiamo contare sempre sulla fortuna” disse Manuela.
“Infatti” concordò Sabrina. “Inoltre, avere un cavallo in due ci rallenterà parecchio. Questi poveri animali avranno bisogno di riposarsi molto più spesso”.
“Potremmo montarli a turno” propose Carlo. “Quando uno cavalca un altro va a piedi”.
“Così saremmo più lenti di una lumaca” disse Tinetta.
Alla fine, tutti dovettero concordare con Sabrina circa la necessità di procurarsi altre cavalcature.
Poi fu la volta di un altro quesito, che fu Michael a sollevare: “E da che parte andiamo, ora?”.
“Io direi di seguire la pista principale” disse Sabrina. “Di solito lungo di essa ci sono locande o comunque rifugi per i viandanti, mentre deviando dal sentiero battuto rischiamo di perderci chissà dove”.
“Ma viaggiando sulla pista principale non c’è maggior rischio di incontrare i nostri inseguitori?”
chiese Johnny.
“Si, infatti dovremo prestare la massima attenzione alla gente che incroceremo. Quando vedremo qualcuno venire verso di noi, abbandoneremo la pista e ci nasconderemo, riprendendola quando il pericolo sarà passato” disse Sabrina.
“Ma come la troviamo la pista?” chiese Michael. “Non ci sono mica cartelli o segnali”.
“Non sarà così difficile, credetemi” disse Sabrina.
“Ehi, credo di aver capito” disse Manuela. “Se è un sentiero seguito da molte persone, senz’altro ci saranno delle tracce sul terreno”.
“Esatto” confermò Sabrina. “Tracce di zoccoli di cavallo, di gente a piedi e di ruote di carro. Basterà seguirle e arriveremo senz’altro in luoghi abitati da qualcuno”.
“Purché non ci sparino addosso” disse timoroso Carlo.
“Ce ne preoccuperemo quando accadrà” concluse Sabrina. “Adesso mettiamoci in marcia”.
Si allontanò dal versante dell’altura, dirigendosi verso la pianura, seguita dai suoi amici.
 
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Jenning entrò nell’ufficio di Duke il pomeriggio stesso in cui tornò dalla spedizione di caccia ai danni di Johnny e soci. A differenza dell’ultima volta che era stato lì, stavolta c’era anche Young, con una bottiglia di vino in mano. La aprì non appena entrò Jenning.
«Che cosa si festeggia?» domandò quest’ultimo. «Non vi ho ancora detto l’esito della missione».
«Si festeggia la dipartita del giudice Pearson» rispose Young riempiendo tre bicchieri.
«Davvero?» chiese Jenning. «Quando è successo?».
«Ieri mattina» rispose Duke. «Stamattina c’è stato il funerale».
Jenning prese il bicchiere e lo sollevò, dicendo: «Vi farà piacere allora sapere che anche lo sceriffo Pascal non fa più parte di questo brutto mondo».
«Stai scherzando?» domandò Duke, incredulo.
«Niente affatto».
«Evviva! Brindiamo alla fine di una grossa seccatura!» esclamò Duke.
«Un momento» disse Young. «Sei sicuro che sia morto? Non ti sarai sbagliato come con Pearson?».
«L’ho visto seppellito sotto una montagna di roccia» rispose Jenning, infastidito dalla frecciatina di Young.
«Bene, benissimo» disse Duke alzando il suo bicchiere, imitato dagli altri. «Brindiamo, gente».
Fecero tintinnare i bicchieri e bevvero. Quando ebbe vuotato il suo, Young chiese: «Un altro giro, signori?». I suoi compagni accettarono.
«Perfetto, raccontaci com’è andata» disse Duke a Jenning dopo un sorso del secondo bicchiere. «Sei stato tu a far crollare la roccia su Pascal?».
«Si» rispose Jenning. «Ma dire che ho avuto fortuna è poco».
«Dai, prosegui» lo incitò Young.
«Come sapete, siamo partiti in otto alla caccia degli stranieri. Io, Bull e Cody formavamo un gruppo; lo sceriffo e quattro volontari, fra cui Mulligan e Samson, formavano un altro gruppo. Abbiamo seguito le loro tracce fino alla gola tra le montagne a nord est. Si sono infilati lì dentro, e fino ad un certo punto i segni del loro passaggio erano evidenti, poi sono scomparsi. Abbiamo creduto che si fossero fatti furbi e avessero attraversato l’intero canyon cancellando le loro tracce. Abbiamo superato la gola e siamo usciti sull’altro versante, dove abbiamo deciso di accamparci per la notte. Il giorno dopo abbiamo proseguito in due direzioni diverse poiché non siamo riusciti a ritrovare indizi sui loro spostamenti; abbiamo stabilito di proseguire per due ore sulla pista in sensi diversi e poi tornare indietro se non li avessimo beccati. Se invece uno dei due gruppi avesse avuto fortuna, avrebbe avvisato l’altro con segnali di fumo. Naturalmente io, Bull e Cody non avevamo alcuna intenzione di catturare i fuggitivi: se avessimo scovato loro tracce, era nostra intenzione depistare gli altri e poi tornare a cercare le prede con calma. Ma non abbiamo trovato proprio niente; quei ragazzini sembravano spariti»; si interruppe per un sorso di vino; Duke e Young pendevano dalle sue labbra.
Jenning continuò: «Siamo tornati indietro, e ci siamo incontrati con gli altri. Abbiamo deciso di riprovare seguendo nuove direzioni. Gli accordi erano sempre gli stessi: se uno dei gruppi avesse trovato qualcosa, avremmo usato i segnali di fumo. Però l’appuntamento per il ritorno è stato portato a quattro ore. Ma anche in questo caso non abbiamo trovato niente».
«E invece avreste dovuto raggiungerli facilmente, visto che loro avevano pochi cavalli, giusto?»
domandò Young.
«Esatto» rispose Jenning. «Erano scappati dal Black Arrow montando quattro cavalli in otto, perciò non potevano essere così veloci».
«Dunque dovevano essersi nascosti da qualche parte» osservò Duke.
«Infatti» confermò Jenning. «Dopo la seconda perlustrazione infruttuosa, ci siamo ritrovati al punto d’incontro; abbiamo fatto una pausa per fare il punto della situazione. Pascal ha considerato il fatto che potessero essersi infilati di proposito nella gola tra le montagne per ingannarci, e fossero poi tornati sul versante di Tucson ricalcando le proprie impronte».
«Ma in questo caso avrebbero dovuto cavalcare all’indietro. Ne sarebbero stati capaci?».
«A questo punto non mi sorprenderebbe più niente di quei marmocchi» disse Jenning.
«E poi cos’avete fatto?» chiese Duke.
«Abbiamo deciso di riattraversare il canyon, però stavolta facendo ancora più attenzione alle tracce: così ci siamo infilati lì dentro di nuovo, osservando il terreno. Nonostante tutto, scesa la sera non avevamo concluso nulla; dunque ci siamo accampati, apprestandoci a cenare. Riuniti attorno al fuoco, stavamo discutendo cosa fare il giorno dopo quando uno degli uomini di Pascal ha notato un bagliore leggero: da un punto imprecisato veniva la luce smorzata di un fuoco come il nostro. Pascal allora ha concluso che i fuggitivi dovevano aver trovato rifugio nella vecchia capanna dei minatori, e si è dato dello stupido per non averci pensato subito….».
«La capanna dei minatori!» esclamarono ad una voce Duke e Young guardandosi.
«La conoscete?» chiese stupito Jenning.
«Tu sei arrivato da pochi mesi in città, perciò non sai cosa sia» gli disse Young.
«Molti anni fa alcuni tizi (di cui nessuno ricorda i nomi) costruirono una capanna all’interno di una piccola valle nascosta, raggiungibile solo da due sentieri difficilissimi da individuare. Erano dei minatori e quella era la loro base mentre perlustravano il terreno in cerca di minerali preziosi».
«Voi siete a Tucson da pochi anni, come fate a conoscere questa storia?» domandò Jenning.
«Semplice» rispose Duke. «Siamo stati noi a rimettere in sesto quella baracca, disabitata da chissà quanto tempo, e renderla di nuovo abitabile».
«Perché?».
«Per utilizzarla come rifugio di emergenza» spiegò Duke.
«Come sai, ogni tanto ingaggiamo uomini da altre città per compiere lavoretti da queste parti» disse Young. «Lavoretti non proprio legali, come puoi immaginare. A volte questi uomini hanno bisogno di luoghi sicuri in cui nascondersi per qualche giorno, se non riescono ad allontanarsi da questa zona abbastanza in fretta. La vecchia capanna dei minatori è perfetta, perché ormai quasi nessuno ricorda più nemmeno che esiste. Solo gli abitanti più vecchi, come Pascal, sanno come raggiungerla».
«Ma quei ragazzini non potevano conoscerla» disse Duke. «Devono averla raggiunta per caso».
«Non ci scommetterei» considerò Jenning.
«Beh, comunque vai avanti» lo invitò Duke.
«Abbiamo preparato delle torce e Pascal ha trovato l’accesso alla valle, dentro il quale ci siamo inoltrati a piedi. Dopo un po’ di tempo, forse venti minuti, ci sono arrivate chiare alle orecchie le voci dei ragazzini; parlavano tranquillamente, dovevano essere sicuri che nessuno potesse sentirli.
Allora noi abbiamo rallentato e ci siamo avvicinati con ancora maggior cautela, ma per fortuna, ad un certo punto quel cretino di Bull ha calpestato un rametto secco e ha rivelato la nostra presenza….».
«Per sfortuna, vuoi dire….» disse Young.
«No» ribadì Jenning. «Alla luce di quello che è successo poi, è stata una gran fortuna».
«Dai, racconta» lo incitò Duke.
«Per colmo, quando Bull ha calpestato il rametto i ragazzini avevano smesso di parlare, perciò devono aver sentito il rumore chiaramente. Trascorsi pochi secondi hanno spento il fuoco e non siamo più riusciti a vedere né sentire nulla. L’unica torcia ancora accesa la teneva Cody che era l’ultimo della fila, davanti a lui c’era Bull e poi io. Noi tre alla retroguardia, indietro di una decina di metri; lo sceriffo Pascal davanti a tutti e i quattro volontari subito dietro di lui. Abbiamo proseguito con estrema prudenza. Ad un certo punto abbiamo sentito urlare quei ragazzini come pazzi: non ce lo aspettavamo e ci siamo fermati. Hanno gridato per qualche secondo nella loro lingua assurda, poi io mi sono visto cadere davanti ai piedi qualcosa. Doveva essere arrivato dalla loro direzione. L’ho raccolto e mi sono accorto subito che si trattava di un candelotto di dinamite, peraltro con la miccia già quasi completamente consumata. Allora ho avuto un’idea improvvisa, e ho lanciato la dinamite davanti a me, dritta sulla parete di roccia al lato di Pascal. Poi mi sono voltato, ho preso Bull e Cody per le braccia e ho iniziato a scappare con loro. Ho sentito saltare tutto per aria. Bull e Cody hanno gridato e hanno cercato di gettarsi a terra, ma io li ho obbligati a correre. Abbiamo messo le ali ai piedi mentre dietro di noi si scatenava l’inferno».
«Non riesco a crederci» disse Young. «Quei bambocci vi hanno tirato contro la dinamite che hanno trovato nella baracca!».
«Quelli sono dei manigoldi peggiori di noi, maledizione!» rincarò Duke.
«Quindi la dinamite era vostra, eh?» chiese Jenning.
«Coltelli, corda, dinamite» disse Duke. «La baracca era un rifugio, dovevano esserci cose utili per ogni evenienza».
«In questo caso lo sono state» disse Jenning. «Lo sceriffo Pascal è rimasto sepolto dall’esplosione».
«E gli altri?» chiese Young.
«Se la sono cavata» disse Jenning. «Ma sono stati feriti dalla caduta delle rocce. Però hanno visto lo sceriffo restare sotto la frana. Inoltre non hanno la minima idea che sia stato io a lanciare la dinamite; credono che noi ci siamo salvati perché eravamo indietro. Erano intontiti dall’esplosione, comunque, così li abbiamo presi e li abbiamo trascinati via».
«Oh, li avete anche aiutati, dunque» disse Duke, sarcastico. «Che bravi ragazzi».
«Il nostro Jenning si è intenerito» aggiunse Young con lo stesso tono. «Ti faccio notare che se fosse morto anche Samson ci saremmo tolti dai piedi un altro pericoloso rivale».
«Già» ammise Jenning. «Samson però non è finito sotto la frana. A quel punto non c’era motivo di lasciare lì lui, Mulligan e gli altri. Tanto più che sono loro i testimoni di come i ragazzini hanno ucciso Pascal, no?».
«Si, direi che hai fatto bene» gli concesse Duke dopo qualche istante di riflessione.
«Meno male. Posso continuare?» domandò Jenning, che riprese senza aspettare una risposta: «Mentre tornavamo indietro, abbiamo sentito di nuovo gridare. Era la voce di una delle ragazzine, sembrava che chiedesse qualcosa».
«E cosa avete fatto?» gli chiese Duke.
«Siamo stati in silenzio. Dal momento che dopo le grida precedenti avevano lanciato la dinamite, abbiamo temuto che si preparassero a lanciarne ancora; ma non è successo. Dopo pochi strilli non si sono fatti più sentire. Così noi ce ne siamo tornati indietro. Abbiamo controllato le condizioni dei feriti, li abbiamo fatti riposare vicino al fuoco e la mattina dopo siamo partiti. Appena giunti in città ho spedito Bull e Cody ad accompagnare dal dottore Samson, Mulligan e gli altri due e sono venuto qui».
«Come stanno?» s’informò Duke.
«Benissimo. Non volevano andare dal dottore, ma io ho insistito; voglio mostrarmi il più possibile premuroso».
«Hai fatto bene» si complimentò Young. «Getta fumo negli occhi a questi ingenui paesanotti, così che non sospettino che sei un assassino al nostro servizio».
«E’ proprio questa la mia idea» confermò Jenning.
«Bene» disse Duke versando un altro bicchiere di vino per sé e per i suoi compagni. «Direi di fare un altro brindisi a tanta fortuna».
«Concordo» disse Young. «E che quei bambocci stranieri siano sempre a piede libero».
«Questo sarà difficile» obiettò Duke. «In pochi giorni hanno fatto fuori un giudice in pensione, uno sceriffo e c’è il sospetto che siano implicati nella morte del vecchio Samson. Ormai ogni sbirro e ogni cacciatore di taglie dell’Arizona vorrà acciuffarli».
«Infatti, e prima o poi qualcuno ci riuscirà» osservò Young; lui e Duke osservarono Jenning.
«Volete che li catturi io?» chiese quest’ultimo.
«Vogliamo che tu li faccia fuori, Steve» disse Duke. «Anche se rappresentano un pericolo minimo, sono pur sempre gli unici a sapere di non essere responsabili della morte di Pearson».
«Quindi devo lasciare il mio lavoro al Black Arrow?».
«E’ un problema? Se tornerai con le teste dei ragazzini ti ricompenseremo adeguatamente. Non avrai più bisogno di lavorare al Black Arrow. Ormai, con lo sceriffo fuori gioco ci sarà facile mettere un nostro uomo a ricoprire quella carica. Il paese sarà completamente in mano nostra; i pochi fedeli a Samson capiranno velocemente che aria tira, e lui sarà costretto a migrare in altri lidi e a vendere a noi il suo splendido ranch».
«A conti fatti, l’arrivo di quegli stranieri è stato provvidenziale» notò Young.
«Parole sante» concordò Duke. «A questo proposito, propongo un ultimo brindisi per loro».
Versò ciò che restava della bottiglia nei bicchieri e alzò il suo calice assieme agli altri.
«Ai ragazzini stranieri!» esclamarono tutti e tre insieme, e bevvero. Posati i bicchieri, Jenning chiese: «Quando volete che mi metta in cerca?».
«Prenditi qualche giorno di riposo» gli disse Duke. «Te lo sei meritato. Quando sarai pronto a muoverti prendi con te Bull e Cody e parti».
«D’accordo» disse lui. «Posso andare?».
«Vai pure» disse Young. «Torna da noi quando sarai in procinto di prendere il largo».
«Va bene» disse Jenning, poi uscì.
 
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Anche se quella del signor McFly era niente più che una piccola fattoria, il lavoro non mancava. L’orto aveva bisogno di essere curato, i cavalli dovevano essere pascolati, le poche vacche munte, e c’era naturalmente da tenere in ordine la casa. La signora McFly era grata al cielo di aver fatto capitare nella loro vita solitaria un gruppo di ragazzi volenterosi. « »
Li avevano incontrati due settimane prima, esausti. Erano giovanissimi e stranieri; per fortuna c’era la ragazza chiamata Sabrina che parlava la loro lingua, altrimenti non avrebbero potuto comunicare. I signori McFly erano una vecchia coppia che abitava sola ai margini del territorio indiano; i loro figli ormai adulti conducevano la propria vita nelle grandi città dell’est. I genitori non avevano avuto il cuore di seguirli abbandonando quei luoghi: erano quarant’anni che vivevano lì.
Il signor McFly amava dire: «Quando io e mia moglie siamo arrivati qui, queste terre erano abitate solo da indiani». La fattoria era in condizioni piuttosto fatiscenti, perché i McFly non avevano più il vigore per mandarla avanti adeguatamente. Seamus McFly aveva superato all’incirca i sessantacinque, e sua moglie Maggie i sessanta. Non potevano essere precisi sulla loro età perché, oltre ad essere analfabeti, non sapevano con esattezza quando erano nati.
Quel pomeriggio Maggie McFly aveva preparato la cena aiutata da Simona e Manuela; poco prima del tramonto si affacciò sulla soglia e suonò un campanaccio per richiamare chi era fuori. Renato e Johnny stavano spalando il fieno nella stalla, Michael e Carlo accudivano l’orto sotto la diretta supervisione di Seamus McFly.
«Bene ragazzi, finiamo il lavoro e prepariamoci per la cena» disse il padrone a Michael e Carlo; sapeva che non lo capivano, ma ormai avevano imparato a comprendersi a gesti con buona approssimazione.
Si presero qualche minuto per finire i lavori, poi si diressero tutti e cinque verso il mulino a vento che pompava l’acqua, per abbeverarsi. Dopo pochi minuti videro tornare i manzi dal pascolo, sorvegliati da Sabrina e Tinetta. Erano soltanto una ventina di capi, perciò due persone erano sufficienti per accompagnare la mandria; all’inizio i McFly non volevano permettere che fosse Sabrina ad occuparsi di quell’incombenza, perché i cowboy erano solitamente uomini, ma dopo una breve dimostrazione delle capacità di Sabrina e dell’incapacità dei maschi del gruppo accettarono l’idea.
“Come state, ragazzi?” chiese Tinetta ai suoi amici.
“Sto benissimo, grazie!” esclamò Renato baldanzoso, anche se in realtà era stremato; Michael gli posò una mano sulla spalla e lui crollò a terra.
“Che cavolo fai?” disse Renato.
“Niente” disse Michael. “Volevo solo controllare”.
“Noi chiudiamo i cavalli nel recinto e veniamo a lavarci” disse Sabrina allontanandosi, seguita da Tinetta.
«Forza, ragazzi miei» disse Seamus. «Chiudiamo i manzi nella stalla e poi a cena».
Quando si furono tutti lavati i ragazzi si fiondarono in casa. Sabrina e Tinetta erano già rientrate e stavano aiutando le altre nel preparare la tavola.
Anche se il menù dei McFly era povero e semplice, Johnny e i suoi amici non si lamentavano mai; grazie alle pesanti giornate di lavoro che trascorrevano, avevano imparato a non essere schizzinosi. Avevano trascorso due giorni all’aperto dopo aver lasciato la baracca nella valle nascosta. Tutti gli strumenti che possedevano, accendini, torce e altro, si erano rivelati provvidenziali per la loro sopravvivenza; nonostante ciò avevano patito moltissimo le lunghe ore di marcia, le notti sotto le stelle riparati soltanto dai loro vestiti e dalle coperte che avevano portato via dalla baracca, il razionamento dell’acqua. Per loro fortuna (anche se non ne erano consapevoli), era circa metà maggio, perciò le temperature erano sempre piuttosto alte, anche di notte.
Quando, nel loro peregrinare, si erano imbattuti casualmente nei signori McFly, che tornavano da un viaggio di rifornimenti in un vicino paese, Sabrina aveva chiesto loro informazioni sulla direzione da prendere per la Mesa de Arena. Ai McFly bastarono pochi minuti per affezionarsi a quel gruppetto di giovani sperduti. Avevano dunque offerto la loro ospitalità; Sabrina aveva riferito ai suoi amici la proposta dei due anziani coniugi, ma loro erano stati restii ad accettare, viste le disavventure occorse con la turbolenta umanità di quell’epoca; ma la prospettiva di un tetto sopra la testa era troppo allettante. Inoltre la fattoria dei McFly era piuttosto isolata, ad una certa distanza dalla pista; questo faceva sentire più sicuri Johnny e gli altri. Così, ormai, erano trascorse quasi due settimane dal giorno in cui si erano stabiliti in casa dei loro benefattori. Ricambiavano la gentilezza lavorando nella fattoria; dormivano nella stalla, su giacigli di fieno.
Sabrina si era accordata col signor McFly in questi termini: tre settimane di lavoro e lui avrebbe dato loro i quattro cavalli di cui avevano bisogno. Sabrina pensava che non fosse uno scambio equo, ma McFly l’aveva convinta dicendo che tanto i cavalli avrebbe dovuto venderli in ogni caso, perché lui e sua moglie non avevano più i mezzi per sostentarli; preferiva dunque che li prendessero loro. I ragazzi all’inizio furono titubanti all’idea di restare lì tre settimane, perché volevano cercare di andarsene subito; ma la verità era che avevano bisogno dei cavalli, perciò dovettero fare buon viso a cattivo gioco. Così ora le loro giornate trascorrevano tra lavoro, pratica di equitazione ed esercitazioni di tiro con fucile, pistola, arco e frecce, tutte armi che possedevano i McFly.
Dopo pochi giorni, a parte la stanchezza del lavoro massacrante cui non erano per niente abituati, si trovavano benissimo a vivere lì: avevano talmente tanto da fare che non c'era tempo di annoiarsi, e i McFly erano persone di rara generosità.
Quando la tavola fu pronta per la cena, tutti si sedettero. Il signor McFly, come sempre, disse la preghiera. A parte Sabrina, nessuno dei suoi ospiti capiva cosa dicesse, ma non era un problema: Johnny e compagni avevano imparato che dopo l’ «Amen» collettivo si poteva mangiare.
“Che buono!” esclamò Johnny dopo un boccone di pane caldo. “Lo hai fatto tu, Manuela?”.
“Si, ormai sono diventata pratica” rispose lei.
“Ma che brava” disse Michael avvicinandosele sornione. “Proprio una donna da sposare”.
“Non cominciare con le stupidaggini” disse la ragazza. “Quanto sei appiccicoso”.
“Già. Proprio come questo qui” disse Simona indicando Carlo.
“Carlo?” chiese Tinetta. “Ma se sta mangiando tranquillo”.
“Adesso. Ma vedrai appena avrà placato l’appetito” precisò Simona.
“E’ una questione di priorità” biascicò Carlo con la bocca piena. “Non sono bravo a corteggiare le ragazze a stomaco vuoto”.
“Neanche a stomaco pieno, fidati” gli disse Johnny.
“Ehi, non parlare con la bocca piena” disse Renato a Carlo. “Sei disgustoso”.
“Scommetto che la mia Simona non mi trova disgustoso” disse Carlo sempre a bocca piena, avvicinandosi a Simona.
Lei naturalmente non gradì. “Ehi, stammi lontano, che schifo” e gli tirò una fetta di pane, che però colpì Johnny, che sporgendosi sul tavolo sbraitò contro sua sorella: “SIMONA! Stà attenta!” ma così facendo rovesciò un bicchiere d’acqua che inzuppò Renato, che non gradì e si lanciò su Johnny che si trovava sull’altro lato della tavola scagliando così su Tinetta le stoviglie, che gridò: “NOO! Renato, accidenti a te!” e si apprestò a tirargli una ciotola sul naso.
“Ragazzi, fermi!” disse Manuela nella confusione.
“Siete maleducati da non credere!” esclamò Sabrina tra il rassegnato e il furibondo.
Renato e Johnny caddero a terra trascinandosi dietro le sedie e buona parte delle stoviglie di legno (che proprio per questo non si ruppero), con Tinetta che si gettò su Renato minacciosa investendo con la sua foga anche la povera Simona. Nella confusione generale Johnny, Simona, Tinetta e Renato si trovarono a terra aggrovigliati, con Manuela e Sabrina che, alzatesi in piedi, li rimproveravano.
Michael, ancora seduto composto, commentò: “Che incivili”.
“Ma se è iniziato tutto per colpa tua!” lo accusò Sabrina.
“Che faccia tosta!” concordò Manuela.
“Io ho solo espresso un’opinione” si difese Michael. “Sono loro che non conoscono le buone maniere, vero Carlo?”. Carlo neppure rispose: era rimasto al suo posto ad ingozzarsi, incurante del resto. Michael annuì e disse: “Visto?”, come se il suo compare gli avesse dato ragione.
Manuela e Sabrina sospirarono, rassegnate e irritate contemporaneamente. Mentre i quattro finiti sul pavimento proseguivano nel loro parapiglia, Sabrina osservò i signori McFly: con sua sorpresa, ridevano sereni. Lei però si sentì in dovere di giustificare Johnny e gli altri; disse: «Vi chiedo scusa, signori. I miei amici spesso sono così turbolenti».
Ma i McFly non erano affatto infastiditi. «Noi abbiamo avuto quattro figli» disse Maggie McFly. «E’ così bello avere di nuovo la casa piena degli schiamazzi dei giovani. Ci mancherete, quando andrete via». Seamus McFly annuì senza aggiungere niente. Sabrina non seppe cosa dire, se non un sommesso “Grazie” nella sua lingua, prima di sedersi e rimettersi a mangiare.
 
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Era prestissimo quando Tinetta uscì dal fienile. Non si svegliava mai prima degli altri; di solito anzi la si doveva tirare giù dal letto a forza, proprio come faceva sua madre a casa. Invece quella mattina si era svegliata prima di tutti, e si sentiva rimessa in sesto dopo un’ottima dormita. Così uscì dal fienile e si recò al ruscello che scorreva poco lontano dalla proprietà dei McFly. Era ancora quasi buio, ma l’alba era dietro le colline e un chiarore tenue le consentiva di vedere il paesaggio. Entro un’oretta si sarebbero alzati tutti; la vita in fattoria iniziava molto presto. Tinetta, giunta al ruscello, si sedette su una roccia sporgente e iniziò a tirare sassolini nell’acqua, godendosi la tranquillità. Strinse le ginocchia al petto e vi poggiò sopra il mento. Restò per qualche minuto in contemplazione, poi immerse le mani nell’acqua e si lavò il viso, rabbrividendo perché era molto fredda. Si strofinò gli occhi col dorso delle mani, e quando li riaprì sobbalzò nel vedere, pochi metri davanti a sé, nella macchia sull’altra riva del ruscello, un uomo che la osservava. Tinetta si alzò in piedi di scatto, spaventata. L’uomo invece non mosse un muscolo: continuò solo a osservarla silenzioso. Era un indiano, giovane, con una vistosa cicatrice sul petto. Lei indietreggiò di pochi passi, senza perderlo di vista.
“Ehm…. buongiorno” disse poi, nervosa. “Io…. ehm…. io ora me ne vado, va bene?”.
L’indiano (che ovviamente non la capiva), senza aver dato segno del minimo interesse, si voltò e scomparve nella vegetazione. Tinetta sospirò di sollievo. Tornò verso la casa dei McFly, pensando: -Che paura. E’ la prima volta che vedo estranei nei dintorni della fattoria-.
Più tardi, a colazione, raccontò l’accaduto ai suoi amici.
“Che bello!” esclamò Simona. “Anch’io voglio vedere un indiano!”.
“Aveva le piume in testa?” domandò Michael.
“Meno male che non ti ha attaccato!” disse Johnny. “Non avresti dovuto allontanarti da sola”.
Seamus McFly chiese a Sabrina il motivo di tutta quell’agitazione, e lei glielo spiegò.
«Oh, ma qui vicino c’è un villaggio indiano» disse l’uomo. «Capita spesso di vederli da queste parti».
«Ma io credevo che i pellerossa attaccassero i bianchi» disse Sabrina.
«Non ce ne sarebbe motivo. Gli scontri avvengono se ci sono aggressioni o dispute; noi non abbiamo mai avuto problemi con gli indiani. Anzi, spesso facciamo scambi di merce e materiali: gli archi e le frecce che teniamo in casa sono dei loro regali. Inoltre, i nostri vicini sono Pima, una tribù poco bellicosa».
«Capisco» disse Sabrina, e riferì ai suoi amici. La colazione si svolse in quel clima di eccitazione, ma quando finirono di mangiare i ragazzi dimenticarono gli indiani e si misero al lavoro; di nuovo Sabrina e Tinetta portarono al pascolo i manzi, e i maschi si dedicarono alla stalla e all’orto.
“Uffa!” sbottò Simona. “Anche oggi lavori di casa. Io voglio andare a cavallo!”.
“Lo sai che non sei ancora così brava da tenere a bada i manzi” le disse Manuela. “Anche se cavalchi molto bene”.
“Però tu ci sei andata, la settimana scorsa” ribatté Simona.
“Hai ragione, ma ho solo accompagnato Sabrina, che ha la piena responsabilità della mandria. Questa settimana tocca a Tinetta e dalla prossima inizierai tu”.
“Si, e intanto Sabrina ha sempre evitato di lavorare in casa. Non è giusto” si lamentò Simona.
“E’ giustissimo, invece” obiettò Manuela. “Sabrina è l’unica che può dedicarsi alla mandria, visto che il signor McFly non riesce più ad andare a cavallo”.
“Uffa! Hai sempre ragione tu….” sbuffò Simona.
“Sei tu che sei testarda!” replicò sua sorella. « »
«Ragazze, su, non discutete» disse loro Maggie McFly.
Anche se non capivano la lingua, colsero comunque il senso della frase. Si diedero dunque una calmata e cominciarono i loro lavori.
Ore dopo, quando era ormai pomeriggio inoltrato, un gruppo di indiani spuntò nei pressi della mandria scortata da Sabrina e Tinetta. Le due ragazze stavano sedute su delle rocce a chiacchierare. Quando videro i nuovi arrivati, Tinetta si nascose dietro la sua amica, dicendo: “Aiuto, Sabrina. Uno di quelli è il ragazzo che ho visto questa mattina; stavolta si è portato tutta la banda”.
“Calmati, Tinetta” disse Sabrina, stando però in guardia.
“E’ una parola”.
I pellerossa si erano fermati a circa dieci metri dalle due ragazze, e iniziarono ad indicarle parlando nella loro lingua.
“Che…. che vogliono?” domandò Tinetta, impaurita.
“Non lo so” rispose la sua amica. “Ma credo che stiano parlando di noi”. Poi si corresse: “Anzi, di te”.
“Perché?”.
“Beh, perché mi pare che ti stiano guardando”.
“Oh, cavolo, non vorranno mica legarmi al palo della tortura!”.
“Smettila, Tinetta. Non vedi che non hanno nessuna intenzione di attaccarci? Altrimenti l’avrebbero già fatto”.
“Certo, la fai facile tu. Non è il tuo scalpo che vogliono. Loro prendono gli scalpi della gente, lo sai? L’ho visto nei film”.
Smentendo le pessimiste supposizioni di Tinetta, i pellerossa voltarono i cavalli e se ne andarono. Le due amiche si guardarono traendo un respiro di sollievo.
“Che facciamo?” chiese Tinetta. “Lo diciamo agli altri?”.
“Non so” disse Sabrina. “Credo che possiamo farlo. Il signor McFly ha detto che questi indiani sono amici suoi, quindi non dovrebbe esserci niente di cui aver paura”.
“Beh, spero proprio che sia così” disse Tinetta, anche se non era affatto tranquilla.
 
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Il giorno dopo era il primo della nuova settimana. Spettava così a Simona accompagnare Sabrina a portare la mandria al pascolo. A Tinetta toccava dunque restare a casa a fare i mestieri (attività di cui non era per niente entusiasta). Johnny, Renato, Michael e Carlo, invece, continuavano con i lavori di fatica. La giornata trascorse tranquilla come le altre, fin quando, verso le quattro del pomeriggio, Sabrina e Simona tornarono indietro con la mandria, con molto anticipo rispetto al solito.
I ragazzi rimasti alla fattoria interruppero il lavoro per osservare le due ragazze, chiedendosi cosa poteva essere capitato.
“Figuriamoci” disse Johnny. “Mia sorella avrà senz’altro combinato un guaio”.
Ma Simona non aveva colpe, e tutti lo intuirono quando videro, poco dietro le loro amiche, cavalcare un drappello di indiani. Tinetta, uscita sulla soglia di casa a controllare, riconobbe lo stesso gruppo del giorno prima; volò a rifugiarsi tra le braccia di Johnny.
“Tesoro! Difendimi tu!” esclamò. “Sono gli stessi tipacci di ieri; quelli ce l’hanno con me!”.
“Tinetta! Non puoi contare su quel carciofo. Ti difenderò io dai selvaggi” si offrì Renato.
“Lasciami stareee! Mi fido solo del mio Johnny!”.
Sabrina e Simona si fermarono vicino al signor McFly, che domandò: «Cos’è successo, Sabrina?».
«Non ho idea di cosa vogliono» rispose la ragazza. «Ho capito soltanto che volevano venire qui».
«Beh, ma allora avrebbero potuto venire direttamente» osservò McFly. «Mi conoscono benissimo, come io conosco loro».
«Mi è sembrato di intendere che volessero far tornare anche me» disse Sabrina.
«Mmmh. In ogni caso ora sapremo» disse il signor McFly, e andò incontro ai suoi amici pellerossa.
Simona e Sabrina scesero da cavallo e si unirono ai loro amici. La signora Mcfly si avvicinò al marito, per ascoltare la conversazione. Alle orecchie del gruppo di Johnny arrivavano chiare le parole del discorso tra indiani e McFly, ma non capivano cosa dicessero. Sabrina si avvicinò alla signora McFly e le chiese: «Mi perdoni, signora, ma che lingua parlano?».
«E’ la lingua dei Pima» rispose Maggie. «Parlano anche l’americano, ma non benissimo; così è preferibile parlare il loro linguaggio, visto che io e mio marito lo conosciamo».
«E cosa dicono?» domandò ancora Sabrina.
«Non capisco bene. Dovrei stare più vicina, ma non mi va di sembrare impicciona».
Ai ragazzi non rimase altro che aspettare la fine della discussione.
Quando Seamus McFly tornò verso sua moglie, aveva un’espressione corrucciata. Maggie, ansiosa,
gli domandò: «Dunque? Cosa vi siete detti?». Lui non rispose subito; osservò il gruppo di Johnny
in silenzio, poi i suoi occhi si fermarono su Tinetta. Sabrina attendeva trepidante di ascoltare la risposta del signor McFly.
«Allora?» lo incalzò sua moglie. «Ci sono forse problemi?».
«Ho paura di si» disse Seamus, sempre osservando Tinetta. Sabrina ebbe un leggero singulto; cosa che non sfuggì ai suoi amici.
“Che c’è, Sabrina?” le chiese Johnny.
“Non lo so ancora” rispose la ragazza. Seamus si avvicinò a Sabrina, seguito dalla moglie, e le disse: «Sabrina, ho bisogno che tu traduca per Tinetta».
«Va…. Va bene» disse Sabrina preoccupata.
Seamus si voltò verso il drappello di pellerossa, e chiese: «Vedi quello più giovane? Quello con la cicatrice sul petto?».
«Si» rispose Sabrina. Riconobbe in lui l’indiano che aveva spaventato Tinetta due giorni prima.
«Pare che sia lui il ragazzo che ha visto Tinetta due mattine fa al torrente….»; Sabrina cominciò a temere che quel ruscello in cui la sua amica si era lavata il viso fosse un luogo sacro per i pellerossa, o qualcosa del genere.
«Beh, non so come dirlo….» continuò Seamus. Il tergiversare del signor McFly la rese ancora più nervosa. Immaginò che gli indiani intendessero davvero punire Tinetta; Seamus McFly invece la gelò con qualcosa di totalmente inaspettato.
«Insomma, quel giovane indiano si è innamorato della tua amica, e l’ha chiesta in moglie».
Sabrina restò talmente allibita che non proferì verbo.
«E’ un gran bravo ragazzo, io e mia moglie lo conosciamo da quando è nato. Si chiama Piccolo Bufalo, ed è il cacciatore e il guerriero più abile del suo villaggio. Diventare la sua sposa sarebbe un grande onore». Solo in quel momento Sabrina si riprese dallo shock, e riuscì ad esclamare: “Che cosa?!?!”. Era tanto sconvolta che non si rese conto di aver parlato in giapponese.
Intervenne Maggie e le disse: «Oh, mia cara, non essere così turbata. Mi rendo conto di che trauma dev’essere sapere che la tua amica più giovane ha trovato marito prima di te, ma non preoccuparti.
Tu sei splendida, e non faticherai certo a sistemarti con un brav’uomo».
«Signor McFly, lei cosa ha risposto a quel ragazzo?» chiese Sabrina con un fil di voce.
«Naturalmente ho risposto che avrei prima chiesto il parere di Tinetta; non accetteranno volentieri un rifiuto, però».
Sabrina si voltò verso i suoi amici, che la osservavano col fiato in gola; l’agitazione della ragazza li inquietava.
“Ehm, Tinetta, vedi quel ragazzo con la cicatrice? E’ quello che vedesti al ruscello, vero?” chiese Sabrina all’amica.
“Si” rispose Tinetta.
“Si chiama Piccolo Bufalo, ed è il cacciatore e il guerriero più abile del suo villaggio”.
“Ah…. e dunque?”.
“Ehm…. sembra che voglia sposarti”.
I ragazzi si guardarono per un secondo l’un l’altro, poi scoppiarono a ridere tutti insieme.
Fu un grave errore, perché i pellerossa lo considerarono un tremendo affronto. Piccolo Bufalo scese da cavallo ed esclamò, in un americano stentato: «Capelli del Sole offende valorosi Pima!».
«No, no, vi chiediamo scusa!» si affrettò a dire Sabrina, poi si voltò verso i suoi amici e li fulminò dicendo: “Siete degli incoscienti! Questi non scherzano, sapete?!”.
I ragazzi ammutolirono mortificati. Poi Tinetta disse: “Ma che vuoi che faccia, allora? Io non me lo sposo di certo quel tipo!”; poi abbracciò Johnny ed esclamò: “Io appartengo solo al mio tesoruccio!!”. Renato guardò Johnny con furore. Johnny, tanto per cambiare, s’imbarazzò. “Ma…. ma su, Tinetta…. ci stanno guardando tutti”.
“Bene, così quell’antipatico Piccolo Cefalo capirà chi è il mio unico solo amore”.
“Piccolo Bufalo, Tinetta” la corresse Sabrina.
“Non m’interessa!” esclamò Tinetta.
Piccolo Bufalo aveva capito; osservò Johnny con aria truce, e chiese: «Dunque, Capelli del Sole promessa a giovane insetto?».
«Chi è Capelli del Sole?» domandò Sabrina.
Le rispose il signor McFly: «E’ il nome che i Pima hanno dato a Tinetta, poiché è bionda. Ascolta, Sabrina, non voglio spaventarti, ma la situazione non è affatto semplice; i tuoi amici si sono messi a ridere. Anche se non capiamo la vostra lingua, è evidente che hanno riso per la proposta di Piccolo Bufalo. Tra quelli con lui c’è il capovillaggio. Vi ha raggiunto ieri sui pascoli insieme ad altri compagni per vedere Capelli del Sole e ha approvato la scelta di Piccolo Bufalo. Ridendo avete gravemente offeso tutta la tribù».
«Che succederà, ora?» chiese Sabrina.
«Guarda tu stessa» le disse il signor McFly, indicandole un punto alle sue spalle.
Lei si voltò, e vide i pellerossa formare un cerchio, dal centro del quale lasciarono circa quattro metri di spazio in ogni direzione. Piccolo Bufalo si posizionò al centro del cerchio, con in mano un coltello, e con l’arma indicò Johnny.
“Ehi, che vuole quello?” domandò il ragazzo, molto preoccupato.
«Tu, combatti! A ultimo sangue!» esclamò Piccolo Bufalo che doveva aver intuito la domanda di Johnny.
«Che significa?» chiese Sabrina allarmata al signor McFly.
L’uomo la guardò tetro, poi le disse: «Johnny deve entrare nel cerchio con Piccolo Bufalo e combattere fino alla morte di uno dei due. Il vincitore potrà avere Capelli del Sole».
Il sangue defluì dalle vene di Sabrina, che mormorò: «Sta scherzando, vero?».
Ma l’espressione di Seamus McFly non cambiò.
«Non è possibile! Tutto questo è assurdo. Signor McFly, faccia qualcosa; Johnny non può combattere».
«Tu non capisci, Sabrina» le disse McFly. «Questi sono indiani. Non lanciano sfide per gioco, per crudeltà o per futili motivi come noi uomini bianchi. Ogni cosa che fanno ha un preciso significato, un senso mistico e profondo. Piccolo Bufalo sceglie di mettere in pericolo la propria vita per difendere l’onore della sua intera tribù».
«E…. e se Johnny non accetta?».
«Si porteranno via Capelli del Sole senza tanti complimenti, probabilmente. Se soltanto non avessero riso di loro, avremmo potuto ragionare».
“Dicci che succede, Sabrina” disse Manuela, trepidante.
Sabrina sospirò, e tentò di spiegare: “Credono che Johnny sia il promesso sposo di Capelli del Sole, e Piccolo Bufalo l’ha sfidato a duello. Il vincitore potrà averla”.
“Capelli del Sole?” chiese Carlo.
“Oh, già, scusate. E’ il nome con cui gli indiani chiamano Tinetta”.
“Ma che bello….” sospirò Simona. “Piacerebbe anche a me un nome simile”.
“Davvero” confermò Tinetta. “Così dolce, così poetico”.
“Ragazzi, non avete capito la gravità della situazione” disse Sabrina. “Johnny deve combattere all’ultimo sangue”.
“Cioè?” chiese Johnny.
“Devi entrare nel cerchio e lottare fino alla morte, la tua o quella del tuo avversario” gli spiegò Sabrina.
“Ah ah” mormorò Johnny. “Mi prendi in giro, vero?”.
Tutti i suoi amici si guardarono sgomenti, poi Renato lo prese per un braccio e lo trascinò verso il cerchio, dicendo: “Oh, amico mio, come mi dispiace” e lo spinse dentro l’arena verso il suo avversario. I Pima lanciarono un boato di approvazione.
“Su, Johnny, combatti il tuo duello; e che sia all’ultimo sangue, mi raccomando. Non vorrai offendere i nostri nuovi amici” gli disse Renato con un sorriso di soddisfazione.
“Maledetto!” esclamò Johnny.
Michael e Carlo si avvicinarono al cerchio piangendo, e chiamarono il nome del loro amico: “Johnny, Johnny, amico adorato….”.
“Oh, ragazzi, non sospettavo che ci teneste tanto a me” disse Johnny sull’orlo delle lacrime.
“Sta tranquillo, Johnny” gli dissero in coro Michael e Carlo, commossi. “Proteggeremo noi le tue sorelle” e le abbracciarono strette appoggiando le guance sulle loro spalle, provocando le lamentele di Simona e Manuela: “Ehi, razza di polpi, lasciateci!!”.
Ma i due le ignorarono, anzi le strinsero ancora di più, gridando: “Oh, Johnny, povero amico! Quando era vivo ci ha implorato di occuparci di voi con tutto il nostro ardore!!!!”.
“Io SONO vivo, deficienti!!” esclamò Johnny.
“Oh, sento ancora la sua voce nel vento!” disse Michael. “Riposa in pace, Johnny! Le tue sorelle sono in buone mani”.
“In ottime mani, direi” aggiunse Carlo. “Slurp!”.
“Come sei fortunato, Johnny” gli disse Renato. “Le tue sorelle si sono sistemate, così ora puoi dipartire sereno. Su, non fare aspettare il tuo avversario. Oh, te l’ho detto quanto ci mancherai?”.
“Farabutti!” esclamò Johnny. “Vorrei farlo con voi tre il duello all’ultimo sangue! Ma tornerò dall’aldilà, ve lo assicuro, e vi tormenterò tutte le notti!”.
“Quello non farà male al mio Johnny!” esclamò Tinetta entrando nel cerchio della sfida e parandosi di fronte a Piccolo Bufalo, al quale si rivolse dicendo: “Ehi, guardone, non ti sposerò mai, perciò prendi tutta la tua famiglia e tornatene a fare la danza della pioggia!”.
Gli indiani non capirono, ma Piccolo Bufalo osservò prima Tinetta e dopo Johnny. Poi cercò di allontanare Tinetta di peso dal campo dello scontro, ma lei lo schiaffeggiò non appena la toccò. “Non ti azzardare. Non mi fai paura, sai?”. Piccolo Bufalo restò di sasso. Si toccò la guancia schiaffeggiata da Tinetta osservandola basito. Poi si voltò verso i suoi compagni e disse qualcosa nella sua lingua che li fece ridere.
“Che avete da ridere?” chiese Tinetta. Piccolo Bufalo la osservò e dopo spostò lo sguardo su Johnny. Poi disse, rivolto al ragazzo: «Capelli del Sole grande coraggio! Mi piace. Mi piace sempre di più. Tu insetto ti nascondi dietro promessa sposa. Non sei uomo, non meriti lei».
“Questo indiano mi piace” commentò Renato.
“Perché, hai capito cos’ha detto?” gli chiese Carlo.
“No” rispose Renato. “Ma guarda Johnny con un tale disprezzo che non poteva essere niente di piacevole”.
Johnny si vergognò della figura che stava facendo. Tinetta lo aveva difeso, e anche se non aveva capito ciò che gli aveva detto Piccolo Bufalo, non era difficile intuirlo dal tono che aveva usato e da come lo guardava. Si voltò verso Sabrina, che osservava la scena con apprensione; non voleva comportarsi da vigliacco di fronte a lei. Così appoggiò le mani sulle spalle di Tinetta, che sobbalzò.
“Tinetta” le disse: “esci dal cerchio”.
“Tesoro….” mormorò lei.
“Esci dal cerchio, combatterò”.
“Oh, Johnny” disse lei abbracciandolo. “Come sei romantico!”.
“Ehi, indiano, vuoi sbrigarti a sistemare Johnny?” urlò Renato furente per il gesto della sua amata.
“Con te dopo facciamo i conti” gli disse Tinetta, che poi si rivolse a Johnny: “Ritirati, tesoro, non fare pazzie. Non voglio che ti accada nulla; tanto non seguirò questo tipo, in nessun caso”.
“Devo farlo, Tinetta. Devo combattere per impedire loro di portarti via, per il mio onore e l’onore del Giappone”.
“Oh, Johnny mio!” esclamò la ragazza. “Come sei coraggioso!”.
“Ora va, Tinetta” disse Johnny.
Lei si allontanò, riluttante, con le lacrime agli occhi. “Fa attenzione, mio caro”.
“Johnny!” gridò Sabrina, angosciata. “Non combattere! Deve esserci un altro sistema!”.
Si voltò verso Seamus McFly, dicendogli: “Signor McFly, li fermi! Dica loro che combatterò io al posto di Johnny! Sono abituata ad ogni tipo di lotta!”.
A causa dell’ansia del momento non si rese conto di aver parlato in giapponese, perciò McFly non la capì.
Ma Johnny sentì cosa aveva detto. “NO!” urlò il ragazzo. “Non dire assurdità, Sabrina” la guardò diritta negli occhi. “Io sono un uomo! Non permetterò che una ragazza combatta al mio posto”.
“Oh, Johnny….” sussurrò Sabrina; poi abbassò gli occhi. -Ti prego, torna da me- pensò.
Johnny si concentrò sul suo avversario. Uno degli indiani gli porse un coltello: Johnny lo prese con timore, ma non perché credeva di doverlo usare. Infatti, anche se i suoi amici erano preoccupati, lui era tranquillo.
-Figuriamoci- pensò. -Non ho nessuna voglia di farmi del male, e neanche di ferire questo tipo. Lo sconfiggerò col potere- e sorrise sornione.
Piccolo Bufalo non capì quell’espressione. «Insetto sorride, forse già rassegnato sua morte?» chiese.
“Eh eh” disse Johnny. “Non ti capisco, amico”. Piccolo Bufalo studiò il suo avversario ancora per qualche istante, poi scattò in avanti brandendo il coltello. Johnny non se lo aspettava e lo evitò per un pelo. “Oh, calmati!” esclamò. “Potevi farmi male, lo sai? Io non ero ancora pronto”.
Piccolo Bufalo lo attaccò di nuovo, e stavolta per evitarlo Johnny si gettò all’indietro cadendo a terra. L’indiano fu subito sopra di lui.
Johnny allora decise che quella storia era durata anche troppo: usò il potere per sollevare il suo rivale, ma solo di pochi millimetri, in modo che non fosse possibile vederlo da lontano. Poi, fingendo di spingerlo via con la forza dei muscoli, lo fece cadere di lato. Piccolo Bufalo era esterrefatto. Johnny si alzò in piedi e gli puntò il coltello in faccia, dicendogli: “Ora falla finita, va bene?”; ma l’indiano si alzò fulmineo e lo attaccò di nuovo. Stavolta però Johnny era pronto, e col potere fece scivolare il suo rivale nella polvere, poi gli strappò di mano il coltello e glieli puntò contro tutti e due.
“E ora che ne dici di scendere a più miti consigli, compare?”.
Piccolo Bufalo osservò Johnny allibito; tutta la sua tribù era ammutolita. Piccolo Bufalo allora chinò il capo in segno di resa, aspettando il colpo di grazia. Ma Johnny si allontanò tranquillo. I suoi amici gli corsero incontro festanti. “Incredibile, tesoro!” esclamò Tinetta abbracciandolo. “Sei stato fantastico!”.
“Davvero, amico” concordò Michael. “E chi se l’aspettava?”.
“Johnny” gli disse Sabrina, con un sorriso. “Sei incredibile”.
“Oh oh” rise lui modesto. “Niente di speciale”.
“Puoi dirlo forte” disse Renato. “Hai avuto una fortuna sfacciata. Il tuo avversario è scivolato”.
“Smettila” lo rimproverò Tinetta. “Sei soltanto invidioso”.
“Anche a me è parso che sia scivolato” disse Sabrina. “Ma va benissimo così”.
Solo Manuela e Simona non erano affatto sorprese.
Piccolo Bufalo si era alzato in piedi e osservava Johnny con rancore: poi lo chiamò.
Johnny si voltò verso di lui.
“Che vuole ancora?” chiese Tinetta.
“Già, non gli è bastata la lezione?” disse Carlo.
Piccolo Bufalo indicò Johnny e gli disse qualcosa nella sua lingua.
«Cosa ha detto, signori McFly?» domandò Sabrina a Seamus e Maggie. Loro due la guardarono costernati; lei intuì che qualcosa non andava.
«Oh, no» domandò. «Che c’è ancora?».
«Beh…. Il fatto è che Johnny non ha dato il colpo di grazia a Piccolo Bufalo» spiegò Seamus.
«Non avrebbe mai potuto farlo» obiettò Sabrina. «Johnny non è un assassino».
«Non è così che la vedono i pellerossa» disse Seamus. «Si trattava di un duello all’ultimo sangue. Rifiutandosi di uccidere il suo avversario, Johnny lo ha umiliato terribilmente. Gli ha tolto l’onore di guerriero. Per un indiano è peggio della morte».
«E quindi?» chiese Sabrina.
Ma non dovette aspettare la risposta. Piccolo Bufalo si avvicinò a Johnny con un altro coltello in mano; Johnny si preparò a fronteggiarlo. L’indiano si fermò di fronte a lui, guardandolo con odio. Poi alzò il pugnale: Johnny si preparò a disarmarlo col potere. Ma Piccolo Bufalo afferrò una grossa ciocca dei propri lunghi capelli e la tagliò con il coltello. Poi la gettò a terra, ai piedi di Johnny. Disse qualcosa nella sua lingua, qualcosa che suonò piuttosto minaccioso, dopodiché si voltò e si allontanò. Tornò al suo cavallo, vi salì sopra e partì al galoppo, da solo.
I suoi compagni, senza una parola, si diressero a loro volta verso i cavalli, si issarono su di essi e partirono in direzione del villaggio, mestamente.
«Ragazzo» disse Seamus McFly a Johnny, quando tutto fu tornato alla normalità. «Temo che tu sia nei guai».
«Perché?» chiese Sabrina.
«Piccolo Bufalo gli ha giurato vendetta» spiegò Seamus. «Tornerà al suo villaggio solo per prendere le sue cose, dopodiché lo lascerà, e non tornerà finché non si sarà vendicato».
«Vendicato, come?» domandò Sabrina.
«Uccidendo Johnny in un altro scontro leale».
«Ma i suoi amici lo lasceranno andare? Non è possibile».
«Certo che lo lasceranno andare. Per questo Piccolo Bufalo non ha sfidato di nuovo Johnny immediatamente; prendere con sé ogni suo avere ed abbandonare il proprio villaggio è un gesto simbolico necessario. Come ti ho detto, lui ha perso l’onore di fronte alla tribù. Ora è come morto, e sarà così finché non tornerà dopo aver risolto i suoi conti in sospeso».
«Beh, ma allora gli basterà allontanarsi dal villaggio per qualche tempo. Visto che nessuno saprà dove va, potrà tornare dopo un po’ e raccontare che si è vendicato».
Seamus McFly la osservò attentamente, silenzioso, come per capire se scherzava; poi sospirò e disse: «Se parli così, Sabrina, è evidente che degli indiani non hai capito proprio nulla».
La ragazza si sentì avvilita, e mormorò: «Mi scusi».
Il signor McFly la guardò con comprensione. «Non c’è bisogno che ti scusi, ragazza mia. Sei giovane e preoccupata per il tuo amico, è naturale che cerchi scappatoie per lui».
«Ma noi ora cosa dovremmo fare?» domandò Sabrina. «Aspettare che Piccolo Bufalo torni per tentare di vendicarsi?».
McFly si prese qualche secondo per riflettere, poi disse: «No. Dovrete scappare il più presto possibile». Sospirò, e chiamò sua moglie vicino a sé.
Maggie McFly lo raggiunse. «Cosa c’è?» domandò la donna.
«Ho detto a Sabrina che dovranno andarsene il prima possibile. Piccolo Bufalo tornerà».
«Oh, capisco» disse la signora McFly con un fil di voce. «E’ proprio necessario? Io…. io mi sono affezionata a questi ragazzi».
«Anche io, moglie, cosa credi?» ribatté Seamus, poi si rivolse a Sabrina. «Vi daremo tutto quello di cui possiamo privarci e che potrà esservi utile».
«Grazie» rispose Sabrina. «Potremo restare qui almeno stanotte?».
«Certo» disse Seamus. «Passeremo la serata a organizzare la vostra partenza e domattina potrete andare per la vostra strada». Poi si allontanò, senza voltarsi indietro. La signora McFly gettò le braccia al collo di Sabrina, che ne fu un po’ confusa. «Mia cara» disse Maggie. «Mi mancherete tanto. Siete dei ragazzi fantastici e avete portato tanta gioia nella nostra casa».
«Io…. la ringrazio» disse Sabrina imbarazzata.
«E anche per mio marito è così» continuò Maggie. «Sono sicura che si è allontanato perché gli veniva da piangere».
«Signora McFly, io…. non so che dire» mormorò Sabrina. «Solo…. solo…. vi ringrazio per tutto ciò che avete fatto per noi».
«Sono io che vi ringrazio» disse Maggie. «E comunque vi aspetto di nuovo qui».
«Come?».
«Beh, certamente. Ormai sapete dove trovarci, no? Quando avrete sistemato le vostre questioni tornate pure a farci visita. Noi ne saremo felici» e baciò Sabrina su una guancia. La ragazza arrossì repentinamente.
«Per stasera non lavorerete più»decise la signora McFly. «Vi preparerò una cena speciale. Voi intanto riposatevi».
«Signora, ma voi come farete? Con la fattoria, intendo» domandò Sabrina.
«Oh, non ti preoccupare» disse Maggie McFly ridendo. «Guarda che ce la siamo cavata per quarant’anni, sai? Probabilmente venderemo quasi tutto il bestiame, tenendo per noi solo una minima parte»; poi si voltò e seguì il marito in casa. A Sabrina sembrò, prima che la signora si voltasse, che avesse gli occhi lucidi. La ragazza trasse un respiro profondo, cercando di contrastare la voglia di piangere, che aveva colto anche lei; la signora McFly non sapeva che loro non sarebbero mai più tornati, perché la destinazione che cercavano di raggiungere era al di là dell’immaginazione. Si fece forza, e si diresse verso i suoi amici per comunicare le ultime decisioni.
 
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Quella sera l’atmosfera fu strana: Johnny e gli altri erano combattuti tra la gioia di riprendere la strada per cercare di tornare a casa e l’angoscia al pensiero che avrebbero di nuovo dovuto cavarsela da soli.
Dopo la cena (che fu molto gradita) Seamus McFly prese la parola. «Va bene, ragazzi; dopo le libagioni, è il momento di parlare di cose serie. Traduci, Sabrina, per favore».
«Certo» acconsentì lei.
«Come ricorderete, avevo stabilito che vi avrei dato quattro cavalli al momento della vostra partenza» fece una pausa. «Ebbene, ho cambiato idea. Non ve li darò».
Sabrina tradusse, sconcertata, e i suoi amici si guardarono non meno sbigottiti di lei.
«Avete capito bene. Non avrete quattro cavalli…. ne avrete cinque!».
«Cinque?» chiese Sabrina.
«Esatto» confermò l’uomo. «E sul quinto metterete tutto quello che ho intenzione di donarvi, e cioè sacchi a pelo, coperte, fucili, arco, frecce, provviste….».
«Signor McFly» protestò Sabrina. «Non possiamo accettare…. la prego».
Ma lui alzò una mano in un perentorio gesto per bloccare le sue rimostranze, e continuò: «Sabrina, ti ho detto che vi avrei fornito tutto ciò di cui potevo privarmi, ricordi? Noi abbiamo sacchi a pelo che non usiamo più da anni; credo siano due, a voi faranno comodo; avete cinque coperte, perciò ve ne darò altre tre; per quanto riguarda i fucili, qui in casa ne abbiamo tre, e uno solo di questi
(quello che uso abitualmente) lo terrò io. Gli altri due posso darveli, anche se sono vecchi e forse non saranno più molto affidabili, ma voi avete soltanto una pistola e quindi vi faranno senz’altro comodo; gli archi possono sempre servire, e vi darò entrambi quelli che ho, con le relative frecce. Provviste, beh, per quello possiamo fare poco: abbiamo carne secca e pane; inoltre vi daremo una buona scorta d’acqua».
«Seamus» intervenne a quel punto sua moglie. «Perché non diamo loro anche qualche vecchio vestito dei nostri figli?».
Lui non ci aveva pensato; ci rifletté un istante e disse: «E’ un’ottima idea, Maggie. Ne abbiamo ancora qualcuno di quando i nostri ragazzi avevano la vostra età; non servono a nessuno, stanno a marcire in una cassapanca. Li prenderete voi» e così sembrò aver concluso. Osservò Sabrina aspettando che traducesse. Lei lo fece, e i suoi amici furono entusiasti delle notizie.
“Grazie, nonnino!” esclamò Simona saltando di gioia.
“Che bello!” esclamò Manuela. “Sarà molto più semplice dell’altra volta, coi sacchi a pelo, con le armi, con un piccolo ricambio di abiti….”.
“Si” concordò Sabrina. “Ma speriamo di doverli usare il meno possibile. Da qui alla Mesa de Arena non ci sono molti giorni di viaggio, dobbiamo cercare di raggiungerla senza perdere tempo”.
“Pensi di passare per la via di Tucson?” le chiese Johnny.
“Credo sia meglio; cambiando strada rischiamo di perderci. Spero che in due settimane abbiano rinunciato a cercarci”.
“Speriamo” sospirò Manuela. “Ho nostalgia di casa”.
“Ehi, ragazzi” disse Tinetta. “Mi è venuta in mente una cosa”.
“Cioè?”.
“E se arrivati alla Mesa non riuscissimo comunque a tornare indietro?”.
Era una domanda che si erano già fatti, naturalmente, ma non avevano affrontato seriamente l’argomento. Si guardarono perplessi. In realtà, era una domanda dalla risposta elementare: se non fossero riusciti a tornare indietro, avrebbero dovuto adattarsi a quella nuova vita. Ma nessuno aveva voglia di prendere in considerazione una simile ipotesi; semplicemente, DOVEVANO riuscire a tornare indietro. La loro vacanza/avventura era stata esaltante e istruttiva, ma ora avevano voglia di tornarsene a casa, e non poteva accadere che così non fosse: il mondo non poteva essere impazzito fino a quel punto.
“In quel caso ci penserò io a te, Tinetta” disse Renato serio, guardandola intensamente. “Ti difenderò dai banditi, dagli indiani….”.
“No! Se dovremo restare qui, io sposerò il mio Johnny!” decise Tinetta.
Michael e Carlo non aspettavano altro. Si pompelmarono addosso a Simona e Manuela, dicendo: “E a voi due ci penseremo noi, ragazze. Saremo felici nel nostro piccolo canotto sul monte innevato”.
“Ma se stiamo nel deserto! Che cavolo dite?” domandò Manuela.
“E’ solo per affermare che insieme a te non importa dove mi trovo, Manuela” disse Michael con gli occhi ardenti. “Ogni luogo può essere il nostro paradiso”.
“Idem come sopra col carico a picche” disse Carlo, rivolto a Simona.
“Bene, adesso sono rimasti da accasare solo Sabrina e Renato” osservò Tinetta.
“Ehi, io non mi sono accasata con nessuno!” protestò Manuela.
“Io non so neanche che vuol dire” si lamentò Simona.
“Per Sabrina non ci sono problemi” disse Tinetta, riflessiva. “E’ talmente splendida che dovremo allontanare i pretendenti a fucilate. Ma per Renato…. diavolo, la vedo dura…. proprio dura….”.
Questo commento non fece bene all’autostima di Renato, già terribilmente scarsa. Si accucciò in un angolino mormorando: “Tinettaaaa…. perché mi tratti così?”.
“Johnny!” esclamò Tinetta rivolta al suo tesoro. “Piccolo Crotalo voleva sposarmi! Significa che sono già matura per il matrimonio!”.
“Piccolo Bufalo, Tinetta” la corresse Sabrina, sconsolata. “Il tuo pretendente indiano, disposto a morire per te, e non ricordi neppure il suo nome?”.
“Non mi interessa il suo nome!” protestò Tinetta. “Io non l’ho mai incoraggiato. Solo il mio Johnny fa per me!” e dicendo così lo abbracciò, buttandolo a terra, addosso (malauguratamente) a Renato.
La reazione di quest’ultimo fu di comprensibile stizza.
“Non solo tubi con Tinetta, ma mi sbatti anche la tua brutta faccia sulla schiena? Ma io ti distruggo!” e assalì Johnny, che cercò di evitarlo, travolgendo però nello slancio le sue sorelle ancora alle prese con Micahel e Carlo. Finirono tutti a terra, in un gran patatrac di urla di ogni tipo. Renato, lungi dall’essersi calmato, si gettò a sua volta nella mischia gridando, con gli occhi che sprizzavano fiamme: “Johnnyyyy!!!!”.
Sabrina sospirò, sfinita. “Mi chiedo se per questi invasati non sarebbe meglio restare in questo tempo selvaggio, piuttosto che tornare alla civiltà”. Osservò di sottecchi i signori McFly, che contemplavano la scena divertiti.
 
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Terminati i chiassosi tumulti della serata, i ragazzi andarono stremati a dormire, e il giorno dopo arrivò in un baleno. Il nuovo sole vide Johnny e i suoi amici pronti alla partenza. Ora cavalcavano un destriero a testa, ed erano tutti molto più a loro agio a cavallo; le due settimane alla fattoria McFly erano state utilissime come allenamento. Il quinto animale era carico di equipaggiamento adeguato alla vita all’aperto. Tutto il gruppo, tranne Sabrina, aveva già salutato i signori McFly. Lei era l’unica con cui i due anziani coniugi avevano potuto parlare, e le erano particolarmente affezionati. Si raccomandarono di tornare a trovarli; lei non ebbe cuore di dir loro che, se fosse andato tutto liscio, non sarebbe mai accaduto. D’altronde, se per una malauguratissima ipotesi non fossero riusciti a tornare a casa, quel posto era l’unico in cui potevano dirsi tranquilli, pellerossa vendicativi a parte.
Alla fine, oltretutto, i due anziani benefattori avevano anche dato loro dei soldi. Infatti Sabrina e gli altri, pur se ben equipaggiati, non avevano denaro, a parte il dollaro d’argento che avevano trovato e che Sabrina teneva sempre con sé. Ciononostante, quando le porsero il denaro, Sabrina protestò. Seamus, però, le disse che lui e sua moglie non ne avevano bisogno: la fattoria produceva ciò che occorreva loro e i pochi soldi che avevano servivano solo per acquistare in città pezzi di ricambio o nuovi attrezzi, nei casi in cui non potevano costruirseli da soli.
«Mia cara» disse Maggie McFly a Sabrina (senza curarsi di nascondere le lacrime, stavolta), «ti auguro ogni fortuna. Sei una persona meravigliosa».
«La ringrazio» disse Sabrina, sorridendo commossa.
«Su, ora andate, ragazzi miei» li incitò il signor McFly. «Non mi va che mi vediate piangere come una donnetta». Sabrina montò a cavallo, e senza ulteriori indugi partì, seguita dai suoi amici. Mentre si allontanavano al passo, si voltarono verso la fattoria, e fecero un ultimo segno di saluto ai loro generosi benefattori. Quando le sagome dei McFly divennero indistinte in lontananza, aumentarono l’andatura.
Si diressero verso la pista. Sabrina era in testa al gruppo, pensierosa. Si domandò se fosse saggio tornare indietro, verso Tucson. I signori McFly le avevano detto che tornare alla Mesa de Arena da un’altra direzione era possibile, ma poteva richiedere mesi di viaggio: impensabile. Era necessario tornare sulla pista di Tucson, anche rischiando il tutto per tutto.
“A cosa pensi?” le fu chiesto. Lei, colta di sorpresa, si voltò sulla destra, in direzione della voce. Johnny la osservava, un po’ divertito per averla presa alla sprovvista.
“Non ti ho sentito arrivare” gli disse.
“Me ne sono accorto”.
Sabrina gli fece un leggero sorriso, poi guardò nuovamente davanti a sé. Solo allora rispose: “Pensavo che potrebbe non essere saggio tornare verso Tucson. Mi chiedo se facciamo bene”.
“Certo che facciamo bene” disse un’altra voce alla sua sinistra; lei si voltò in quella direzione e vide Tinetta, sorridente.
Allora sorrise a sua volta, dicendo: “Ehi, ragazzi, volete dimostrarmi che avete imparato a cavalcare così bene da potervi avvicinare in silenzio a me?”.
“Non ci siamo avvicinati in silenzio” obiettò Johnny. “Sei talmente pensierosa che non ci hai sentiti”.
“Infatti; dovresti rilassarti un po’” le disse Tinetta. “Qui tutti si sono goduti l’avventura, in un modo o nell’altro, tranne te”.
“Parli come se non avessimo vissuto dei momenti tremendi” le fece notare Sabrina.
“Si, però poi sono passati, e nei periodi di pausa ce la siamo spassata. Tu invece sembri sempre sull’attenti, come se dovessi affrontare il pericolo da un istante all’altro”.
“Beh, ma perché io sono l’unica che può controllare la situazione. Tu, Renato, Manuela e Simona siete troppo giovani; Michael e Carlo neanche a parlarne, e Johnny ha già il suo da fare ad accudire le gemelle”.
“Boh, se lo dici tu” le concesse Tinetta.
“Certo” confermò Sabrina. “Ora per esempio pensavo che tornare verso Tucson potrebbe rivelarsi una decisione pericolosa”.
“Lo sappiamo” disse Johnny. “Ma non c’è altra scelta”.
“Potremmo cercare un’altra strada”.
“Ci hai già spiegato la situazione, Sabrina” le disse Tinetta. “Nessuno di noi ha voglia di girare a vuoto per chissà quanto tempo”.
“Si, preferiamo tutti affrontare il possibile pericolo dei cowboy del Black Arrow ma essere sicuri di essere sulla via giusta” confermò Johnny.
“Senza contare che ora siamo più bravi sia come cavalieri che come tiratori” continuò Tinetta; poi si voltò verso gli altri rimasti indietro, e a voce alta chiese: “Adesso siamo dei veri pistoleri, vero ragazzi?”.
Loro si girarono tutti verso di lei, e dopo un attimo gridarono in coro: “SIIII!”.
Sabrina sorrise, più tranquilla. “Grazie, ragazzi” disse a Tinetta e Johnny.
“Figurati” rispose lui.
“Di niente” disse Tinetta. Poi propose: “Perché non facciamo una gara, Sabrina? Chi arriva prima a quelle rocce”.
“Stai scherzando” disse Sabrina sorridendo. “Non ti illuderai di potermi battere, vero?”.
“La vedremo. Non avrai mica paura….” la provocò Tinetta.
“Certo che no; accetto”.
“Bene” disse Tinetta, poi si rivolse a Johnny. “Tesoro, tu ci darai il via, d’accordo?”.
“Va bene” acconsentì il ragazzo.
“E mi raccomando, fai il tifo per me” aggiunse Tinetta.
“Ehi” protestò Sabrina. “Non è giusto. Dev’essere imparziale”.
“Ma che dici? Lui è il mio tesoro: deve tifare per me!”.
“E io non posso avere un po’ di incoraggiamento?” chiese Sabrina.
“Si” ammise Tinetta. “Ma….”.
“Facciamo prima a chiederlo a lui” disse Sabrina. “Johnny, tu chi vuoi incitare?”.
“Eh?” fece Johnny, colto alla sprovvista.
“Tiferai per me, ovviamente, no?” gli disse Tinetta.
“Non influenzarlo” obiettò Sabrina. “Devi sentirti libero di scegliere. Allora?”.
“Eh eh, dunque…. allora? Ehm….” farfugliò Johnny.
“Andiamo, tesoro, che aspetti?”.
“Si, Johnny, rispondi”.
“Ehm…. ecco, il fatto è che…. ehm…. si, io…. eh? Qual era la domanda?”.
“JOHNNY!”esclamarono insieme le due ragazze, spazientite.
“Tiferò entrambe!” gettò fuori lui in un fiato.
“Mi sembra giusto” convenne Sabrina.
“Eh?” fece Tinetta incredula. “Ma come?”.
“Pronte a partire? Via!” disse Johnny senza preavviso, per togliersi da quella incresciosa situazione.
Sabrina schizzò in avanti.
“Tesoroooo! Sei uno stupidoooo!” gridò Tinetta visibilmente offesa, lanciandosi al galoppo dietro l’amica.
Vinse Sabrina, che era partita un po’ prima.
“Non ero pronta!” protestò Tinetta mentre tornavano indietro. “Non vale”.
“L’arbitro ha dato il via” disse Sabrina gongolante. “Mi spiace, Tinetta, tutto regolare”.
“E’ tutta colpa tua” disse Tinetta a Johnny, e gli fece una boccaccia allontanandosi verso gli amici rimasti indietro. Johnny sospirò.
“Coraggio, le passerà” lo consolò Sabrina. “La conosci”.
“Eh, si” ammise Johnny, poi pensò: -Ma che ansia, però-.
L’unica nota positiva era che quell’improvvisato intermezzo aveva fatto rilassare Sabrina, e questo lo aiutò a rasserenarsi.
 
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Sabrina si era allontanata dal falò per osservare le stelle. Gli altri, riuniti intorno al fuoco, erano occupati in una chiassosa conversazione; Sabrina spesso decideva di isolarsi un po’, la sua indole introspettiva e solitaria lo richiedeva. Quella sera Tinetta la raggiunse, e le si sedette vicino; Sabrina si voltò verso l’amica e si scambiarono uno sguardo d’intesa; erano così unite che non c’era bisogno di parole, tra loro. Il cielo stellato d’Arizona le ipnotizzò per diversi minuti. Era uno spettacolo che non avrebbero mai dimenticato.
“Da quanti giorni siamo partiti dalla fattoria? Tre o quattro?” chiese Tinetta, ad un tratto.
“Quattro” rispose Sabrina. “Credo”.
“Strano” osservò Tinetta. “Senza impegni quotidiani, senza tv, senza fretta…. ho perso la nozione del tempo”.
“Eh, si” concordò Sabrina. “Senza giorni scanditi da doveri precisi, non c’è differenza tra l’oggi e il domani. Eppure non mi sembra di sprecare il mio tempo. Tu che ne dici?”.
“Cosa intendi?”.
“Per esempio, quando stai in casa tutto il giorno perché non c’è scuola, oppure vai in giro a bighellonare per negozi perché hai del tempo libero…. ecco, anche se ti rilassi, non ti sembra di aver impiegato bene le tue ore. Voglio dire, hai solo lasciato passare la giornata, nell’attesa del momento in cui dovrai tornare ai tuoi impegni. Qui invece, anche se fai sempre le stesse cose, ovvero cavalcare quasi tutto il giorno, fare delle soste per rifocillarti, preparare il fuoco della sera
(operazione in cui ormai siamo diventati piuttosto bravi) ti senti bene, ti soddisfa il solo fatto di riuscire a cavartela ogni giorno in questa terra selvaggia, e ti rasserena assistere ogni notte alla meraviglia del cielo stellato”.
“Ah ah ah ah” Tinetta rise di gusto.
“Beh?” le disse Sabrina un po’ infastidita. “Ti sembra tanto comico?”.
“No, no” disse Tinetta, sorridendo. “Hai ragione, Sabrina. Hai pienamente ragione”.
“E allora?”.
“Ma non capisci? Sei intelligentissima, sei molto superiore al resto del gruppo. Noialtri ce le sogniamo riflessioni del genere”.
“Vuoi dire che non la vivete allo stesso modo?”.
“No, mentre parlavi sentivo di poterti dare ragione” spiegò Tinetta. “Quello che voglio dire è che al tuo confronto noi siamo tutti dei bambocci. Anche se proviamo esattamente quello che provi tu, nessuno di noi sarebbe in grado di esprimerlo così bene”.
“E allora perché hai riso?”.
“Solo perché pensavo a quanto sembri diversa da come sei in realtà” disse Tinetta. “Mi chiedo cosa penserebbe chi ti conosce come Sabrina la teppista, nel sapere che sei così romantica”.
“Già, la teppista” Sabrina sorrise, volgendo lo sguardo al cielo. “Ormai è un po’ che mi sono data una calmata, vero?”.
“Come me, del resto” disse Tinetta; poi aggiunse: “Siamo diventate davvero delle persone dabbene. Io, te e Renato siamo cresciuti insieme, ma fino a poco tempo fa sarebbe stato impensabile fare amicizia con brave ragazze come Simona e Manuela, o addirittura con dei soggetti impossibili come Michael e Carlo”.
“A parte il fatto che Simona potrebbe diventare una teppista tremenda, questo cambiamento è merito di Johnny” osservò Sabrina.
“Eh, si” disse Tinetta. “Merito del mio tesoruccio”.
“Però io non mi sento amica di Michael e Carlo” disse Sabrina. “Tra noi non c’è un gran rapporto. Non vorrei sembrare altezzosa, ma li trovo davvero stupidi”.
“Beh, lo sono” ammise Tinetta, poi aggiunse: “Ma sono anche vitali, vivaci: la loro idiozia è divertente…. a volte”.
“Dici? Chissà, forse sono io ad essere troppo scostante, dopotutto”.
“Beh, comunque un cambiamento c’è stato nel vostro rapporto”.
“Cioè?”.
“Non si sarebbero mai avvicinati a te, una volta. Adesso ti ammirano, ne sono certa; soprattutto da quando siamo finiti in questa situazione assurda. Non sono cretini fino a questo punto, sanno che è grazie a te se ce la stiamo cavando così bene nel selvaggio west”.
“Allora il nostro è un rapporto tra capo e sottoposti”.
“Diciamo tra maestro e allievo. Un maestro molto in gamba e due allievi pessimi”.
“Disastrosi, direi” concluse Sabrina, poi sospirò dicendo: “Mi ha fatto bene parlare con te, sai? Non riesco a rilassarmi con tutti gli altri sempre intorno”.
“Beh, perché sei diventata la nostra guida; immagino che questo sia snervante. Ti sei presa la responsabilità dell’intero gruppo”.
“Non avrei voluto, te lo assicuro; sarei stata ben contenta di stare in disparte, visto che odio mettermi in mostra. Ma mi sono subito resa conto che nessuno aveva la minima idea di come uscire dai guai”.
“Per tutti noi è una grande fortuna che tu ci sia” concluse Tinetta.
Sabrina le sorrise. Restarono silenziose per qualche secondo, poi Sabrina osservò: “Era da un po’ che non ce ne stavamo per conto nostro, come ai vecchi tempi”.
“Beh, ma ormai io sono molto richiesta, sai?” disse Tinetta. “Non è più così facile avere udienza da me”.
“Ah si, eh? Ma sentitela. Non montarti la testa, mia cara”. Risero insieme raggianti, prima di tornare ad osservare il cielo, più serene che mai.
Dal falò venivano ancora le chiacchiere dei loro amici, ma intorno alle due ragazze era tutto silenzio. Accendevano il fuoco sempre ad una certa distanza dalla pista, in posti il più possibile isolati e riparati; non avevano fatto brutti incontri durante il tragitto di ritorno alla gola tra le montagne, ma c’era la possibilità che dessero ancora loro la caccia.
Improvvisamente una voce le fece voltare: «Buonasera. Possiamo unirci a voi?».
Sabrina e Tinetta guardarono sbigottite tre ragazzi, due bianchi e un nero, avanzare verso di loro lentamente. «Calma, ragazze» disse il nero. «Non abbiamo brutte intenzioni».
Tinetta e Sabrina guardarono verso il falò: nessuno degli altri si era ancora accorto di niente.
Ormai i tre erano vicinissimi; si erano fermati e le osservavano. Sembravano imbarazzati.
«Abbiamo visto il vostro fuoco» disse uno dei due ragazzi bianchi, incitato dagli altri. «Ci chiedevamo se possiamo unirci a voi».
«Si, possiamo pagare» disse allora l’altro bianco. «Io sono ricco. Anche se delle belle ragazze come voi potrebbero accontentarsi della mia compagnia».
«Logan!» disse il nero. «Piantala di fare il cretino!».
«Perché?» chiese quello chiamato Logan. «La mia bellezza può aprirci molte porte; perché non approfittarne?».
«Ma quale bellezza!» ribatté il nero. «Tu sei ricco solo di presunzione; e poi sei fidanzato, devo ricordartelo io?».
«Non voglio mica tradire la mia ragazza; si tratterebbe solo di sfruttare le mie potenzialità. Tu sei solo invidioso, Michael».
«Invidioso di te? Ma smettila!» sbottò Michael.
«Michael! Logan! Per favore!» intervenne l’altro bianco, quello che si era rivolto a Sabrina e Tinetta per primo. Si voltò di nuovo verso le ragazze. «Scusate i miei amici. A volte sono un po’ infantili».
«Ehi!» protestarono Michael e Logan insieme. «Chase, io non sono infantile. E’ colpa sua che mi fa saltare i nervi!».
«Ragazzi!» esclamò quello chiamato Chase, che sembrava essere il capo (anche se non molto rispettato). I tre sembravano giovanissimi, forse poco più grandi di Johnny e compagni.
“Che succede?” domandò Johnny. Lui e gli altri si erano accorti degli intrusi e si erano avvicinati armati. Johnny teneva un fucile, ma era scarico. Non sarebbe stato tanto tranquillo con un’arma in mano, altrimenti.
«Ehi ehi ehi, amico» disse Logan indietreggiando assieme a Michael. «Non fare scherzi con quell’affare».
“Calma Johnny” disse Sabrina alzandosi. “Non hanno cattive intenzioni”. Poi Sabrina si rivolse ai visitatori. «Come mai ci avete raggiunti? Non potevate accendere un fuoco vostro?».
«Beh, si. Ma il buio ci ha sorpresi senza che trovassimo abbastanza legna da bruciare. Non siamo pratici della vita all’aperto» spiegò Chase. «Insomma, se poteste farci scaldare al vostro fuoco, ve ne saremmo grati; e poi la notte nella prateria per un gruppo numeroso è più sicura».
«Abbiamo dei fagioli da dividere con voi» disse Michael.
«Fagioli!» replicò Logan. «Che cibo plebeo».
«Oh, scusa tanto, signorino!» ribatté Michael. «Vuoi che ti arrostisca una lepre?».
«Le lepri vanno catturate, Michael» disse Logan. «E tu non ne sei capace».
«Ma sentitelo! Perché tu si, vero?».
«PER FAVORE!!» esclamò Chase. «Sono esasperato! Davvero! Siamo nei guai fino al collo e voi due non smettete un attimo di litigare!».
Johnny e compagni osservavano la scena allibiti: in quel deserto esisteva un altro gruppo di scombinati come loro.
«Ehm, scusate» disse Sabrina. I tre la ignorarono, continuando a litigare.
«Scusate!» ripeté Sabrina, a voce più alta. Ma quelli urlavano di più.
“EHI! BRUTTI SCEMI!” strillò Simona a pieni polmoni. Tutti si turarono le orecchie.
“Cavolo, Simona. Mi hai assordato” si lamentò Renato che era vicino a lei.
“Almeno quei tre hanno smesso di discutere” disse Sabrina.
Chase, Michael e Logan, infatti, avevano interrotto la loro scaramuccia.
Sabrina si rivolse a Chase: «Non è un problema dividere il nostro fuoco con voi».
«E vai!» esclamarono i tre in coro. «Grazie». Si addentrarono di nuovo nell’oscurità dicendo: «Andiamo a prendere i cavalli e vi raggiungiamo. Li abbiamo lasciati poco lontano».
“Che volevano, Sabrina?” le chiese Tinetta. Sabrina spiegò agli amici l’accaduto.
A resoconto terminato, Manuela domandò: “Ci sarà da fidarsi?”.
“Non sembravano pericolosi” considerò Sabrina. “Sentendoli discutere, mi hanno ricordato i continui litigi scatenati da Michael, Carlo, Renato e Johnny”.
“Oh, allora non sono pericolosi. Sono solo tonti” disse Simona.
“EHI!” esclamarono in coro i maschi del gruppo, offesi.
In quel momento tornarono i tre ospiti. Sabrina notò che sembravano estremamente nervosi, a differenza di poco prima, e se ne chiese il motivo. Tutti insieme si avvicinarono al fuoco.
I nuovi arrivati legarono i cavalli vicino a quelli di Johnny e compagni e andarono a sedersi; per prima cosa si presentarono.
«Ehm…. dunque, io…. io sono Chase Barrett» disse Chase stringendo la mano a Sabrina; la ragazza si domandò di nuovo perché era così agitato. «E questi sono i miei due migliori amici, Michael Reese e Logan Matthews».
Tutti i ragazzi si presentarono. I due Michael si strinsero la mano con particolare cortesia.
«Quello si chiama Michael, come me» disse Michael Reese. «Scommetto che è molto in gamba».
«Spero proprio per lui che non sia come te» gli disse Logan.
«Ehi, ma stasera le vuoi prendere?».
«Dai, fatti sotto, Nuvolaccia!». « »
«Ah ah, puoi chiamarmi così quanto ti pare!».
«Nuvolaccia! Nuvolaccia!» ripeté Logan.
«Sai che mi piace quel soprannome, Bocca» disse Reese con aria di scherno.
«Ragazzi!» esclamò Chase. «Basta! E’ notte inoltrata, siamo stanchi e affamati. E inoltre ricordatevi in che…. ehm…. situazione…. ci troviamo: non vorrete far innervosire i nostri…. ehm…. nuovi amici. Cosa ci vuole perché smettiate di litigare?».
Gli altri due si tranquillizzarono, però guardandosi in cagnesco.
«Il fatto è che sono davvero MOLTO amici, anche se non sembra» disse Chase a Sabrina.
«Non c’è problema» assicurò lei. «Anche tra noi spesso scoppiano litigi, ma sono polemiche incredibilmente stupide, niente di serio. Ma ditemi, perché siete in viaggio di notte?».
Chase guardò i suoi amici: si scambiarono un’occhiata guardinga. Sabrina se ne accorse, e cominciò a chiedersi se ci fosse davvero da fidarsi di quei tre.
«Ecco, il fatto è che siamo in fuga» spiegò Michael Reese.
«Infatti» confermò Logan. «In fuga dalla legge».
Dopo un attimo di silenzio, Sabrina balbettò: «Sul…. sul serio?». Poi pensò: -Oh, no. Siamo nei guai-.
«Eh, già» disse Chase. «Siamo criminali, delinquenti….» si girò verso i suoi amici facendo loro gesti di incoraggiamento, come ad incitarli a dargli una mano.
Gli altri due capirono, e rincararono la dose. «Oh, si. Siamo proprio dei pericoli pubblici, degli assassini sanguinari….».
«Io…. io…. ho fatto una vera strage» disse Logan. «Con le mie pistole ho fatto fuori quaranta, no, cinquanta pers….».
«Looogan….» dissero gli altri due a denti stretti, dandogli ciascuno una gomitata nelle costole. «Non esagerare, cavolo».
«Ah, si, ecco» Logan si ammutolì.
Sabrina rimase di stucco. «Davvero?» chiese, con voce titubante. «Siete così…. ehm…. pericolosi?».
«Eccome, sapessi….» confermò Chase, guardando in terra.
“Sabrina, che c’è?” le chiese Johnny, che si era accorto del suo turbamento; lei osservò i suoi amici con un sorriso forzato, e disse: “Ragazzi, mi raccomando, mantenete la calma…. c’è una cosa che vi devo dire”.
“Che cosa?” chiese Renato.
“Voi promettetemi di stare calmi, ok?” ripeté Sabrina, sempre simulando impassibilità.
“Va…. va bene….” disse Manuela. “Ma così ci fai paura”.
“Ecco, il fatto è che questi nostri amici non sembrano essere tanto innocui” rivelò Sabrina.
“Che…. che…. che vuoi dire?” balbettò Michael.
“Calma, ragazzi. Non possono capire quello che diciamo. Non fatevi vedere nervosi”.
Johnny e gli altri ascoltavano Sabrina con trepidazione. La ragazza continuò: “Sembra che siano in fuga dalla legge”.
Tutti si pietrificarono a quella notizia, tranne Simona e Carlo.
“Beh, come noi allora, no?” disse Carlo, sospirando di sollievo. “Mi avevi fatto preoccupare”.
“Sono in fuga dalla legge per aver commesso degli omicidi” disse Sabrina, sempre simulando calma.
“Beh, anche noi se è per questo” disse Simona ridendo, e lei e Carlo si scambiarono battute.
“Siamo tutti compagni di fuga”.
“Mettiamo su una banda”.
“Siamo cattivissimi fuorilegge. Ah ah ah ah”.
“Ragazzi” intervenne Johnny. “Questi tipi sono VERAMENTE degli assassini”.
“Beh, anche noi John….” dissero in coro Simona e Carlo sempre sorridendo, prima di interrompersi e restare immobili, gelati nelle loro posizioni.
Sabrina iniziò a dire: “Bene, ora che avete capito, per favore state cal….” ma non terminò la frase perché Simona e Carlo schizzarono in piedi urlando come ossessi. “AAAAAAHH! AIUTOOOOO! ASSASSINI CATTIVIIIII!!!!”. E fu il pandemonio: Logan si gettò a terra urlando, Michael Reese si nascose dietro una roccia e Chase si alzò in piedi saltellando e strepitando; il gruppo di Johnny cercò di bloccare Carlo e Simona, ma ottennero solo il consueto risultato di cadere tutti gli uni addosso agli altri e rotolarsi per terra urlando. Sabrina era paralizzata: seduta al suo posto aspettava da un momento all’altro una scarica di proiettili da Chase e compagni. Ma quando si rese conto che anche loro sembravano terrorizzati come bambini le cominciarono a venire dei dubbi.
Si alzò in piedi e urlò: “FERMI!”. Il suo tono perentorio fece voltare tutti verso di lei.
Ottenuta la loro attenzione, si rivolse prima ai suoi amici. “Ragazzi, sedetevi e state calmi. Devo verificare una cosa”.
“Vuoi chi…. chiedere a questi come intendono fa…. farci fuori?” domandò Michael balbettante. “Non dire sciocchezze” gli rispose lei, poi si rivolse ai tre assassini. «State calmi anche voi, per favore. Siete davvero in fuga dalla legge?».
«Ma…. ma certo» disse Michael Reese uscendo dal suo riparo e venendo avanti simulando disinvoltura. «Siamo…. ehm…. proprio tremendi fuorilegge, vero ragazzi?».
«Si, si» confermò Chase, agitando la testa in segno di assenso con esagerata veemenza. «Criminali della peggior specie».
Logan si guardò intorno ancora turbato dal trambusto di poco prima, poi si inginocchiò verso Sabrina e sbraitò: «NO!! Non è vero! Siamo solo tre innocui viandanti! Per favore, non fateci del male. Soprattutto a me. Sono ricco, pagherò un riscatto!».
«Infame!» gli gridò Michael Reese cercando di aggredirlo. «Non dargli ascolto. Noi…. noi…. ecco….».
«Basta, Michael» disse Chase, poi si rivolse a Sabrina. «Ehm, ecco, non siamo fuorilegge. Ormai non ha più senso fingere».
«Già» disse Reese indicando Logan. «Perché mister lingua lunga ha meno coraggio di un bambino. Forse dovremmo chiamarti sempre Bocca, quel nome è molto più azzeccato».
«Ehi, ehi» disse Logan sulla difensiva alzandosi da terra. «Io…. io non ci tengo a tirare le cuoia. La mia ragazza ne morirebbe e le mie ammiratrici sparse nel paese perderebbero la speranza nel futuro. Non è per egoismo, è per il bene della nazione che devo vivere».
«Tu sei una palla al piede, altro che bene della nazione» gli disse Reese.
«Una…. una palla al piede? Come ti permetti» replicò Logan offeso. «Se io sono una palla al piede tu sei DUE palle al piede».
«Ah, si? E tu QUATTRO palle al piede!».
«E tu OTTO!».
«E tu SEDICI!».
Chase si voltò sospirando verso Sabrina, e disse: «Non siamo molto credibili come furfanti, eh?».
«Per niente» rispose Sabrina. «Ma perché avete mentito?».
«Beh, perché avevamo paura di voi».
«Paura di noi?» disse Sabrina stupita. «NOI avevamo paura di voi!».
«E perché?» domandò Chase stupito non meno di Sabrina.
«Beh, ci avete detto di essere assassini».
«Ma perché volevamo farvi credere di essere vostri pari».
«Eh?» fece Sabrina confusa.
«A proposito, non fateci del male» disse Chase con voce implorante. «Noi siamo davvero in fuga. Comunque posso assicurarvi che non riveleremo la vostra posizione».
«Ma di che parli?» chiese Sabrina. «Perché dovremmo farvi del male?».
«Andiamo» intervenne Logan. «Lo sappiamo chi siete; non fate la commedia con noi».
«Già» disse Reese per la prima volta in accordo con Logan. «Questa tensione è snervante. Per favore, diteci subito cosa farete di noi. Ho una richiesta, però: se dovete ucciderci fatelo alla svelta. Non fateci soffrire».
«Si, per favore» concordò Chase. «Anche se onestamente preferirei non lasciare questa valle di lacrime».
«Ora sono davvero stordita» disse Sabrina. «Si può sapere perché diavolo dovremmo farvi del male? Ma guardateci, vi sembriamo degli assassini?».
Chase e compari osservarono per bene Johnny e gli altri, che a loro volta osservavano i tre nuovi arrivati con soggezione. Sabrina si ricordò che i suoi amici erano ancora vittime dell’equivoco di poco prima, e spiegò: “Falso allarme, ragazzi. Non sono assassini”.
“Da…. davvero?” chiese Carlo.
“Si, davvero” assicurò lei.
«No, in effetti non sembrate pericolosi» riconobbe Chase dopo qualche secondo. «Però tutti dicono che siete dei temibili criminali».
«Tutti chi?» domandò Sabrina, curiosa.
«Beh, a Tucson dicono che avete ucciso cinque persone, che avete compiuto una rapina e che siete implicati in altre scorrerie».
«CHE COSA?!» esclamò Sabrina semplicemente sbalordita.
Il suo tono fece preoccupare i suoi amici; la circondarono e le chiesero cosa accadesse.
Lei per qualche secondo ancora non riuscì a spiccicare parola. Poi si rivolse a Johnny e gli altri e disse: “Credo sia meglio se ci sediamo”.
Si sedettero tutti intorno al fuoco; Sabrina invitò a sedersi anche i loro nuovi amici. «Per favore, ragazzi, spiegateci tutto. E’ molto, molto importante».
Chase, Logan e Michael si guardarono perplessi; poi si sedettero anche loro, e iniziarono a raccontare.
 
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Quando il racconto fu finito, Sabrina si rese conto che la situazione era davvero drammatica. Riportò fedelmente ai suoi amici ciò che le avevano detto Chase e compagni: oltre all’imputazione ingiusta dell’omicidio del giudice Pearson, erano stati accusati anche della morte dello sceriffo Pascal di Tucson, rimasto sotto la frana provocata dalla dinamite, ed erano inoltre ritenuti colpevoli del triplice omicidio di Duke e Young (i due loschi tipi di cui avevano sentito parlare al Black Arrow) e del maggiordomo di Duke. Duke e Young erano stati anche rapinati. Oltretutto, Rick Samson era ormai convinto che fossero in qualche modo implicati anche nella morte di suo padre. Quando Sabrina finì di raccontare, Johnny e gli altri si guardavano increduli.
“Non ci credo!” sbottò Johnny. “Non abbiamo fatto niente! Abbiamo passato le ultime tre settimane a spalare fieno e a macinare chilometri a cavallo, e intanto ci accusavano di ogni crimine avvenuto in questo maledetto paese negli ultimi mille anni!!”.
Mentre gli altri contestavano indignati le novità ricevute, Tinetta era stranamente silenziosa. “Non ci…. credo” mormorò, turbata. Nascose la testa tra le braccia, piangendo.
Johnny se ne accorse. “Cos’hai?” le chiese, ansioso.
Tutti le si fecero intorno preoccupati. “Tinetta!” esclamò Renato. “Ti senti male?”. Lei continuò a piangere silenziosa. Sabrina allora le posò una mano sulla spalla, gentile, e le domandò: “Tinetta, che c’è? Ce la caveremo, sta tranquilla”.
Tinetta sollevò la testa guardando la sua amica, e singhiozzando le disse: “So…. sono stata io a lanciare la…. la dinamite che…. che ha provocato la frana” e abbassò di nuovo lo sguardo. I suoi amici compresero: si sentiva responsabile della morte dello sceriffo.
“NO!” esclamò Johnny afferrandole le spalle: “Non è colpa tua!”.
“Joh…. Johnny…. ti ringrazio, ma….” balbettò lei.
“Niente ma!” esclamò Johnny. “Dal momento in cui hai lanciato il candelotto al momento in cui è esploso quanto tempo è passato?”.
“Eh?” fece Tinetta confusa.
“Non poco, Tinetta!” intervenne Renato. “Me lo ricordo anche io!”.
“E anch’io” disse Michael praticamente insieme agli altri suoi amici.
“Ma…. ma…. questo che c’entra?” chiese lei iniziando a rincuorarsi.
“Tinetta, io ricordo che tu hai tirato lontano la dinamite” spiegò Manuela. “Io ho trascinato a terra Johnny e Simona, e subito dopo vi siete buttati giù tutti, giusto?”.
“Si” confermò Carlo che iniziò a capire dove volevano arrivare gli altri coi loro ragionamenti. “Non solo: dal momento in cui ci siamo buttati a terra a quando è scoppiata la dinamite sono passati ulteriori secondi”.
“E quindi?” chiese Tinetta speranzosa.
“Dopo il tuo lancio la dinamite era sicuramente caduta a terra” aggiunse Michael, che voleva dire la sua. Ormai era una gara a consolare l’amica.
Michael continuò: “Qualcuno deve averla raccolta e rilanciata, forse verso di noi”.
“Non capisco” disse Tinetta, ricominciando ad incupirsi. “Il mio lancio deve aver fatto finire la dinamite sulle rocce in alto, che sono crollate”.
“Ma tu l’hai scagliata nel passaggio, non sulle pareti di roccia laterali, ricordi?” disse Sabrina. “Dopo il tuo tiro dev’essere finita per forza a terra”.
“Si, è vero, io l’ho tirata verso la gola….” poi il suo sguardo si illuminò; scattò in piedi eccitata, ed esclamò: “Un momento! Un momento, ragazzi! E’ vero, io l’ho tirata con tutta la mia energia nel passaggio; in effetti ci ho messo tanta forza che mi ha fatto male il braccio per quattro giorni dopo quel lancio; ero così spaventata che non mi sono controllata affatto. La dinamite deve essere arrivata lontana, ma l’esplosione è avvenuta molto vicino al punto in cui eravamo noi”.
“Questo conferma le nostre ipotesi!” disse Johnny prendendole le mani. “Qualcuno l’ha raccolta dopo il tuo tiro e l’ha lanciata di nuovo verso di noi!”.
“Che bello!! Che bello!!” esclamò Tinetta felice, e abbracciò il suo Johnny con impeto; il momento però era di tale sollievo che né Renato né Sabrina si arrabbiarono, e anzi insieme agli altri amici abbracciarono Tinetta tutti insieme, ridendo. Rimanevano i loro problemi, e rimaneva il fatto che il giudice, lo sceriffo e altri erano morti, ma di questo per qualche secondo non si preoccuparono.
Quando si furono calmati, tornarono a sedersi intorno al fuoco, e Sabrina spiegò a Chase e compagni ciò che era accaduto.
«Non ci credo» disse Michael Reese alla fine. «Stai dicendo che non avete fatto niente? Siete considerati i criminali più pericolosi e spietati degli ultimi cinquant’anni in Arizona e non avete fatto NIENTE?».
«Proprio così» confermò Sabrina. Poi le venne in mente una cosa. «Oh, Michael, scusa, posso chiederti un favore?».
«Di che si tratta?» domandò lui.
«Dal momento che noi abbiamo già un nostro Michael, ti spiace se ti chiamiamo Michael Reese, o Reese? Sai, per non creare confusione».
«Oh, non c’è problema: il mio nome è tanto bello che può essere pronunciato per intero, a metà o di un quarto e non cambia il suo fascino».
«Ah ah, si, è bello, Nuvolaccia!» disse Logan.
«Oh, ma anche questo è bello, Bocca».
«Non iniziate a litigare, eh, ragazzi» disse Chase.
Gli altri due lo guardarono, e insieme gli dissero: «Tu non scocciare, Cespuglio!».
Chase bofonchiò contrariato, sentendo quel soprannome.
Sabrina assistette per qualche istante a quel siparietto senza capirlo, poi disse: «Ragazzi, ho altre domande da farvi. Potremmo andare avanti? E’ già molto tardi».
«Oh, si, scusa» disse Chase.
Anche gli altri due si calmarono.
«Diavolo» commentò Logan. «Certo che, se siete innocenti, è un bene che non vi abbiano beccato».
«Direi di si» confermò Sabrina. «Ma ora mi potreste spiegare meglio come sono andate le cose a Tucson? Quando sono morti Duke e Young?».
«Un po’ più di una settimana fa» rispose Chase. «Tre uomini hanno cercato di fermare gli assassini, ma non ci sono riusciti. Uno di loro è rimasto ferito non gravemente, è andato dal dottore, e ha dato l’allarme. La casa di Duke (è lì che è avvenuto il crimine) è fuori del centro abitato, perciò nessuno si è accorto di niente finché il ferito non si è presentato dal medico e ha raccontato l’accaduto. Si chiamava Cody; ha spiegato che lui e due suoi amici passavano per caso davanti all’abitazione di Duke quando hanno sentito gli spari, sono entrati e si sono trovati i colpevoli davanti. Dal momento che i nemici erano molti più di loro, sono fuggiti; Cody però è rimasto comunque ferito. I criminali li hanno lasciati perdere e sono scappati. Allora sono rientrati in casa e hanno trovato i cadaveri di Duke, Young e del maggiordomo; erano stati legati. La cassaforte era aperta e svuotata, e la casa era stata frugata. A quel punto Cody è andato dal dottore e i suoi due amici, Bull e Jenning, si sono gettati all’inseguimento dei furfanti».
«Aspetta» lo interruppe Sabrina. «Jenning, hai detto? Steve Jenning, forse?».
«Si» rispose Chase.
«Lo conosco. E’ uno dei cowboy del Black Arrow» disse Sabrina.
«Anche gli altri due» aggiunse Logan.
Sabrina restò interdetta; per qualche istante sembrò riflettere profondamente, poi interpellò i suoi amici: “Ragazzi, ricordate i due uomini che accompagnavano Jenning quando vi ha preso in giro
durante la cena?”.
“Si, perché?” rispose Renato.
“Potreste descrivermeli?”.
I ragazzi esaudirono la sua richiesta.
Sabrina si volse poi di nuovo a Chase e compagni, chiedendo loro se la descrizione di Bull e Cody corrispondeva a quella appena fatta da Johnny e gli altri.
Chase, Logan e Michael confermarono la sua ipotesi.
“A cosa pensi, Sabrina?” le domandò Johnny.
“Penso al fatto che quel Jenning non piaceva né a me né al giudice”.
“Neanche a noi piaceva” concordò Carlo. “Ci ha preso in giro”.
“Non intendevo questo” precisò Sabrina. “Quel tipo era crudele, pericoloso; e la cosa peggiore è che nascondeva queste sue caratteristiche, come un predatore cela la propria presenza per cogliere di sorpresa le sue vittime”.
“Dunque, cosa pensi?” le chiese Manuela.
Sabrina non rispose; invece domandò: “Michael, Carlo; l’ombra che vedeste quella notte, quella del tipo che uccise il giudice, poteva essere quella di Jenning?”.
I due si guardarono un secondo, poi risposero: “Si, poteva essere. Avrebbe potuto essere chiunque, ma la corporatura era più o meno quella di Jenning”.
“Anche la voce” aggiunse Carlo. “Ha parlato a voce bassa, ma anche quella avrebbe potuto essere sua”.
Sabrina annuì, soddisfatta. “Questo non prova nulla, chiaramente” disse. “Ma il fatto che Jenning fosse presente quella sera al ranch insieme ai suoi due amici, e che sempre loro tre siano testimoni della morte di Duke e Young me li rende sospetti”.
Sabrina illustrò le sue conclusioni a Chase e gli altri.
«In effetti, visto che hanno accusato voi degli omicidi, è evidente che siano stati invece loro» osservò Logan tranquillamente.
«COME!?» esclamò Sabrina.
«Beh, si» disse Michael Reese. «Altrimenti perché avrebbero dovuto attribuirli a voi?».
«Volete dire….» Sabrina era allibita.
«Cody andò dal dottore perché era stato ferito ad un braccio» raccontò Reese. «Bull e Jenning inseguirono i criminali; il giorno dopo tornarono in città, e anche Jenning era stato ferito superficialmente. Tutti e tre testimoniarono che eravate voi i responsabili della rapina e degli omicidi. Dissero che quando entrarono in casa, si trovarono di fronte voi otto, a volto scoperto e armati fino ai denti. Visto che vi ritenevano già responsabili delle morti del giudice e dello sceriffo, tutti ci hanno creduto».
«Già» confermò Chase. «Dopo questo avvenimento Samson e altri cittadini hanno ipotizzato che voi foste sicari di Duke e Young, che tutti sapevano essere due delinquenti. Hanno supposto che vi foste recati dai vostri padroni per riscuotere la paga, ma che siano sorti dei dissidi, in seguito ai quali avete catturato i vostri ex datori di lavoro, li avete obbligati a rivelare la combinazione della cassaforte, poi avete frugato il resto della casa in cerca di altri oggetti di valore e infine avete ucciso loro due e il maggiordomo per eliminare dei pericolosi testimoni. Però in quel momento passavano lì davanti Jenning e gli altri due, che sentendo gli spari sono entrati».
Sabrina ascoltò il racconto con incredulità e rabbia; quando Chase terminò il resoconto dei fatti, chiese, adirata: «Ma certo. E nessuno si è chiesto perché saremmo stati tanto scemi da uccidere tre uomini legati e inermi con un colpo di pistola, rischiando di farci sentire da chiunque. O come mai avremmo lasciato andare Jenning e gli altri dopo che ci avevano visto in faccia, senza neanche tentare di eliminarli».
Logan si strinse nelle spalle. «Si, qualcuno se lo è chiesto. Ma ritengono che voi siate talmente assetati di sangue da non avere paura di essere scoperti o inseguiti dalla legge».
«Inoltre Cody e Jenning sono stati feriti» disse Reese. «Evidentemente si sono feriti a vicenda di proposito, per rendere più credibili le loro bugie».
«Assurdo….> mormorò Sabrina. Poi domandò: «Ma voi come avete trovato il coraggio di avvicinarvi a noi credendo che fossimo spietati fuorilegge?».
«Non sapevamo che foste voi» spiegò Reese. «Lo abbiamo capito solo dopo, quando siamo andati a riprendere i cavalli».
«Infatti» continuò Logan. «Eravamo molto tranquilli, poi Michael ha detto che voialtri sembravate proprio il gruppo di criminali in fuga da Tucson; non sembravate pericolosi, perciò ci siamo fatti una risata. Ma poi abbiamo iniziato ad elencare: otto ragazzi, quattro maschi e quattro femmine, stranieri; a quel punto ci è preso il panico. Perciò abbiamo discusso su cosa fare; ci siamo detti che se fossimo scappati, voi probabilmente ci avreste inseguiti e uccisi. Così abbiamo stabilito di continuare a fingere di non avervi riconosciuti».
«Proprio così» confermò Chase. «E abbiamo anche deciso di farci passare per criminali in fuga, per non sembrare troppo indifesi. Solo che eravamo terrorizzati».
«E comunque, chi si aspettava che foste così vicini a Tucson?» disse Logan. «Ormai tutti vi credevano lontani coi soldi».
«Volete dire che vicino a Tucson siamo in pericolo?» chiese Sabrina.
«Eccome» affermò Chase. «Anche se non credo abbiate niente da temere dal nuovo sceriffo».
«Cioè?» domandò Sabrina.
«Il nuovo sceriffo è Jenning» rivelò Reese. «Il giorno dopo il suo ritorno dal finto inseguimento degli assassini di Duke e Young, si è proposto come tutore della legge, ed è stato votato. Dopo qualche giorno in osservazione dal dottore, lui, Bull e Cody sono partiti alla vostra ricerca».
«Dannato Jenning» disse Sabrina. «E’ furbo come una volpe. Si è fatto eleggere sceriffo, e con la scusa di inseguirci è sicuramente scappato col bottino della rapina».
«Infatti» concordò Chase. «A questo punto è molto probabile. Comunque, se non a lui, sicuramente dovete fare attenzione ai cacciatori di taglie, ai ranger, agli sceriffi delle città vicine».
A Sabrina non piacquero queste parole. «Che significa?» chiese.
«Che dovunque vi siate rifugiati negli ultimi tempi, vi conviene tornarci» disse Logan. «Sono stati spediti dispacci in tutto il territorio, con le vostre descrizioni. Mezza Arizona è sulle vostre tracce; è un miracolo che non vi abbiano ancora trovato».
«Non possiamo tornare nel nostro ultimo rifugio» disse Sabrina. «Era nostra intenzione raggiungere la Mesa de Arena, ma per farlo la strada più veloce è passare dalla pista di Tucson».
«Quella è la strada più veloce per finire in gattabuia, altroché» concluse Reese.
«Capisco….» mormorò Sabrina. «Che situazione assurda». Poi la ragazza restò pensierosa per qualche minuto. Stava decidendo come dare ai suoi amici le brutte notizie appena ricevute.
«Senti» le disse Chase, interrompendo il corso delle sue riflessioni. «Potreste venire con noi».
«EH?» Logan sobbalzò. «Chase, stai scherzando? Se ci beccano insieme a loro passeremo delle rogne gigantesche».
«Diavolo!» disse Reese. «Logan, questi ragazzi sono nei guai, e sono innocenti! Dove andiamo noi sarebbero al sicuro».
«Dove state andando?» domandò Sabrina.
«Torniamo al villaggio Navajo in cui siamo cresciuti» rispose Chase.
«Villaggio Navajo?» chiese Sabrina, titubante. «Mmmh, noi abbiamo avuto delle brutte esperienze coi pellerossa, ragazzi».
«Con noi siete al riparo da spiacevoli sorprese» disse Reese. «Il villaggio di Freccia Rossa è casa nostra».
«Un momento. Ora che ci penso, non avete detto prima di non essere pratici della vita all’aria aperta?» chiese Sabrina. «Com’è possibile, se siete cresciuti tra gli indiani?».
«Perché sono molti anni che viviamo all’est, a Philadelphia» rispose Chase. «Una delle più grandi città degli Stati Uniti».
«Già» confermò Logan. «Avevamo otto anni quando abbiamo lasciato il villaggio; ora ne sono passati nove da quando ce ne siamo andati. Non ricordiamo quasi più nulla della vita selvaggia».
-Otto più nove anni- pensò Sabrina. -Hanno poco più della nostra età-. Poi chiese: «Quindi state tornando nelle terre della vostra infanzia; pensate di stabilirvi qui?».
«No, stiamo tornando perché tutti e tre siamo in procinto di sposarci, e prima di compiere il grande passo vogliamo rivedere i nostri nonni indiani e presentare loro le nostre future mogli» rispose Reese.
«Sposarvi!?» Sabrina era sbalordita. «Così giovani?».
I tre ragazzi si guardarono incuriositi. «Giovani?» disse Logan. «Guarda che abbiamo già diciassette anni; è l’età giusta per sposarsi. Anzi, molti nostri coetanei sono già sposati da uno o due anni».
«Oh…. oh, certo» farfugliò Sabrina; dimenticava sempre in che epoca si trovava.
Cambiò discorso. «Ma allora dove sono le vostre future mogli?».
«Ci raggiungeranno entro un mese o due; le accompagneranno i nostri genitori».
«Avete detto che rivedrete i vostri nonni indiani?» chiese ancora Sabrina. «Dunque siete mezzosangue».
«Esatto» confermò Chase. «I nostri padri sono tre grandi amici. Una volta erano cacciatori che vagavano per tutta la frontiera. Diciassette anni fa circa capitarono nel villaggio Navajo di Freccia Rossa, nel quale si fermarono per l’inverno. Qui conobbero le nostre madri, e si sposarono; così nascemmo noi. Le nostre madri sono Navajo, e anche i nostri nonni. Quando crescemmo abbastanza le nostre famiglie si spostarono all’Est perché la vita lì è più semplice e meno rischiosa. Il padre di Logan divenne un uomo d’affari e mio padre e quello di Michael comprarono un modesto appezzamento di terra sul quale costruirono una piccola fattoria che ancora oggi gestiscono insieme. Comunque restarono amici, pur prendendo strade diverse».
«E anche voi siete rimasti amici» osservò Sabrina.
«Certo» risposero i tre in coro. Poi Logan aggiunse: «Anche se io sono più ricco di loro».
«Logan!» esclamò Michael Reese. «Mi dai ai nervi quando parli così».
«Perché sei invidioso, Nuvolaccia».
«Invidioso? Di te!?».
«Ovvio. Perché io ho molti più soldi!».
«Ma fammi il piacere!».
«Dovresti ammettere la tua invidia».
«Oh, io ci rinuncio!».
«Quanto è lontano il villaggio?» domandò Sabrina interrompendo la diatriba.
«Due o tre giorni di cavallo, seguendo la pista senza deviazioni» rispose Chase. «Ma dal momento che siamo tutti in fuga dovremo fare la massima attenzione; dovremo accamparci sempre ad una certa distanza dal sentiero principale, dovremo procedere con cautela per prevenire brutti incontri; questo ci porterà via un bel po’ di tempo».
«Voi perché siete in fuga?» chiese Sabrina.
«A causa della mia bella pelle bruna» rispose Michael Reese sorridendo.
«Che vuoi dire?» gli domandò Sabrina.
«Ehi, ragazza. Ti sei accorta che sono un giovanotto molto abbronzato?» le fece notare Michael.
«Beh, si».
«Ecco, a molti bianchi non fa piacere vedere un negretto che non sgobba per un padrone pallido. Così a Tucson alcuni mi hanno aggredito ingiustamente».
«Mh, accidenti a loro» disse Chase. «Eravamo a Tucson da quattro giorni. Era una tappa per fare rifornimenti e riposarci. All’inizio è andato tutto bene, perché i paesani credevano che Michael fosse una sorta di servitore per me e Logan. Poi (se non sbaglio era il giorno dopo la partenza di Jenning e soci alla vostra ricerca), quando hanno capito che era nostro amico lo hanno aggredito».
«Oh, non ci credo» disse Sabrina sconvolta. «Razza di criminali!».
«Ehi, ma in che mondo vivi?» le disse Logan. «Questa discriminazione è normale, soprattutto qui al sud».
«No! E’ un comportamento indegno» protestò Sabrina.
I tre si guardarono un istante l’un l’altro, poi scoppiarono a ridere.
Michael abbracciò sia Logan che Chase e disse: «Mi fa piacere incontrare una ragazza bianca che difende i diritti della mia gente, ma io ho i miei due amici, qui, che si sacrificherebbero mille volte per me, e io per loro».
«Puoi dirlo forte, amico» disse Chase.
Logan lo guardò sospirando, e aggiunse: «Si, anche se sei un rompiscatole».
Michael lo strinse ancora di più, e disse, rivolto a Sabrina: «E dovevi vedere questo scemotto qui, come si è arrabbiato quando mi hanno preso di mira».
«Ehi, non chiamarmi scemotto!» esclamò Logan.
Per tutta risposta, Reese lo canzonò di più: «Scemotto! Scemotto!».
«Ecco che ricominciano» borbottò Chase.
«Io credevo foste di Tucson, o che perlomeno vi ci foste fermati molto a lungo, giudicando dai dettagli sulla storia che mi avete raccontato» disse Sabrina. «Invece in soli quattro giorni siete venuti a conoscenza di tutti i risvolti della vicenda di Jenning, Duke, Young….».
«Tucson non è una città poi così grande» disse Chase. «Le voci corrono, e voi siete il principale argomento di conversazione di tutti i paesani. Vi chiamano gli Stranieri. E’ il nome che hanno dato alla vostra banda».
«Oh, è un onore….» commentò Sabrina; poi concluse: «Dunque siete in fuga perché vi siete difesi da dei razzisti».
«Esatto» confermò Chase. «Ci hanno sottovalutati perché siamo molto giovani. Mentre cercavano di catturare Michael, io e Logan li abbiamo aggrediti con dei bastoni».
«Già, abbiamo picchiato come furie» disse Logan. «Abbiamo pistole e fucili, ma finora li abbiamo usati solo per cacciare; e poi non volevamo che ci scappasse il morto».
«Problema che i nostri avversari non si sono posti» disse Michael. «Infatti mentre scappavamo sui nostri cavalli gli amici di quelli che avevamo pestato ci hanno sparato addosso».
«E poi ci hanno inseguiti» disse Chase. «Ma per fortuna siamo riusciti a seminarli. Però abbiamo dovuto lasciare a Tucson i rifornimenti e i nostri effetti personali, che sono rimasti all’albergo, perché siamo scappati dalla città in fretta e furia».
«Eh, si» sospirò Michael. «Anche se non c’era niente di indispensabile, dopotutto. Infatti, per paura che in albergo potessero essere rubate, ci siamo sempre portati dietro le cose importanti e di valore, come le armi e i soldi».
«Al momento della fuga, nelle bisacce avevamo soltanto qualche scatola di fagioli, carne secca e una borraccia d’acqua ciascuno» disse Chase. «Anche per questo abbiamo deciso di unirci a voi, perché la nostra situazione rischiava di diventare critica».
Sabrina sorrise, e disse: «Avete fatto bene, ragazzi. E vi ringrazio per la vostra offerta, credo che accetteremo di venire con voi al villaggio dei vostri nonni».
«Benissimo» disse Reese. «Sarete i benvenuti».
«Devo solo parlarne ai miei amici. Non posso decidere da sola».
«Conti di dirglielo stasera?» chiese Chase.
«Non è il caso» rispose Sabrina, «è già molto tardi. Dormiamoci sopra, e domattina racconterò loro tutto».
«Va bene» disse Logan alzandosi. «Questa è una bella idea, gente. Chi farà il primo turno di guardia?».
«Che ne dite se lo facciamo noi tre?» propose Reese. «Dopotutto siamo in debito verso Sabrina e i suoi amici».
«Sono d’accordo» disse Chase. «E’ il minimo che possiamo fare».
«Bravi, fatelo voi. Io ho tanto sonno» disse Logan. I suoi amici si alzarono e lo presero per le braccia, dicendogli all’unisono: «Come sei spiritoso, Bocca. Ci divertiremo a fare la guardia tutti insieme».
«Ehi!» esclamò Logan. «Non potete obbligarmi, io sono ricco!».
«Si, certo» disse Reese. Poi si rivolse a Sabrina: «Voi dormite pure tranquilli. Spiega ai tuoi amici che tra quattro ore sveglieremo due di voi per darci il cambio».
«D’accordo» disse Sabrina. «Chiederò loro chi vuole fare la guardia e poi vi dirò chi avvisare».
«Perfetto» concluse Chase.
Sabrina ebbe un ripensamento e li richiamò. «Posso chiedervi solo un’altra cosa, ragazzi?».
«Certo» rispose Chase voltandosi.
«Perché vi chiamate con quegli strani soprannomi? Nuvola, Bocca….».
I tre si lanciarono un’occhiata, poi Reese la guardò sorridente, e le disse: «Lo capirai».
«Già, lo capirai» confermarono Chase e Logan, che al contrario del loro amico sembravano piuttosto infastiditi dall’argomento.
Sabrina decise di lasciar perdere; si apprestò ad avvertire i suoi amici che c’era bisogno di fare turni di guardia. Non li avevano mai fatti: era stato un errore. Per fortuna non era mai accaduto nulla.
 
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La mattina dopo Sabrina raccontò a Johnny e gli altri tutto ciò che aveva saputo da Chase, Logan e Michael.
“Ma quanto dovremo restare nel villaggio di questi indiani?” domandò Carlo quando Sabrina finì.
“Non lo so” rispose lei. “Finché le acque non si saranno calmate”.
“Visto che ci considerano pericolosissimi criminali, ce ne vorrà di tempo prima che si dimentichino di noi, non credete?” fece notare Johnny.
“Già” disse Manuela. “Forse dovremmo trovare un sistema per passare inosservati”.
“Cioè?” le chiese suo fratello.
“Un travestimento” rispose lei. “Potremmo camuffarci da indiani, o da qualcos’altro. In questo modo raggiungeremmo la Mesa de Arena senza essere attaccati”.
“Non ci avevo pensato” disse Sabrina. “E’ proprio una bella idea”.
“Davvero” concordò Simona. “Brava sorellina”.
“Beh, ma dove troviamo quello che serve per travestirci?” domandò Renato.
“In questo momento non possiamo fare niente” disse Sabrina. “Ma l’idea è da tenere in considerazione per il futuro”.
“Se andiamo tra gli indiani, ci procureremo abiti come i loro prima o poi” disse Michael. “Potremo travestirci con quelli”.
“Io non sono affatto contenta di questa storia, in ogni caso. Non dimentico la brutta esperienza avuta con Piccolo Zufolo” ricordò Tinetta.
“Piccolo Bufalo, Tinetta” la corresse Manuela.
“Si, quello che è” continuò Tinetta. “Inoltre, credete che saremo capaci di vivere come i pellerossa?”.
“Abbiamo imparato a vivere all’aperto, a cavalcare, ad usare le armi; perché non dovremmo cavarcela anche tra gli indiani?” disse Johnny.
“Piuttosto, io credo che dovremmo preoccuparci della loro smania di sposarsi” fece notare Michael.
“E’ vero” convenne Simona. “Speriamo che nessuno di loro si innamori di una di noi, altrimenti dovremo filarcela di nuovo”.
“Diavolo, questo è davvero un bel grattacapo” riconobbe Sabrina. “Non l’avevo considerato”.
“Che dovremmo fare?” chiese Johnny.
Nessuno aveva una risposta; il problema sollevato da Michael era davvero spinoso.
Finché Carlo non propose: “Forse dovremmo raccontar loro che siamo tutti già sposati tra noi”.
Gli altri lo guardarono sorpresi. Valutarono le sue parole; poi si osservarono tra di loro, e Sabrina disse: “Ragazzi, credo sia l’unica soluzione”.
Tinetta non aspettò un istante per scaraventarsi tra le braccia di Johnny. “Tesoruccio!” esclamò. “Io e te saremo una delle coppie sposate! Diremo che ci siamo amati fin dalle elementari…. no, fin dall’asilo…. diremo che i nostri genitori combattevano una guerra senza esclusione di colpi nelle strade di Tokyo e che osteggiavano la nostra unione, ma noi siamo fuggiti su un aereo recuperato dagli abissi che tu hai rimesso in sesto, e poi abbiamo dovuto lasciare nella nostra patria i quattro gemellini che abbiamo avuto e….”.
“Tinetta, se sposerai Johnny sarai in pericolo” disse Renato. “Gli indiani non ti lasceranno in pace: non rispetteranno mai quel fallito”.
“Piantala!” ribatté Tinetta.
“Non ha mica torto” disse Carlo.
“Ma che volete saperne voi del nostro amore?” asserì Tinetta.
“Beh, del vostro amore non so niente, d’accordo” disse ancora Carlo. “Ma c’è una cosa che mi sembra ovvia”.
“Cioè?” gli chiese Simona.
“Se Johnny e Tinetta fanno coppia, chi sarà il marito di Sabrina?” chiese Carlo.
“Beh, uno di voi” rispose Tinetta.
“E chi, Renato?” continuò Carlo. “Si vede lontano un chilometro che è più piccolo di lei, non sarebbe credibile. Io sono troppo basso. Rimarrebbe Michael, ma….”.
“Io sono già accoppiato con la mia Manuela” disse Michael.
“Ehi, io potrei non voler fare tua moglie” protestò lei.
“E allora con chi vuoi far coppia?” le domandò Michael. “Escluso tuo fratello, restano solo Carlo e Renato”. Manuela ci rifletté un momento, poi sospirò, arrendendosi alla situazione.
“E in ogni caso, io non ho nessuna intenzione di far coppia con Michael, neanche per finta” disse Sabrina.
“Ehi ehi, non facciamo scherzi!” esclamò Tinetta. “Non vorrete distruggere il mio sogno di un matrimonio felice con Johnny, eh?”.
“Se ci pensi un po’, Tinetta, vedrai che è l’unica soluzione” le disse Sabrina.
“Oh, no. Ti ci metti anche tu?” si lamentò Tinetta.
“I soli mariti credibili per me sono Johnny e Michael” le fece notare Sabrina; anche se le dispiaceva per la sua amica, desiderava essere lei a far coppia con Johnny.
Anche Johnny desiderava ardentemente la stessa cosa, così intervenne: “Tinetta, mi spiace moltissimo non poter essere il tuo amato maritino”.
“Oh, Johnny….” sospirò lei, avvilita.
“Dobbiamo affrontare la realtà” continuò Johnny. “L’unico adatto a Sabrina sono io”.
Tinetta s’imbronciò, dicendo: “Uffa, non mi piace sentirti dire una cosa del genere”.
“Beh, ma intendo…. nella finzione, eh….” precisò lui, imbarazzato.
“Già” confermò Sabrina. “Nella finzione, ecco”. I due si guardarono di sottecchi, e arrossirono.
“Va bene” si arrese Tinetta. Afferrò le spalle di Johnny e lo spinse verso la sua amica.
“Mi raccomando, Sabrina, te lo affido” le disse; poi si rivolse a Johnny. “E tu, tesoruccio, non essere geloso. Il mio cuore sarà sempre accanto a te” poi si voltò e andò da Renato.
-Tinetta- pensò quest’ultimo. -Vedrai, ti farò dimenticare quel deficiente di Johnny-.
“Dirò a Chase e agli altri cosa abbiamo deciso di fare” disse Sabrina andando verso i tre nuovi acquisti del gruppo.
“Bene, noi prepariamoci a partire” disse Johnny baldanzoso, iniziando a sellare il suo cavallo. “Dobbiamo raggiungere il villaggio il prima possibile”. Poi pensò: -Ed iniziare la nostra piccola recita al più presto…. uh uh, speriamo che gli indiani abbiano delle belle tende matrimoniali…. ci apparteremo nel nostro piccolo rifugio d’amore, e poi…. e poi…. dopotutto siamo sposati, no? Sabrina miaaaa….-.
“Johnny, ma che diavolo fai!?” gli chiese Michael.
“Eh?” fece lui tornando alla realtà; osservò i suoi amici, che lo fissavano allibiti.
-Beh?- pensò. -Che hanno tutti da guardare?- poi voltò la testa e vide la faccia del cavallo appiccicata alla sua, e le sue labbra che lo baciavano sul naso. Si staccò fulmineo iniziando a sputazzare e pulirsi la bocca.
-Maledizione- pensò. -Nel mio fantasticare ho baciato il cavallo. Che schifo-.
Poi guardò di nuovo i suoi amici, che continuavano a fissarlo con occhi sbarrati.
“Eh eh….” ridacchiò, cercando di giustificarsi, “stavo solo controllando se aveva la febbre”.
“Ehm…. Johnny….” gli disse Manuela.
“Che c’è? Su, non fatene un dramma, io amo gli animali, lo sapete”.
“Ehm…. Johnny….” ripeterono i suoi amici, stavolta in coro.
“Andiamo, ora basta. Non è successo niente….”.
“No, ANCORA no….” disse Carlo.
“Che significa ancora no?” chiese Johnny.
“Johnny, voltati” gli consigliò Simona.
“Perché dovrei voltar….” quando si girò, vide che il cavallo da lui baciato lo osservava con furore.
“Eh eh, buono caruccio” disse, cercando di blandirlo. Ma il cavallo non sembrava volersi calmare.
“Su, per un bacetto….” continuò. L’animale, imbizzarrito, nitrì selvaggiamente e lo caricò; lui si girò e cominciò a scappare a gambe levate, col cavallo alle costole.
“Aiuuuutoooo! Come sei permalosoooo!!!!” gridò mentre fuggiva a destra e a manca, tallonato dal furibondo quadrupede.
I suoi amici osservarono la scena attoniti. Poi Michael sospirò, dicendo: “E’ sempre il solito”.
“Eh, si” concordarono gli altri.
“Va bene” Manuela cambiò discorso. “Direi di organizzarci per la partenza. La strada sarà dura e impervia”. Tutti furono d’accordo. Così, accompagnati dalle grida in lontananza di Johnny, iniziarono i preparativi per il lungo viaggio che li attendeva.
 
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A Cody la ferita al braccio faceva ancora un po’ male; lui, Bull e Jenning avevano estratto a sorte chi doveva beccarsi il proiettile che avrebbe reso più credibile la storia del loro scontro con gli assassini di Duke e Young: purtroppo aveva perso e si era dovuto immolare per la buona riuscita del piano. Ne era valsa la pena, visto come erano andate le cose alla fine. Adesso avrebbero solo dovuto eliminare i ragazzini stranieri e non sarebbero rimasti testimoni pericolosi.
Prima, però, avevano dovuto trovare un nascondiglio sicuro per i soldi; Jenning aveva avuto l’ottima idea di portarli alla baracca dei minatori, dal momento che ormai erano rimasti in pochi a ricordarsi dell’esistenza di quel posto, e inoltre la recente frana aveva reso ancor più difficile raggiungerlo; Jenning infatti era stato costretto a scalare il cumulo di rocce crollate dopo l’esplosione provocata dalla dinamite. Una volta sceso sull’altro lato, aveva esplorato la piccola valle, e aveva trovato il passaggio che avevano usato Johnny e i suoi amici per andarsene.
L’aveva imboccato ed era uscito sull’altro versante della catena montuosa; da qui era tornato indietro per ricongiungersi coi suoi compari. L’intera operazione aveva richiesto un po’ più di quattro giorni, perché era a piedi, avendo dovuto ovviamente lasciare il proprio cavallo con Bull e Cody: infatti non poteva certo portarselo dietro durante la scalata. I tre avevano poi raggiunto l’imbocco dell’altro passaggio, e avevano usato quello per raggiungere la baracca. Una volta arrivati nel rifugio, avevano nascosto il bottino, e stabilito poi di restare lì un paio di giorni a riposarsi, prima di mettersi in caccia del gruppo di Johnny.
Mentre le ore passavano oziose, discutevano su dove andarsene quando tutto si fosse calmato.
«Aahh, ragazzi» disse Cody. «Non vedo l’ora di cominciare a spendere i soldi del bottino. Credo che mi comprerò un locale in una grande città, e lascerò che siano gli altri a lavorare per me».
«A chi lo dici» concordò Jenning. «Anche io voglio passare il resto della vita a godermi la grana. Purtroppo, prima di darci alla pazza gioia dobbiamo far fuori i ragazzini».
«Sicuro che sia così importante?» gli chiese Bull.
«Certo» rispose lui. «Sono gli unici che sanno di essere innocenti. Se qualcuno li trova e parla con loro, si farà delle domande sulla nostra versione dei fatti circa le morti di Duke e Young».
«Ma probabilmente non crederebbe alle loro parole» osservò Bull.
«Forse» concesse Jenning. «Ma noi non rischieremo».
Bull e Cody accettavano sempre le condizioni di Jenning, anche se nessuno lo aveva mai eletto capo del gruppetto; dopotutto era apparso subito chiaro che era di gran lunga il più scaltro tra loro. Seguendo le sue direttive, infatti, adesso si trovavano schifosamente ricchi. Duke e Young non si fidavano delle banche, e tenevano tutti i loro soldi nella cassaforte dello studio di Duke; questo naturalmente Jenning lo sapeva. Lui infatti era il loro uomo di fiducia, anche se quasi nessuno ne era a conoscenza: era una spia segreta. Per questo la sera della loro morte avevano allontanato persino le guardie del corpo. Così Jenning, Bull e Cody avevano avuto la strada spianata per mettere in atto il piano criminoso che avevano elaborato; o meglio, il piano che Jenning aveva elaborato. Bull e Cody infatti erano soltanto suoi sgherri; non erano stupidi, questo no, ma Jenning era veramente un demonio. E, come aveva intuito Sabrina pur avendolo visto una sola volta, era tanto più pericoloso perché simulava stoltezza, facendosi passare per un sempliciotto.
«Quando li avremo uccisi, o avremo saputo con certezza che sono morti, magari per altre cause, torneremo a Tucson» disse Jenning. «Resteremo per un po’ in città, lavorando ancora nel ranch di Samson».
«Vuoi dire che non continuerai a fare lo sceriffo?» gli chiese Bull.
«Sei pazzo? Non posso permettermi di essere una figura così rilevante nella città. Devo cercare di passare inosservato. Quando torneremo dirò che mi sono proposto come sceriffo soltanto perché la città attraversava un momento di emergenza, ma che non ho intenzione di continuare ad esserlo, e presenterò le mie dimissioni».
«E terremo un profilo basso per qualche mese, forse anche un anno» programmò Bull. «Faremo il nostro duro ma onesto lavoro al ranch come bravi muli, ma un bel giorno diremo che andiamo a cercare fortuna altrove; torneremo a prendere i soldi e tanti saluti».
«Personalmente, credo che prima o poi qui ci tornerò» disse Cody. «Mi piace questa terra».
«Dovrai far passare un bel po’ di tempo, però» gli fece notare Bull. «Molti si farebbero troppe domande se partissi come un mandriano squattrinato e tornassi dopo pochi anni ricco come un proprietario terriero».
«Farò passare tutto il tempo che occorre» concluse Cody.
Dopo qualche minuto di silenzio, Bull chiese: «Steve, non credi che abbiamo aspettato troppo a metterci alle calcagna dei ragazzini? Non sarà facile trovare loro tracce».
«No, forse no» rispose Jenning. «Ma non credo neppure che sarà tanto difficile. Si tratta di un gruppetto che non passa inosservato, non pensi?».
«Beh, già» riconobbe Bull.
«E poi, ci penseremo quando ci metteremo in viaggio» disse Jenning. «Finora abbiamo avuto una fortuna incredibile, e il più è fatto. Alla fine, potremmo anche permetterci di lasciarli andare. Dopotutto non hanno idea che siamo stati noi a commettere tutti i crimini di cui sono accusati. L’unica cosa che potrebbero dire è che sono innocenti, ma probabilmente a questo punto non gli crederebbe nessuno. E se mai riuscissero a dimostrare che non erano a Tucson la notte della morte di Duke e Young, noi potremmo sempre dire che ci siamo sbagliati, che ci sono sembrati loro ma forse non lo erano».
«Questa soluzione però non ti va a genio, giusto?» gli chiese Cody.
«No» rispose Jenning. «Quello che faremo è trovarli e farli fuori, perché solo così potremo goderci tranquillamente i nostri soldi, senza la minima preoccupazione che qualcuno possa smascherarci».
«E così sia» concluse Bull.
Terminato il loro piccolo conciliabolo, Cody andò a stendersi su una delle brande; dopotutto era ancora convalescente.
Bull e Jenning decisero di fare una partita a carte; l’unico problema di trovarsi in quella situazione era che dovevano combattere la noia.
Nonostante quello che aveva detto, Steve Jenning si sentiva in una botte di ferro; era soltanto per un eccesso di prudenza che voleva eliminare il gruppo di Johnny; infatti non li considerava un vero problema, ma solo un piccolo fastidio. Se avesse saputo che Sabrina aveva già smascherato praticamente tutte le sue manovre, non si sarebbe sentito così rilassato.
 
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Capitolo 3
 
Al villaggio di Freccia Rossa
 
 
Sentì avvicinarsi la piccola Lilyth molto prima che la bambina spuntasse da dietro la formazione di rocce. Fu il rumore dei suoi piedini, unito agli schiamazzi di gioia che lanciava correndo, ad annunciare il suo arrivo. La ragazza, china sui campi di grano, interruppe il lavoro, preparandosi a ricevere la piccina.
[Bacio di Luna! Bacio di Luna!] esclamò Lilyth quando la vide, e le corse incontro; la ragazza la accolse sorridendo e la prese in braccio. [Giochiamo?] disse Lilyth; aveva circa quattro anni e non si rendeva conto che l’amica non poteva capire la sua lingua. La ragazza, però, la conosceva bene e intuiva facilmente cosa voleva.
“Sto lavorando, Lilyth. Non posso giocare con te ora.” le disse.
La bimba capì che la sua amica stava rifiutando la richiesta, ma insisté: [Gioca con Lilyth, gioca con Lilyth!].
“Su, piccola, non posso. Ma ti assicuro che più tardi giocheremo tantissimo”.
Una voce familiare la fece voltare: “Sapevo che era con te, Bacio di Luna”. Prima ancora di vederla, sapeva chi aveva parlato; quando si volse vide infatti la sua amica bionda che le sorrideva.
La bionda si avvicinò alle due e si rivolse a Lilyth: “Andiamo, piccola. Non ti devi allontanare dal gruppo dei bambini”.
Lilyth non sembrò intenzionata ad obbedire; si girò verso Bacio di Luna, ma quest’ultima osservava la nuova arrivata con aria perplessa.
“Che c’è?” chiese la sua amica, incuriosita da quell’occhiata.
“Come mi hai chiamato?” domandò Bacio di Luna.
“Che vuoi dire? Col tuo nome, Bacio di Lu…. oh, cavolo!” la bionda s’interruppe, portandosi la mano alla bocca; poi proseguì: “Scusami, Sabrina!”.
“No, no, non è niente di grave” rispose Sabrina. “Solo che è strano sentirsi chiamare così da te, Tinetta”.
“Lo capisco” disse Tinetta. “E’ strano anche per me, Sabrina. Quel che mi sconvolge è che io HO PENSATO a te come Bacio di Luna: mi è venuto naturale chiamarti così”.
Sabrina sospirò, poi si chiese: “Ci stiamo abituando davvero a questa vita? A questi nomi?”.
“Così pare” mormorò Tinetta, assorta; poi prese in braccio Lilyth (che protestò un po’), e sorridendo, disse: “Beh, se non altro sono dei bei nomi, no?”.
Sabrina le sorrise a sua volta. “Si, sono dei bei nomi, Capelli del Sole” calcando l’accento di proposito sul nome indiano di Tinetta.
“Non sarai invidiosa, Bacio di Luna” ribatté Tinetta facendo la stessa cosa.
“Ah ah, figurati….” risero insieme.
Lilyth non si unì alla risata: osservò le due ragazze incuriosita.
“La piccola Lilyth si è proprio affezionata a te” commentò Tinetta osservando la bimba.
“Già.” concordò Sabrina. “Strano”.
“Perché strano?” domandò Tinetta.
“Non sono mai stata popolare tra i bambini, perché non sono una gran giocherellona”.
“Non è così, Sabrina.” ribatté Tinetta. “Pensa al cugino di Johnny, per dirne uno”.
“Vuoi dire il piccolo Paolo? Oh, ma lui non è proprio il classico bimbo: è un gran volpone per l’età che ha”.
“Beh, questo è vero. Comunque, Lilyth è molto simile a te; forse è per questo che ti si è affezionata”.
“Davvero?” chiese Sabrina. “Simile a me?”.
“Già.” confermò Tinetta. “Mi ricorda te quando eri piccola: silenziosa, un po’ asociale, ma più matura degli atri bambini e molto, molto buona”.
“Beh, a me pare che abbia fatto un po’ di capricci e del gran chiasso” osservò Sabrina solleticando il nasino di Lilyth con l’indice; la bimba rise cercando di afferrare il dito della ragazza.
“Solo quando è con te.” le disse Tinetta. “Di solito non fa così”.
“Oh, capisco”.
Lilyth era la figlia di Freccia Rossa, il capotribù. Adorava Sabrina, nonostante non capisse cosa diceva, perché la bimba parlava solo la lingua Navajo.
“Bene, io torno dalle altre. Ti lascio al tuo lavoro, Sabrina” disse Tinetta.
Sabrina ricambiò il saluto. “Ci vediamo più tardi”.
Mentre Tinetta si allontanava con Lilyth in braccio, quest’ultima guardò Sabrina con aria perplessa, perché ovviamente non capiva per quale motivo non potesse restare con lei.
La ragazza le fece un leggero saluto con la mano, accennando un sorriso; Lilyth sorrise a sua volta, felice, e fu con questa espressione che sparì dalla vista di Sabrina.
 
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La vita tra i pellerossa si era rivelata subito molto diversa da ciò che Johnny e gli altri si aspettavano.
La prima cosa che avevano notato, una volta giunti in vista del villaggio Navajo, era stata la mancanza delle tende presenti in tanti film western.
Sotto di loro, che scendevano da una collina, si stendeva una piccola valle, costellata di capanne di base più o meno circolare, che avevano forma conica o a cupola.
“Ehi, ma dove sono le tende degli indiani?” aveva chiesto Carlo, guardando lo scenario davanti a sé.
Sabrina aveva riportato la domanda a Chase e agli altri; era stato Michael Reese a rispondere: «Voi vi riferite ai tepee, le abitazioni dei nomadi. I Navajo vivono negli hogan».
«Hogan?» domandò Sabrina.
«Già» disse Chase, e indicò una delle capanne. «Quelle casupole sono gli hogan. Sono costruite con grossi pali di legno ricoperti da fango e pietre».
«Si vede che non siete americani» disse Logan rivolto a Sabrina. Poi aggiunse: «A proposito, chissà se i nostri hogan sono ancora in piedi; spero che non dovremo costruircene di nuovi».
Chase e Michael si guardarono sconsolati, poi Chase disse: «Sai benissimo che sarà così, Logan. Quelli che abitavamo da bambini sono senz’altro occupati da altri, ormai».
«Li pagherò per andarsene, allora» affermò Logan.
«Certo, come no» dissero in coro Chase e Michael, ridendo. « »
«Lo farò, vedrete» insisté Logan.
«I Navajo non sanno che farsene dei soldi, scemo» gli disse Michael. «Ti conviene prepararti a sgobbare, amico, se vuoi avere un tetto sopra la testa».
Sabrina chiese delucidazioni: «Volete dire che ognuno si costruisce da solo la propria casa?».
«Esatto» confermò Chase. «Naturalmente alcuni dei costruttori più esperti aiutano i novellini, ma diciamo che la maggior parte del lavoro spetta a chi andrà ad abitarci>».
«Che scocciatura!» esclamò Logan. «Speravo che questa usanza fosse scomparsa».
«No di certo» gli disse Michael; poi si rivolse sia a Chase che Logan con tono canzonatorio, dicendo: «Non è scomparsa, proprio come non devono essere affatto scomparsi i vostri nomi, ragazzi».
I suoi amici lo rimbeccarono in coro: «Sta zitto, Nuvolaccia!». Ma Michael la prese ridendo; quel soprannome non lo disturbava affatto.
«Dunque avete dei nomi indiani?» domandò Sabrina.
«Si, purtroppo» risposero insieme Chase e Logan.
Michael ricominciò a ridere, e incitò i suoi amici: «Su, ragazzi, dite a Sabrina come vi chiamano i pellerossa».
Gli altri due grugnirono, in risposta.
«Cos’hanno di così terribile, questi nomi?» chiese la ragazza.
«Te lo spiego io» disse Michael. «Gli indiani, spesso, usano come nomi le caratteristiche delle persone. Così Chase è Cespuglio che Cammina» e dicendo questo indicò il suo amico.
Sabrina cercò di reprimere un risolino, senza riuscirci. Aveva capito subito il perché di quell’appellativo piuttosto ridicolo: Chase aveva infatti una capigliatura ricciola e foltissima, per di più completamente arruffata. La sua testa sembrava davvero un fitto cespuglio.
«Logan, invece» continuò Michael, «è Vento nella Bocca».
«Oh» fece la ragazza perplessa; in questo caso non aveva colto il riferimento.
Michael le spiegò: «E’ perché Logan non sta mai zitto: perciò ha la bocca sempre aperta».
Sabrina pensò che quei nomi erano davvero azzeccati; poi chiese: «E invece tu, Reese?».
«Io sono Nuvola Nera, grazie al colore della mia pelle» rispose il ragazzo, gongolante.
«Molto bello» commentò Sabrina.
«Già, anche a me piace» disse lui, poi indicò i suoi amici. «Perciò questi due mi chiamano Nuvolaccia: cercano di storpiare il mio nome Navajo, perché sono invidiosi, dal momento che i loro sono così buffi».
Chase e Logan non avevano detto una parola durante quella conversazione; evidentemente erano davvero infastiditi dall’argomento.
Sabrina si trovò a riflettere: -Forse allora tutti noi riceveremo dei nuovi nomi dagli indiani-.
Pensando questo, si rivolse ai suoi amici. Lei era alla testa del gruppo insieme ai tre nuovi compagni di viaggio, e rallentò l’andatura del suo cavallo per farsi raggiungere da Johnny e gli altri.
“Ragazzi, fermatevi” disse quando le furono vicino.
I suoi amici si raggrupparono attorno a lei, e arrestarono i cavalli.
“Cosa c’è, Sabrina?” le chiese Tinetta.
Lei riferì le ultime informazioni.
“Non ci mancava che questa!” esclamò Michael. “Dobbiamo fare anche i muratori, adesso?”.
Simona era più interessata al fatto che sarebbero stati chiamati diversamente. “Chissà che nome mi daranno: forse Splendida Fanciulla, o Meravigliosa Fanciulla, o Favolosa Fanciulla, o….”.
Purtroppo per lei, queste rosee aspettative non erano destinate ad avverarsi.
 
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Il capo Freccia Rossa accolse con gioia Chase, Michael e Logan, che una volta entrati nel villaggio divennero automaticamente Cespuglio che Cammina, Nuvola Nera e Vento nella Bocca. Tutti si rivolgevano loro in lingua Navajo; i tre non trovarono difficoltà a capirla anche se mancavano da molti anni e a Philadelphia parlavano soprattutto inglese, perché le loro madri non avevano mai smesso di usarla.
I pellerossa ricevettero con calore anche Johnny e i suoi compagni, che furono presentati come grandi amici da Chase, Michael e Logan.
Questa volta anche Sabrina era del tutto spaesata, perché non capiva affatto la lingua dei Navajo; nel villaggio tutto il gruppo avrebbe dovuto affidarsi a Chase e gli altri in qualità di interpreti.
Johnny e i suoi amici, scesi dai cavalli, seguirono timorosi Chase, Michael e Logan che venivano condotti da Freccia Rossa in una delle capanne, che sembrava essere un po’ più grande delle altre e che, inoltre, era adornata da pelli, ornamenti in legno e pietre scolpite.
«Questo è l’hogan del capo Freccia Rossa» disse Chase a Sabrina prima che entrassero, dando conferma alla ragazza di ciò che aveva già intuito.
«Già, ci verrà offerto del cibo e fumeremo il calumet della pace» aggiunse Logan.
«Dovremo fumare?!» domandò preoccupata Sabrina.
«Si, perché? Qual è il problema?» chiese Chase.
«Ehm…. già» disse Sabrina in difficoltà; poi chiese: «E se gli ospiti non sapessero fumare, e rifiutassero l’offerta?». La ragazza era tranquilla per sé e per Tinetta, che fumavano da quando erano piccole (anche se ormai avevano smesso), ma gli altri non ne erano in grado.
Logan non comprese quale fosse il dilemma di Sabrina, e credendo di rassicurarla le disse: «Non stare in ansia: soltanto gli uomini partecipano alla cerimonia del calumet, le donne possono solo assistere. Nessuno si aspetta che delle ragazze sappiano fumare, sta tranquilla».
Il cuore della ragazza ebbe un sussulto; erano in quel villaggio da quindici minuti e già rischiavano di offendere a morte i padroni di casa.
Sabrina entrò nell’hogan di Freccia Rossa con uno stato d’animo molto lontano dalla tranquillità.
 
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Un’ora dopo l’ingresso dei ragazzi nell’hogan, l’aria all’esterno era serena, il sole si apprestava a tramontare, gli scriccioli lanciavano il loro gioioso canto squillante mentre i Navajo proseguivano pacifici nelle proprie attività passando davanti alla capanna di Freccia Rossa; poi, dall’interno giunse un suono attutito, che in un secondo o poco meno si trasformò in un boato, quasi un’esplosione. Chi si trovava in prossimità dell’hogan di Freccia Rossa ebbe appena il tempo di scansarsi da esso prima che gli occupanti ne uscissero urlando e correndo come pazzi. Il gruppo di Johnny quasi al completo schizzò fuori in un disordinato parapiglia; subito dietro il capo Freccia Rossa insieme ad alcuni altri giovani guerrieri della tribù inseguivano furenti i ragazzi brandendo coltelli, scuri, archi con frecce incoccate; per ultimi uscirono Chase, Michael e Logan insieme a Sabrina, tutti con volti costernati eccetto Logan, che da irresponsabile quale era, si limitava a godersi il divertimento provocato dalla confusione.
«Bisogna fermarli!» esclamò Sabrina.
«E’ quello che cerchiamo di fare!» disse Chase; lui, Michael e Logan gridavano in lingua Navajo all’indirizzo di Freccia Rossa e degli altri indiani infuriati, tentando di calmarli.
Il gruppo di Johnny, in fuga disordinata, non rimase in piedi a lungo: pochi metri di corsa caotica bastarono per far cadere i ragazzi uno sull’altro, in un gran trambusto di urla.
“SIMONA!” esclamò Johnny. “Guarda cosa hai combinato!”.
“Ma perché date sempre la colpa a me!?” si lamentò la ragazza.
“Alzatevi dalla mia schiena! Mi state schiacciando!” gridò Renato.
Freccia Rossa e compari furono sopra i fuggiaschi in un batter d’occhio; lanciando grida di guerra, alzarono le loro armi; ma Sabrina e gli altri si frapposero fulminei tra i due gruppi.
«Fermi, per favore! Risparmiate i miei amici!» disse Sabrina in americano: gli indiani lo capivano, ma non benissimo. Chase e soci invece si rivolsero ai pellerossa nella loro lingua.
Sabrina ascoltava preoccupata lo scambio di battute tra i due schieramenti. Freccia Rossa era furente, ma non era un capo crudele, lo si capiva subito; probabilmente in altre circostanze avrebbe dato ascolto a parole di distensione, ma in questo caso era davvero furibondo.
E ne aveva pienamente ragione, considerò Sabrina; lei aveva temuto che i suoi amici potessero recare offesa ai Navajo poiché non ne conoscevano riti e cerimonie, ma quello che i suoi compari erano riusciti a combinare aveva dell’incredibile: inconsapevoli e incoscienti, erano passati come rulli compressori degli anni 80 sulle usanze di un popolo antico, orgoglioso e (se provocato) bellicoso.
 
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Durante il pasto era andato tutto bene. Si erano mangiate zuppe, formaggi e carne secca: non era certo un banchetto lussuoso, ma Johnny e gli altri avevano apprezzato molto, e questo era stato un piacere per i pellerossa.
I guai erano iniziati subito dopo, con la cerimonia del calumet della pace. A causa del fatto che fino a quel momento era andato tutto liscio, Sabrina aveva abbassato la guardia: grave, gravissimo errore. Era stato proprio allora che la fanciullesca imprevedibilità dei suoi amici, unita alla loro naturale propensione per il cataclisma, si era scatenata.
Freccia Rossa, con gesti solenni, estrasse da un involucro di pelle il calumet, una pipa di legno molto lunga, ornata di penne di uccelli e finemente intarsiata.
Attorno a lui si erano riuniti i maschi del gruppo, mentre le ragazze sedevano ai margini della capanna. Sabrina non aveva avuto l’occasione di ammonire con la giusta gravità i suoi compagni sulla necessità di non oltraggiare i pellerossa durante il rito. Era però riuscita a spiegare sommariamente la situazione a Johnny, col quale si era accordata sul fatto che lui e gli altri ragazzi avrebbero semplicemente aspirato il fumo, senza respirarlo, così da scongiurare imbarazzanti colpi di tosse. Così s’apprestò ad assistere alla cerimonia sentendosi piuttosto calma.
Freccia Rossa accese il calumet della pace, e aspirò una prima volta; con aria soddisfatta, respirò e poi soffiò fuori il fumo. Mentre si accingeva ad aspirare una seconda volta, un movimento lo distrasse; si voltò e vide Simona che, alzatasi da terra, si avvicinava a lui decisa.
Sabrina, intenta ad osservare il rito, non si era accorta subito del gesto della sua amica, altrimenti sarebbe riuscita a fermarla. Ma ormai era tardi, Simona era già a pochi centimetri da Freccia Rossa: l’unica cosa che Sabrina poté fare fu sperare che la sorella di Johnny non combinasse guai.
La sua neonata speranza si disintegrò non appena Simona strappò il calumet dalle labbra di Freccia Rossa; quest’ultimo e tutti i presenti erano talmente sbalorditi che nessuno mosse un muscolo. Paralizzata ed inorridita, Sabrina aveva visto, come in un incubo, Simona agitare il calumet davanti al naso del capo indiano e dirgli: “No no no no, caro signore, non ci siamo proprio, lei non sa che il fumo fa male? Guardi, magari non le sembra giusto che io la disturbi mentre si rilassa con la sua pipa, ma lei è stato talmente gentile con noi che mi sento in dovere di avvertirla. Io sono una ragazza coscienziosa, sa?”.
Come se non bastasse, in quel momento accanto a Simona apparve Tinetta: anche lei si era alzata e si era avvicinata a Freccia Rossa. “Ma andiamo, Simona. Mi pare di ricordare che anche tuo nonno fuma la pipa, no?” disse.
“Che c’entra?” rispose Simona. “Mio nonno vive in montagna e fuma per riscaldarsi”.
“Su su” disse Tinetta prendendo il calumet dalle mani della sua amica.
Si rivolse poi al capo indiano. “Fatti pure una fumata, vecchio spippacchione” e così dicendo gli diede una pacca sulla spalla e gli infilò nuovamente la pipa in bocca, però al contrario. Freccia Rossa sputò il calumet, e tossì buttando fuori nuvole di fumo.
“Visto che fa male fumare?” disse Simona.
Michael (cercando di combinarne una giusta) afferrò un vaso pieno d’acqua e si alzò per offrirlo a Freccia Rossa, così che si rinfrescasse, ma inciampò e gli rovinò addosso, mandandolo a gambe all’aria e facendogli tra l’altro volare via il cimiero (ossia il tipico copricapo ricoperto di penne), segno distintivo dei capitribù. Carlo allora gli tirò una ciotola in testa, dicendo: “Ma che hai combinato? Vuoi offendere gli indiani?”.
“Cercavo solo di rendermi utile” si difese Michael. “Invece di lanciarmi roba addosso aiutami a tirarmi su”.
Carlo si alzò a sua volta per aiutare l’amico. Lo prese per un braccio e lo sollevò in piedi; poi insieme vollero aiutare Freccia Rossa, ancora a terra.
Lo afferrarono sotto le ascelle e lo issarono in piedi.
“Ehi, ha perso il cappello!” esclamò Renato, intendendo il copricapo di penne. Lo prese e cercò di metterlo sulla testa di Freccia Rossa, ma riuscendo solo ad andare per tentativi: prima glielo mise al collo, poi in faccia, poi sulle spalle. Intervennero allora Michael, Carlo, Tinetta e Simona.
“Smettila, Renato!” disse Tinetta. “Stai facendo confusione”. Così Freccia Rossa si ritrovò praticamente circondato dai cinque vocianti ragazzini che cercavano di rimettergli in testa il suo illustre copricapo, e che armeggiando tutti insieme rimbeccandosi l’un l’altro riuscirono ad infilargli le piume prima in un occhio, poi in un orecchio, poi nel naso, facendolo tra l’altro starnutire.
“Visto?” disse Tinetta. “Gli avete tolto il cappello e questo poverino ha preso freddo!”
e senza perdere tempo raccolse un telo da terra e glielo schiaffò sulla testa, dicendogli: “Su, ora riguardati, che non sei più tanto giovane”.
“Ben fatto, Tinetta!” disse Simona, completando l’opera mettendo il copricapo attorno al collo di Freccia Rossa, come una sciarpa.
Nessuno dei presenti (a parte gli inconsapevoli cinque scriteriati) aveva ancora mosso un dito:
erano tutti letteralmente paralizzati dallo sbigottimento. Simona, Tinetta e gli altri tre se ne resero conto quando conclusero la loro opera di devastazione. Dopo essersi fatti a vicenda i complimenti per aver aiutato il povero Freccia Rossa, si guardarono intorno.
Dopo qualche secondo, accortisi che tutti li fissavano a bocca aperta, con aria innocente chiesero: “Che cosa c’è?”.
In quel momento un apocalittico grido di guerra squarciò l’aria: Freccia Rossa balzò in piedi come una tigre inferocita, mandando praticamente saette dagli occhi; in men che non si dica, i guerrieri Navajo erano armati fino ai denti.
Johnny ebbe la prontezza di spirito di schizzare in piedi e gridare ai suoi amici: “TUTTI FUORI!”.
Nella confusione generale, i nostri eroi si erano catapultati all’esterno, inseguiti dai pellerossa. Gli ultimi a reagire furono Sabrina, Chase, Michael e Logan, perché impietriti dall’accaduto. Una volta ripresisi, però, si erano lanciati fuori anche loro.
 
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Così, adesso, i Navajo minacciavano di morte Johnny e gli altri, a terra, mentre il gruppo di Chase implorava pietà per gli oltraggiosi stranieri.
Sabrina fece appello a tutto il suo sangue freddo, e si parò davanti a Freccia Rossa, fissandolo. Gli indiani non volevano attaccarla (dopotutto lei non aveva fatto niente), e tentarono di spostarla. Ma lei non si mosse, continuò a guardare negli occhi il capo indiano e poi, lentamente, si inginocchiò davanti a lui chinando la testa. I pellerossa iniziarono ad acquietarsi, mentre osservavano perplessi i gesti della ragazza.
“Sabrina! Che intenzioni hai?” le chiese Johnny.
Lei non gli rispose, si rivolse invece a Chase: «Dì loro che mi sento responsabile dell’operato dei miei amici, e che desidero essere punita per prima, qualunque sia il castigo».
«Co….come?» balbettò Chase.
«Non permetterò a nessuno di toccare i miei compagni» chiarì Sabrina. «Istruirli su quale comportamento tenere era compito mio, e non l’ho fatto adeguatamente. Poiché sono la principale colpevole, voglio essere la prima a pagare le conseguenze dell’accaduto. Spiega loro questo».
«Ma…. ma….».
«Fallo!» intimò la ragazza a Chase; quest’ultimo sobbalzò di sorpresa. Per un attimo aveva avuto un assaggio dell’antica personalità di Sabrina: decisa, minacciosa e aggressiva. Non poté far altro che obbedirle.
Si rivolse dunque ai Navajo, e riportò le parole di Sabrina; i pellerossa ascoltarono attentamente. Alla fine, si osservarono dubbiosi; era evidente che a quel punto la decisione spettava a Freccia Rossa; quest’ultimo, dopo un conclusivo sguardo alla combriccola di incauti giapponesi, parlò a Chase, Michael e Logan.
[Cespuglio che Cammina, Nuvola Nera e Vento nella Bocca hanno portato tra noi dei giovani chiassosi e irrispettosi] disse Freccia Rossa. [Ma Bacio di Luna ha mostrato grande coraggio e onore; in rispetto a lei e in considerazione della giovanissima età dei nostri ospiti, li perdono, nonostante il loro inqualificabile comportamento].
Nessuno nel gruppo di Johnny, naturalmente, capì cosa dicesse, ma il suo tono sembrava calmo, e questo li rincuorò.
In effetti, quando il capo indiano terminò il suo breve discorso, Chase e i suoi amici apparvero sollevati. Freccia Rossa e i suoi Navajo si allontanarono, non più interessati alla vendetta.
Sabrina chiese spiegazioni agli interpreti; Logan rispose: «Sei stata coraggiosa, Sabrina, o forse dovrei dire Bacio di Luna. Gli indiani ammirano il coraggio».
«Già» confermò Michael. «Freccia Rossa ha detto di avervi perdonati in considerazione della vostra giovane età e del tuo comportamento onorevole, nonostante la vostra condotta sia stata inammissibile».
Sabrina tirò un sospiro di sollievo; poi chiese: «Che significa Bacio di Luna?».
«E’ il tuo nome Navajo» le rispose Chase.
«Che…. che cosa?» chiese lei, sbalordita. «Ce li hanno già dati?».
«No, solo a te, per adesso» le disse Logan.
Johnny, trepidante, si avvicinò a Sabrina. “Cos’è successo? Saremo puniti?” le domandò, mentre tutti gli altri trattenevano il fiato aspettando la risposta.
Sabrina si voltò verso di lui. “No” rispose. “Ci è andata bene”.
Grida di giubilo attraversarono la compagnia dei nostri eroi, felici per essersela cavata di nuovo.
Sabrina aggiunse: “E mi hanno già trovato un nome indiano”. Solo Johnny, che era vicino a lei, la sentì.
“Davvero?” le chiese.
“Proprio così” rispose lei. “Chiamami Bacio di Luna”.
Johnny la guardò a bocca aperta.
“Cos’hai?” gli chiese Sabrina.
“Oh, niente…. niente” mormorò lui. “E’ che lo trovo…. adatto, ecco”.
“Tu dici?” disse lei. “Non capisco con che criterio me lo abbiano dato”.
Johnny la invitò a riflettere. “Beh, che caratteristiche ha?”.
“Non so” disse lei, stringendosi nelle spalle. “E’ un bel nome, credo”.
Johnny la incoraggiò: “Soltanto? Pensaci bene”.
Lei ci rifletté per qualche secondo. “E’…. suggestivo” disse. “Romantico, poetico”.
Johnny le disse: “E’ bellissimo, in una parola”.
Sabrina, senza ancora afferrare cosa volesse intendere il suo amico, ammise: “Beh, si, è bellissimo”.
-Appunto- pensò Johnny, guardandola negli occhi. Lei allora capì.
“Johnny….” mormorò, ma non disse altro: i loro amici, ancora festosi, li chiamarono.
“Andiamo!” esclamò Michael. “Cosa avete da confabulare? Abbiamo appena evitato di essere infilzati come quaglie”.
“Ce la siamo vista davvero brutta” disse Carlo, “ma tutto è bene quel che finisce bene”.
Sabrina però interruppe la baraonda, esclamando: “Tinetta! Simona!”. Era decisa a rimproverare alle due incoscienti di essere state le cause scatenanti del pericolo appena scampato.
Le ragazze si girarono verso di lei, pronte a ricevere la ramanzina. Sabrina, però, dopo un momento, cambiò idea: scosse la testa guardando a terra, e mormorò: “No, ne sono successe di tutti i colori; sono troppo stanca anche per sgridarvi”.
Tinetta e Johnny si scambiarono una brevissima occhiata di intesa, poi affiancarono Sabrina e la trascinarono in mezzo agli altri; lei per alcuni momenti restò perplessa, mentre tutti i suoi amici la ringraziavano e si complimentavano per il suo coraggio, poi si concesse un leggero sorriso imbarazzato.
Anche Chase, Michael e Logan, dopo alcuni istanti, si unirono alla baldoria.
 
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Nonostante le premesse disastrose, Johnny e i suoi amici furono presto accettati all’interno della comunità indiana.
La vita, così come era stata alla fattoria McFly, si rivelò dura e faticosa, ma i ragazzi erano ormai irrobustiti dalle peripezie nel west. Inoltre (anche se non conoscevano questi dettagli) in Arizona il clima, benché caldissimo, era praticamente privo di umidità, e questo per loro era un grosso vantaggio. Abituati alle tremende estati giapponesi, spesso caratterizzate da un’afa insopportabile, l’aria asciutta dello stato americano era tollerabile.
I loro compiti furono divisi tra maschi e femmine.
I ragazzi furono assegnati alla cura degli animali: i Navajo allevavano pecore, capre e cavalli.
Tra le ragazze, Sabrina e Manuela lavoravano nei campi, mentre Tinetta e Simona, apparse subito più infantili delle altre due, facevano le baby sitter ai bambini della tribù.
Come Sabrina (che fu chiamata Bacio di Luna in virtù della sua bellezza, della sua pelle bianca e dei suoi capelli neri come la notte), alcuni di loro furono subito battezzati con nuovi nomi in lingua Navajo, che Chase e gli altri tradussero: Tinetta, l’unica ad avere già un nome indiano da utilizzare, si presentò come Capelli del Sole; Carlo fu chiamato Occhi di Vetro, a causa dei suoi occhiali; Renato, poiché era molto piccolo ma aveva un’aria torva, fu chiamato Cucciolo Ringhiante.
Passarono alcuni giorni prima che gli altri ragazzi ricevessero a loro volta dei nomi indiani, perché i Navajo attesero di conoscerli per poterli battezzare con termini che definissero le loro caratteristiche; Manuela, che colpì i pellerossa per la sua serietà, gentilezza, insomma per le sue doti di bravissima ragazza, si guadagnò il nome di Germoglio nella Sabbia; Michael, che fin da subito rivelò la sua natura maniacale, importunando tutte le femmine che gli capitavano a tiro, si meritò il poco lusinghiero nome di Faina del Deserto; ma quella che sconvolse maggiormente i pellerossa fu Simona, che divorava come una furia più o meno ogni tipo di cibo le venisse offerto. Quando gli indiani notarono questo suo aspetto, la chiamarono Locusta Infernale; a Simona questo nome non piaceva, e d’altronde era l’unica, tra le ragazze, a non esser stata chiamata in modo poetico: gli altri ragazzi lo considerarono però un appellativo azzeccatissimo.
Per Johnny la questione fu più complessa; fu infatti l’ultimo a ricevere un nome indiano. Non aveva particolari caratteristiche, né rilevanti abilità; inoltre gli indiani considerarono che sua moglie (cioè Sabrina) fosse molto più capace e in gamba di lui. Alla fine il poveretto fu chiamato Uomo Bambino, con suo infinito imbarazzo. Quando Chase tradusse dal Navajo il significato del nome, Johnny ne fu molto deluso; gli fu spiegato che i pellerossa lo consideravano troppo imbranato per l’età che aveva, tanto più se paragonato alla maturità di Sabrina, che sembrava più adatta a fargli da mamma che da moglie. Naturalmente i suoi amici Michael, Carlo e Renato non persero l’occasione di deriderlo.
I nostri eroi, tra le altre cose, dormivano tutti nello stesso hogan; questo perché, come avevano detto Chase e compari, ognuno doveva costruirsi da solo il proprio rifugio. Purtroppo però due validi impedimenti ostacolavano la realizzazione delle capanne da parte di Johnny e soci: la loro inesperienza di costruttori e il poco tempo lasciato dagli obblighi lavorativi al villaggio. D’altra parte, Johnny, Renato, Michael e Carlo non mancavano certo di impegno e buona volontà; infatti, praticamente in ogni momento libero disponibile si dedicavano alla costruzione dei loro hogan;
dopo una dura giornata di lavoro o durante le brevi pause, tutti e quattro si mettevano febbrilmente all’opera. I pellerossa li ammiravano per questa forza d’animo; Sabrina, Tinetta, Manuela e Simona invece erano un po’ inquiete di fronte a tanta solerzia; si chiedevano perché i ragazzi del gruppo avessero tanta fretta di terminare i loro rifugi; se avessero potuto entrare nelle teste dei quattro amici avrebbero avuto conferma che i loro timori erano fondati.
Mentre lavoravano, infatti, tutti fantasticavano sul momento in cui avrebbero finito le costruzioni e si sarebbero potuti trasferire nelle nuove abitazioni, ognuno insieme alla propria moglie, soli soletti.
-Dopotutto siamo sposati, no? Gli indiani si aspettano che viviamo insieme solo noi due. L’hogan collettivo è una soluzione temporanea. Appena avrò finito, mi trasferirò con la mia amata nel mio nido d’amore, e allora…. allora…. arf arf!-. Questo era il pensiero che attraversava la mente dei quattro ragazzi mentre lavoravano, più o meno identico per ognuno di loro.
Tra le ragazze, specialmente Simona e Manuela erano in ansia: con Michael e Carlo non potevano stare tranquille neppure in pieno giorno in mezzo alla folla, figurarsi cosa avrebbero tentato di fare SOLI con le ragazze, IN PIENA NOTTE e moralmente autorizzati dal fatto che si erano dichiarati mariti e mogli. Nonostante questo, anche Tinetta e Sabrina si preoccupavano, quando osservavano i volti assorti, terribilmente concentrati di Renato e Johnny al lavoro sulla costruzione delle capanne.
-Concentrati su che cosa?- pensavano, con un brivido lungo la schiena.
 
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Uno dei pochi hogan abbandonati ma ancora agibili del villaggio era il ricovero provvisorio dei ragazzi, che vi abitavano tutti insieme.
Se la prima notte nella tribù di Freccia Rossa erano tutti troppo stanchi per fare altro che dormire, già dalla seconda (com’era prevedibile) iniziarono i problemi. Inutile dire che la colpa fu di Michael e Carlo.
I due maniaci, in piena notte, si avvicinarono a Simona e Manuela e le infastidirono. Le ragazze si svegliarono subito.
Simona, vedendo il viso di Carlo a pochi centimetri dal suo che la fissava famelico, strillò e lo colpì forte mandandolo verso l’alto, non senza aggiungere inconsapevolmente un pizzico di potere che lo facesse volare per aria. Al grido della ragazza si svegliò tutta la capanna.
Manuela, a sua volta, vide Michael che le sorrideva a pochi millimetri di distanza.
“Non hai freddo, mia cara? Su, lascia che il tuo amorevole maritino ti riscaldi” le disse il ragazzo.
“Waaaaah!” strillò Manuela, anche lei spedendo lontano il suo molestatore con l’involontario aiuto del potere.
I due atterrarono addosso agli altri compagni di ventura (ormai svegli).
Johnny comprese subito la situazione e si avventò su Michael e Carlo. “Cosa avete fatto alle mie sorelle, dannati maniaci?”.
Renato non comprese subito la situazione, anzi non capì proprio niente, ma ubbidendo al suo istinto da cane di Pavlov, aggredì Johnny. “Cosa volevi fare alla povera Tinetta, brutto porco?!”.
“Lascia stare Johnny, invasato!” esclamò Tinetta, quando sentì la voce di Renato che accusava il suo tesoro, e iniziò a tirare tutto ciò che le capitava sotto mano verso la mischia dei ragazzi.
Sabrina tentò di riportare l’ordine: “Smettetela! Sveglierete tutto il villaggio!” ma senza successo. Alla fine il gruppo dei lottatori, avvinghiati in una indistinta massa umana, rotolò verso l’uscita della capanna: qui andarono a cozzare contro un ostacolo, che fermò la loro corsa. Ancora ansimanti, osservarono di che si trattava: tutti e quattro restarono impietriti, vedendosi davanti agli occhi le gambe di molte persone. Alzarono gli sguardi, e videro sopra di loro i truci volti dei Navajo, che erano stati svegliati al gran completo da quella baraonda, proprio come aveva temuto Sabrina.
Johnny, Renato, Michael e Carlo si immobilizzarono, terrorizzati, mentre gli indiani non spiccicavano una parola, limitandosi a fissare furibondi i giovani giapponesi. Allora, timidamente, sfoderando il suo miglior sorriso da imbecille, Johnny tirò la tenda che chiudeva l’ingresso dell’hogan, dicendo: “Ehm, scusate il disturbo. Buonanotte, eh?”.
Una volta richiusosi dentro, tutto il gruppo si distese placidamente sotto le coperte. Nessuno mosse un muscolo, finché non videro le ombre dei Navajo allontanarsi dalla capanna.
Allora tirarono dei sommessi sospiri di sollievo. Poi Sabrina, Tinetta, Manuela e Simona tennero un veloce conciliabolo sussurrando qualcosa che i maschi non poterono udire.
Alla fine della riunione le ragazze, a voce un po’ più alta e in tono severissimo, dissero: “Una cosa del genere non dovrà più succedere: da domani sera e per tutto il tempo che dormiremo qui dentro tutti insieme, creeremo un divisorio con tende e pelli, che separerà l’hogan in due sezioni. Sezione maschi e sezione femmine, nella quale NON DOVRETE mettere piede senza permesso, chiaro?”.
“Si” mormorarono timidamente i ragazzi, senza il coraggio di alzare lo sguardo sulle amiche.
Dopo questa risoluzione, le ragazze tornarono a coricarsi. I maschi, nonostante l’avvertimento appena ricevuto, iniziarono a punzecchiarsi a voce bassissima.
“E’ stata colpa vostra, squilibrati” sussurrò Renato, rivolto a Michael e Carlo.
“Esatto.” confermò Johnny. “Così abbiamo creato altri problemi e ci siamo anche presi un grosso rimprovero da Sabrina e le altre”.
“Ma che state dicendo?” rispose Carlo. “Se voi due non foste saltati a destra e a sinistra non avremmo svegliato nessuno”.
“Già, come no” disse Michael. “Peccato che Simona abbia strillato come un’aquila quando ti ha visto”.
“Ah, si?” si difese Carlo. “Perché Manuela ti ha accolto a braccia aperte, vero?”.
“Voi le mie sorelle ve le dovete scordare, chiaro?” ringhiò Johnny.
“Non sono più soltanto le tue sorelle, Johnny.” disse Michael.
“Già.” concordò Carlo. “Adesso sono le nostre mogli, e come tali hanno dei doveri”.
“Cosa!?” esclamò Johnny, alzando la voce.
“Ehi, deficiente, non strillare!” disse Renato, sempre a voce alta.
“Zitti, sveglierete le ragazze….”.
Una voce alle loro spalle li gelò: “Le ragazze sono GIA’ sveglie”. Si voltarono tutti e quattro e videro le loro amiche che li guardavano con occhi che mandavano bagliori rossi di furia.
“Ehm…. ehm….” i ragazzi fecero appena in tempo a sfoderare quattro identici sorrisi da idioti (simili in tutto e per tutto a quello che di solito era esclusivo appannaggio di Johnny), prima che Sabrina e compagne li abbattessero con grossi sassi raccolti da terra, che calarono dritti sulle loro testacce, spedendoli nel mondo dei sogni. Poi le ragazze tornarono soddisfatte a dormire; per quella notte non ci furono altri problemi.
La sera successiva il divisorio era già stato innalzato. I ragazzi si guardarono bene dall’oltrepassarlo senza permesso, temendo le nefaste conseguenze di tale gesto. Così ci fu finalmente pace nelle notti del villaggio. Almeno per un po’.
 
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Johnny, come già detto, fu l’ultimo a ricevere un nome Navajo; se in lui provocò enorme disappunto essere chiamato Uomo Bambino, per gli altri ragazzi fu uno spasso. Michael, Carlo e Renato lo presero in giro fin da subito. Tra le ragazze, sua sorella Manuela e Sabrina cercarono di consolarlo, Tinetta denigrò duramente la scelta degli indiani, mentre Simona (che in condizioni normali avrebbe sbeffeggiato il fratello assieme ai maschi del gruppo) era solidale con lui perché anche a lei era toccato un appellativo sgradevole.
Nel momento stesso in cui si ritirarono nel loro hogan, la sera del giorno in cui Johnny ricevette il suo nuovo nome, cominciò il dileggio.
“Ehi, Uomo Bambino, vuoi il biberon?” gli chiese Michael mettendogli un braccio sulle spalle.
“Ma che bel pupo abbiamo qui: quanti anni hai? Me lo dici?” aggiunse Carlo dando un pizzicotto sulla guancia di Johnny.
“Ma che domande gli fai?” s’aggregò Renato. “Non vedi quanto è piccolo? Sicuramente non sa ancora contare”. Tutti e tre scoppiarono a ridere.
“Ooooh, siete proprio spiritosi” disse Johnny. “Mi pare che nessuno di voi abbia molto da divertirsi; non credete, Faina, Cucciolo e Occhi di vetro?”.
“Oh, ma andiamo, Johnny! Anzi, Uomo Bambino!” disse Michael, e di nuovo tutti e tre iniziarono a ridere.
“Tesoro!” intervenne Tinetta saltando in braccio a Johnny. “Qualsiasi nome tu abbia sei sempre il mio unico amore” poi si voltò verso gli altri ragazzi con espressione minacciosa. Renato, Michael e Carlo indietreggiarono spaventati. “Voi tre, farete bene a lasciare in pace il mio tesoro, se non volete fare i conti con me”.
Carlo e Michael distolsero lo sguardo, mentre Renato osservò sconsolato Tinetta che sostava in braccio a Johnny. “Ma Tinetta” mormorò, “sono io tuo marito”.
“Ma cosa dici?” disse lei. “Quella è solo una finta, lo sappiamo tutti. In realtà l’unica vera coppia qui dentro siamo io e il mio Johnny, non è vero tesoooroooo?”.
“Ehm ehm…. eh eh eh” Johnny sorrise imbarazzato. In realtà non avrebbe saputo dire se lo metteva più a disagio essere preso in giro dai ragazzi o essere costantemente assillato da Tinetta.
“Sentite, io sono stanca morta” s’intromise Sabrina con tono spiccio. “Se avete finito di fare confusione, gradirei andarmene a dormire”. Johnny si chiese se quel comportamento scontroso era causato dal fatto che lui teneva in braccio Tinetta. I suoi dubbi furono confermati allorché Sabrina, prima di attraversare il divisorio tra la zona dei maschi e quella delle femmine, gli lanciò un’occhiata rabbiosa.
-Ecco- pensò Johnny. -Appunto-. Poi disse: “Forse è meglio andare a dormire, Tinetta. E’ stata una giornata molto stancante”.
Tinetta, pur riluttante, lo lasciò; le ragazze augurarono la buonanotte agli amici e andarono nella loro zona.
I ragazzi si prepararono a dormire. Purtroppo, però, Renato non aveva ancora finito di prendere in giro Johnny, e inoltre aveva il dente avvelenato a causa delle effusioni di Tinetta; appena sdraiato sul proprio giaciglio, si rivolse a Michael e Carlo, e sussurrò: “E’ proprio un bambino, avete visto? Ha avuto bisogno di essere difeso da Tinetta”.
“E’ vero” confermò Carlo. “Povero piccolo.”
Cominciarono a ridacchiare tutti e tre, cercando di mantenere un tono di voce basso. Johnny, che sapeva che reagendo avrebbe solo creato confusione, come era successo qualche sera prima, li ignorò.
Michael gli domandò: “Non hai paura a dormire da solo, povero pupetto?”.
“Già.” aggiunse Carlo. “Vuoi che chiamiamo la tua mammina?”.
“Smettetela, non voglio fare baccano!” esclamò Johnny, che aveva già perso la pazienza.
“Beh, allora non devi parlare così forte” gli fece notare Michael, bisbigliando.
“Uff….” sbuffò Johnny, rimettendosi tranquillo.
“Vuoi che ti canti la ninna nanna?” gli chiese Renato, provocando altre risatine sommesse.
Johnny ne aveva abbastanza, e gli disse: “E tu vuoi che ti dia una ciotola di latte, cuccioletto?”.
Michael e Carlo smisero di sghignazzare, preoccupati, perché Johnny era evidentemente molto irritato e non si curava affatto di non farsi sentire dalle ragazze.
Renato squadrò Johnny con aria minacciosa, dicendogli: “Guarda che Tinetta non è qui per difenderti, adesso”.
“Ehi, ricordatevi di parlare piano” mormorò Michael, mentre Carlo annuiva; gli altri due però non li sentirono neppure.
Johnny, che di solito aveva timore di Renato (visto che era molto più forte di lui), lo provocò; disse: “E’ una fortuna per te che non ci sia, visto che ne hai tanta paura!”.
“Ooooh” fecero Michael e Carlo; ora i loro sguardi saettavano ansiosi tra Johnny e Renato.
Quest’ultimo era rimasto sconcertato dalle parole di Johnny; balbettò: “Io…. io…. non ho paura della mi…. mia Tinetta….”.
“Certo, come no!” rincarò Johnny.
Renato si riscosse in fretta. “Quello che scambi per paura è rispetto, qualcosa che tu non hai affatto per lei!”. Dicendo questo gli saltò addosso.
In quell’istante le ragazze apparvero dalla loro zona; Sabrina fu la prima ad affacciarsi, dicendo: “Si può sapere cos’è questa confu….”.
S’interruppe perché la risposta era sotto i suoi occhi: Renato e Johnny si azzuffavano.
“Lascia stare il mio tesorino, scimmione!” esclamò Tinetta.
Manuela guardò Michael e Carlo, che fischiettavano facendo gli gnorri; immaginò che fosse colpa loro. “Voi due!” esclamò.
Loro si voltarono con aria mortificata; Michael disse: “Ehi, calma, stavolta noi non c’entriamo quasi niente”. Carlo annuì vigorosamente; Manuela aprì bocca per rimproverarli, ma in quell’attimo Johnny e Renato, nella foga, investirono gli altri due ragazzi e li trascinarono nella mischia. Cominciarono a rotolare ovunque, mentre Tinetta tirava loro addosso ogni oggetto le capitasse, gridando: “Renatooo! Lascia in pace il mio Johnny!”.
Sabrina tentò di riportare l’ordine: “Smettetela!! Non vorrete provocare altri guai!” ma senza successo.
Alla fine il gruppo dei ragazzi, avvinghiati in una indistinta massa umana, rotolò verso l’uscita della capanna: qui andarono a cozzare contro un ostacolo, che fermò la loro corsa.
Tutti e quattro restarono impietriti, perché già sapevano cosa li aveva bloccati; infatti si trovarono di fronte le gambe di molte persone. Alzarono gli sguardi, e videro sopra di loro (proprio come si aspettavano), i sempre più truci volti dei Navajo, svegliati dalla baraonda.
Johnny, Renato, Michael e Carlo si immobilizzarono, terrorizzati, mentre gli indiani non spiccicavano una parola, limitandosi a fissare infuriati i giovani giapponesi.
Allora, timidamente, sfoderando il suo miglior sorriso da imbecille, Johnny tirò la tenda che celava l’ingresso dell’hogan, dicendo: “Ehm, vi assicuro che non si ripeterà più. Buonanotte, eh?”.
Stavolta però la mano di un pellerossa bloccò il suo braccio, prima che potesse accostare il telo.
I ragazzi sbiancarono. Le ragazze trattennero il respiro. Gli indiani portarono fuori i malcapitati disturbatori: il capo Freccia Rossa li attendeva davanti alla loro capanna. Le ragazze uscirono, in apprensione.
“Speriamo capiscano che il mio Johnny è solo una vittima” disse Tinetta.
Freccia Rossa indicò Johnny e gli altri, e disse: [Legateli ai pali della tortura]. I ragazzi furono trascinati nello spiazzo al centro del villaggio, e legati a quattro pali piantati a terra. Freccia Rossa si piazzò poi davanti a loro, e parlò di nuovo, nella sua lingua. Tra i presenti c’erano anche Chase, Michael e Logan, e Freccia Rossa si rivolse ai tre perché traducessero le sue decisioni; subito essi le riportarono a Sabrina, che si era avvicinata assieme alle altre.
«I vostri amici dovranno restare legati tutta la notte al palo» le disse Logan.
«E…. soltanto questo?» azzardò chiedere Sabrina, che aveva temuto di molto peggio.
«Beh, non proprio….» disse Michael.
«Che altro c’è?» domandò ancora la ragazza.
«Beh, voi ragazze dovrete far loro la guardia tutta la notte» la informò Chase.
«Vale a dire?».
«Vuol dire che dovrete dormire all’aperto anche voi» concluse Logan. «Solo che potrete ripararvi nei sacchi a pelo o con le coperte, mentre gli altri dovranno restare scoperti. In questo modo i Navajo si aspettano che capiscano che devono starsene tranquilli la notte».
«Oh, me lo aspetto anche io….» mormorò Sabrina, guardando in cagnesco Johnny, Renato, Michael e Carlo.
Chase e i suoi amici riferirono a Freccia Rossa che i chiassosi ospiti stranieri avrebbero subito la punizione da lui decisa senza protestare, poi la tribù, un po’ alla volta, si ritirò nei vari hogan. Chase, Logan e Michael salutarono Sabrina prima di allontanarsi. Chase però si fermò e disse: «Ti consiglio di fare ai tuoi amici un bel discorsetto, Bacio di Luna. I Navajo, se si ripeterà una cosa del genere, potrebbero buttarli fuori dal villaggio».
«Si, lo terrò presente. Buonanotte» disse Sabrina.
«Buonanotte» disse Chase, prima di voltarsi e seguire gli altri.
Adesso sullo spiazzo erano rimasti solo i nostri eroi.
Sabrina illustrò la situazione alle altre.
“Ehm…. che succede?” chiese Carlo.
Tutte e quattro le ragazze si voltarono verso i maschi del gruppo, senza però dire niente;
entrarono invece nell’hogan, e ne uscirono poco dopo con coperte e sacchi a pelo, che sistemarono sul terreno davanti ai pali.
Timoroso, poiché era evidente che erano arrabbiate, Johnny chiese spiegazioni alle sue amiche.
“Ragazze, che cosa ci accadrà?” domandò.
Esse osservarono i ragazzi, poi si scambiarono un’occhiata sconsolata.
Simona rispose per prima. “Se siamo fortunate, vi beccherete tutti una bella polmonite, ecco cosa vi accadrà”.
“Dovrete restare legati al palo tutta la notte” li informò Sabrina, freddamente.
“Tutto per colpa di voi tre!” esclamò Tinetta. “Sono sicura che il mio Johnny è solo una vittima!”.
Queste parole scatenarono le proteste degli altri.
“Non è vero!”.
“Johnny è stato il primo ad alzare la voce!”.
Johnny cercò di difendersi. “Renato mi ha provocato!”.
“Non tirarmi in ballo!” ribatté Renato.
La discussione stava nuovamente degenerando, ma prima che ciò accadesse, Sabrina si parò davanti ai ragazzi legati, fulminandoli con uno sguardo glaciale.
“Noi ragazze dovremo dormire all’aperto per disposizioni di Freccia Rossa” disse. “Tutto per colpa vostra e del vostro stupido comportamento infantile. Vi consiglio di darvi una calmata e provare a dormire, se ci riuscite”. Non alzò la voce, ma il suo tono e i suoi occhi misero i brividi ai quattro litigiosi compari, che si acquietarono subito.
Sabrina e le altre si stesero nei sacchi a pelo, preparandosi a dormire. Ai ragazzi non restò che rassegnarsi a trascorrere la notte in quella scomoda situazione: sarebbe stata per loro una bella lezione; almeno, questa era la speranza.
 
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Il mattino dopo il villaggio si svegliò presto, come sempre, e trovò i ragazzi intirizziti dal freddo. Quando erano in pianura la temperatura (poiché era primavera/estate) scendeva raramente sotto i venti gradi, anche di notte. Ma il territorio Navajo era più elevato, e di conseguenza le temperature erano più basse. Le ragazze si erano già svegliate e aspettavano vicino ai pali il via libera per slegare i ragazzi.
“Io li lascerei qui, se lo meriterebbero” disse Simona.
“Simonaaa, non dire così, mia cara” la implorò Carlo. “Per una volta che ero innocente”.
“Anche io ero innocente, stavolta” si accodò Michael.
“In realtà io sono SEMPRE innocente” aggiunse Carlo.
“Eh? Ma certo, anche io” disse Michael. “Sono solo sfortunato e incompreso”.
“Fatela finita, voi due” disse Tinetta, spazientita. “L’unico innocente è il mio tesoro”.
«Buongiorno» disse una voce.
I ragazzi si voltarono. Era Chase, che si avvicinava a Sabrina; con lui c’era Michael Reese.
«Buongiorno, ragazzi» disse Sabrina. «E Logan?».
«Lascia perdere» le rispose Michael. «Tutte le mattine è una guerra per farlo alzare. Quello è solo un peso morto».
«Siamo venuti a liberarvi» annunciò Chase, cominciando a sciogliere i nodi che immobilizzavano Johnny e compari.
“Oh, meno male!” esclamò Renato.
Una volta liberi, i ragazzi si lasciarono cadere a terra, esausti per aver passato le ultime ore in piedi.
I pellerossa che passavano lì vicino li osservavano con disapprovazione.
“Incredibile!” commentò severamente Manuela, parandosi davanti a suo fratello e ai suoi degni soci. “Siamo in mezzo ai selvaggi, un popolo primitivo al vostro confronto, che vive in capanne di fango e uccide persino gli esseri umani con estrema leggerezza e VOI siete riusciti a diventare i teppisti del villaggio!”.
A questo i ragazzi non replicarono. Erano mortificati, e non tanto per la punizione subita, quanto perché le amiche avevano dovuto (in parte) condividerla.
In quel momento spuntò Logan, ancora insonnolito. «Cespuglio, Nuvola, siete già in piedi?».
«E che c’è di strano?» gli chiese Michael.
«Già» disse Chase. «E’ strano semmai che TU sia già in piedi, Bocca».
«Si, stamattina non avevo sonno» disse Logan sbadigliando. «Quando volete partire?».
«Tra un’oretta» rispose Chase. «Il tempo di prepararci».
«Ok» disse Logan. «Speriamo di tornare prima di sera».
«Tranquillo, Vento nella Bocca» gli disse Michael. «Tu cerca solo di non farci perdere tempo e vedrai che torneremo prima del tramonto».
Sabrina domandò: «Dove andate?».
«Oh, sono stati avvistati dei cavalli bradi a poche miglia da qui» rispose Chase. «Noi tre siamo stati incaricati di andare ad osservare i loro spostamenti».
«E nei prossimi giorni un gruppo di guerrieri andrà a catturarli, e li porterà al villaggio, così diverranno una ricchezza per la tribù» concluse Michael.
«Potremmo venire con voi?» chiese Sabrina, attratta dall’idea di fare una bella cavalcata nella prateria.
Chase e gli altri due si scambiarono uno sguardo, poi Michael disse: «Nessun problema, credo. Chiederemo il permesso a Freccia Rossa, ma immagino che non lo negherà».
Così fu; il capotribù non sollevò obiezioni.
Tutti gli amici di Sabrina accolsero con entusiasmo la sua proposta di accompagnare Chase e compagni nella loro missione, e allontanarsi per un giorno dalla monotonia del lavoro.
Così, verso le sette del mattino (chiassosi come sempre), in sella ai loro destrieri, i ragazzi lasciarono il villaggio.
Tutti avevano avuto la forte impressione che Freccia Rossa avesse accolto con gioia la richiesta di Johnny e compari di allontanarsi dal villaggio: era così. Quando vide andarsene i nostri eroi, commentò: [Aaahh, finalmente un po’ di pace].
 
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Da lontano non si sarebbero mai potuti riconoscere, in quei cavalieri lanciati al galoppo, Johnny e i suoi amici; ormai avevano preso l’abitudine di abbigliarsi come i Navajo, e sembravano proprio indiani; tranne Tinetta, che con i suoi biondissimi capelli non avrebbe mai potuto confondersi con i pellerossa.
Un paio d’ore dopo l’inizio dell’escursione, Chase fece segno di fermarsi. Erano appena usciti da un piccolo canyon, e il ragazzo decise che si sarebbero accampati all’ombra delle rocce che lo formavano; nella spianata di fronte a loro, disse, erano stati avvistati i cavalli selvaggi. Avrebbero dovuto aspettare che si facessero vivi, e poi seguirli per scoprire i loro abituali ritrovi e le loro piste;
raccolte quelle informazioni, sarebbero tornati al villaggio e le avrebbero passate ai guerrieri designati per catturarli.
«Perché questo incarico di ricognizione?» chiese Sabrina. «Non potremmo catturarli noi e portarli al villaggio? Alla fattoria McFly io avevo il compito di occuparmi delle mandrie».
«Ma erano animali domestici» disse Chase. «C’è una bella differenza».
«Già» confermò Logan. «Può essere pericoloso, e io non posso rischiare di farmi male».
Michael si prese la testa tra le mani. «Mmmhh, ecco che ricomincia. Non lo sopporto quando fa così».
«Ma che vuoi, Nuvola Nera? Perché non ci vai tu?».
«Se avessi il permesso degli anziani ci proverei. Ma bisogna ammettere che siamo ancora inesperti per un incarico simile».
«E allora perché te la prendi con me se dimostro prudenza?».
«Tu sei un presuntuoso, non sei prudente».
«Ok ok ragazzi» intervenne Chase. «Smettetela, se fate tutto questo baccano i cavalli neppure si faranno vedere».
Logan e Michael non smisero di beccarsi, ma se non altro abbassarono la voce.
Nel frattempo, Johnny e gli altri avevano acceso il fuoco, per poter preparare il caffè;
i ragazzi lo presero, dopodiché spensero le fiamme. Andarono poi a cercare altra legna perché avrebbero avuto bisogno di accendere nuovamente il fuoco per l’ora di pranzo.
Terminate le principali incombenze, i ragazzi si predisposero all’attesa; Chase, Logan e Michael avevano un mazzo di carte, e giocarono a poker; altri si appisolarono all’ombra delle rocce. Sabrina osservava vigile la piana dove si aspettavano di vedere i cavalli; non aveva affatto abbandonato l’idea di catturarli e portarli al villaggio.
Nel corso della mattina (erano circa le undici) Sabrina vide Logan e Chase che, toltisi di tasca dei coltelli, si dirigevano verso alcuni piccoli cactus; li osservò incuriosita mentre si chinavano sulle pianticelle e le incidevano.
Michael Reese era seduto su una coperta e faceva un solitario; intenzionata a chiedergli lumi sul comportamento degli altri due, Sabrina lo chiamò: «Reese». Il ragazzo non rispose. Sabrina chiamò più forte: «Reese!».
Doveva essere estremamente concentrato, perché non rispose neppure adesso.
Allora tentò: «Michael» senza ottenere risposta. Si apprestò a chiamarlo di nuovo, quando le venne in mente un particolare: fin dal primo giorno tra i Navajo Chase, Michael e Logan si rivolgevano l’un l’altro usando i nomi indiani, e nessuno della tribù aveva mai usato, neanche una volta, i loro nomi americani.
Allora disse: «Nuvola Nera». Il ragazzo alzò lo sguardo, dicendo: «Si?».
Sabrina si rese dunque conto che ormai soltanto lei e i suoi amici li chiamavano Chase, Michael e Logan; i tre ragazzi non erano più abituati a sentirsi chiamare così, perciò l’altro non le aveva risposto subito.
«Cosa c’è?» domandò Michael/Nuvola Nera.
«Che cosa fanno Cha…. Cespuglio che Cammina e Vento nella Bocca?» chiese la ragazza indicando i due. Il ragazzo si girò verso i suoi amici.
«Oh» disse «stanno raccogliendo polpa di cactus sacro».
«Cactus sacro?» domandò Sabrina, perplessa.
«Esatto; Ta-Hu-Nah, lo stregone del villaggio, ci ha dato l’incarico di raccoglierne una buona scorta. Gli serve per i suoi intrugli magici».
«Voi…. ehm…. credete a queste cose?».
Lui rifletté qualche secondo. «Si, ci crediamo. O meglio, i nostri padri ci hanno insegnato che la magia non esiste, ma noi siamo nati e cresciuti tra i pellerossa, e i pellerossa (tutti, non solo i Navajo) credono nella magia, negli spiriti, nella sacralità della natura. Per loro un torrente o un fiume possono essere sacri, un albero può essere sacro, un animale può essere sacro. E’ difficile essere scettici quando fin da neonato ti imbottiscono di superstizioni».
«Capisco» disse Sabrina.
Il ragazzo continuò: «Comunque siamo stati per molti anni nelle moderne città dell’est, e i nostri padri non sono indiani. Insomma pur rispettando e comprendendo la religione dei pellerossa, non ci beviamo ogni assurdità in cui credono loro. Per esempio, quel cactus sacro che stanno raccogliendo i miei amici viene usato dallo sciamano per avere visioni del futuro ed entrare in comunione con gli spiriti, ma in realtà è probabilmente nient’altro che una potente tossina, innocua (forse) per l’organismo ma che ha incredibili poteri sulla mente. Infatti uno degli intrugli che se ne ricavano, se somministrato a qualcuno, ne soggioga completamente la volontà».
«Davvero?» chiese Sabrina, impressionata.
«Si. Ma l’effetto è temporaneo, per fortuna».
In quel momento tornarono gli altri due ragazzi, che iniziarono a riporre nelle tasche delle selle i cactus tagliati.
Sabrina stava ancora meditando su quanto aveva appena saputo, quando vide alcuni cavalli spuntare in lontananza.
«Ragazzi, ci siamo! Stanno arrivando!» esclamò. Tutti gli altri la raggiunsero velocemente, contenti che la noiosa attesa fosse terminata.
Osservarono un numeroso branco di cavalli venire verso di loro, sollevando un enorme polverone.
«Teniamoci nascosti» disse Chase. «Non devono vederci».
I ragazzi ammirarono affascinati le bestie selvagge che si avvicinavano; i cavalli si fermarono a circa cinquanta metri davanti al punto di osservazione scelto dai nostri eroi.
Simona era estasiata. “Ooooh, come vorrei avere una macchina fotografica, adesso”.
“E’ vero, è vero, che bello!” disse Tinetta. “Perché non andiamo ad accarezzarli?”.
“Non possiamo, ragazze” disse Manuela. “Dobbiamo soltanto controllare i loro movimenti. Vero Sabrina?”. Manuela si voltò verso Sabrina, cercando il suo consenso, ma vide qualcosa che non si aspettava; quest’ultima osservava la mandria con concentrazione eccessiva.
“Che cosa c’è, Sabrina?” le domandò Manuela.
L’altra non diede segno di averla sentita: continuò a fissare intensamente i cavalli bradi. Poi si diresse verso il suo destriero, gli balzò in sella e con voce bassa e tranquilla, ma decisa, disse: “Io ci vado”.
Prima che gli altri capissero cosa stava per fare, era già partita al galoppo.
Chase saltò in piedi e gridò:«NO!».
Johnny fu il più svelto a reagire. Raggiunse il suo cavallo, vi balzò sopra e partì al galoppo dietro Sabrina. Passando davanti agli altri, disse: “Vado ad aiutarla, qualunque cosa abbia in mente!”.
Chase gridò di nuovo: «FERMO!».
Johnny neppure capì cosa disse, ma colse comunque il senso dell’avvertimento. Naturalmente non si fermò; da giorni non usava i suoi poteri, e ne aveva una cospicua riserva. Quella era senz’altro l’occasione buona per sfruttarli, e aveva già iniziato a farlo lanciando il suo cavallo ad una velocità altrimenti impossibile.
Nonostante questo, non riuscì a raggiungere Sabrina prima che la ragazza arrivasse a tiro della mandria; questa, spaventata, fuggì al galoppo in un’unica direzione. Sabrina spronò il suo cavallo verso la testa del branco, mentre con una mano scioglieva il lazo legato alla sella.
-Ma che intenzioni ha?- pensò Johnny.
Sabrina iniziò a far roteare il lazo sulla testa; in quel momento Johnny la raggiunse.
“Sabrina, che vuoi fare?!” esclamò.
Lei si voltò sorpresa, e visto Johnny, gli disse: “Perché mi hai seguita, Johnny? E’ pericoloso!”.
“E’ pericoloso anche per te!”.
“Io me la caverò; mettiti al sicuro!”.
“Cosa vuoi fare? Ti aiuterò!”.
“Johnny, lascia perdere….”.
“Cosa vuoi fare?!”.
“Voglio catturare il capobranco! Lo prenderò al lazo; torna dagli altri, non puoi aiutarmi!”.
“Lo dici tu!” esclamò Johnny, e si lanciò verso la testa della mandria, mentre slegava a sua volta il lazo.
-Le farò vedere di cosa sono capace- pensò.
“No, Johnny, fermo!” esclamò Sabrina, allarmata.
Ma lui non la ascoltò; puntò verso il cavallo che guidava gli altri, raggiungendolo in pochi istanti con l’aiuto del potere, e sempre grazie ad esso riuscì in un unico, preciso lancio ad infilare il lazo al collo dell’animale.
Sabrina restò sbalordita da questa prova, ma il suo stupore durò solo un istante.
Johnny, infatti, credendo forse che mettere il lazo al collo di un cavallo selvaggio lanciato al galoppo bastasse a domarlo, si rilassò immediatamente e si girò gongolante verso Sabrina; un miliardesimo di secondo dopo il disgraziato volò giù dalla sella, e fu un mezzo miracolo se non si ruppe l’osso del collo. Si ritrovò così trascinato a terra a folle velocità, trainato dalla forza del cavallo brado.
“LASCIA ANDARE IL LAZO, JOHNNY!” gridò Sabrina.
Johnny non la sentì; nella situazione in cui era non riusciva neppure a riflettere. Era consapevole però del fatto che Sabrina aveva gli occhi puntati su di lui, e questo gli impediva di usare i suoi poteri per cavarsi d’impiccio.
Lei, vista la circostanza critica, decise di tentare il tutto per tutto pur di aiutare Johnny; si affiancò velocemente al capobranco (che era rallentato dal corpo del ragazzo trainato),
poi si alzò in piedi sulle staffe, e con un agile movimento saltò sulla schiena del cavallo selvaggio, usando il lazo lanciato da Johnny in sostituzione delle redini. Subito l’animale cercò di disarcionarla, saltando e scalciando; Sabrina però aveva fegato e abilità da vendere, e non era una cliente facile, neppure per quel superbo bestione.
Johnny colse al volo l’opportunità: poiché Sabrina gli dava le spalle, usò il suo potere per sollevarsi da terra, poi attrasse verso di sé un altro dei cavalli del branco, e vi si issò sopra. Anche questo tentò immediatamente di disarcionare l’indesiderato cavaliere, ma non poteva molto contro i poteri del ragazzo.
“Sabrina!” esclamò Johnny, affiancandola. Lei non si voltò neppure, era troppo concentrata.
“Johnny! Resisti!” gridò a sua volta, pensando che l’amico fosse ancora nei guai.
“Io sono al sicuro, sono risalito a cavallo!”.
“Davvero?!”.
”Si, non preoccuparti per me! Fa vedere chi sei a quella specie di somaro imbizzarrito!”. Detto questo, Johnny si allontanò. Decise che avrebbe tentato di far calmare tutta la mandria, anche se questo comportava un dispendio di potere mostruoso.
Si volse verso i cavalli selvaggi, e si concentrò su di essi. Facendo appello a tutte le sue forze, li fece sollevare tutti da terra, anche se di pochi centimetri; in questo modo le bestie, terrorizzate, scalciavano e galoppavano a vuoto. Lo sforzo però si rivelò subito maggiore di quanto si aspettasse;
si rese conto che non sarebbe riuscito a lungo a sostenerlo, anche in considerazione del fatto che una gran parte del potere lo stava impiegando per restare in sella al suo riottoso destriero.
Fu dunque con enorme sollievo che vide arrivare le sue sorelle.
“Ragazze!” esclamò. “Sono felice di vedervi!”.
“Dobbiamo aiutare Sabrina!” disse Manuela allarmata, quando vide l’amica in groppa al capobranco che cercava di domare.
“Non ne ha bisogno” disse Johnny. “E’ perfettamente in grado di cavarsela. Avrei potuto fare qualcosa io stesso poco fa, ma ho notato che è estremamente impegnata, e ho paura che un intervento esterno possa distrarla ed esserle dannoso, anziché utile”.
“Tu cosa stai facendo?” gli chiese Simona.
“Tengo sollevati da terra tutti quei cavalli. Aiutatemi a farlo”.
“Perché?” domandò ancora Simona.
“Te lo spiego dopo; aiutatemi, ragazze!”.
Manuela e Simona si concentrarono sui cavalli per tenerli sollevati da terra, assieme a Johnny.
Gli animali erano sempre più spaventati, e continuavano a scalciare e galoppare a vuoto, senza spostarsi di un millimetro.
“Vuoi dirmi cosa hai in mente, fratellone?” gli domandò Manuela.
“Semplice” rispose lui, adesso molto più disteso. “Li faremo stancare. Quando saranno esausti, saranno docilissimi”.
“Quanto dovremo tenerli così?” chiese Simona.
“Boh” disse suo fratello.
“Bella risposta!” esclamò Simona. “Io non voglio mica restare qui tutto il giorno”.
“Già” concordò Manuela. “Anche perché gli altri prima o poi ci raggiungeranno”.
“Perché non sono con voi, a proposito?” domandò Johnny.
“Abbiamo fatto scappare i loro cavalli in direzione opposta a questa, così da poterti aiutare liberamente” spiegò Manuela. “Però prima o poi, anche a piedi, ci raggiungeranno”.
“Cavolo, e questi animali non hanno l’aria di potersi stancare molto presto” considerò Johnny.
“Bene! A mali estremi, estremi rimedi!” esclamò Simona.
“Ehi, cosa vuoi fare?” le chiese Johnny preoccupato.
“Oh, cavolo, conosco quell’espressione” disse Manuela guardando sua sorella. “Ce l’hai quando hai in mente di combinare qualche sciocchezza”.
“Fate come faccio io!” disse Simona, senza preoccuparsi dei crucci degli altri due;
un istante dopo, i cavalli sollevati da terra iniziarono a roteare vorticosamente su sé stessi.
“Ma che….” disse Johnny.
“Aiutatemi!” esclamò Simona. “Da sola non posso farlo a lungo”.
Johnny e Manuela, titubanti, aiutarono la sorella; le povere bestie rotearono sempre più velocemente, come trottole volanti.
Dopo alcuni secondi, Simona disse: “Secondo me può bastare”.
I ragazzi interruppero la rotazione, e posarono a terra i cavalli, che appena toccato il suolo caddero praticamente svenuti.
“Visto? Tempo e poteri risparmiati” disse Simona gongolante.
Manuela e Johnny si guardarono perplessi.
“Beh, si, è vero” disse Manuela. “Però…. poverini….”.
“Oh, andiamo, gli gira soltanto un po’ la testa; staranno benissimo tra poco” disse Simona. “E se avranno ancora energie da buttare farò fare loro un altro bel giro di giostra”.
In un modo o nell’altro, per ora la mandria non era un problema, perciò i ragazzi si dedicarono a Sabrina. L’amica era lontana, ed era ancora alle prese col capobranco, che galoppava furiosamente, si impennava, scalciava e saltava per liberarsi di lei.
“Vado a vedere come se la cava” disse Johnny.
“Veniamo anche noi” disse Simona.
“No, voi restate qui, ragazze. I cavalli potrebbero riprendersi” detto questo, Johnny si avviò in direzione di Sabrina.
“Vengo anche io!” disse Manuela, affiancandosi al fratello.
“Ehi, ti ho detto….”.
“Ho sentito cos’hai detto” lo interruppe Manuela. “Ma Simona qui può pensarci benissimo da sola”.
Chiuso il battibecco, fratello e sorella partirono al galoppo verso Sabrina.
Quando la raggiunsero, la osservarono attentamente.
Sembrava stanca, ma la sua espressione era sempre assorta e determinata.
“SABRINA! TUTTO BENE?” gridò Johnny.
Lei, come prima, non si voltò neppure. Trascorsero alcuni istanti prima che rispondesse. “TUTTO BENE!” gridò a sua volta.
Manuela la fissava angosciata. “Johnny! Dobbiamo aiutarla!” disse.
“No” rispose lui tranquillo.
“Stai scherzando? Non vedi che è in pericolo? Se quel bestione la disarcionasse potrebbe anche….”.
“Non dirlo!” esclamò Johnny.
Manuela restò di sasso. “Johnny….” mormorò.
“Stà tranquilla, Manuela” disse lui. “Dobbiamo avere fiducia in Sabrina. E poi, sono certo (conoscendola) che ha preso questa come una sfida personale, una questione privata tra lei e quel cavallo selvaggio. Non mollerà, lo so”.
“Allora, ragazzi?” disse Simona, che si era avvicinata in quel momento.
“Ehi, e la mandria?” domandò suo fratello.
“Eccola” rispose Simona indicando dietro di sé. Manuela e Johnny videro i cavalli, ancora quasi tutti a terra, trascinati come granchi in una rete dal potere di Simona.
“Cavolo, Simona!” esclamò Manuela, indignata. “Non puoi trattarli così!”.
“Ma devo tenerli sott’occhio. Non posso allontanarmi da loro!” protestò Simona. “E questo sistema è l’ideale: finché sono storditi, non oppongono la minima resistenza, e io posso tirarmeli dietro come tanti pesciolini”.
“Oh basta!” esclamò Manuela. “Sei impossibile!”.
“Cosa sta facendo Sabrina?” chiese Simona.
“Sta domando quel cavallo” rispose Johnny, intento ad osservare la sfida tra la ragazza e l’animale.
“Perché non la aiutiamo?” domandò ancora Simona.
“No” disse Johnny. “Non ce n’è bisogno”.
“Oh, va bene” concluse sua sorella.
Così, tutti e tre si limitarono ad ammirare con quale abilità Sabrina teneva testa a quella furia scatenata travestita da cavallo.
Nel corso dei minuti successivi, Simona dovette sottoporre di nuovo alcuni dei cavalli della mandria al trattamento della rotazione, utile per tenerli a bada. A parte questo, niente interruppe Johnny, Manuela e Simona mentre assistevano allo spettacolo offerto da Sabrina; almeno finché non arrivarono gli altri ragazzi, a piedi.
Quando li vide avvicinarsi, Johnny disse: “Portiamo loro alcuni dei cavalli della mandria”.
“Ma non sono domati” obiettò Manuela.
“No, ma sono talmente scombussolati che non credo creeranno difficoltà per essere cavalcati” disse Johnny.
I ragazzi in arrivo erano sette; così Johnny, Simona e Manuela scelsero sette destrieri e li guidarono verso i loro amici.
“Ehiii!” gridò Tinetta quando li vide sopraggiungere. “Come state? Si è fatto male qualcuno?”.
“E’ tutto a posto” rispose Johnny quando fu a portata di voce. “Vi abbiamo portato alcuni degli animali della mandria”.
“Dovrete montarli senza sella, però” disse Manuela.
Chase, Michael Reese e Logan si issarono in groppa ai cavalli senza problemi. I pellerossa montavano senza sella, e loro avevano imparato a cavalcare in quel modo.
Gli altri ebbero maggiori difficoltà, ma furono comunque confortati dalla prospettiva di non andare più a piedi.
“Ma cosa è successo?” chiese Carlo. “Questi sono gli stessi cavalli selvaggi che Sabrina si è messa ad inseguire?”.
“Sono questi” confermò Johnny. Poi si girò verso Sabrina e aggiunse: “E quella è lei, che sta tentando di domare il capobranco”.
Chase, Michael e Logan si osservavano intorno sconvolti. Non avevano capito le parole di Johnny, ma vedevano benissimo che un intero branco di cavalli bradi era stato sottomesso in poco tempo da quattro ragazzini (tra cui tre RAGAZZINE) e che Sabrina stava lottando furiosamente con un animale semplicemente possente.
Come avevano fatto poco prima Johnny e le sue sorelle, anche i nuovi arrivati constatarono che non c’era altro da fare se non limitarsi a godere la splendida esibizione offerta da Sabrina. Così tutti si disposero all’attesa.
La fine della lotta giunse quasi venti minuti dopo, quando Sabrina riuscì a far partire il cavallo al galoppo nella direzione da lei voluta. Passò di fronte ai suoi amici, e senza fermare la corsa disse: “Seguitemi! Torniamo al villaggio!”.
Chase, Michael e Logan si accordarono per guidare la mandria (ormai più o meno domata), al campo indiano. Attorniarono gli animali e li spinsero nella direzione desiderata, al seguito di Sabrina.
Nel gruppo di Johnny, intanto, c’erano dei problemi; se lui riusciva a montare il suo cavallo anche senza sella grazie al potere, gli altri avevano difficoltà.
“Ehi!” esclamò Renato. “Io non sono capace di stare a cavallo senza staffe e senza redini!”.
“E noi, allora?” si accodarono Michael e Carlo. “Non siamo bravi neppure normalmente, figuriamoci così!”.
Simona e Manuela erano le uniche ad avere ancora i propri cavalli, bardati con tutti i finimenti.
“Due di voi vengano con me e Simona!” disse Manuela.
Michael e Carlo si fiondarono a terra ed erano dietro alle sorelle di Johnny in men che non si dica.
“Oh, ho tanta paura!” disse Michael abbracciando e stringendosi a Manuela.
Carlo fece lo stesso con Simona.
Le due ragazze protestarono, ma non ci fu niente da fare; allora si scambiarono un’occhiata d’intesa, e partirono entrambe a razzo, aiutate dal potere.
Le loro figure sparirono in lontananza mentre Michael e Carlo strillavano terrorizzati.
“Bene, dilemma risolto” disse Johnny. Poi si rivolse a Tinetta e Renato. “Voi due potete salire sui cavalli che io e Sabrina abbiamo usato per raggiungere la mandria; non devono essere molto lontani”.
Una volta trovati i due animali sellati che Johnny e Sabrina avevano lasciato poco prima, Tinetta e Renato li montarono, e partirono tutti al galoppo dietro gli altri, scortando anche i cavalli bradi rimasti.
Dopo alcuni minuti si ricongiunsero alla mandria guidata da Chase e compagni, e li aiutarono a tenerla d’occhio. Sulla strada del ritorno recuperarono anche i cavalli che Simona e Manuela avevano fatto scappare per lasciare a piedi gli altri; Michael e Carlo poterono così montare da soli, anche se furono praticamente staccati a forza dalle schiene di Manuela e Simona.
Nel corso del viaggio di ritorno incontrarono anche Sabrina, che li aspettava sulla sommità di una collinetta. Il capobranco era ormai completamente domato, e anche se scalciava e sbuffava ancora un poco Sabrina ne aveva il pieno controllo.
Si avvicinò ai suoi amici, che la accolsero con grida di giubilo e applausi.
“Sei stata grande!”.
“Che spettacolo incredibile!”.
“Quel cavallo non ha potuto niente contro di te!”.
Esauriti i convenevoli, che Sabrina non gradiva perché la imbarazzavano, ripartirono verso il villaggio di Freccia Rossa.
Pochi minuti dopo Chase si avvicinò a Sabrina, dicendole: «Sei stata davvero grande! Ma hai anche rischiato tanto».
«Si, me ne rendo conto».
«Non avresti dovuto farlo. Mi sarei aspettato un atto così irresponsabile da uno dei tuoi amici, ma non da te».
Sabrina disse: «Mi spiace: ho visto quei magnifici cavalli selvaggi e non ho resistito alla sfida; sapevo che avrei potuto domare questo bestione. E una volta dominato il capobranco, è più facile essere seguiti dalla mandria».
«Bah, l’importante è che sia andato tutto bene».
«Puoi dirlo forte, Cespuglio che Cammina» disse Logan avvicinandosi. «E puoi scommettere che al villaggio daranno una grande festa in nostro onore, stasera! Yuuuhuuu!».
Chase e Sabrina lo osservarono esultare. «Sempre il solito» concluse Chase con un sorrisetto, prima di allontanarsi.
Sabrina fu affiancata da Tinetta, che le rinnovò le congratulazioni: “Sabrina, sei stata fantastica!”.
“Grazie, Tinetta” disse Sabrina sorridendo. Alla fin fine, i complimenti della sua migliore amica erano gli unici che non la mettevano a disagio.
“Mi chiedevo quando saresti tornata ad essere un po’ scapestrata”.
“Che vuoi dire?” le chiese Sabrina.
“Beh, non è mica strano che ti sia lanciata verso il pericolo; ho visto i tuoi occhi in quell’istante, e ho riconosciuto la tua determinazione, la tua voglia di metterti alla prova in sfide impossibili, come quando ti gettasti alla conquista della grande onda, o raccogliesti la folle sfida della ragazza sullo skateboard nella tempesta di neve”.
“Beh, ma ho sempre avuto buoni motivi per rischiare in quel modo”.
“Evidentemente anche tentare di domare questo animale splendido era un buon motivo”.
“Mh” fece Sabrina, assorta. “Dunque, aspettavi il momento in cui mi sarei scatenata?”.
“Beh, non proprio. Però non mi ha sorpreso, ecco. Erano troppi giorni che frenavi la tua natura indomita perché eri impegnata a preoccuparti di noi”.
Sabrina si voltò verso l’orizzonte, assorta.
Tinetta però interruppe le sue meditazioni. “Cosa hanno fatto prima Logan e Chase?”.
“Eh? Di cosa parli?” le domandò Sabrina.
“Prima ancora dell’arrivo dei cavalli, Logan e Chase hanno raccolto dei cactus, e li hanno messi nelle selle”.
“Oh, già” disse Sabrina, e raccontò ciò che aveva saputo da Michael Reese.
Alla fine della spiegazione, Tinetta parve molto impressionata. “Davvero facendo bere il succo di quel cactus a qualcuno, ti obbedirà in tutto?”.
“Beh, così sembra”.
“Pazzesco” disse Tinetta, turbata. Poi si affiancò agli altri amici, desiderosa di raccontare anche a loro quella incredibile storia.
Farlo fu un TRAGICO errore.
Appena a conoscenza di quel fatto, gli occhi di Michael e Carlo divennero fessure diaboliche.
I due compari si appartarono. “Hai sentito?” mormorò Carlo.
“Certo che ho sentito, amico” rispose Michael. “E scommetto che tu hai avuto la mia stessa idea”.
“Eccome. Se facciamo bere quell’intruglio alle ragazze….”
“….le avremo tutte ai nostri piedi! Ah aha ha”.
I due, senza rendersene conto, proruppero in una risata inquietante.
“Che…. che cavolo hanno quelli?” balbettò Simona.
“Non lo so, ma non mi piace” disse Manuela.
In quell’istante, un brivido di gelo passò lungo la schiena delle ragazze.
 
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Johnny era in camera sua, annoiato. Doveva studiare, ma non ne aveva proprio voglia: fuori era una bellissima giornata e lui avrebbe voluto uscire e andare all’ABCB, da Sabrina.
Contemplava il cielo azzurro dalla finestra, senza risolversi ad iniziare lo studio, quando bussarono alla porta.
“Avanti” disse, senza distogliere gli occhi dal cielo.
Seguì con lo sguardo la lontanissima scia bianca di un aereo che tagliava in due la limpida aria estiva; sospirò, poi appoggiò la fronte sul libro di matematica, aperto sulla scrivania.
“Uffa! Se proprio devo affrontare matematica, voglio che mi aiuti Sabrina. Con lei è bello anche sorbirsi questa roba; e poi è un’ottima insegnante”.
Bussarono di nuovo. “Avanti” ripeté Johnny a voce alta, immaginando che prima non lo avessero sentito. Aspettò che il suo ignoto visitatore entrasse, ma non accadde.
Sbuffò: non aveva voglia di alzarsi ad aprire.
Si allungò sulla sedia, e si stiracchiò. “Non sarebbe male neanche un bel pisolino; cavolo, tutto sarebbe meglio di studiare matematica”.
Bussarono di nuovo. “Avanti!” esclamò Johnny.”E’ aperto!”.
-Almeno credo- pensò.
Stavolta osservò la porta, che però restò chiusa. Chiunque ci fosse dall’altro lato, non tentò nemmeno di ruotare la maniglia.
Johnny valutò se aprire coi suoi poteri, quando la voce di suo nonno giunse dall’altra parte dell’uscio. “Johnny….”.
“Nonno? Sei tu?” chiese il ragazzo. “Perché non entri?”.
Non ci fu risposta. Johnny immaginò che il nonno non lo avesse sentito.
-Mi sa che sta diventando un po’ sordo- pensò.
Di nuovo il vecchio chiamò: “Johnny….”. Ora il ragazzo notò, con sgomento, che la voce del nonno sembrava venire da molto lontano. Anche la prima volta era stato così, ma non ci aveva fatto caso.
“ENTRA, NONNO! E’ APERTO!” urlò Johnny. Corrugò la fronte, aspettando di vedere cosa sarebbe accaduto.
Di nuovo la voce, lontanissima: “Johnny….”.
Il ragazzo tentò di spalancare la porta della camera con la forza del pensiero. Restò di sasso, quando non successe nulla: la porta non si mosse.
“Johnny….”.
Allora si alzò, lentamente: avrebbe aperto di persona.
Pose la mano sulla maniglia; di nuovo la voce del nonno: “Johnny….”.
Il ragazzo aprì, titubante. Non sapeva cosa aspettarsi, ma quando ebbe dischiuso, non vide niente di strano. Il nonno era dall’altra parte della porta, e quando vide suo nipote esclamò: “Johnny! Finalmente!”.
“Nonno, ma perché….”.
“Johnny, dove sei?” chiese il vecchio.
“Eh?” fece il ragazzo.
“Dove ti trovi? Presto, rispondi”.
“Nonno, ma che dici?”.
“Abbiamo poco tempo, nipote. Dove ti trovi?”.
Johnny osservò suo nonno preoccupato. -Si sarà mica rimbambito?- pensò.
“Nonno, sono in camera mia, non vedi? Entra” gli disse.
“Non posso entrare” disse il vecchio.
-Sempre più strano- pensò Johnny. “Nonno….”.
L’altro però lo interruppe. “Nipote, questa non è la realtà, è un sogno. Io non posso entrare nella tua camera perché si trova in un altro tempo. Sono giorni e giorni che sto cercando te e le tue sorelle, e che provo a mettermi in contatto con voi col potere; finalmente oggi ce l’ho fatta”.
“Eh? Non capisco”.
“Dove ti trovi? In che luogo siete finiti tu e i tuoi amici? Ho bisogno di sapere dove siete per tentare di riportarvi indietro! Siete spariti dal treno mentre….”.
In quel momento il ragazzo ricordò. “Nonno! Ora mi è tornato tutto in mente!” esclamò. Poi si guardò intorno. “Ma questo è davvero un sogno?”. In quel medesimo istante tutto, intorno a lui, iniziò a sfocare.
“Che succede?” chiese, mentre sia i contorni della sua camera che il volto del nonno gli apparivano sempre più indistinti.
Anche la voce del vecchio diventò più flebile. “Johnny! Ti stai svegliando! Accade quando ci si rende conto di stare sognando! DIMMI DOVE SEI! PRESTO!”.
“SONO IN AMERICA!”.
“QUANDO?”.
“NEL VECCHIO WEST! SIAMO IN ARIZONA, VICINO AD UNA CITTA’ CHIAMATA TUCSON!”.
“MI SERVE UNA DATA PRECISA!”.
“NON LA CONOSCO!”.
“TORNERO’, RAGAZZO MIO! MI DEVI SAPER DIRE….”.
Johnny si svegliò all’improvviso, mentre le ultime parole del nonno gli riecheggiavano nelle orecchie. Si tirò su tremante e agitato, e si rese conto che tutti erano intorno a lui.
“Johnny!” chiamò Sabrina, china su di lui. “Che succede?”.
“Tesoro!” esclamò Tinetta. “Hai fatto un brutto sogno?”. Lui li osservò uno ad uno, con gli occhi strabuzzati; lo guardavano con aria preoccupata, tranne Renato, che era visibilmente contrariato dalle attenzioni riservategli da Tinetta.
“Fratellone, hai sognato il nonno?” gli chiese Manuela.
Lui raccolse le idee per un attimo, poi disse: “Si. Come lo sai?”.
“Lo chiamavi nel sonno” gli rispose Sabrina.
“Oh, capisco….” mormorò Johnny, ancora un po’ scosso. “Tutto a posto, comunque. Mi dispiace avervi svegliato”.
“Non hai svegliato solo noi, impiastro” gli disse Renato.
“Cosa….”; Johnny vide, in quel momento, che molti indiani del villaggio erano affacciati all’ingresso della capanna, e lo guardavano incuriositi e un po’ timorosi.
“Cavolo!” esclamò preoccupato. “Non vorranno punirci di nuovo?”.
“Non credo” rispose Sabrina. “Sembrano più agitati che arrabbiati”.
“E poi, da quando abbiamo contribuito alla ricchezza della tribù tornando dalla nostra escursione con quella bella mandria di cavalli siamo degli eroi” aggiunse Tinetta.
I Navajo continuarono ad osservare Johnny con enorme interesse; il ragazzo disse: “Mi sento un po’ a disagio, non potrebbero tornarsene a dormire?”.
“Hai fatto un bel chiasso, però” lo informò Manuela. “E’ normale che siano curiosi”.
“Veramente?” chiese Johnny, sorpreso.
In quel momento entrarono trafelati Cespuglio che Cammina e Nuvola Nera. Quest’ultimo domandò: «Cos’è accaduto, Bacio di Luna?». Sabrina non faceva più caso al modo in cui era conosciuta tra i pellerossa; ormai soltanto tra di loro lei e suoi amici si chiamavano coi propri veri nomi.
«Niente di grave» rispose la ragazza, minimizzando. «Johnny ha solo fatto un brutto sogno».
«Dicono che abbia parlato nel sonno» chiese Cespuglio che Cammina. «E’ vero?».
«Beh, si, ha svegliato tutti noi».
«Addirittura?».
«La cosa strana è che ha continuato a dormire nonostante i nostri tentativi di svegliarlo; sembrava che dovesse finire il sogno che stava facendo».
«E cosa diceva?» domandò Nuvola Nera.
A Sabrina tutta quella curiosità parve sospetta. «Perché vi interessa tanto?» domandò.
I due ragazzi si scambiarono un’occhiata; poi indicarono gli indiani della tribù, che adesso si erano allontanati dall’ingresso dell’hogan, anche se non sembravano intenzionati a tornarsene a dormire. Stavano invece commentando l’accaduto.
Cespuglio che Cammina si voltò nuovamente verso Sabrina, e le spiegò: «I Navajo (come tutti gli indiani, del resto), danno un’enorme importanza ai sogni. Credono che siano indicazioni degli spiriti o degli antenati, e li tengono in gran conto».
«Qualcuno che sogna con l’intensità con cui deve aver sognato Uomo Bambino stanotte è considerato un grande sensitivo» concluse Nuvola Nera.
«Dunque?» chiese Sabrina, che non capiva dove volessero andare a parare i due.
«Dunque Uomo Bambino sarà probabilmente interrogato da Freccia Rossa e Ta-Hu-Nah».
Ta-Hu-Nah, lo sciamano del villaggio, era uno degli uomini più saggi della tribù, nonostante la sua giovane età.
«Interrogato?» chiese Sabrina preoccupata.
«Non sarà pericoloso, sta tranquilla» disse Nuvola Nera. «Sarà presente anche uno di noi come traduttore».
Nonostante queste parole, Sabrina era comunque inquieta.
«Dobbiamo riferire a Ta-Hu-Nah cosa ci hai detto tu, e lui deciderà il momento in cui parlare con Uomo Bambino» continuò Nuvola Nera. «Sarà domani, quasi certo».
«E mi verrete ad avvisare voi?» chiese Sabrina.
«Naturale» rispose Cespuglio che Cammina. «Tu informa Uomo Bambino, e digli di non agitarsi».
Sabrina annuì, voltando lo sguardo verso Johnny; quando lei parlava in americano, i suoi amici seguivano attentamente la conversazione, tentando di cogliere qualche parola qua e là e cercando di capire dal tono del discorso che aria tirava: era così anche adesso.
Cespuglio che Cammina e Nuvola Nera le ripeterono di stare tranquilla, poi presero commiato.
Gli altri le si fecero intorno, tempestandola di domande.
Lei però li interruppe. “Ragazzi, calmatevi;. non è accaduto niente di grave”.
“Significa che è finita qui?” chiese Johnny, speranzoso.
“Ehm….” disse Sabrina, tergiversando, “non proprio”.
“Che vuoi dire?”.
“Domani, o comunque a breve, dovrai andare a parlare col capo e con lo stregone” disse Sabrina.
“Perché?” chiese Johnny timoroso.
“Lo stregone? Cosa vogliono fare al mio tesoro questi bruti?” le chiese Tinetta.
-Che bello!- pensò Renato sorridendo. -Una bella maledizione indiana sulla testaccia di Johnny! Oh, spero che sia così-.
Ma Sabrina infranse le sue speranze. “Non dovete preoccuparvi, vogliono solo parlare. Per i pellerossa tutto quanto è spirituale e sacro (almeno questo è quello che ho capito io), e i sogni sono considerati manifestazioni degli spiriti; probabilmente vorranno solo interpretare il tuo”.
“Mi auguro che sia così” mormorò Johnny.
“Ma si, non ti angosciare, fratellone” gli disse Simona. “Hai solo sognato il nonno. Che bello, vorrei che accadesse anche a me; vorrei tanto rivedere papà, i nonni, Ercole”.
“Se tu la smettessi di sognare torte, panini imbottiti e quintali di altro cibo, nei tuoi sogni ci sarebbe spazio anche per altro” le disse Manuela.
“Come fai a sapere queste cose?” domandò Simona, stupita.
“Non fai altro che borbottare mentre dormi, parlando solo di roba da mangiare” rispose Manuela.
Le gemelle iniziarono un battibecco, al quale si unirono i due immancabili, inopportuni, molesti e imbarazzanti Michael e Carlo.
“Simona, so che vorresti sognare me, vero?” le disse Carlo sornione.
“No di certo” intervenne Michael. “Povera Simona, sarebbe un incubo!”.
“Ehi!” esclamò Carlo risentito. “Tu non sei mica meglio di me”.
Prima che la discussione finisse nel solito delirio generale, Sabrina la interruppe dicendo: “Non credete sia il caso di tornarsene a dormire, adesso?”.
Gli altri smisero di bisticciare, e furono d’accordo con Sabrina; forse per quella notte ne avevano avuto abbastanza.
Le ragazze si ritirarono nella loro zona, i maschi si coricarono nei propri giacigli.
Poco dopo, Renato mormorò: “Ehi, Johnny, cerca di non svegliarci più, chiaro?”.
Johnny non rispose. Non aveva neppure sentito. Stava pensando alle parole del nonno in sogno: doveva scoprire la data precisa in cui erano finiti, e finalmente avrebbero ricevuto un aiuto dal loro tempo. Non vedeva l’ora di informare le sue sorelle di ciò che gli aveva detto il nonno. Rimuginando su questo, alla fine si addormentò.
 
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In condizioni normali, l’incontro che avvenne tra Freccia Rossa, Ta-Hu-Nah e Johnny non avrebbe avuto altri partecipanti fuorché i tre interessati, ma in questo caso furono ammessi anche Cespuglio che Cammina, incaricato di tradurre dal Navajo all’americano, e Sabrina, incaricata di tradurre dall’americano al giapponese.
Johnny e Sabrina entrarono nell’hogan di Ta-Hu-Nah insieme a Cespuglio che Cammina.
Era la mattina successiva al sogno di Johnny. Come aveva previsto Nuvola Nera, il capo Freccia Rossa e lo stregone non avevano perso tempo nell’indire il convegno.
I cinque si sedettero in cerchio a gambe incrociate, attorno ad un piccolo braciere, e
Ta-Hu-Nah appoggiò accanto a sé una grande borsa di pelle; fecero tutti silenzio mentre lo stregone accendeva un fuoco sotto il braciere.
Quando le fiamme ebbero scaldato il braciere, Ta-Hu-Nah ci versò dentro uno strano intruglio contenuto in una boccetta estratta dalla sua borsa. Poi mescolò per qualche minuto, osservando di tanto in tanto il risultato. Quando ne fu soddisfatto, estrasse altre boccette dalla sua borsa: contenevano varie polverine, che lo stregone versò nel braciere una ad una. Nel frattempo i presenti osservavano in religioso silenzio.
-Per fortuna- pensò Johnny, -solo io e Sabrina siamo presenti. Non voglio immaginare che disastri avrebbero combinato gli altri; a proposito di disastri, chissà dove sono andati Michael e Carlo. Sono usciti di fretta questa mattina e sono a partiti a cavallo. Mah, speriamo che se ne stiano fuori dai piedi il più a lungo possibile-.
Se Johnny avesse conosciuto le intenzioni di Michael e Carlo, sarebbe stato molto meno tranquillo. I due disgraziati infatti erano andati a procurarsi i cactus coi quali avevano intenzione di preparare la pozione da somministrare a Simona e Manuela.
Ignaro di questo, Johnny continuò ad assistere al misterioso rito di Ta-Hu-Nah.
Quando ebbe terminato di versare polverine nel braciere, lo stregone intonò un canto; Johnny e Sabrina erano nervosi, ma Freccia Rossa e Cespuglio che Cammina erano tranquilli, pur se molto assorti.
Poi il canto terminò, e Ta-Hu-Nah prese un cucchiaio di legno, prelevò un po’ della mistura appena realizzata e bevve; dopodiché tenne la testa alta e lo sguardo rivolto al cielo.
-Oh, cavolo- pensò Johnny, -non vorrà mica far bere quella porcheria anche a noi-.
Una rapida occhiata scambiata con Sabrina gli rivelò che anche lei temeva la stessa cosa; ma Ta-Hu-Nah non li obbligò a bere. Restò in silenzio per alcuni istanti, poi abbassò la testa. Johnny e Sabrina furono percorsi da un brivido, vedendo i suoi occhi: erano aperti ma rossastri, come se avesse un fortissimo sonno, ma erano fissi e concentrati, come se guardasse davanti a sé e contemporaneamente molto oltre. Johnny pensò che doveva essere in trance, o qualcosa del genere.
Freccia Rossa ruppe il silenzio, facendo una domanda a Cespuglio che Cammina; quest’ultimo la riportò a Sabrina, che tradusse per Johnny.
“Cos’hai sognato stanotte, Johnny?” chiese la ragazza.
Johnny si era ovviamente aspettato quella domanda: aveva già deciso di rispondere con sincerità (nei limiti del possibile).
“Ho sognato mio nonno; io ero in camera mia, a casa, e lui mi veniva a trovare”.
Sabrina rispose a Cespuglio che Cammina, che riportò a Freccia Rossa. La trafila ricominciò, col capo indiano che faceva un’altra domanda a Cespuglio che Cammina e il ragazzo che traduceva per Sabrina.
Stavolta la richiesta era: “Cosa accadeva nel tuo sogno?”.
Johnny, per tagliare la testa al toro, raccontò per filo e per segno tutta la parte iniziale del sogno, ma quando giunse al punto in cui il nonno gli parlava, raccontò che non gli aveva detto nulla d’importante.
“Mi ha soltanto chiesto come sto. E’ molto lontano da noi e sicuramente gli mancano i suoi nipoti; anche a me manca” concluse Johnny.
Di nuovo la procedura si ripeté al contrario. Freccia Rossa ascoltò la risposta, poi rifletté alcuni secondi e pose un’altra domanda.
“In che rapporti sei con tuo nonno?”.
“Siamo legati. Mio nonno è come un ragazzino pestifero, ma è anche molto saggio: sa un sacco di cose e mi aiuta ogni volta che può”.
Quando Freccia Rossa ebbe ascoltato anche questa risposta, non chiese altro. Ta-Hu-Nah, che fino a quel momento era sembrato restare del tutto estraneo alla situazione, alzò lentamente una mano, e afferrò una delle mani di Johnny: al ragazzo prese quasi un colpo.
Ta-Hu-Nah indicò dentro il braciere, dove bolliva l’intruglio che aveva ingurgitato poco prima.
-Ecco, ci siamo- pensò Johnny, -vuole che beva quella roba. Sento che starò male e rovinerò tutta la cerimonia-.
Ma per fortuna non gli fu chiesto niente del genere.
Sabrina tradusse le istruzioni appena ricevute: “Guarda dentro il braciere, e dì cosa vedi”.
-Oh, meno male- pensò il ragazzo, affacciandosi sulla sostanza che cuoceva nel contenitore davanti a lui.
Non vide altro che una miscela sospetta che ribolliva e pensò: -Ma cosa vuole che ci veda lì dentro? Chissà quali schifezze ci ha buttato; speriamo che non mi faccia male inalarne il vapore-.
Forse gli fece male, forse no, ma ad un certo punto Johnny vide effettivamente qualcosa nel vapore che saliva dal braciere, e cioè il viso di Sabrina. Ne fu talmente sorpreso che sobbalzò.
“Johnny, tutto bene?” domandò Sabrina.
Il ragazzo, basito, non rispose. Guardò con gli occhi sgranati prima l’amica, poi il fumo che saliva davanti a lui. Freccia Rossa, però, lo invitò con un gesto ad osservare ancora. Johnny, titubante, guardò di nuovo il vapore; Ta-Hu-Nah non aveva ancora lasciato la sua mano.
Freccia Rossa impartì un’istruzione, che Sabrina riferì: “Johnny, stavolta guarda fino alla fine, qualunque cosa tu veda”.
“Ah, va…. va bene” disse lui, sommessamente.
Deglutì e si concentrò. Per qualche tempo non accadde nulla, ma poi tornò a vedere il viso di Sabrina; l’immagine divenne più definita, e si trovò a guardare la sua amata che cavalcava da sola, nella notte. Il volto della ragazza era determinato e serio; Johnny provò una sensazione angosciante, come se qualcosa di pericoloso incombesse su di lei. Stava per gridarle un avvertimento, quando l’immagine cambiò: vide suo nonno camminare e guardarsi intorno, aggirarsi in una città (evidentemente) sconosciuta, cercando di comunicare con gli abitanti. La città era chiaramente del suo tempo, con automobili, aerei, e tutto il resto. Non era una città giapponese, di questo Johnny era sicuro, ma prima che potesse intuire altro l’immagine scomparve.
Continuò a guardare, ma non accadde altro. Alzò gli occhi su Sabrina, e si accorse che qualcosa la turbava; lo stava guardando con palese inquietudine.
“Cos’hai?” le chiese.
“Stai bene?” domandò lei di rimando, sempre con quell’aria ansiosa.
“Io…. si, direi di si” rispose, poi girò gli occhi sugli altri; si rese conto che tutti i presenti sembravano impressionati.
-Ma che hanno?- pensò. -Sembra che abbiano visto un fantasma-.
Poi si accorse che il fuoco era spento, e chiese: “Ehi, perché lo avete spento?”.
“Non siamo stati noi” gli rispose Sabrina. “Si è consumato da solo”.
“Ma se bruciava poco fa”.
“Tu credi?” disse Sabrina. “Quanto tempo è passato da quando hai guardato nel braciere?”.
Johnny si strinse nelle spalle. “Non so; cinque minuti?”.
Sabrina gli si avvicinò. “Johnny, è passata più di un’ora”.
Lui la guardò sbigottito, poi rise. “Si, certo” disse.
“E’ vero” ribadì Sabrina. “Non vedi che siamo tutti turbati?”.
Il ragazzo restò di sasso. “Ma…. dici sul serio?”.
“Che motivo avrei di mentirti?”.
“E’…. è assurdo; mi sono sembrati pochi minuti, te lo assicuro”. Si guardò intorno. “E cosa ne hanno detto il capo e lo stregone?”.
“Ta-Hu-Nah è rimasto in una sorta di trance per un po’, tenendoti la mano. Poi è tornato in sé; ci ha ordinato di non disturbarti, perché stavi guardando lontano, così ha detto”.
“Oh, davvero?”.
“Già, però anche lui è stato sorpreso dal tempo che hai impiegato a tornare tra noi: ha detto che le tue capacità devono essere straordinarie”.
A Johnny prese un colpo. “Le mie…. ehm…. capacità? Figuriamoci…. ehm…. ma quali capacità? Eh ehe” bofonchiò, allarmato, sfoderando il suo sorriso idiota. Poi gli venne una plausibile idea per cavarsi d’impaccio: assunse un tono colpevole. “In confidenza, Sabrina, devo essermi addormentato”.
“Veramente?” disse Sabrina, che parve quasi sollevata; aggiunse: “Lo sospettavo, sai? Però avevi gli occhi aperti, era impressionante”.
“Beh, lo credo…. ehm…. chissà quali porcherie ci sono qui dentro” disse Johnny. “Spero che non mi abbiano fatto male”.
In quel momento Ta-Hu-Nah li interrupe, dicendo qualcosa a Cespuglio che Cammina, che tradusse per Sabrina. Johnny immaginò che volessero sapere cosa gli era apparso.
“Chiedono cosa hai visto, Johnny” disse Sabrina confermando la sua previsione. Lui decise subito che avrebbe parlato solo del nonno.
“Ho visto mio nonno, che credo cercasse me e le mie sorelle. Si aggirava in una città sconosciuta, forse a caccia di informazioni”.
“Dunque hai avuto davvero una visione!?” disse Sabrina, stupita.
“Eh?” fece il ragazzo, colto di sorpresa. “Ma no, no…. ehm…. io non la chiamerei una visione…. ecco…. si, insomma…. era un sogno! Ecco si, un sogno!”.
“Oh, giusto, un sogno” disse Sabrina. “Dopotutto stavi dormendo”.
“Eh, si, infatti” confermò Johnny tirando un sospiro di sollievo. -Diavolo, questa conversazione è un campo minato- pensò.
Sabrina riferì il contenuto della visione; Ta-Hu-Nah ascoltò con estremo interesse, poi parve riflettere.
Johnny era sulle spine. -Speriamo che non faccia altre domande- pensò.
Lo stregone si rivolse a Freccia Rossa; parlarono a lungo, cosa che a Johnny non piacque.
A conferma dei suoi timori, Ta-Hu-Nah lo indicò; il ragazzo pensò -Oh, no, e ora che vuole?-.
Poco dopo, Cespuglio che Cammina riferì a Sabrina le decisioni del capo e dello stregone; lei ascoltò incredula, e quando si volse a Johnny lui era già agitatissimo.
“Sabrina, che c’è? Hai una faccia che mi preoccupa”.
“Hanno cambiato il tuo nome indiano” esordì Sabrina. “Adesso non ti chiameranno più Uomo Bambino, ma Parla coi Sogni”.
Johnny ne fu sorpreso, ma non dispiaciuto. “Davvero? Meno male, non mi disturba affatto”.
L’espressione di Sabrina però non era cambiata.
“Ehm, c’è dell’altro?” chiese Johnny, titubante.
“Ho paura di si” rispose lei.
“Figurarsi!” sbottò il ragazzo. “Mi sembrava troppo bello. Sicuramente vogliono punirmi per qualche loro assurda ragione; cos’ho fatto di male? Sentiamo”.
“Non credo intendano punirti” disse Sabrina. “Ta-Hu-Nah dice che non ha mai percepito tanto potere in qualcuno”.
“Ma che stupidaggine” commentò Johnny. “Stavo solo dormendo”.
“Si, ma loro non lo sanno. Ti hanno nominato nuovo stregone della tribù; o meglio, per ora diciamo apprendista”.
Johnny non se lo aspettava; in un primo momento pensò di aver capito male.
“Scusa?” chiese. “Non ho afferrato”.
“Ta-Hu-Nah è giovane, ma dice di essere disposto a cederti il suo ruolo, poiché (secondo lui) hai delle facoltà sovrumane; crede che tu sia stato inviato dal Grande Spirito per succedergli. Dovrai prendere lezioni da lui per diventare il nuovo sciamano”.
“Eh?” Johnny non se ne capacitava. “Stai scherzando?”.
“No, Johnny. Purtroppo no”.
Il ragazzo ammutolì, guardando a terra. Poi alzò lo sguardo su Sabrina, dicendo: “Beh, direi che sono lusingato da tale offerta, che giunge del tutto inattesa cionondimeno mi rende un onore cui mai avrei preteso di aspirare”.
“Ehm” mormorò Sabrina, perplessa, “sono contenta che tu la prenda bene, Johnny”.
“Già” disse Johnny sorridendo. Poi si alzò in piedi di scatto e schizzò fuori dalla capanna urlando:
“AAAAHHHH!!!!”.
“Ecco, mi pareva” disse Sabrina gettandosi fuori a sua volta, allarmata; vide Johnny che correva di qua e di là, in preda al panico. Per qualche istante il ragazzo provocò lo scompiglio più totale nel villaggio, poi andò a sbattere contro il totem, e svenne.
 
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Nonostante la paura, Johnny fu obbligato ad accettare il suo nuovo incarico. Nei riti apparentemente assurdi e superstiziosi di Ta-Hu-Nah (che senz’altro non aveva le capacità di Johnny), doveva esserci qualche oscuro potere, magari debole, ma sufficiente a rivelare allo stregone Navajo che il ragazzo straniero non era un comune essere umano. Il nostro eroe fu lieto solo del fatto che adesso gli indiani lo rispettavano, e che il suo nome fosse finalmente cambiato.
Ta-Hu-Nah insegnò a Johnny, con l’aiuto dei traduttori, i rudimenti delle cerimonie della tribù.
Per essere più precisi, in effetti, Ta-Hu-Nah TENTO’ di insegnare a Johnny, ma trovò in lui un allievo disastroso. Il ragazzo, distratto per natura, svogliato per indole, imbranato per vocazione, non faceva progressi; in realtà, non era neanche interessato a farne: l’ultima cosa che voleva era restare in quel posto a fare i giochetti con le polverine.
Aveva rivelato alle sue sorelle ciò che aveva sognato, e le gemelle ne erano state felici. Come lui, contavano sul nonno perché aiutasse tutti loro a tornare a casa. Johnny si era fatto dire l’attuale data da Sabrina, che aveva dovuto informarsi presso Cespuglio che Cammina.
Adesso Johnny doveva solo sperare di sognare presto il nonno.
Nel frattempo, però, era obbligato a seguire le fastidiose lezioni di Ta-Hu-Nah, alle quali era decisamente refrattario.
Chi invece fece enormi progressi in quel campo furono Michael e Carlo; una volta procuratisi il cactus di cui aveva parlato Nuvola Nera, riuscirono a farsi rivelare, chiedendo un po’ in giro (fingendo semplice curiosità) come ricavarne la pozione atta a controllare la volontà altrui.
Nonostante il procedimento non fosse affatto semplice, i due lazzaroni profusero in quel compito TUTTE le loro maniacali forze, e in breve tempo raggiunsero lo scopo.
Riuscirono a preparare la pozione.
Decisero che il momento ideale per provarla sarebbe stato quando i loro hogan fossero stati pronti e si fossero trovati soli con le rispettive mogli.
I lavori per gli hogan, che già procedevano celermente, subirono un ulteriore incremento di velocità.
Fu così che arrivò il giorno in cui le capanne di Michael e Carlo erano pronte.
Sorsero subito problemi: Simona, Manuela e Johnny erano contrari al trasferimento delle ragazze da sole coi due maniaci. Anche Tinetta e Sabrina erano contrarie, perché temevano per l’incolumità delle gemelle.
Ma per rendere credibile la loro bugia sull’essere sposati, le coppie dovevano trasferirsi a vivere da sole; a questo nessuno poteva opporsi.
Johnny, però, propose che le sue sorelle non si trasferissero negli hogan di Michael e Carlo finché anche lui e Renato non avessero terminato di costruire i loro.
La proposta fu accettata di buon grado da tutti. Gli altri si aspettavano che Michael e Carlo contestassero questa decisione, ma i due sorpresero l’intero gruppo adattandosi ad essa, senza neppure protestare. La spiegazione di questo comportamento era semplice: avevano deciso di non apparire troppo ansiosi di restare soli con le gemelle, altrimenti le avrebbero spaventate. Dal momento che avevano un eccellente asso nella manica da giocarsi, non volevano metterle in guardia. In un certo senso, però, questo modo di fare si rivelò controproducente: gli altri, infatti, furono sconvolti da tanta mansuetudine, e si preoccuparono più che mai.
Senza credere nemmeno un istante alla loro buona fede, Manuela si avvicinò a Simona e le sussurrò: “Dovremo fare MOOOLTA attenzione, sorellina”.
“Se tentano qualche scherzo, giuro che li spedisco in orbita” disse Simona, bellicosa.
Nonostante l’idea di Johnny avesse permesso di guadagnare tempo, arrivò presto il giorno in cui tutti gli hogan furono pronti; Renato, infatti, non era affatto interessato all’incolumità delle gemelle, anzi era lui stesso ansioso di ritirarsi nel suo rifugio d’amore con Tinetta. In quanto a Johnny, era combattuto tra il desiderio di proteggere le sorelline e la voglia di restare solo con Sabrina.
Alla fine, decise che Manuela e Simona erano in grado di difendersi; se mai si fossero trovate nell’impossibilità di usare il potere, suggerì loro di urlare a pieni polmoni, e lui sarebbe intervenuto subito.
Prima della notte che avrebbero trascorso negli hogan appena costruiti, il gruppo si riunì nella capanna in cui avevano vissuto tutti insieme fino a quel momento; le ragazze si salutarono calorosamente, scambiandosi abbracci e parole d’affetto. I ragazzi si guardarono in cagnesco.
“Che bello” disse Renato a Johnny. “Non sarò più obbligato a vedere la tua brutta faccia la mattina, appena sveglio”.
“Ma guarda” ribatté Johnny. “Pensavo proprio la stessa cosa”. Poi si rivolse a Michael e Carlo: “E voi due cercate di comportarvi bene, o ve la vedrete con me”.
“Noi?” dissero in coro i due, con aria innocente. “Starai scherzando, non abbiamo affatto cattive intenzioni”.
Stavano ancora seguendo la strategia del fingere purezza; Johnny sentì un brivido di orrore.
-Cavolo- pensò, -sono più spaventosi adesso di quando si comportano come al solito. Sono sicuro che hanno qualcosa di strano in mente-.
Giunse alfine il momento in cui le coppie si separarono, andando ognuna nel proprio hogan.
Carlo, però, condusse Simona verso quello di Michael.
“Perché entriamo qui?” chiese Simona. Dentro vide Michael e Manuela seduti su una coperta, e davanti a loro quattro ciotole, con dentro un liquido non identificato.
“Salve, ragazzi, sedetevi” li invitò Michael.
I due si accomodarono; Simona e Manuela si scambiarono un’occhiata sospettosa.
Ma Carlo e Michael si comportarono normalmente.
“Abbiamo pensato di fare un piccolo brindisi per festeggiare la costruzione delle nostre capanne” disse Michael, indicando le ciotole davanti a sé.
Le gemelle guardarono circospette le bevande. “Un brindisi con cosa?” chiese Manuela.
“Oh, ehm, un succo di frutta” rispose Michael.
“Quale frutto?” domandò Simona.
“Oh…. uh….” Michael e Carlo balbettarono, scambiandosi uno sguardo allarmato; infatti non avevano pensato a preparare risposte adeguate a quelle domande, nonostante fosse ovvio che le ragazze le avrebbero poste.
“Oh, è solo succo di…. di limone” disse Carlo prendendo la ciotola e avvicinandola alle labbra di Simona. “Vedrai com’è buono”.
Simona però si ritrasse. Michael intervenne prendendo la bevanda dalle mani dell’amico. Fingendosi rilassato, disse: “Ma su, Carlo, non insistere. Questo succo di limone è squisito, ma se le ragazze non lo gradiscono lascia perdere”.
“Dove li avete trovati i limoni?” chiese Manuela.
“Oh, beh, qui…. intorno…. in direzione sud…. est…. di là!”.
“Ma siamo praticamente nel deserto” osservò Manuela.
“Oh, infatti è stata così dura! Vero Carlo?”.
“Che cosa?” domandò Carlo.
“Trovare questa pianticella, amico” rispose Michael a denti stretti. “Vero che è stata un’impresa ardua trovare una pianticella di limoni e ricavarne questo poco succo che siamo riusciti faticosamente a spremere?”.
“Oh…. oh, si” concordò Carlo che aveva capito le intenzioni del compare. “Sapeste, abbiamo dovuto lottare contro un puma che faceva la guardia alla pianta, e sconfiggerlo a mani nude mentre….”.
“Oh, non esagerare, adesso, amico” disse Michael. “Dopotutto quel puma non era così crudele, anche se ci ha quasi ucciso”.
“Infatti! Ma noi non siamo indietreggiati, no! Abbiamo affrontato mille pericoli per poter avere un po’ di limonata da offrire alle ragazze in questo giorno speciale”.
“Beh, ma loro adesso non la gradiscono” disse Michael, con tono dispiaciuto. “Pazienza, vuol dire che la berranno in un altro momento”.
“Già, pazienza, anche se non sarà la stessa cosa”.
“Su, andiamo a curarci le piaghe sulle mani dovute all’eccessiva forza con cui abbiamo spremuto i duri e aspri limoni”.
“Oh, si, ma prima assaggiamo un po’ della limonata che siamo riusciti a preparare con tanta fatica, sangue e lacrime”.
I commedianti presero due delle quattro ciotole davanti a loro; in tutte era stata versata
la pozione: Michael e Carlo avrebbero solo fatto finta di bere.
Simona e Manuela si guardarono e si arresero. “Va bene, berremo con voi” disse Manuela.
“Ci fa molto piacere” dissero i due ragazzi, mentre alzavano lentamente le ciotole verso le labbra.
In quel momento, però, entrarono Johnny, Renato, Tinetta e Sabrina.
“Ehi, che state combinando?” chiese Tinetta. “Fate una festa senza di noi?” e si gettò in mezzo ai quattro, urtando con forza Michael e Carlo, col risultato di far loro bere accidentalmente la pozione.
I due intriganti si guardarono a bocca aperta.
“L’hai…. l’hai bevuta?” mormorò Carlo.
“Si…. e tu?” disse Michael. Carlo annuì.
“E…. e ora?” si chiesero in coro i due.
“Cosa ci fate qui?” chiese Manuela ai nuovi venuti.
“Abbiamo visto Carlo che ti portava qui dentro e abbiamo pensato che voleste festeggiare senza dirci niente; e infatti avevamo ragione, brutti antipatici” spiegò Tinetta.
“Noi non c’entriamo nulla” si difese Simona. “L’idea è stata di Michael e Carlo”.
“Ehi, cosa bevete?” domandò Renato.
“E’ limonata” rispose Simona.
“Uh, che buona” disse Renato prendendo una delle ciotole rimaste a terra e ingurgitandola.
“Che maleducato!” esclamò Tinetta. “Chi ti ha detto che fosse per te?”.
Renato posò la ciotola, ormai svuotata. “Che strano sapore ha questa limonata” disse.
“L’hanno preparata Michael e Carlo, per noi” rispose Manuela.
“Coooosa?!” esclamò Johnny. “Le mie sorelle non berranno niente preparato da quei due squilibrati” e dicendo così afferrò l’ultima ciotola e ne svuotò il contenuto in un sorso.
“Beh, si, in effetti ha uno strano sapore, ma non è cattiva” disse Johnny. Poi si rivolse a Michael e Carlo. “Mi sorprende che ne abbiate combinata una giusta, voi due”. I due non gli risposero.
“Ehi, che vi prende?” chiese Johnny.
Michael e Carlo guardavano nel vuoto, senza espressione.
“Ma che hanno?” domandò Simona.
“Ehi, anche Renato si comporta in modo strano!” esclamò Tinetta.
Anche su Renato la pozione aveva fatto effetto: al pari degli altri due, fissava il vuoto inespressivo.
“Anche Johnny, adesso” disse Sabrina.
“Fratellone!” disse Simona. “Ma che ti prende?”.
“Tesoooro!” lo chiamò Tinetta. “Mi fai stare in pensiero, così”. Ma anche Johnny non dava segni di coscienza.
“Ragazzi!” disse Sabrina. “Smettete subito di fare gli stupidi! Comportatevi seriamente”.
Dal momento che quello era un ordine, i quattro ragazzi obbedirono.
Johnny prese un pezzo di legno e cominciò a fare calcoli nella sabbia; Renato lo affiancò,
dicendo: “Sarebbe un onore aiutarla, esimio”.
“La ringrazio, illustre collega” rispose Johnny.
Michael e Carlo invece iniziarono a pulire la capanna, passando degli stracci.
“Oh, quanta fatica tenere in ordine” commentò Carlo.
“Si, ma è così bello rendersi utili come brave persone” disse Michael.
“Ma che…. diavolo fanno?” disse Tinetta.
“Ehi, che state facendo?” chiese Manuela, sconcertata. “Rispondete”.
Dal momento che rispondete era un ordine, i quattro risposero.
“Io tento di verificare un teorema di matematica, poiché è un’occupazione da persona seria” disse Johnny.
“E io lo aiuto” aggiunse Renato. “Perché aiutare il prossimo è un’occupazione seria”.
“Noi invece puliamo” risposero Michael e Carlo. “E’ un compito serio”.
“Ci state prendendo in giro?” domandò Sabrina; i ragazzi la ignorarono.
“Perché non la fate finita?” disse Tinetta. “Sono contenta che finalmente andiate d’accordo, ma siete troppo strani”. I quattro ignorarono anche lei.
“Oh, basta!” esclamò Simona. “Sapete una cosa? Andate a fare gli scemi da un’altra parte! Molto lontano, però, chiaro?”.
I quattro ragazzi obbedirono. Uscirono e andarono verso i cavalli.
“Ma che fanno?” chiese Sabrina, sbalordita.
Johnny, Renato, Michael e Carlo salirono in groppa ai cavalli e si allontanarono nel buio.
Mentre scomparivano dalla loro vista, le ragazze sentirono Renato chiedere: “Dove andremo a fare gli scemi?”.
“Lontano, molto lontano” rispose Johnny.
“Yuuhhuuuu!” gridarono i quattro pieni di entusiasmo.
Sabrina, Tinetta, Simona e Manuela li osservarono andarsene, attonite.
“Ma che è successo?” mormorò Tinetta, smarrita.
Le altre non le risposero.
“Ehm…. che ne dite, andiamo a dormire?” propose Manuela.
“Vi va se dormiamo tutte insieme?” chiese Simona. Le altre annuirono.
“Ehi, non credete che dovremmo andare a cercarli?” chiese Tinetta.
Le altre non seppero cosa rispondere.
Poi Simona sbottò: “Oh, lasciamo perdere! Dammi retta, Tinetta, quelli sono talmente imbecilli che più lontani se ne stanno, meglio è”.
Le ragazze, ancora confuse, andarono verso l’hogan in cui avevano sempre dormito, e vi entrarono, cercando di non pensare ai ragazzi e alla loro stupidità.
 
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Nel tardo pomeriggio del giorno successivo Johnny e gli altri non erano ancora tornati. Sabrina, Tinetta, Simona e Manuela erano riunite davanti al loro hogan, e discutevano se era il caso di partire per andare a cercare i ragazzi.
Sabrina non riusciva ad essere del tutto coinvolta nella conversazione, perché la figlia del capo Freccia Rossa, Lilyth, le stava in grembo e voleva coinvolgerla nei suoi giochi.
All’interno della tribù non avevano veri amici (a parte Chase e soci); i Navajo erano gentili, ma per lo più li ignoravano, poiché era difficilissimo comunicare con loro. Ma per qualche motivo, anche se non li capiva, la piccola Lilyth si era affezionata agli stranieri, soprattutto a Sabrina.
La ragazza non ne era dispiaciuta: Lilyth aveva un carattere a dir poco dolcissimo. Era esuberante, e un po’ capricciosa, ma era talmente buona e generosa da commuovere i grandi. Tinetta aveva detto che la bimba le ricordava Sabrina da piccola; a Sabrina la bimba ricordava Tinetta da piccola. Forse in Lilyth c’era un po’ di entrambe.
L’unica cosa che le dispiaceva era che occuparsi di Lilyth le impediva di dedicarsi a Dinamite, il suo cavallo. Dinamite era il selvaggio capobranco che aveva domato tempo prima.
Lo aveva chiamato così perché Johnny, un giorno, aveva commentato: “Quel cavallo è davvero esplosivo; è pura dinamite”. Il paragone le era piaciuto molto, e il nome era stato deciso.
“Io sono preoccupatissima!” esclamò Tinetta, distogliendo Sabrina dalle sue riflessioni. “Il mio Johnny se la sa senz’altro cavare, ma dovrà proteggere anche quegli altri tre incapaci”.
“Già, certo” disse Manuela. “Ma nell’eventualità che anche mio fratello non sia, ecco, così in gamba, credo che dovremmo andarli a cercare”.
“Uffa!” disse Simona. “Ma perché vi angosciate tanto? Quegli scemi se ne sono andati di loro iniziativa, e ci hanno pure preso in giro. Quando avranno perso la voglia di fare gli idioti torneranno”.
“Beh, ma a me sono parsi così strani” disse Manuela. “Per questo mi preoccupo; non sembravano gli stessi di sempre”.
“Questo è poco ma sicuro” intervenne Sabrina. “Non sono mai andati d’accordo come ieri sera, quei quattro”.
In quel momento le raggiunsero Cespuglio che Cammina, Nuvola Nera e Vento nella Bocca.
«Salve, ragazze» salutarono.
«Salve a voi» disse Sabrina, mentre le altre risposero al saluto con un gesto.
I tre si sedettero con loro. Erano gli unici coi quali potevano parlare, grazie a Sabrina.
«I vostri amici stanno tornando» disse Nuvola Nera.
«Veramente?» domandò Sabrina.
«Si» rispose Vento nella Bocca. «Sono stati avvistati da alcuni guerrieri di sentinella. Ma dove erano andati?».
«Non lo sappiamo neanche noi, Bocca» gli disse Sabrina; ormai da molti giorni anche lei e i suoi amici si erano abituati a chiamare i tre mezzosangue coi rispettivi nomi indiani. Sabrina temeva il momento in cui anche tra loro avessero iniziato a chiamarsi coi nomi Navajo. Per esempio, quel pomeriggio, per la prima volta, Tinetta si era istintivamente rivolta a lei chiamandola Bacio di Luna; questo la preoccupava.
Ma al momento era più importante che Johnny e gli altri fossero tornati.
Sabrina ne informò le sue amiche.
“Finalmente!” disse Tinetta. “Come stanno?”.
«Chiedono come stanno» disse Sabrina.
«Non lo sappiamo» rispose Cespuglio che Cammina. «Sono ancora molto lontani dal villaggio».
«Ma allora….».
«Sono stati avvistati dalle sentinelle, che hanno lanciato segnali di fumo, e la notizia è arrivata sino a noi» disse Nuvola Nera.
«Ormai è quasi notte, perciò probabilmente si accamperanno da qualche parte».
«Dunque saranno di ritorno domani?» chiese Sabrina.
«Si, domani, circa a metà mattina» rispose Nuvola Nera.
[Ma cosa dite? Gioca con me, Bacio di Luna!] esclamò Lilyth.
«Calma, piccola» disse Sabrina, ben sapendo che la bambina, anche se non capiva la lingua, coglieva il senso di ciò che le diceva.
Lilyth la osservò dal basso, e le sorrise.
«Che c’è?» domandò Sabrina. La bimba si tirò su e afferrò il naso di Sabrina, dicendo: [Il naso di Bacio di Luna è bello, Lilyth se lo porterà via!].
«Ah, è così, eh?» disse Sabrina, afferrando a sua volta il nasino della piccola. «E io mi prendo il tuo».
Cespuglio che Cammina si rivolse a Lilyth. [Tuo padre ti cercava. E’ tardi e devi andare a dormire].
[No!] protestò lei. [Lilyth vuole dormire con Bacio di Luna!].
[Beh, devi chiederlo a Freccia Rossa. Và da lui] le disse Nuvola Nera.
Lilyth saltò giù, prese la mano di Sabrina e le disse: [Vado da mio padre! Bacio di Luna aspetta qui!] e partì di corsa.
«Cosa le avete detto?» chiese Sabrina.
«Vuole dormire con te» le disse Vento nella Bocca. «E’ andata a chiedere il permesso a suo padre».
«Eh? Veramente?».
«Proprio così» disse Cespuglio che Cammina. Poi si rivolse ai suoi amici: «Io me ne vado a dormire, ragazzi».
«Anche io» disse Nuvola Nera. Si alzarono e si allontanarono. Augurarono la buonanotte a Sabrina e le altre, che ricambiarono.
«Uffa!» sbottò Vento nella Bocca, alzandosi e incamminandosi dietro agli amici. «Ma come potete andare a letto così presto? A Philadelphia stavamo alzati fino a tarda notte».
«Hai notato che non ci sono molti saloon né sale da gioco qui intorno?» gli chiese Cespuglio che Cammina.
«E poi tu non fai un cavolo tutto il giorno. Noi siamo stanchi perché ci alziamo sempre all’alba per lavorare» lo accusò Nuvola Nera.
«Non è vero, Nuvolaccia!» protestò Vento nella Bocca. «Io lavoro quanto e più di voi».
«Ecco, ci mancava solo questa! Complimenti per l’assurdità!» disse Nuvola Nera.
«Cosa vorresti dire?».
«Indovina!».
«Io forse lavoro meno di voi, ma ciò che faccio è più importante! Ho delle responsabilità: sono un’autorità, sapete?».
«Basta!» sbottò Nuvola Nera. «Sai che mi dai ai nervi quando parli così».
«Perché non ti piace la verità!».
«Ragazzi, mi fate impazzire! Smettetela!» sbraitò Cespuglio che Cammina.
Litigando come al solito, sparirono alla vista di Sabrina e le altre.
“Hanno nomi diversi, ma sono sempre gli stessi” disse Sabrina, sospirando.
“Allora, Sabrina, come stanno Johnny e gli altri?” chiese Manuela.
“Oh, già. Non possiamo saperlo, ancora”.
“Perché?”.
“Perché sono lontani dal villaggio. Arriveranno domattina, probabilmente”.
“Oh, il mio Johnny. Resisterò lontana da lui un'altra notte?” si lamentò Tinetta.
“Ehi, guardate” disse Manuela. “Lilyth sta tornando”.
Sabrina si voltò, e vide la bambina venire verso di lei; quando la piccola la raggiunse, le gettò le braccia al collo.
[Mio padre mi ha dato il permesso di dormire con Bacio di Luna!] gridò, felice.
“Credo di capire che resterai con noi, stasera” le disse Sabrina.
Lilyth non rispose, ma si infilò dentro l’hogan delle ragazze di corsa.
“Eh? Lilyth starà qui?” chiese Manuela.
“Per stanotte si” rispose Sabrina.
“Mi sa che non dormiremo molto” previde Simona.
“Forse” disse Tinetta. “Ma ci divertiremo un sacco”.
Lilyth si affacciò all’ingresso dell’hogan, e chiamò le sue amiche: [Venite! Vieni, Bacio di Luna!].
“Arriviamo” le disse Sabrina. La bimba sparì nuovamente dietro il telo; le ragazze la seguirono.
 
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La notte precedente Johnny e gli altri l’avevano passata a fare gli scemi, molto lontano dal villaggio, come aveva ordinato loro Simona.
I ragazzi erano partiti al galoppo gridando come ossessi. Michael, Carlo e Renato, però, essendo dei cavalieri piuttosto scarsi, riuscivano a malapena a stare in sella, se la velocità era eccessiva. Johnny ovviava a questo problema col suo potere.
“Dobbiamo andare lontano, molto lontano” disse Johnny. “Perché vacillate così?”.
“Perché è difficile stare a cavallo” rispose Michael. “Ma è divertente rischiare l’osso del collo. Ora mi isserò in piedi sulla groppa e cavalcherò senza mani”.
“Ti aiuterò io col mio potere” disse Johnny, e così fece.
“Grazie, Johnny. Sei un amico” gli disse Michael.
“Aiuta anche me” disse Renato. “Voglio fare la piroetta sulle mani a testa in giù con accerchiamento”.
“Va bene” acconsentì Johnny.
“E io ho fameeeeee!” gridò Carlo, piangendo. Gli altri risero. Allora Carlo pianse di più.
Galopparono per molti chilometri, poi Johnny fermò il suo cavallo.
“Uuuh, ci siamo fermati, perché?” domandò Renato, arrestando a sua volta il cavallo ma continuando a saltare sulla groppa. “Io voglio proseguire”.
“Siamo arrivati molto lontano” li informò Johnny.
“Ooooh” fecero gli altri in coro guardandosi intorno. “Davvero?”.
“E io ho fameeeee!” gridò Carlo, piangendo. Gli altri risero. Allora Carlo pianse più forte.
“Bene. Io ho bisogno di telefonare a casa” disse Johnny scendendo da cavallo; prese una manciata di terra e se la gettò nelle orecchie. “Pronto?” disse. “Vorrei ordinare una pizza per Carlo”.
Carlo, continuando a piangere, prese un pezzo di legno e disse: “La caccia al cervo è aperta!”.
“No! Non andare!” esclamò Michael. “Non lasciarmi solo!”.
“Mi spiace, ma devo andare! Il mio destino mi chiama”.
Nel frattempo Renato tirava la coda al suo cavallo, rischiando di beccarsi un calcio, e diceva: “Non darti tante arie solo perché sei così alto: pensi che io non potrei portarti? Scommetto che potrei trasportare te e tutti i tuoi parenti sulla schiena”. Per fortuna si stancò presto di quel gioco pericoloso, e si dedicò ad altro.
Johnny cominciò a volare, gridando: “SONO SUPERMAN!”.
“Vieni giù, Johnny!” esclamò Renato. “La cena è pronta!”.
“NON SONO JOHNNY! SONO SUPERMAN!”.
Carlo, ancora in lacrime, gli tirò un sasso, strillando a pieni polmoni: “E IO HO FAMEEEE!”.
Gli altri risero. Allora Carlo pianse più forte.
Andarono avanti così per molte ore, finché non terminò l’effetto della pozione; quando accadde, crollarono esausti a terra, e dopo pochi minuti si addormentarono. Avevano passato l’intera notte a scatenarsi in sfrenate idiozie, senza poter dormire né riposarsi, obbligati a rispettare l’ordine di Simona.
Quando si ripresero, alcune ore dopo, nessuno di loro ricordava nulla di ciò che era successo. Fu una fortuna per Johnny (che aveva usato apertamente i suoi poteri).
Il primo a svegliarsi fu Renato. Si guardò intorno, confuso: vide i suoi amici ancora stesi a terra.
“Cavolo, che mal di testa” mormorò. I postumi della pozione erano gli stessi di una bella sbronza.
Si alzò in piedi. “Ehi!” esclamò, per chiamare gli altri. Nessuna risposta.
Il più vicino a lui era Carlo; gli si inginocchiò accanto e lo scosse. “Ehi, svegliati!”.
Carlo, lentamente, aprì gli occhi e si tirò su. Si prese la testa fra le mani gemendo.
“Non mi sento tanto bene” disse.
“Neppure io” concordò Renato. “Che ci facciamo qui?”.
“Qui dove?”.
“Qui”.
Carlo si guardò in giro, e vide Michael e Johnny ancora addormentati.
Alzò gli occhi su Renato. “Io ho fame” disse.
“Mangerai dopo, svegliamo questi altri due”.
Renato si avvicinò a Johnny, e senza neppure abbassarsi lo scosse col piede.
“Ehi, impiastro! Svegliati!”.
Johnny e Michael si svegliarono.
“Cavolo, ma dove siamo?” domandò Johnny.
“Non lo sappiamo” gli rispose Carlo.
“Qualcuno si ricorda niente?” chiese Renato.
Per qualche istante tutti tacquero. Poi Johnny disse: “Io ricordo che ieri sera eravamo tutti nell’hogan di Michael, e abbiamo bevuto quella roba….”.
Il cuore di Carlo e Michael perse un colpo. Improvvisamente rammentarono ciò che era accaduto il giorno prima.
Anche Johnny ricordò un dettaglio importante. “Io ho bevuto quel vostro intruglio” disse, indicando Michael e Carlo. “Manuela mi ha detto che era limonata, e che l’avevate preparata voi due; allora ho deciso di berla io, perché non mi fidavo”.
“Anche io ho bevuto quella brodaglia” disse Renato. “E ora che ci penso, è proprio da quel momento che ho perso conoscenza”.
Michael e Carlo indietreggiarono intimoriti, mentre gli altri due si avvicinavano minacciosi.
“Si può sapere che schifezza avete preparato?” domandò Renato.
Johnny concordò. “Già, per fortuna le mie sorelle non l’hanno….” si interruppe, quando comprese tutto. Allora si infuriò. “DANNATI MANIACI!” gridò. “Ora ricordo! Giorni fa Sabrina ci raccontò che era possibile soggiogare la volontà altrui con una mistura particolare! Doveva essere quella robaccia! Volevate darla alle mie sorelle!”.
“Eh eh…. ecco….” balbettarono i due accusati. “Non…. non è proprio così…. ehm…. calmati, su”.
“Ora vi faccio vedere io come mi calmo!” esclamò Johnny afferrando un grosso ramo da terra.
Michael e Carlo scapparono, gridando, mentre Johnny iniziò ad inseguirli.
Renato, pur furibondo, era ancora provato dall’assurda nottata trascorsa: perciò si lasciò scivolare a terra, e si gustò lo spettacolo. “Coraggio, Johnny!” esclamò. “Non farteli scappare!”.
Johnny inciampò e cadde lungo disteso. “Appunto” disse Renato. “Per una volta che faccio il tifo per lui”. Ma Johnny non si perse d’animo, si rialzò e riprese ad inseguire Michael e Carlo.
Purtroppo per i ragazzi, il loro siparietto non passò inosservato.
Non molto lontano, su una altura che dominava gran parte del territorio circostante, occhi attenti scrutavano le gesta di Johnny e compagni.
«Sono proprio loro» disse Steve Jenning, abbassando il binocolo con cui osservava i nostri eroi.
«Che fortuna!» esclamò Cody. «Se non avessimo sentito le loro voci ci sarebbero sfuggiti di nuovo».
«Ma come sono vestiti?» domandò Bull. «Sono diventati pellerossa?».
«Forse hanno rubato gli abiti di qualche indiano dopo averlo ucciso» disse Cody.
«Non ne sono certo i tipi» disse Jenning.
«Che facciamo ora, Steve?» domandò Bull. «Li uccidiamo?».
«Li seguiremo» disse Jenning. «Qui ci sono soltanto i maschi. A noi serve scoprire dove si nasconde l’intero gruppetto; dobbiamo eliminarli tutti».
Una voce aggiunse: «Uno lo lascerete a Piccolo Bufalo». Gli altri tre si voltarono verso l’indiano che aveva parlato.
«Certo, Piccolo Bufalo, sta tranquillo» gli disse Jenning. «A noi basta che tutti quei ragazzini siano tolti di mezzo, non c’importa chi o come li uccide».
Piccolo Bufalo, dopo aver lasciato la sua gente, aveva seguito le tracce di Johnny e gli altri, e nel suo viaggio si era imbattuto nel gruppetto di Jenning.
Per scherzo della sorte, Piccolo Bufalo e Jenning avevano chiesto l’uno all’altro informazioni sull’avvistamento del gruppo di giapponesi. Dopo un rapido scambio di battute, si erano resi conto di essere tutti alla ricerca delle stesse persone; avevano così stretto una temporanea alleanza.
Adesso, finalmente, li avevano ritrovati.
«Quelle essere vesti Navajo» disse Piccolo Bufalo osservando Johnny e gli altri. «Visi pallidi stranieri hanno stretto amicizia con tribù di Freccia Rossa, il cui villaggio si trova poche ore di cavallo da qui».
«Ne sei sicuro, Piccolo Bufalo? Non potrebbero aver sconfitto degli indiani e averne indossato gli abiti?» chiese Bull.
«Impossibile» sentenziò l’indiano. «Quelli abiti Navajo, e se anche giovani stranieri riusciti in qualche modo a ucciderne qualcuno, non stare così in vista; tribù intera Freccia Rossa a quest’ora li cercherebbe, e loro scappare, e con molta fretta».
«Mmmh, è probabile» mugugnò Jenning. «Il fatto che abbiano trovato rifugio in un villaggio indiano ci complica molto la vita».
«Quindi cosa vuoi fare?» gli chiese Bull. «Vuoi ancora seguirli?».
«Naturalmente» rispose Jenning. In quel momento Johnny e gli altri montarono in sella, e ripartirono in direzione del villaggio.
«Se ne vanno!» esclamò Cody.
«Datti una calmata» gli disse Jenning. «Non abbiamo bisogno di affrettarci, sappiamo già dove sono diretti. Li raggiungeremo e studieremo un piano per farli fuori».
Piccolo Bufalo aveva taciuto a Jenning la sua intenzione di non lasciar uccidere tutti i nostri eroi: voleva Capelli del Sole per sé, perciò doveva essere risparmiata; a tempo debito avrebbe affrontato la questione.
I quattro saltarono sui loro cavalli e seguirono l’ignaro Johnny e compari verso il villaggio di Freccia Rossa.
 
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Se Jenning e soci fossero stati più vicini alle prede, si sarebbero accorti che Johnny e Renato avevano tutte le intenzioni di facilitare il loro compito, uccidendo Michael e Carlo.
I due maniaci, dopo aver cercato flebili scuse per evitare l’ira di Johnny, avevano capito che l’unica soluzione era la fuga, ed erano saltati in sella partendo al galoppo verso il villaggio.
Johnny, infuriato, li aveva inseguiti; Renato era partito subito dietro.
Avevano cavalcato a rotta di collo per molti chilometri; Michael e Carlo erano avvinghiati al collo dei loro destrieri, terrorizzati dalla velocità a cui viaggiavano ma troppo spaventati per rallentare.
Quando giunse il tramonto erano nei pressi del villaggio, e le sentinelle che li avvistarono mandarono segnali di fumo per informare la tribù del loro ritorno.
Scese l’oscurità, e i cavalli, ormai esausti, si fermarono. Michael e Carlo saltarono giù, per fuggire a piedi; anche Johnny e Renato scesero. A Renato, ormai, la rabbia era quasi passata (dopotutto le sorelle non erano sue), ma Johnny era ancora infuriato. Messo piede a terra, i ragazzi si resero però conto di non poter fare granché: la lunga cavalcata li aveva sfiancati. Le gambe cedettero e si ritrovarono tutti seduti o sdraiati a terra.
“Me la pagate!” esclamò Johnny. “Ve la faccio pagare!” .
“Calma, Johnny. Non ci reggiamo in piedi” disse Michael.
“E poi ci dispiace! Perdonaci!” disse Carlo. “Non lo faremo più”.
“Lacrime di coccodrillo” commentò Renato.
“Ehi, ma tu perché ce l’hai con noi?” gli chiese Michael. “Manuela e Simona non ti riguardano”.
“Dimenticate che sono rimasto incosciente per un’intera notte e per buona parte del giorno successivo per colpa vostra! Chissà cosa ho combinato. Spero solo di non aver fatto del male alla mia Tinetta”.
“Nessuno ti avrebbe ordinato di fare del male a Tinetta” disse Johnny.
“E allora cosa ci hanno ordinato per farci risvegliare così lontano dal villaggio?” chiese Michael.
“Chissà, forse volevano semplicemente che ci togliessimo dai piedi”.
“Si, può darsi”.
“Io sono stanchissimo” disse Michael stendendosi a terra. “Propongo di fare sosta qui”.
“Credo sia inevitabile” concordò Johnny. “I cavalli sono troppo stanchi per proseguire. Ma non pensiate che mi dimenticherò di questa faccenda, voi due; prima o poi faremo i conti”.
I quattro andarono a prendere le coperte nelle selle; si stesero e si prepararono a un’altra notte all’aperto.
“E dobbiamo anche dirci fortunati di aver preso i cavalli sellati” commentò Johnny. “Altrimenti adesso non avremmo neppure le coperte”.
Renato si lamentò: “Oooh, pensare che potrei dormire nella mia capanna assieme a Tinetta; dopo tutta la fatica fatta per costruirla non l’ho ancora sfruttata”.
“Eeeeeh, già” sospirarono Michael e Carlo. “Che bello condividere il tetto con la propria mogliettina”.
“Voi con le mie sorelle non condividerete un bel niente, chiaro?”.
“Certo che sei proprio egoista” replicò Carlo. “Anche tu eri ansioso di finire il tuo hogan, se non sbaglio”.
“Infatti” concordò Renato. “Fai la predica a loro due ma ti abbiamo visto benissimo lavorare come un mulo; non vedevi l’ora di restare solo con Sabrina, eh? Dopotutto è una splendida ragazza, no?”.
“E’ vero” gli disse Michael. “Fai il santarellino ma sei uguale a noi. Anzi peggio, perché tu tradiresti Tinetta”.
Johnny si sentì punto sul vivo; replicò: “Ah, si? Forse sarò uguale a voi, ma di certo non cerco di far bere malefiche pozioni a delle ragazze innocenti”.
“Ehm…. non…. non esageriamo” balbettò Michael. “Malefiche pozioni: che brutta espressione”.
“Noi…. ehm, si scherzava” aggiunse Carlo, poi cambiò discorso: “Oh, ma che sonno che ho. Buonanotte, eh?”.
“Anche io sono stanco morto. Buonanotte a tutti” si associò Michael.
“Si,certo, buonanotte” disse Johnny. “Spero che abbiate gli incubi”.
I quattro, stanchissimi, si addormentarono poco dopo.
 
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Quando giunsero al villaggio, il giorno dopo, i nostri eroi furono accolti dalle loro amiche, preoccupatissime. La prima ad andare loro incontro fu ovviamente Tinetta, che si gettò tra le braccia di Johnny gridando: “Tesorucciooo!”.
“Eh eh, ciao Tinetta” disse Johnny col solito imbarazzo.
“Ma dove sei stato, tesoro? Mi hai fatto stare in pensiero!”.
Prima di rispondere, Johnny si rese conto che gli indiani li osservavano stupiti. Non ne capì subito il perché: fu Renato ad illuminarlo: “Ehm…. Tinetta, sono IO tuo marito”.
Lei si guardò intorno; lasciò andare Johnny dicendo: “Oh, eh eh…. ehm…. che sbadata”. Andò ad abbracciare Renato, controvoglia. “L’ansia mi aveva reso cieca, chiedo scusa”.
Simona e Tinetta andarono a chiamare Sabrina e Manuela, che si trovavano al lavoro nei campi. Quando furono tutti riuniti, le ragazze chiesero spiegazioni dell’assurdo comportamento degli amici.
I ragazzi, prima di raggiungere la tribù, avevano stabilito di non rivelare la losca manovra di Michael e Carlo, per non turbare la già traballante armonia del gruppo; si limitarono a dire una mezza verità.
“E’ colpa nostra” spiegò Michael, indicando sé e Carlo. “Abbiamo voluto preparare una bevanda speciale per festeggiare la costruzione dei nostri hogan, ma dobbiamo aver sbagliato qualcosa. Per fortuna voi ragazze non l’avete bevuta”.
Sabrina li guardò sospettosa. “Sapete?” disse. “Ho pensato una cosa: non sarà che quella robaccia fosse destinata alle sole Simona e Manuela?”.
“Noooo” disse Carlo: “Per quale motivo, scusa? Eh eh”.
“Beh, visti gli effetti che ha avuto su di voi, mi è sembrato si trattasse di quel famoso estratto di cactus che provoca la sottomissione”.
“Ehi, ma per chi ci hai presi?” disse Michael, indignato. “Non potremmo mai fare una cosa del genere”.
Renato e Johnny lo guardarono in cagnesco. -Guarda che razza di faccia tosta- pensarono.
“Già” disse Sabrina, perplessa. “Dopotutto, l’avete bevuta voi due per primi. Vi chiedo scusa”.
“Non c’è problema” disse Michael. La questione fu chiusa; le ragazze non potevano immaginare che i due maniaci avevano ingurgitato la pozione solo per errore.
Renato, fingendo noncuranza, disse: “E così, stasera finalmente inaugureremo i nostri hogan personali, eh?”.
Tutti si irrigidirono. “Già” concordò Johnny. “Così pare”.
“Ehm…. bene” aggiunse Michael. “Così staremo più larghi, no?”.
“Una bella comodità, eh? Eh eh” disse Johnny, imbarazzato. “Voi…. ehm…. voi che ne dite, ragazze?”.
Le interpellate, già a disagio, non seppero cosa rispondere.
Sabrina esclamò: “Devo tornare al lavoro!” e se ne andò di corsa.
Le altre colsero l’occasione. “Ehm…. anche noi dobbiamo tornare al lavoro” e si dileguarono.
I ragazzi le osservarono allontanarsi, poi Michael disse: “Wow, Sabrina è davvero perspicace; quando ci ha accusato, ho sudato freddo. L’abbiamo scampata bella, eh, Carlo?”.
“Puoi dirlo forte” concordò il suo compare, con un sospiro di sollievo.
“Ehi!” esclamò Johnny. “Non siate troppo soddisfatti, imbroglioni. Noi due sappiamo la verità”.
“Infatti!” disse Renato. “Non provate mai più a fare niente del genere, o non ve la caverete così bene, chiaro?”
Michael e Carlo si allontanarono intimoriti. “Ma certo, state tranquilli. Faremo i bravi”.
Johnny disse: “Speriamo”.
Renato si allontanò a sua volta. “Anche io devo andare al lavoro. Gli animali non si accudiscono da soli”.
“E io devo tornare da Ta-Hu-Nah”. Si separarono.
Johnny si diresse verso la capanna dello stregone; quando vi giunse, quest’ultimo lo rimproverò: [Parla coi Sogni ha un grande potere, ma è un cattivo allievo; dovrebbe seguire le lezioni, e non andare in giro a bighellonare].
-Ma che avrà detto? Boh, pare che sia arrabbiato- pensò Johnny.
Ad ogni buon conto, chiese scusa. “Ehm, mi spiace tanto”.
Ta-Hu-Nah lo fece sedere.
[Parla coi Sogni, il tuo potere non è sufficiente a renderti un grande stregone. Da giorni cerco di insegnarti gli arcani segreti degli spiriti e della magia; la speranza del popolo Navajo è che tu resti con noi, anche se vieni da terre lontane, e che possa prendere il mio posto. Ma se non riuscirai ad apprendere le mie arti, questo potrebbe significare che non sei destinato ad essere lo sciamano della tribù di Freccia Rossa; forse gli spiriti hanno altri compiti in serbo per te: in quel caso, con molto dolore, non potrò più essere tuo maestro]. Ta-Hu-Nah diede a Johnny dei sacchetti con sassi e polverine. [Ancora, però, non dispero di poterti trasmettere la mia conoscenza. Adesso mettiamoci al lavoro] disse.
 
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Quella sera, finalmente, i ragazzi sarebbero rimasti soli con le rispettive mogli.
Michael e Carlo trattenevano a stento la smania, Johnny e Renato erano nervosissimi.
Le ragazze erano agitate a loro volta; Tinetta sarebbe stata spaventata ma felice di recitare la parte della sposina di Johnny, ma in quel caso era solo preoccupata; Simona e Manuela, pur avendo i poteri di famiglia dalla loro parte, avevano comunque paura delle situazioni che avrebbero dovuto affrontare, perché la sfrenata, irriducibile dissolutezza di Michael e Carlo ne faceva due implacabili macchine della molestia. Le gemelle, prima o poi, avrebbero ceduto al sonno, o forse sarebbero state troppo stanche per usare il potere: in quel momento i maniaci si sarebbero scatenati. Le sventurate sorelle non potevano stare di continuo all’erta.
Tinetta, Simona e Manuela tennero breve consiglio e decisero di rivolgersi a Sabrina.
“Sabrina, dobbiamo parlarti” esordì Tinetta.
“Si, cosa c’è?”.
“Noi tre non siamo tranquille” proseguì Tinetta. “Come possiamo recitare la parte delle mogli? Abbiamo paura”.
“Beh, anche io sono un po’ nervosa” ammise Sabrina.
“Ma tu starai con Johnny. Il mio tesoro è l’unico ragazzo di cui ci si può ciecamente fidare; non farebbe mai qualcosa di sconveniente”.
“Anche Renato è un bravo ragazzo; non avrai niente da temere” disse Sabrina. “E poi, scusa, da quando in qua hai paura di lui?”.
“Io…. io non ho paura, ma…. non mi sono mai trovata in una situazione simile. Dobbiamo fingere di essere mariti e mogli: è importante che gli indiani non scoprano la verità, altrimenti potrebbero volere una di noi, e saremmo davvero nei guai. Non so come questa circostanza possa influire su Renato; potrebbe trasformarsi in un bruto, e in fondo io sono soltanto una gentile e indifesa donzella”.
“Ehm…. già” disse Sabrina. “Senti, gli hogan non sono bunker impenetrabili, sono chiusi da un telo appeso all’ingresso. Se ti senti minacciata, devi solo uscire”.
“Oh, è vero, grazie Sabrina, non ci avevo pensato; spero comunque che Renato si comporti bene. Oh, sono tanto preoccupata”.
-Anche io sono preoccupata, ma per Renato- pensò Sabrina. -Non oso immaginare cosa gli capiterà se davvero proverà ad allungare le mani su Tinetta-.
“E noi?” chiese Manuela. “Anche io e Simona siamo in ansia”.
Sabrina le guardò, e poggiò le mani sulle loro spalle. Trattenendo a stento le lacrime, disse: “Fatevi forza, amiche mie. Fatevi forza”.
“Oh, Sabrina. Non hai suggerimenti per me e mia sorella?”.
“No, ragazze, mi spiace” disse Sabrina guardandole negli occhi. “Se fosse possibile, vi consiglierei di incatenare i due animali e fare loro la guardia col fucile sempre carico, e di sparare al minimo cenno di ribellione. Ma questo è purtroppo impossibile; sappiate però che non vi abbandoneremo al vostro tragico destino: state all’erta, e gridate con quanto fiato avete in corpo appena si avvicinano a meno di mezzo metro. Vostro fratello e io interverremo con tempestività”.
“E anche io, ragazze” aggiunse Tinetta. “Sono consapevole che Renato è un pericolo ben modesto rispetto a Michael e Carlo; non vi lasceremo sole”.
Le quattro amiche si abbracciarono a vicenda, commosse; poi si separarono, e raggiunsero i ragazzi che li aspettavano nelle capanne.
Sabrina aveva consolato le altre, ma lei non era affatto serena. Johnny era si un bravo ragazzo, ma aveva più volte dimostrato d’essere intimamente un porcello, anche se meno volgare dei suoi amici.
Sabrina era a disagio quando entrò nell’hogan. Johnny la aspettava, ma anche lui era nervoso.
Sabrina si sedette, e prese il necessario da cucito.
Era sempre stata bravissima a cucire, e da quando viveva al villaggio aveva ripreso a farlo con assiduità.
In quel momento, comunque, cuciva più che altro per tenersi impegnata, perché non sapeva come comportarsi.
“Ehm, che calma, vero?” le chiese Johnny, per alleggerire l’atmosfera. “Senza gli altri è davvero un'altra cosa”.
“Eh, si” mormorò Sabrina, senza guardarlo; era talmente agitata che aveva difficoltà anche a tenere in mano gli aghi.
“Già, già” borbottò Johnny a sua volta. -Ma che mi succede?!- pensò. -Perché sono così nervoso? E’ Sabrina, maledizione, la ragazza che amo. Dovrei dichiararmi una volta per tutte; quando mi capiterà più una simile occasione?-.
“Ehm, che caldo, vero?” disse quando aprì bocca.
“Beh, d’altronde siamo in Arizona”.
-Accidenti!- pensò il ragazzo. -Così non concludo niente. Sono troppo irrequieto-.
Si alzò in piedi. Sabrina ebbe un sussulto. Johnny si avviò all’uscita. “Io vado a prendere una boccata d’aria” disse.
“Ah…. ok” disse Sabrina. Quando restò sola, si rilassò. -Chissà cosa credevo-. pensò. -Si è comportato da perfetto gentiluomo. Dovrei calmarmi un po’-. Riprese il suo lavoro.
Johnny, all’esterno, cercò di schiarirsi le idee.
-Bene- pensò, -tanto lavoro per nulla. Ho costruito questa capanna a tempo di record per avere il mio nido d’amore; la ragazza dei miei sogni è là dentro, e in questo posto è mia MOGLIE, e io non riesco neppure a parlarle-.
Si sedette su una roccia. -Chissà se il nonno continua a cercarci. Mi sento molto più fiducioso da quando si è messo in contatto con me, ma mi chiedo se riuscirà a trovare il modo di aiutarci-.
Alzò gli occhi al cielo. -Certo, però, che se dovessimo restare qui, io e Sabrina potremmo essere felici insieme. Gli unici altri uomini sono Navajo, che non parlano la nostra lingua e comunque ci credono sposati. Non esistono aerei o automobili, non esiste il telefono, perciò è molto improbabile avere contatti con altre persone, a meno di non essere noi a spostarci dal villaggio. Col tempo ci abitueremmo ad essere chiamati marito e moglie, e alla fine…. uh uh…. alla fine accadrebbe l’inevitabile-.
Si crogiolò nelle sue fantasticherie. -Un momento; se restiamo qui le mie sorelle potrebbero sposare Michael e Carlo. Maledizione, non voglio quei due disgraziati nella mia famiglia. E poi, che razza di nipotini avrei? Ho il terrore solo a pensarci-.
Perso nei suoi vaneggiamenti, Johnny non si rese conto del tempo che passava.
Quando Sabrina smise di cucire, lui era ancora fuori. La ragazza si affacciò all’ingresso; lo vide, e lo chiamò. “Johnny”. Il ragazzo sussultò, colto di sorpresa.
Si alzò e rientrò. “Sono stato fuori molto?” chiese.
“Un po’” rispose lei.
Ormai fuori era buio pesto; l’illuminazione all’interno era fornita da un falò al centro dell’hogan: la luce delle fiamme era fioca, calda. La penombra rendeva l’atmosfera romantica.
I due ragazzi erano ancora silenziosi, ma adesso si sentivano meno a disagio.
Sabrina disse: “Non ti ho fatto i complimenti per la nostra capanna, Johnny. Hai fatto un ottimo lavoro”.
“Oh, ti ringrazio; sei gentile. In realtà, però, non è un granché, paragonata a quelle dei Navajo”.
“NOI siamo Navajo, adesso” puntualizzò Sabrina sorridendo.
“Si, ma ancora per poco, spero”.
“Vuoi dire che non ti piace l’idea di essere mio marito?” chiese la ragazza, con un’espressione improvvisamente triste.
“Eh? Cosa? Ma…. ma no…. co…. cosa dici?” balbettò Johnny, sorpreso. Sabrina aveva la capacità di spiazzarlo. -Ma che vorrà dire? Non capisco, credevo che la situazione la imbarazzasse-.
Disse: “Come…. non è questo che…. che…. intendevo….”.
“Si, va bene, lascia perdere” disse lei con tono freddo. “Ho sonno, me ne vado a dormire”.
Gli voltò le spalle e andò a coricarsi. Johnny era basito. -Perché faccio sempre la figura dello scemo?- pensò.
Mentre il ragazzo si tormentava, Sabrina tentava invano di addormentarsi. Benché fosse stanchissima, dal momento che la vita al villaggio iniziava all’alba e il lavoro era duro, era troppo nervosa per prendere sonno. Non sapeva neppure lei perché aveva reagito in quel modo: era anche suo desiderio tornare a casa, senza dubbio, ma le parole di Johnny, chissà perché, l’avevano ferita.
-Chissà perché? Davvero non lo so?- pensò Sabrina. -Io…. io…. sono così confusa. Questa situazione mi innervosisce-.
Johnny si stese a sua volta su una coperta a pochi centimetri da Sabrina, ma la distanza che li separava era abissale, in quel momento.
Sabrina si rese conto di essere tesissima; quando aveva sentito Johnny muoversi, aveva smesso di respirare. Aveva paura che lui tentasse qualche approccio, ma non era questo a spaventarla davvero: la spaventava il fatto di DESIDERARE che lui tentasse un approccio.
-Cosa farò se proverà ad avvicinarsi?- pensò la ragazza. -Temo che potrei cedere-.
Trasalì quando lui le parlò. “Non intendevo dire che non mi piace l’idea di essere tuo marito”.
La voce di Johnny era calma. “Mi stavo solo augurando che si riesca a tornare a casa il prima possibile. Il tempo passato qui è stato…. istruttivo; ma questo non è il mio mondo. Credo che oggi Ta-Hu-Nah si sia arreso all’idea che non imparerò mai niente da lui: mi spiace averlo deluso, ma non è mia intenzione restare qui a fare il prestigiatore”.
La voce serena del ragazzo la tranquillizzò. “Capisco” mormorò.
Johnny aveva imparato a riconoscere certi momenti difficili tra loro due provocati dalla incomprensione. Di solito il problema si ingigantiva perché non avevano occasione di chiarirsi; ma adesso erano soli, nel silenzio e nel buio: dopo pochi minuti di riflessione, Johnny aveva trovato le parole giuste per farsi capire.
Lei gli voltava le spalle. Johnny le si avvicinò, e le appoggiò una mano sul braccio. Sabrina sobbalzò, ma non si sottrasse.
Il ragazzo, con voce bassissima, ma appassionata, mormorò: “E…. e non avrei voluto un’altra per interpretare mia moglie, te lo giuro”.
Sabrina si voltò verso di lui. I loro visi si trovarono a pochi centimetri di distanza. Si guardarono negli occhi per qualche secondo.
“Johnny….”.
“Sabrina….”.
Chiusero gli occhi e avvicinarono le labbra.
“JOHNNYYYYYYYYY!!!!!!” il grido che squarciò l’aria tranquilla della notte veniva da Tinetta, Simona e Manuela che si fiondarono nell’hogan di Johnny e Sabrina; questi ultimi, in un millesimo di secondo, si erano separati. Nessuna delle nuove venute si rese conto di aver interrotto qualcosa.
Le tre ragazze si sedettero davanti a Johnny, che domandò: “Ehm, che succede? Si può sapere?”.
“Non è possibile restare sole con Michael e Carlo!” esclamò Manuela. “Ci abbiamo provato, ma è un assedio continuo. Non ho ancora chiuso occhio per il terrore”.
“Ehi, non esageriamo” disse Carlo entrando in quel momento. “Non abbiamo fatto niente di male”.
“Infatti” concordò Michael, entrando dietro l’amico. -Purtroppo- pensò poi.
“Si, perché non ci siete riusciti” li accusò Simona.
Johnny sospirò. “Beh, in un certo senso me l’aspettavo” disse. “Ma tu che ci fai qui, Tinetta?”.
“Ho lottato con me stessa per starti lontana, tesoruccio, ma non ci sono riuscita” rispose felice Tinetta.
Entrò anche Renato. Johnny commentò: “Ecco, ora non manca più nessuno”.
“Che vuoi? Credi mi faccia piacere venire a trovarti in piena notte?” bofonchiò Renato.
“Sono rimasta sveglia a guardare le stelle e pensare a te, Johnny” spiegò Tinetta. “Poi Renato mi si è avvicinato e mi ha detto qualcosa di molto dolce sul vero amore o qualcosa del genere, e io ho capito che cercava di spingermi da te. E pensare che a volte è così aggressivo. Invece mi ha incoraggiato a raggiungerti in questa notte buia e solitaria”.
-Chiamala solitaria- pensò Johnny.
Ovviamente quel che Renato aveva detto a Tinetta era un tentativo di dichiararle i suoi sentimenti, ma lei aveva frainteso.
Johnny, sconsolato, incrociò lo sguardo di Sabrina; i due ragazzi si scambiarono un tenero e imbarazzato sorriso complice, mentre intorno a loro si rinnovava il consueto carosello di smisurato parapiglia.
 
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Johnny contava per l’ennesima volta i gradini della scalinata sulla quale aveva conosciuto Sabrina.
“44, 45, 46, 47….” si fermò, e si guardò intorno. “Ehi, ma…. cosa ci faccio qui?” si chiese.
“Johnny, finalmente ci rivediamo” disse la voce di suo nonno.
Il ragazzo si voltò, e vide il vecchio di fronte a lui.
“Nonno!” esclamò. “Ma allora questo è di nuovo un sogno?”.
“Si”.
“Allora tra poco dovrei svegliarmi!”.
“No, sta tranquillo. Stavolta è diverso” spiegò il nonno. “Sono molto più vicino dell’altra volta, quindi mi è più facile mantenere il contatto con la tua mente”.
“Più vicino? Che intendi dire?”.
“Sono a Tucson, in Arizona”.
“Vuoi dire che ci hai raggiunti, finalmente?” chiese Johnny entusiasta.
“Non proprio” disse il nonno. “Non ho viaggiato nel tempo. Mi sono semplicemente recato a Tucson negli anni 80 del ventesimo secolo”.
A Johnny venne in mente la visione che aveva avuto giorni prima, quella in cui il nonno girovagava in una città straniera: era Tucson, dunque.
Il vecchio continuò la spiegazione: “Comunque sia, anche se siamo distanti nel tempo, siamo molto più vicini dell’ultima volta in quanto a spazio, perciò posso mantenere più facilmente il contatto con te”.
“Che bello, nonno. Non vedo l’ora che tu possa aiutarci. Mi sono informato sulla data e….”.
“Non hai bisogno di dirmela” lo interruppe il nonno. “La conosco da solo”.
“Come puoi saperla?”.
“Mi è bastato andare in biblioteca, trovare dei traduttori dall’inglese e leggere le vecchie raccolte dei quotidiani e i libri sulla storia locale. Lì sono riportate tutte le date precise delle vostre imprese”.
Johnny aggrottò la fronte. “Che vuoi dire, nonno?”.
“Voi siete famosi da queste parti, Johnny. Ho letto libri che parlano di voi; siete conosciuti come la banda degli Stranieri. Su quei libri c’è scritto che avete ucciso non meno di cinque persone a Tucson e dintorni e poi siete spariti nel nulla”.
“Non è vero!” esclamò Johnny. “Sono tutte menzogne!”.
“Si, si, non prendertela” disse il nonno. “Pensi forse che io abbia creduto a quelle sciocchezze? So che voi ragazzi non fareste mai niente del genere. Ciò non toglie che la storia vi indichi come i peggiori criminali che abbiano mai messo piede a Tucson: secondo i libri che ho letto, sareste responsabili dell’omicidio di un giudice, di uno sceriffo, di due uomini d’affari che avreste anche rapinato e del loro maggiordomo; inoltre siete sospettati della rapina ad una diligenza e dell’omicidio di un vecchio che la difendeva”.
Johnny sbottò: “Assurdo! Per molti di questi crimini l’unico responsabile è quel manigoldo di Steve Jenning”.
Il nonno chiese: “Steve Jenning, hai detto? Parli dello sceriffo?”.
“Si, quel delinquente è furbo e malvagio. Si è fatto eleggere sceriffo con la scusa di venirci a cercare, solo per potersi dileguare dopo tutti i reati che ha commesso”.
“Conosco il suo nome perché anche lui è famoso” spiegò il nonno. “Johnny, Steve Jenning è indicato come lo sceriffo che riuscì a catturarvi”.
“Cosa?!”.
“Già, vi prese lui, secondo i libri. Però non vi riportò mai a Tucson; tornò dopo molti mesi in città dicendo che vi aveva inseguito per migliaia di chilometri, vi aveva catturato e infine vi aveva fatto giustiziare dove si trovava. Poiché da quel momento nessuno sentì mai più parlare di voi, tutti gli credettero. Così adesso Steve Jenning è un vero eroe locale”.
“Dannato!” esclamò Johnny. “Si sarà limitato a gironzolare per qualche mese, per poi tornarsene a Tucson inventandosi quella storiella. Sapeva che noi non avremmo mai più creato fastidi, per il semplice fatto che era stato SEMPRE LUI a commettere i crimini, per poi incolpare gli altri”.
Johnny restò in silenzio per qualche istante, mentre sbolliva la rabbia.
Poi disse: “Un momento, ma se noi siamo passati alla storia di questa regione, vuol dire che non siamo mai tornati nel nostro tempo”.
“No, non significa niente” rispose il nonno. “Semplicemente non siete stati più trovati da nessuno
(forse proprio perché siete riusciti a tornare a casa) e dunque non avete mai potuto chiarire la vostra posizione”.
“Si, può essere” disse Johnny. “Però Steve Jenning non ha pagato per le sue colpe”.
“Purtroppo no” ammise il nonno. Poi disse: “Adesso, Johnny, raccontami tutto quel che è successo a te e ai tuoi amici. Ogni dettaglio potrebbe essermi utile per farvi tornare indietro”.
“D’accordo” disse Johnny; iniziò a raccontare.
Quando finì, il nonno, sbigottito, borbottò: “Che storia incredibile”.
Johnny si accorse che il nonno stava riflettendo, e non lo interruppe.
Il nonno chiese: “Mesa de Arena, hai detto?”.
“Esatto” confermò Johnny.
“Andrò a controllare” disse il vecchio. “Raggiungerò la Mesa de Arena e valuterò se si tratta di un luogo dotato di particolare potere o meno. Nel frattempo voi fate la massima attenzione”.
“Tornerai a parlare con me?” domandò Johnny.
“Ogni volta che potrò” rispose il nonno. “Restare in contatto con te così a lungo è molto stancante, ma adesso so tutto quello che mi serve per aiutarvi; ah, a proposito, tuo padre e la nonna sono molto in pensiero per voi, e ti raccomandano di badare alle tue sorelle”.
“Ma certo” rispose Johnny. “Dì loro che ci mancano tanto. Sono con te?”.
“No, sono rimasti in Giappone; telefonerò subito e gli racconterò tutto ciò che mi hai detto. Ora ti devo lasciare, Johnny: ho sfruttato il potere al massimo e ho bisogno di riposo”.
“Va bene, nonno” disse Johnny. “Grazie di tutto”.
I due si salutarono. In quell’istante, i contorni del sogno di Johnny iniziarono a sfocare.
Si svegliò; per prima cosa si rese conto che c’era luce. Si riparò gli occhi col dorso della
mano. -E’ già l’alba- pensò.
Ma non era l’alba; si tolse lentamente la mano dal viso, e si tirò su puntellandosi sui gomiti. Si guardò in giro: non c’era nessuno nell’hogan, e da fuori veniva moltissima luce; era giorno fatto. -Ma quanto ho dormito-?.
Sentì la voce di Tinetta che si avvicinava, ma non capì cosa diceva. Si accorse di sentirsi stanchissimo. -Il contatto telepatico col nonno ha affaticato anche me-.
In quel momento entrarono Tinetta e le gemelle. Lo videro sveglio, e gli si fecero intorno preoccupate.
“Johnny, finalmente ti sei ripreso” disse Tinetta. “Eravamo tutti così in ansia”.
“Tinetta, va a chiamare gli altri” le disse Manuela.
“Si” rispose lei. “Torno subito, tesoruccio”.
Appena Tinetta uscì, Manuela chiese: “Hai sognato di nuovo il nonno, vero, fratellone?”.
“Proprio così” rispose lui.
“E cosa ti ha detto?” chiese Simona, impaziente.
Johnny raccontò i punti salienti del sogno che aveva appena fatto.
“Che bello” disse Manuela. “Il nonno troverà certo il modo di farci tornare a casa”.
“Ma dove sono tutti?” chiese Johnny.
“Sono usciti da un pezzo” lo informò Simona. “Tu hai continuato a dormire, borbottando nel sonno”.
“Veramente?”.
“Si” confermò Manuela. “Ci hai fatti stare in pensiero. Abbiamo provato a svegliarti, senza risultato, così alcuni di noi sono comunque andati al lavoro, visto che qui non c’era niente da fare. Io, Simona e Tinetta siamo rimaste per controllare quando ti saresti ripreso”.
“E’ venuto anche Ta-Hu-Nah” aggiunse Simona. “Ti ha osservato per un po’. Ha detto che non correvi alcun pericolo, e dovevi portare a termine la tua visione, dopodiché ti saresti svegliato da solo. Aveva ragione”.
“Pare di si” mormorò Johnny. “Però mi sento stanchissimo. Ho bisogno di qualche minuto per riprendermi”.
In quel momento entrarono gli altri amici, che lo tempestarono di domande.
“Come stai?”.
“Cosa hai sognato stavolta?”.
“Ti senti bene?”.
Johnny chiese scusa per averli fatti preoccupare e li rassicurò.
“Stavolta ti sei davvero meritato il nome Parla coi Sogni” osservò Renato, con una punta di fastidio. Anche se si era preoccupato, non intendeva darlo a vedere. “Hai borbottato di continuo, i Navajo ormai credono che tu sia una specie di spirito”.
“Oh, è tutta colpa di Ta-Hu-Nah che si è messo in testa che ho poteri particolari; solo perché parlo nel sonno” disse Johnny.
Sabrina gli chiese: “Ma perché non riuscivi a svegliarti? Ci hai fatti stare in ansia”.
“E' vero” confermò Tinetta, “cerca di non fare più scherzi del genere”.
“Ci proverò” rispose lui. Si tirò su.
Tinetta gli domandò: “Sei sicuro di volerti alzare? Sembri così stanco”.
“Va tutto bene, Tinetta, te lo assicuro” rispose Johnny. Uscì dalla capanna, seguito dagli sguardi dei suoi amici; all’aria aperta si sentiva già meglio.
Si voltò verso gli altri. “Io mi metto al lavoro. Coraggio, pelandroni”.
“Ehi, non fare il gradasso” lo riprese Michael seguendolo. “Hai dormito fino adesso, scansafatiche”.
Gli altri, uno ad uno, uscirono, per tornare alle loro mansioni.
 
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“Srike!” esclamò Simona, entusiasta.
“Simona! Non puoi chiamare gli strike” la rimproverò Renato. “Lo vuoi capire che sei esterno destro? Non sei più l’arbitro”.
“Strike! Strike!” strillò Simona saltellando felice.
“Simona” disse Manuela avvicinandosi alla sorella. “E’ già molto difficoltoso giocare con gli indiani, ai quali dobbiamo spiegare continuamente le regole; non ti ci mettere anche tu a confondere le cose”.
“Uffa” borbottò Simona. “Io mi annoio. Perché la palla non arriva quasi mai nella mia zona?”.
“Ehm, è solo un caso” mentì Manuela. Ovviamente Simona era esterno destro perché in quel ruolo i danni che poteva fare erano limitati. “Su, ora calmati” continuò Manuela. “Concentrati nel gioco”. Manuela tornò nella sua posizione.
Ormai da qualche giorno i ragazzi avevano iniziato (quando ne avevano il tempo) a svagarsi con partitelle di baseball. Cespuglio che Cammina, Nuvola Nera e Vento nella Bocca si erano uniti subito al gioco, che più o meno conoscevano già. Più o meno perché in quei tempi il baseball era agli inizi della sua storia, e le regole erano un po’ diverse. Johnny e gli altri non potevano rivelare che la loro era la versione del gioco del ventesimo secolo.
In breve anche i Navajo, incuriositi, ne erano rimasti coinvolti.
Così i nostri eroi, che erano otto (perciò mancava loro un solo elemento per essere una formazione regolamentare), avevano messo su una squadra che di volta in volta si scontrava con selezioni di avversari Navajo. Pur mancando di tecnica, gli indiani sopperivano con forza e agilità fuori dal comune, e si rivelarono, non appena capite le regole del gioco, dei rivali tosti.
Sabrina era la lanciatrice, e rare volte veniva sostituita da Tinetta o Renato, col solo scopo di farla riposare. Johnny usava il potere per attenuare la sua incapacità, così s’era guadagnato il ruolo fisso di prima base; né gli avversari né, d’altronde, i suoi compagni riuscivano a spiegarsi come le palle che prendeva sembrassero a volte telecomandate.
Sabrina era sul monte di lancio, in quel momento; davanti a lei Nuvola Nera, che aveva già subito due strike. Sabrina però era stanca: la partita andava avanti già da un bel pezzo. La ragazza lanciò, e Nuvola Nera ribatté con forza.
-No- pensò Sabrina, -l’ha presa facilmente; cavolo, sono esausta-.
La palla schizzò lontano, verso Renato, che era esterno centro. Il ragazzo cercò di prenderla al volo, ma la mancò, e la palla lo superò. Simona, allora, la fece cadere a terra col suo potere; Renato la poté così recuperare, si voltò e la lanciò a Sabrina. La ragazza afferrò la palla, e si voltò verso Johnny. Nuvola Nera era ormai a ridosso della prima base: se l’era presa comoda perché credeva che la sua battuta fosse un fuoricampo. Sabrina lanciò a Johnny un vero bolide. Il ragazzo non l’avrebbe nemmeno visto, se non avesse usato il potere per far arrivare la palla direttamente nella sua mano; Nuvola Nera però toccò la base più o meno nello stesso istante. «Salvo!» esclamò Vento nella Bocca.
“No! E’ out!” ribatté Michael. Ovviamente non avevano bisogno di traduzione, visto che le chiamate nel baseball, ovunque nel mondo, erano in inglese, e anche i segnali erano sempre gli stessi.
«Salvo!» ribadì Vento nella Bocca.
“Out!” esclamò Renato. “Ma l’arbitro che dice?”. « »
Cespuglio che Cammina era l’arbitro; non aveva visto bene cosa era successo. Comunque alla fine decise di favorire il suo amico. «Salvo!» esclamò.
“Ehi!” protestò Carlo. “Deve essere imparziale”.
“E’ imparziale, infatti” disse Sabrina. “Credi che sia facile giudicare una simile azione?”.
Si rivolse comunque a Cespuglio che Cammina, chiedendogli: «Sei sicuro della tua chiamata?».
«No che non sono sicuro» ammise lui. «Ma mi è sembrato giusto, nel dubbio, premiare la battuta di Nuvola Nera. Scusa se te lo dico, ma i tuoi compagni devono avere una fortuna incredibile: quel colpo è volato come un missile, e avrebbe dovuto valere un punto; invece la palla è caduta a terra, non capisco come, e Cucciolo Ringhiante l’ha recuperata facilmente».
«Mh, va bene» consentì Sabrina. «Dopotutto, non è ben chiaro cos’è successo».
Poi si rivolse ai suoi amici. “E’ salvo; continuiamo”.
“Bah” bofonchiò Renato. “Bella giustizia”.
Sabrina si apprestò a lanciare di nuovo, quando del gran trambusto distrasse lei e gli altri giocatori.
I Navajo, con voci concitate, facevano circolare una notizia.
Gli amici di Sabrina le si fecero intorno. “Che succede?” le chiese Tinetta.
“Non lo so” rispose lei. “Devo chiedere”. Si rivolse a Cespuglio che Cammina, chiedendogli: «Che sta succedendo? Cosa dicono i Navajo?».
«E’ arrivato qualcuno» rispose Cespuglio che Cammina. «Sembra che un indiano di un’altra tribù sia venuto al villaggio».
“Veramente?” disse Sabrina, e riferì ai suoi amici. Tutti i Navajo erano in fermento, perché per loro, abituati ad un isolamento pressoché totale, le visite di stranieri rappresentavano un evento.
“Andiamo a vedere” propose Tinetta. “Tanto non credo che la partita continuerà, per oggi”.
“Si, dai, andiamo” si accodò entusiasta Simona.
“Va bene” disse Sabrina. L’intero gruppo si incamminò.
“Bah, tanta agitazione per un indiano” disse Michael. “Vi siete accorti che VIVIAMO in mezzo agli indiani?”.
Arrivarono nello spiazzo al centro del villaggio; tutti facevano capannello attorno al nuovo venuto, che dava le spalle al gruppo di Johnny.
“Eccolo” disse Carlo. “Comunque, Michael ha ragione; che mai avrà di diverso questo indiano da tutti quelli che….”. In quel momento l’ospite si voltò verso i nostri eroi.
Carlo non terminò la sua frase. Balbettò: “Che…. che….”.
Tinetta lanciò un grido. Il nuovo venuto era un pellerossa con una vistosa cicatrice sul petto, e tutti lo riconobbero: era Piccolo Bufalo.
 
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“E’ Piccolo Cembalo! Ci ha trovati!” esclamò Tinetta nascondendosi dietro Johnny. “Come ha fatto?”.
“Calma, Tinetta” le disse Sabrina. “Non dimenticare che sei sposata. Piccolo Cembalo, come dici tu, non può più reclamarti”.
“Però può reclamare la pelle di Johnny” disse Michael. “Vorrà ripetere il suo duello all’ultimo sangue”.
Piccolo Bufalo vide il gruppo di giapponesi, e lanciò loro uno sguardo minaccioso. Aveva già spiegato la situazione a Freccia Rossa.
Quest’ultimo chiamò a sé Johnny e gli altri, che si avvicinarono. Cespuglio che Cammina, Vento nella Bocca e Nuvola Nera si apprestarono a tradurre.
[Il guerriero Pima Piccolo Bufalo mi ha spiegato come stanno le cose fra voi] disse Freccia Rossa. [Parla coi Sogni deve ripetere la sfida con il valoroso Piccolo Bufalo].
Johnny emise un sommesso sospiro di sconforto, quando gli furono decifrate queste parole.
Si fece avanti Renato, e disse: “Sarò io a combattere!”.
“Cosa?” disse Carlo. “Sei pazzo, amico?”. « »
“Renato, ma che dici?” chiese Sabrina.
“Voglio combattere io!” ribadì Renato, piazzandosi davanti a Piccolo Bufalo. Anche se i pellerossa non lo capivano, intuirono facilmente cosa volesse.
«Sabrina, che succede?» chiese Nuvola Nera. Sabrina glielo disse.
«Ma perché vuole combattere lui?» domandò Vento nella Bocca.
Sabrina, a sua volta, chiese spiegazioni a Renato. “Si può sapere che ti prende?”.
“Tinetta è MIA moglie, sarò io a combattere” disse Renato.
[Perché Cucciolo Ringhiante è determinato a lottare?] domandò Freccia Rossa. Sabrina lo disse a
Cespuglio che Cammina, che lo spiegò al capotribù.
«Capelli del Sole diventata moglie Cucciolo Ringhiante?» chiese Piccolo Bufalo nel suo americano stentato. «Essere promessa a altro ragazzo!».
«Ehm, già» disse Sabrina. «Ma sono accadute molte cose».
Piccolo Bufalo si adirò. «Capelli del Sole mancato promessa! Significa promesse dei bianchi non avere valore! Piccolo Bufalo reclamare Capelli del Sole!».
«Ma Capelli del Sole ora è sposata con Cucciolo Ringhiante» gli disse Sabrina.
Piccolo Bufalo si rivolse a Freccia Rossa, in Navajo. [Nobile capo Freccia Rossa, hai assistito al matrimonio tra Cucciolo Ringhiante e Capelli del Sole?].
[No, Piccolo Bufalo. Quando questi giovani stranieri sono giunti qui, erano già tutti sposati tra loro].
Piccolo Bufalo osservò i giapponesi allibito. [Non molto tempo fa nessuno di loro aveva marito o moglie, lo so perché me lo disse l’uomo bianco McFly!].
[Questo adesso non conta] disse Freccia Rossa. [Possono essersi sposati in qualsiasi momento, e non ci riguarda].
[Lottare contro Cucciolo Ringhiante sarebbe ridicolo. E’ un moccioso] protestò Piccolo Bufalo .
[Dunque, cosa intendi fare?] gli chiese Freccia Rossa.
Piccolo Bufalo, dopo alcuni momenti di riflessione, disse: [Sfiderò Cucciolo Ringhiante a duello, e se lo batterò prenderò con me Capelli del Sole. Ma non sarà un duello all’ultimo sangue. Primo, perché sarebbe un disonore combattere seriamente contro un bambino; secondo, perché il comportamento di questi stranieri non mi convince: ritengo infatti che non siano sposati gli uni agli altri. Capelli del Sole è senz’altro libera da vincoli, e non c’è bisogno di uccidere il suo attuale compagno per ottenerla].
[Mmmh, se devo essere sincero, Piccolo Bufalo, anche a me è sempre sembrato strano il modo di fare di questi ragazzini] disse Freccia Rossa, e mentre parlava indicò Michael e Manuela. [Per esempio, Faina del Deserto, pur essendo marito di Germoglio nella Sabbia (ragazza bellissima e devota), ha sempre cercato di infastidire le altre giovani del villaggio, senza alcun ritegno. Lo stesso posso dire di Occhi di Vetro, anche se il suo caso è più comprensibile: infatti è marito di Locusta Infernale, una giovane che, se pur bellissima, è comunque terrorizzante per la sua disumana voracità].
[Dunque anche tu hai dubbi sulla loro storia] disse Piccolo Bufalo.
[Si] concluse Freccia Rossa. Poi aggiunse: [Però non ha importanza: sono dei buoni ragazzi; chiassosi, è vero, e irrispettosi, ma buoni. Sono contento che tu non abbia stabilito un duello all’ultimo sangue].
[Dopo Cucciolo Ringhiante sfiderò anche Parla coi Sogni] aggiunse Piccolo Bufalo. [E con lui non ci sarà tregua. Ci batteremo fino alla morte, poiché mi ha umiliato].
Freccia Rossa si rammaricò, ma non poteva impedire un regolare duello. Si rivolse alla tribù. [Fratelli, il guerriero Pima Piccolo Bufalo è qui per sfidare due nostri compagni: Cucciolo Ringhiante e Parla coi Sogni. Egli ha stabilito che lotterà fino alla morte con Parla coi Sogni, ma non con Cucciolo Ringhiante. Se vincerà la sfida con Cucciolo Ringhiante, porterà via con sé Capelli del Sole. Si dia inizio alla lotta].
Cespuglio che Cammina tradusse la conversazione per Sabrina, che tradusse per i suoi amici.
“Cosa?” protestò Tinetta. “Capelli del Sole non va da nessuna parte, altro che seguire il vincitore”.
“Sta tranquilla, Tinetta” le disse Renato, sicuro. “Trionferò per te”.
“Sarà meglio” disse lei. “E comunque vada a finire non sono di nessuno che non decida io, sia chiaro”.
-Vincerò questo duello- pensò Renato, -così Tinetta capirà la differenza tra me e quel mollusco di Johnny-.
Gli sfidanti si fronteggiarono nello spiazzo centrale del villaggio, mentre i Navajo si disposero in cerchio intorno ai due.
[Non ci sarà onore nello sconfiggere un marmocchio come te] disse Piccolo Bufalo. [Sarò gentile, e non ti farò male].
-Chissà che sta dicendo- si chiese Renato. -Certo che è molto più grosso di me. Diavolo, però io sono cintura nera di karate; non mi farò mettere sotto facilmente-.
Il ragazzo si voltò verso Tinetta. -Forse non la conquisterò- pensò, -ma sapere di lottare per la mia amata mi darà la forza per non soccombere-.
[Dove stai guardando?] gli chiese Piccolo Bufalo.
Renato si girò, determinato. “Preparati!”.
L’indiano non aveva bisogno di incitamento; si avvicinò senza timore a Renato. Lo fece molto lentamente, però. Allargò le braccia per afferrare il ragazzino. Renato lo evitò con facilità e gli assestò un pugno nello stomaco; Piccolo Bufalo cadde in ginocchio. Renato si allontanò di qualche passo, restando in guardia.
Era esaltato. -Non mi sarei mai aspettato tanta imprudenza da parte sua- pensò.
Ovviamente, Piccolo Bufalo aveva sottovalutato l’avversario; dopotutto Cucciolo Ringhiante era poco più di un bambino. Renato, pur essendo piccolo, era agile e in forma; in realtà, se avesse avuto più sicurezza in sé, sarebbe stato un ottimo guerriero. I suoi amici e i Navajo esultarono dopo il colpo che aveva rifilato a Piccolo Bufalo. L’indiano, lentamente, si rialzò. Tempo prima aveva perso contro Johnny, ora era stato messo in ginocchio da Renato; non aveva intenzione di perdere ancora. Gli apparve evidente l’aver sottovalutato il nemico; ma dal suo sguardo, fu chiaro che non avrebbe ripetuto l’errore. Renato se ne accorse, e non gli piacque affatto.
-Cavolo- pensò timoroso, -si è arrabbiato-. Piccolo Bufalo si lanciò con foga sull’avversario, molto più velocemente di prima.
Renato lo evitò a stento, ma non tentò nemmeno di colpirlo; era già un gran risultato non essersi fatto prendere. L’indiano, di nuovo, cercò di afferrarlo, ma di nuovo lo sgusciante ragazzino lo scansò. [Non potrai scappare in eterno] disse Piccolo Bufalo.
Come a dimostrazione di ciò, il successivo assalto fu fortunato per lui: riuscì a prendere Renato per un braccio. [Bene] disse [e ora….]. Non concluse la frase, perché il ragazzino, che aveva le gambe libere, gli sferrò un calcio in un fianco. L’indiano lo lasciò andare e si piegò per il dolore. I tifosi di Renato esultarono ancora. Sabrina, Manuela, Tinetta e Johnny, però, non erano tranquilli.
“Ho paura che stavolta si arrabbierà” disse Tinetta.
“Si, l’ho pensato anche io” concordò Johnny. “All’inizio era un giochetto, per lui, ma dopo due colpi ricevuti potrebbe fare sul serio”.
“Temo che si senta preso in giro” si accodò Manuela. “Potrebbe reagire molto male”.
Renato, che era un combattente leale, non infierì su Piccolo Bufalo mentre era inerme. Se l’avesse colpito approfittando di quel vantaggio, avrebbe probabilmente vinto il duello. Piccolo Bufalo, invece, ebbe modo di riprendersi. Quando si tirò su, i suoi occhi erano terribili.
“Scappa, Renato!” gridò Sabrina; fu inutile, perché Piccolo Bufalo, veloce come un falco, afferrò il suo malcapitato avversario per i capelli, e gli sferrò in tremendo pugno nello stomaco. Prima ancora di poter sentire il dolore del primo colpo, Renato fu sollevato in aria da un altro pugno sotto il mento. Prima di toccare terra, era svenuto.
Tinetta, Manuela e Simona gridarono inorridite, coprendosi gli occhi.
Johnny, Michael e Carlo osservarono atterriti la scena. Sabrina sapeva di non poter attaccare Piccolo Bufalo (avrebbe violato le regole del duello), ma se l’indiano avesse infierito sul corpo incosciente del suo amico, se ne sarebbe infischiata; Piccolo Bufalo, però, si allontanò.
Freccia Rossa alzò un braccio al cielo, e disse: [Dichiaro questo duello concluso]. In un batter d’occhio Johnny e gli altri si precipitarono su Renato.
“Come sta?” chiese Tinetta, con le lacrime agli occhi.
Sabrina sentì il polso del suo amico, poi gli appoggiò una mano sul petto. Dopo un attento esame, disse: “Credo sia solo svenuto, ma dovremo aspettare che si risvegli per essere certi che non abbia subito danni”.
Sabrina e gli altri portarono Renato fuori dal cerchio della lotta, e lo adagiarono a terra.
Johnny guardò Piccolo Bufalo con rabbia. Si alzò in piedi, dicendo: “Adesso gli faccio vedere io”.
“Johnny, che vuoi fare?” gli chiese Tinetta, apprensiva. “Non vedi come ha ridotto Renato? E non stava neanche facendo sul serio”.
“Non preoccuparti” disse Johnny. Avrebbe usato il potere, come nella precedente occasione, per vincere.
-Ma stavolta non sarò tanto gentile- pensò. -Ti farò passare la voglia di andare in giro a sfidare la gente-.
Johnny si piazzò al centro del cerchio, a pochi passi da Piccolo Bufalo.
“Oh, cavolo, Johnny si farà ammazzare” piagnucolarono Michael e Carlo.
Piccolo Bufalo si mise a sedere. Johnny lo guardò qualche istante, come per assicurarsi che non si trattasse di un trucco, poi disse: “Ehi, ma che fai? Non vuoi più combattere?”.
[Aspetterò per vedere quando Cucciolo Ringhiante si sveglierà] disse Piccolo Bufalo.
Sabrina si rivolse ai suoi interpreti: Nuvola Nera tradusse.
“Così vuole aspettare che Renato si risvegli, eh?” disse Johnny. “Scommetto che è una scusa per riposare. Dopotutto si è beccato due belle sventole”.
“Può essere” ammise Sabrina. “Ma tu non sfidare la sorte. Lascialo stare, per ora”.
I Navajo circondarono Renato; Ta-Hu-Nah lo osservò attentamente.
Dopo qualche minuto, tentò di svegliarlo. Il ragazzo diede segni di ripresa; i suoi amici lo osservarono speranzosi. Il risveglio però fu lento. La botta che aveva ricevuto era tremenda.
Quando alla fine fu del tutto cosciente, erano passati più di venti minuti dalla fine del suo scontro.
“Che…. che è successo?” domandò per prima cosa.
“Hai preso un paio di botte spaventose” gli disse Sabrina. “Sei svenuto”.
“Sono…. sono svenuto?” chiese ancora. “Ma che stavo facendo?”.
I suoi amici gli rinfrescarono la memoria. “Ora ricordo!” esclamò. “Il duello!”. Si guardò in giro: vide Piccolo Bufalo seduto nello spiazzo in cui si erano misurati.
Renato parve avvilito. “Mi sembra di capire che ho perso”.
“Beh, ma hai combattuto come un leone” gli disse Manuela.
“E’ vero, amico” concordò Michael. “Per un momento ho creduto che l’avresti sconfitto”.
Queste parole non lo tirarono su di morale.
“Renato” disse Tinetta. Lui si voltò verso di lei. “Sei stato grande, davvero”.
Il ragazzo la osservò per un paio di secondi, poi scoppiò a piangere di gioia. “Oh, Tinetta, sono così orgoglioso di aver lottato per te”.
Passarono altri dieci minuti, necessari per assicurarsi che Renato non avesse riportato danni. Poi venne il turno di Johnny di combattere. “Bene, io vado” disse.
I suoi amici volevano impedirglielo, ma lui era talmente sicuro del fatto suo che, alla fine, lo lasciarono andare. Le sue sorelle erano tranquille, anche se dovevano apparire angosciate agli occhi degli altri.
Ormai era sceso il buio. Fuochi erano stati accesi tutto intorno allo spiazzo centrale del villaggio.
Johnny si piazzò di nuovo di fronte a Piccolo Bufalo; quest’ultimo si alzò in piedi, con mosse solenni. Era consapevole che in quello scontro metteva a rischio la sua vita.
Freccia Rossa si mise tra i due contendenti. [Fratelli miei] disse, [si dia inizio al duello tra il valoroso guerriero Pima Piccolo Bufalo, e il giovane Navajo Parla coi Sogni. Questa sfida si concluderà con la morte di uno dei due avversari. Sappiate battervi con onore, poiché senza onore non si è degni di appartenere al popolo rosso].
Piccolo Bufalo prese il suo coltello; a Johnny ne fu consegnato un altro.
-Non lo ucciderò di certo, e neppure mi farò ammazzare- pensò Johnny. -Mi limiterò a renderlo inoffensivo, e al diavolo il suo orgoglio ferito: stavolta, per avere soddisfazione, dovrà cercarmi un secolo più avanti-.
Piccolo Bufalo, memore della sconfitta precedente, nonché dei sorprendenti colpi ricevuti da Renato, si mosse con estrema circospezione attorno a Johnny. Il nostro eroe, dal canto suo, doveva semplicemente usare il potere nel modo più discreto possibile; si limitò ad osservare i movimenti del nemico. Piccolo Bufalo scattò verso Johnny, brandendo il coltello, ma non riuscì a colpire. Johnny, infatti, aveva deviato la lama di pochi millimetri sulla sua destra mentre si spostava nella direzione opposta. L’indiano non si perse d’animo: aggredì nuovamente, dal basso. Johnny lo evitò ancora.
-E’ un gioco pericoloso- pensò. -Anche col mio potere, quel coltello mi sfiora in modo preoccupante. D’altronde, non posso farglielo volare di mano-.
Sempre più infuriato, perché Johnny scansava i suoi attacchi con un’abilità che non riusciva a spiegarsi, Piccolo Bufalo tentò una carta azzardata: lanciò il coltello verso il suo avversario, che lo evitò, ma fu comunque colto di sorpresa dal gesto. L’indiano allora si gettò su Johnny a mani nude. Il suo piano era sottometterlo fisicamente, e se ci riusciva strappargli di mano la sua arma e colpirlo con quella. Ma Johnny, nel corpo a corpo, poteva usare il potere con ancora maggior libertà. Bloccò per un istante i movimenti di Piccolo Bufalo, e lo colpì in testa col manico del coltello. Non voleva fargli del male, ma ritenne necessario fargli capire che, se obbligato, poteva picchiare.
Il suo piano, alla fine, era prenderlo per stanchezza: frustrare tutti i tentativi di attacco dell’indiano, e se si avvicinava troppo tenerlo a bada con leggeri colpi ben assestati. Prima o poi Piccolo Bufalo si sarebbe arreso. Ma Johnny aveva fatto male i conti: il suo rivale studiava la situazione per un po’, poi provava un nuovo assalto, o un nuovo trucco.
Piccolo Bufalo non sembrava sentire la stanchezza, né la delusione. Pareva aver capito che in Johnny c’era qualcosa di strano, e non ne era affatto scoraggiato; dava anzi l’impressione che affrontare un avversario così forte lo galvanizzasse.
-Se non avessi il potere- pensò Johnny, -sarei già morto dieci volte-.
Il loro duello si trascinava già da una mezz’ora, quando fu interrotto.
[Aiuto! Aiuto!] gridò una donna lanciandosi verso Freccia Rossa.
[Che succede?] chiese il capo.
Johnny e Piccolo Bufalo interruppero le ostilità, in attesa di sapere il perché di tanto scompiglio.
Tutta la tribù si raccolse intorno a colei che aveva urlato.
[Che è successo?] domandò ancora Freccia Rossa.
[Non trovo la piccola Lilyth!].
[Che cosa?!] sbottò Freccia Rossa.
[E’ così] disse la donna. [Ero andata a controllare se dormiva, e non l’ho vista nel tuo hogan. L’ho cercata, senza risultato, poi ho notato che c’era questo attaccato ad uno dei pali esterni]. La donna porse un biglietto. Freccia Rossa lo aprì. [Non capisco cosa c’è scritto] disse. [E’ la lingua dei bianchi].
Cespuglio che Cammina prese il biglietto dalle mani del capo, e lo lesse. Vento nella Bocca e Nuvola Nera si misero subito alle sue spalle e lessero anche loro. Quando finirono, sbiancarono; si guardarono l’un l’altro, allibiti.
[Cosa dice?] domandò Freccia Rossa, in ansia.
Per un attimo i tre sembrarono non volerlo rivelare, poi Nuvola Nera disse: [Lilyth è stata rapita].
Un silenzio di tomba calò tra i Navajo. Era evidente che non potevano credere ad un simile avvenimento.
«Che cosa c’è scritto?» chiese Sabrina prendendo il biglietto. Lei non aveva difficoltà a leggere l’inglese.
Finì in pochi secondi, e strinse il pezzo di carta con odio. “Che succede, Sabrina?” le chiese Johnny.
Lei rispose: “Hanno rapito Lilyth”.
“Non può essere” mormorò Johnny. “E quando l’avrebbero rapita?”.
“Durante gli scontri tra voi e Piccolo Bufalo, immagino” rispose lei, poi si diresse verso il suo hogan. I suoi amici la seguirono.
Sabrina prese la sella e si diresse verso Dinamite. “Che vuoi fare? Dove vai?” le chiese Tinetta. Quando Sabrina era così arrabbiata gli unici che avevano il coraggio di rivolgerle la parola erano Johnny e Tinetta. Sabrina sellò il suo cavallo, poi si rivolse a Michael, dicendogli: “Avrò bisogno del tuo zaino. Portamelo”.
“Va…. va bene” balbettò lui. “Ma è vuoto, ho…. ho tolto tutto”.
“Mettici dentro due coperte, un coltello, la bussola, un accendino e due borracce. Prenderò con me anche la pistola” e così dicendo si diresse di nuovo nel suo hogan.
“Sabrina!” esclamò Tinetta. “Si può sapere che intenzioni hai?”.
Sabrina non rispose alla domanda. Entrò nella capanna ed esclamò: “Restate fuori!”.
Quando ne uscì, pochi minuti dopo, si era cambiata. Aveva indossato una camicia e dei pantaloni, presi dagli abiti dati loro dai McFly; adesso era una perfetta cowgirl.
Si legò il cinturone alla vita, con la pistola nella fondina. Michael le portò lo zaino.
“C’è dentro tutto quel che ti ho chiesto?” domandò Sabrina.
“S…. si” rispose lui, titubante.
Sabrina saltò in sella a Dinamite, e disse, semplicemente: “Vado a riprendermi Lilyth”.
“Che cosa?!” sbottò Johnny. “Da sola?”.
“Così è scritto nel biglietto” rispose lei.
“Che vuoi dire?” chiese Renato.
Sabrina prese il pezzo di carta che aveva infilato in una tasca e lesse: “Abbiamo rapito la figlia del capo Freccia Rossa. Se volete rivederla viva mandate i ragazzini stranieri sulla pista dei cavalli selvaggi. Loro soltanto: se vedremo l’ombra di un Navajo uccideremo la bambina”.
I ragazzi si guardarono, sbigottiti.
“Ehi, lì c’è scritto che dobbiamo andare tutti, non tu sola” disse Johnny.
“Si, ma a che servirebbe? Credete che libererebbero Lilyth, se obbedissimo? No, la terrebbero comunque in ostaggio”.
“E allora?” domandò Johnny.
La ragazza rispose, seria: “Io devo andare, ragazzi. Per favore, stavolta non mi venite dietro, potrebbe essere davvero pericoloso”.
Johnny protestò: “Sei impazzita? Credi che ti lasceremo sola? Non puoi andare a consegnarti!”.
Sabrina lo guardò con occhi di ghiaccio. “Ti sembra che stia andando a consegnarmi?” chiese.
Johnny notò allora che la sua amica era in effetti in vero e proprio assetto da guerra.
“Ma…. ma….” balbettò Carlo. “Che…. che vuoi fare, quindi?”.
“Sono stanca di scappare. Stanca” disse lei, con voce bassa e decisa. “Non abbiamo fatto altro che scappare, e come risultato ci siamo dovuti nascondere da tutto e da tutti pur essendo innocenti. Potevo anche sopportare questa situazione assurda, ma adesso se la sono presa con una bambina. Se in questa terra vogliono una fuorilegge, ebbene, l’avranno. Mi vado a riprendere Lilyth, con le buone o con le cattive. Da sola posso farcela, mentre se dovessi preoccuparmi anche di voi non so se ci riuscirei. Quindi, per favore, non seguitemi”.
In quel momento Freccia Rossa, Piccolo Bufalo, Cespuglio che Cammina, Vento nella Bocca e Nuvola Nera si avvicinarono a Sabrina.
Lei li guardò, e disse: «Non cercate di fermarmi».
Cespuglio che Cammina le disse: «Non ti vogliamo fermare. Tutti i guerrieri della tribù partiranno».
«No!» protestò Sabrina. «Non avete letto il biglietto?».
«Credi che i pellerossa se ne stiano a guardare mentre una ragazzina (se pur in gamba come te) va a liberare uno di loro?» le chiese Nuvola Nera.
«E poi Piccolo Bufalo ci ha fatto una confessione» aggiunse Vento nella Bocca.
«Vale a dire?» chiese Sabrina.
Piccolo Bufalo disse: «Uomo bianco chiamato Jenning è responsabile rapimento».
Sabrina non se ne sorprese. «Lo immaginavo» disse. «Dunque tu sei suo complice?» chiese poi.
«No! Piccolo Bufalo non sapeva che Jenning avere in mente cosa del genere» disse l’indiano.
«In poche parole» le spiegò Cespuglio che Cammina, «Piccolo Bufalo voleva solo sfidare Parla coi Sogni e conquistare Capelli del Sole, dopodiché se ne sarebbe andato. Sapeva che Jenning voleva uccidere te e i tuoi amici, ma non gli interessava».
«Ah, no, eh?» disse Sabrina. «E perché adesso ha rivelato tutto?».
Fu Piccolo Bufalo a rispondere: «Piccolo Bufalo non è amico di Jenning; affiancato a lui e suoi compagni perché noi avere obiettivo comune. Ma quando sentito rapimento, Piccolo Bufalo infuriato: prendersela con bambini è comportamento indegno di guerriero!».
«Capisco» disse Sabrina. Poi aggiunse: «In ogni caso, il biglietto parla chiaro: se quei maledetti vedranno un solo indiano uccideranno Lilyth».
«Se la uccideranno» disse Nuvola Nera, «neppure in capo al mondo potranno sfuggire alla vendetta di Freccia Rossa. Lo sanno benissimo».
Sabrina pensò a cosa fare. I suoi avversari erano solo in tre: da sola era sicura di riuscire a sconfiggerli, ma non poteva impedire ai pellerossa di seguirla.
In quel momento, Ta-Hu-Nah si unì alla discussione. [Nobile Freccia Rossa, ascolta il mio piano].
[Parla, Ta-Hu-Nah] lo incoraggiò il capo.
[Fate partire Bacio di Luna per prima, così che i rapitori pensino che abbiamo rispettato i patti, ma seguitela a distanza, in modo da intervenire quando i nostri nemici avranno abbassato la guardia].
[Hai consultato gli spiriti, così da sapere se questo piano avrà successo?] gli chiese Freccia Rossa.
[Li ho consultati] rispose Ta-Hu-Nah. [Ma non mi hanno rivelato quel che succederà; la missione di salvataggio è incerta. Mi hanno però mostrato il futuro di Lilyth].
[Che vuoi dire?] domandò Freccia Rossa.
[Ho avuto una visione del futuro di tua figlia: essa è chiamata ad un grande destino, Freccia Rossa. Sarà moglie di un’Aquila, e madre di un Falco].
[Che significato ha questa rivelazione?].
[Non mi è chiaro] disse Ta-Hu-Nah. [L’unica cosa evidente è che Lilyth è importante, non solo perché è tua figlia. Il suo destino dovrà compiersi, e sarà un destino che cambierà le sorti del popolo Navajo].
Freccia Rossa restò in silenzio per qualche secondo, poi disse: [Che il destino di mia figlia sia grande o piccolo, io la libererò. Il tuo piano è buono, Ta-Hu-Nah. Se i nostri nemici, come ha rivelato Piccolo Bufalo, sono solo in tre, non potranno sfuggirci. Bacio di Luna avrà un compito rischioso, ma mi sembra di capire che questo non la spaventa].
[Infatti è così] disse Cespuglio che Cammina. [Bacio di Luna è impaziente di partire, poiché anche lei ama molto la piccola Lilyth].
[Bene, così è stabilito. Riferite a Bacio di Luna quali sono le nostre decisioni] concluse Freccia Rossa.
Sabrina fu messa al corrente del piano appena ideato.
«In pratica dovrò fare da esca» commentò.
«Beh, si» disse Vento nella Bocca. «L’idea è questa».
«Va bene» consentì Sabrina. «In ogni caso, io sarei partita; voi potete seguirmi, se volete».
Si rivolse ai suoi amici, e spiegò loro sommariamente il piano.
Poi li ammonì: “Voi però non muovetevi da qui, intesi?”.
“Sabrina….” mormorò Johnny.
“Addio, ragazzi” disse Sabrina. “Andiamo, Dinamite!”. Il cavallo, spronato, nitrì, si impennò e partì al galoppo.
“Che…. che facciamo?” chiese Michael.
“Non so voi” disse Johnny. “Ma io la seguo”.
“Davvero?” domandò Carlo. “Ma…. ma…. noi non siamo alla sua altezza”.
“Ehi” disse Tinetta. “Siamo o non siamo una banda? Sabrina è sempre stata il mio capo, e io il suo braccio destro; sarà come tornare ai bei vecchi tempi delle scorribande in città”.
“Si, ma qui si rischia la pelle” obiettò Michael.
Tinetta lo guardò con disprezzo. In quel momento era tornata in tutto e per tutto la teppista presuntuosa e irrispettosa di molto tempo prima. “Fa come vuoi, Michael. Io non lascio la mia amica da sola”.
“Già” concordò Renato. “Sabrina è come una sorella maggiore, per me. Anche io la seguo”.
“E…. e voi?” domandò Michael a Simona e Manuela.
Simona, con la sua classica e incosciente leggerezza, rispose: “Scherzate? E io dovrei lasciare tutto il divertimento a Sabrina?”.
Manuela si rivolse a Michael e Carlo, dicendo: “Credo che resterete soltanto voi due, ragazzi”.
“Anche tu te ne vai?” chiese Carlo.
“C’è forse dubbio?” rispose lei. “Siamo o non siamo la banda degli Stranieri?” e si diresse nel suo hogan.
Michael e Carlo si guardarono; poi Carlo disse: “Beh, certo che dopotutto ne abbiamo passate tante, no? E siamo ancora qui, sani e salvi”.
“Beh, si” ammise Michael. “Ma andare a buttarsi a capofitto nei guai, la trovo una idiozia”.
“Michael, hanno rapito una bambina” gli fece notare Johnny. “Io non me la sento di lasciare impuniti dei vermi simili. Inoltre, non dimentichiamo che Jenning e soci volevano che anche noi ci consegnassimo: se ci vedranno non faranno niente alla piccola, mentre se avvisteranno i Navajo per lei sarà la fine. Il nostro posto, insomma, è con Sabrina”.
Michael restò pensieroso, mentre gli altri si avviarono nei propri hogan per prepararsi alla partenza; i suoi però furono dubbi di breve durata: “Beh, ma che ci sto a fare qui da solo?”.
Si avviò in direzione del suo hogan, ed esclamò: “Ragazzi, secondo me siete tutti matti! Forse non avete idea dei pericoli in cui ci stiamo per cacciare”. Nessuno gli rispose. Entrò nella sua capanna, e vi trovò Manuela intenta nei preparativi. “E così, nessuno ha un minimo di buon senso, a parte me” osservò Michael.
“Può darsi” ammise Manuela. “Ma in compenso abbiamo un forte spirito di amicizia, di lealtà e di giustizia”.
“E poi il tuo non è buon senso, è solo vigliaccheria” lo accusò Renato, affacciandosi nell’hogan.
“Ehi, ma che vuoi?” si schermì Michael. Manuela, che era pronta, uscì. Dopo pochi minuti, Tinetta gridò: “Siamo pronti?”.
“Siii!” esclamarono gli altri in coro.
“Ehi, ehi, aspettatemi!” esclamò Michael. “Io devo ancora finire”.
“Muoviti, scansafatiche!” gli disse Johnny.
“Si, si” borbottò lui, mentre si preparava. Quando uscì, poco dopo, gli altri erano già tutti a cavallo.
Lui sellò il suo, vi si issò sopra, e disse: “Ci sono”.
I guerrieri Navajo non erano ancora pronti a muoversi, e osservarono i nostri eroi riunirsi e prepararsi a partire.
“La banda degli Stranieri al completo è pronta all’azione!” esclamò Simona, entusiasta.
“Yuhuuu!” gridarono gli altri, chi con più convinzione, chi con meno. Johnny diede il segnale di partenza, e tutti insieme si mossero per raggiungere Sabrina. Gli Stranieri lasciarono il villaggio di Freccia Rossa sotto la pallida luce di una splendida mezzaluna.
 
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Capitolo 4
 
Dead or Alive
 
 
Il primo pensiero del padrone del locale, quando vide quel vecchio svitato entrare dalla porta, fu: -Ecco, con tutte le tavole calde che ci sono a Tucson, proprio qui doveva capitare questo matto-.
I clienti osservarono divertiti l’incedere dell’anziano signore coi baffi bianchi, che avanzava vestito da cowboy.
“Un whisky, oste” disse lo strambo personaggio appoggiandosi al banco.
-Ed è pure straniero- pensò il proprietario, sconsolato.
Il vecchio si voltò verso il centro della tavola calda, e squadrò i clienti che lo osservavano ancora.
«Ehi, amico, cos’è che vuoi? Io non parlo la tua lingua» gli disse il padrone.
Il vecchio si voltò, con sguardo minaccioso. “Dammi un whisky, sbarbato, prima che scateni l’inferno in questo tuo sporco tugurio”. Dicendo questo, l’improvvisato cowboy estrasse una delle pistole giocattolo che portava nel cinturone e la puntò contro alcune bottiglie allineate dietro il banco. Premette il grilletto e si sentì lo scatto del cane dell’arma di plastica: subito dopo una delle bottiglie andò in frantumi. Per un istante tutti restarono immobili, poi si scatenò il panico; una donna si alzò di scatto dal suo tavolo e strillò: «E’ una pistola vera!».
Tra urla e spintoni, tutti gli avventori raggiunsero l’uscita; il proprietario della tavola calda e una delle sue dipendenti, che era dietro il banco al momento dello sparo, si erano già gettati a terra.
Il vecchio rise contento, e disse: “Ah ah ah, che divertimento! Ho una pistola di plastica, e la bottiglia l’ho rotta col mio potere, ma ci sono cascati tutti. Peccato solo non aver potuto usare una pistola vera: avrei dato prova della mia infallibile mira, come John Wayne”. Il nonno puntò la sua arma di plastica davanti a sé, e premette il grilletto varie volte, fingendo di essere nel bel mezzo di un conflitto a fuoco; ad ogni sparo faceva Pum! con la bocca. Quando puntò la pistola verso l’ingresso, vide due poliziotti entrare di corsa nel locale; gli agenti puntarono le loro armi (vere) contro di lui, e gli dissero: «Getta la pistola!».
“Ehi, calma, giovanotti” disse il nonno, “con quelle potreste far male a qualcuno”.
«Butta la pistola!» esclamò di nuovo uno dei due.
Il nonno buttò la pistola di plastica a terra, tranquillo. Uno degli agenti la raccolse, e la esaminò velocemente, mentre l’altro si faceva avanti per ammanettare il nonno.
Da dietro il banco, il padrone e la dipendente saltarono fuori.
«L’avete preso, quel criminale?» domandò il padrone.
«Si, è tutto a posto» fu la risposta.
«Un momento» intervenne il poliziotto che aveva raccolto la pistola finta, «quel tipo deve avere altre armi».
«Altre armi? Ne sei sicuro?» chiese il suo collega.
«Con questa non può aver fatto danni» spiegò il primo, mostrando l’arma finta. «E’ un giocattolo da bambini».
Il proprietario intervenne, ed esclamò: «E’ proprio con quella che ha sparato, la riconosco!».
«E’ vero» confermò la dipendente, «l’ho vista anch’io».
I due poliziotti si guardarono perplessi. «Te l’ho detto, deve avere altre armi» disse poi uno all’altro.
Dopo una veloce perquisizione, addosso al nonno non fu trovato nulla di sospetto.
«Non ha niente» concluse l’agente che aveva effettuato il controllo.
«Eppure qualcuno ha sparato» commentò il suo collega.
«E’ stato lui, con quella pistola» insisté il proprietario. «Non posso sbagliarmi».
I poliziotti, dopo una breve consultazione, si decisero ad arrestare il nonno.
«Adesso ti portiamo dentro, matusa,» gli disse uno dei poliziotti, «così, almeno, ti passerà la voglia di fingerti Buffalo Bill».
Il nonno non capiva una parola di quel che veniva detto, ma si divertiva un mondo: aveva comprato quel costume proprio per giocare al cowboy.
I due agenti lo scortarono alla volante, e lo fecero salire dietro, mentre loro salirono davanti.
L’auto partì, ma senza accendere le sirene.
Lungo il tragitto, il nonno continuava a scherzare. “Ah ah ah, sono stato arrestato dallo sceriffo! Sono un pericoloso criminale, un ladro di cavalli e un assaltatore di diligenze!”.
«Ehi, questo bacucco strampalato continua a parlare da solo».
«Lascialo perdere, è innocuo. Non so come abbia fatto a rompere la bottiglia, ma certo non sparando con quella pistola di plastica».
«Beh, questo è poco ma sicuro».
«Che lingua parla, secondo te?».
L’interpellato ci pensò qualche momento. «Mi pare giapponese» disse poi.
«Si, sembra anche a me».
Il nonno, intanto, si era calmato; guardava fuori dal finestrino il brulicare di vita della grande città americana, e rimpiangeva la sua casetta isolata in montagna.
“Beh” disse, ad un certo punto, “è stato un piacere; mi sono divertito, ma ora è il momento di partire. Devo raggiungere la Mesa De Arena per aiutare i miei nipotini e i loro amici. Arrivederci signori”. Detto questo, si teletrasportò lontano col potere, scomparendo dall’auto. Gli agenti non se ne accorsero subito, ma al primo semaforo rosso, quello che sedeva dalla parte del passeggero si voltò, e rimase impietrito. «E…. e…. ehi» balbettò.
«Che c’è?» domandò l’altro.
«Do…. dov’è finito il nostro amico?».
«Dov’è finito chi?» chiese il guidatore voltandosi all’indietro, e anche lui restò di sasso. «Ma…. ma dov’è?».
«L’ho chiesto io a te!».
«Non è possibile che se ne sia andato. Non ci siamo mai fermati, e poi le portiere di dietro sono bloccate, così che i criminali non le possano aprire e filarsela».
«Questo lo so anche io, grazie tante. Come la spieghiamo questa?».
L’altro non rispose per molti secondi. Poi ripartì, e disse: «Io credo sia meglio non dire niente a nessuno».
Il suo collega rifletté per un po’ in silenzio, poi concordò: «Già, ci prenderebbero per matti».
Senza fretta, l’auto della polizia si diresse alla centrale.
 
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Sabrina, da sola, raggiunse la pianura indicata da Jenning nel suo biglietto. Aveva un gran vantaggio sugli altri, perché Dinamite era un cavallo velocissimo. Se Johnny l’avesse potuta vedere in quel momento, avrebbe riconosciuto l’immagine che aveva visto nella capanna di Ta-Hu-Nah: Sabrina che cavalcava da sola nella notte, con sguardo determinato.
Johnny, però, pur lontano da lei, pensò proprio a quella visione: ricordò la sensazione di angoscia che aveva provato, come se un pericolo incombesse sulla sua amata.
-Maledizione- pensò, -come ho potuto non collegare subito la visione nella capanna di Ta-Hu-Nah con quello che è accaduto stasera? Non avrei dovuto permettere che Sabrina partisse da sola. Spero di raggiungerla in tempo-.
Ma ormai era tardi: i rapitori erano pronti a mettere in atto un agguato ai danni di Sabrina; l’unica speranza era che la ragazza si accorgesse in tempo del pericolo che la sovrastava.
 
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Bull e Jenning si erano appostati dietro alcune rocce. Cody era rimasto con Lilyth, in disparte: i tre criminali non avevano intenzione di rischiare la vita dell’ostaggio.
Il loro piano era andato in porto facilmente. Avevano ingannato Piccolo Bufalo, proponendo che si recasse da solo al villaggio per sfidare il suo nemico, mentre loro sarebbero rimasti nelle vicinanze. In realtà, approfittando della distrazione generale provocata dal duello, avevano rapito Lilyth ed erano scappati con lei lasciando il biglietto, così da affrontare Johnny e i suoi amici lontano dai pellerossa.
Quando, nascosto dietro le rocce, Jenning sentì arrivare Sabrina, mormorò: «Arriva qualcuno».
«Così pare» disse Bull. «Però mi sembra di sentire un solo cavallo, o due. Forse non sono loro».
«Aspettiamo di vedere chi è, allora» disse Jenning. «Anche se mi sembra molto improbabile, potrebbe essere qualcuno che non c’entra niente con noi; in questo caso, attaccandolo, metteremmo in allarme le nostre prede».
Tenendo gli occhi aperti e le orecchie spalancate, i due si apprestarono a ricevere l’ignoto cavaliere.
Si appiattirono dietro le rocce, con le pistole in pugno; il rumore di zoccoli si faceva sempre più vicino; pochi secondi dopo videro un cavallo spuntare sulla pista. Era Dinamite, ma in groppa non portava nessuno.
«Ma cosa significa?» si chiese Jenning, sbigottito.
«Significa che siete in trappola!». Bull e Jenning si voltarono al suono di questa voce, e
con stupore videro Sabrina che puntava loro contro la pistola; li aveva presi alle spalle.
«Gettate le pistole!» intimò la ragazza. Dopo un attimo di esitazione, le obbedirono.
Bull non credeva ai propri occhi. «Ma…. ma come hai fatto?» chiese.
«Credete di essere tanto furbi?» domandò Sabrina a sua volta. «Quando mi sono accorta che non eravate in vista ho immaginato che vi foste nascosti per tentare un agguato, e queste rocce offrono un riparo ideale. Allora ho spinto il mio cavallo da solo sulla pista e ho aggirato la vostra posizione, per prendervi di sorpresa».
«Ma brava» disse Jenning con tono sarcastico, «e cosa credi di aver risolto, così? Ti faccio notare che metti in pericolo la vita della piccola, se non ti arrendi».
«Non dire stupidaggini, Jenning» gli disse Sabrina. «Non avrai il coraggio di farle del male. Sei stato un idiota a rapirla e fermarti a poche ore di distanza dal villaggio di Freccia Rossa; se la uccidi non avrai scampo».
«Già, ma finché è viva la posso usare, no?».
«Appunto, per questo so che non le farai niente» disse Sabrina.
«Tu sei un po’ troppo sicura, per i miei gusti» ribatté Jenning. «Ecco cosa faremo: io e il mio compare recupereremo le nostre pistole, e ce ne andremo per la nostra strada, con la bimba. Ti ho vista in azione, al ranch di Samson, e non tenterò di spararti addosso mentre mi tieni sotto tiro perché so che sei velocissima e la tua mira è a dir poco strabiliante».
«Sei pazzo? Sono qui per riprendermi Lilyth» disse la ragazza. «Non vi lascerò andare via con lei».
«Io invece credo di si» replicò Jenning. Si chinò, lentamente, a riprendere la sua pistola, ma sempre tenendo gli occhi fissi su Sabrina. Bull lo osservava trattenendo il respiro.
Jenning recuperò la sua pistola e la infilò nella fondina; poi disse a Bull di fare la stessa cosa. Sabrina non capiva cosa avesse in mente.
«Adesso noi ce ne andiamo» proclamò Jenning, e voltò le spalle alla ragazza.
Sabrina sparò in aria, poi puntò di nuovo l’arma sui due criminali (che al suono dello sparo si erano immobilizzati) ed intimò: «Non provate ad allontanarvi, o il prossimo colpo ve lo piazzo nella schiena».
Bull era davvero intimorito dal tono di Sabrina, ma Jenning era troppo freddo per farsi spaventare.
«Noi ora ce ne andremo, ragazza» disse, senza voltarsi. «Come hai notato, la piccola non è con noi. E’ poco distante da qui, e un mio compare la tiene d’occhio».
«E allora?» domandò Sabrina. «Adesso lo raggiungiamo insieme, e tu gli dici di lasciarla andare».
Jenning si girò verso Sabrina, e disse: «Hai tre scelte, ragazza: prima opzione, ci lasci andare via indisturbati; seconda, ci spari alle gambe e ci impedisci di andarcene, ma in quel caso io urlerò al mio compare di ammazzare la piccola e scappare. E’ troppo lontano perché possa sentirci parlare, ma mi sentirà gridare; dopodiché, visto che ho ancora la pistola, credo che la userò per suicidarmi, perché non ci tengo davvero a cadere vivo nelle mani dei musi rossi».
Seguirono alcuni secondi di silenzio. Sabrina, infine, domandò: «E…. la terza scelta?».
«La tua terza scelta è ammazzarci tutti e due» disse Jenning. «Il mio compare, laggiù, non può sapere chi sta sparando a chi, e penserà che io e Bull stiamo facendo fuori te e i tuoi amici. A quel punto dovrai solo prendere di sorpresa anche lui (cosa che, direi, sei perfettamente in grado di fare) e salverai la bimba».
Sabrina si rese conto di essere in trappola.
Jenning si voltò di nuovo, e si incamminò in direzione di Cody. Bull lo seguì. Sabrina alzò la pistola, e mirò alla schiena di Jenning. -Maledetto- pensò, -dovrei sparargli! Dovrei sparargli, così Lilyth sarebbe salva-.
Ma lo tenne semplicemente sotto tiro, finché non scomparve dalla sua vista. Frustrata, si lasciò cadere in ginocchio. -Dannato bastardo- pensò. -Sapeva che non gli avrei sparato. Non posso uccidere un essere umano; non lo farei mai, per nessun motivo-.
«Ah ah ah, addio, ragazza!» sentì gridare dopo pochi minuti, dal buio. Sentì anche i cavalli che partivano al galoppo.
Si preparò a recuperare Dinamite, che doveva essersi allontanato molto, nel frattempo. Mentre lo cercava, sentì un rumore; ascoltò attentamente, e si rese conto che erano cavalli. Per un attimo pensò che forse Jenning e i suoi tornavano indietro, poi si accorse che il rumore veniva dalla direzione del villaggio.
Quando vide chi era, riconobbe i suoi amici; li chiamò: “Ehi! Ragazzi!”.
Gli altri la raggiunsero, smontarono e la circondarono, allarmati.
Johnny, preoccupatissimo, le disse: “Come stai, Sabrina? Tutto bene?”.
“No, non va bene affatto” mormorò lei, amareggiata.
“Sei stata ferita?” chiese Johnny.
La ragazza scosse la testa. “No” rispose, “ma non sono riuscita a riprendere Lilyth. Quell’infame di Jenning è mille volte più furbo e intelligente di quel che sembra”. Allora, velocemente, Sabrina narrò l’accaduto.
“Non ci voleva” commentò Tinetta. “Finché hanno Lilyth abbiamo le mani legate”.
“Già” confermò Sabrina. Poi disse: “Aiutatemi a recuperare Dinamite, intanto”. La ragazza montò in sella, dietro Johnny. “L’ho visto andare da quella parte, sulla stessa pista presa da Jenning e i suoi”.
“Davvero?” chiese Tinetta. “Speriamo allora che non l’abbiano catturato”.
“Se lo catturano, lo lasceranno andare presto” disse Johnny. “Dinamite è una furia scatenata, solo Sabrina è in grado di cavalcarlo”. Poi si rivolse ai suoi amici. “Manca nessuno?”.
Un coro unanime confermò che erano tutti presenti; spronarono allora i cavalli nella direzione presa da Jenning e soci.
 
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Ritrovarono Dinamite una mezz’ora dopo. Si era fermato a brucare pacificamente; alzò la testa quando vide Sabrina avvicinarglisi. La ragazza lo carezzò sul muso, poi si issò in sella.
“Vuoi ancora andare da sola, Sabrina?” le chiese Johnny.
“No” rispose lei. “Se foste stati con me anche prima, avremmo già liberato Lilyth”. Guardò nel buio, sulla pista davanti a sé. Da qualche parte, laggiù, c’era Lilyth, sola coi suoi rapitori.
“Hai sbagliato, Jenning” disse Sabrina.
Gli altri non capirono cosa intendesse. Lei continuò: “Non avevo solo tre scelte. Ne ho una quarta:
inseguirti fino in capo al mondo, se necessario, e stavolta strapparti Lilyth di mano prima di
affrontarti”.
I suoi amici compresero che non parlava con loro. La osservarono, in attesa della sua decisione.
Sabrina spronò Dinamite all’inseguimento dei criminali, ed esclamò: “Andiamo!”.
“Yuuhuuu!” esclamò Tinetta seguendo Sabrina. Il resto del gruppo, galvanizzato dall’ardimento delle due ragazze, si gettò al galoppo dietro di loro.
 
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Jenning, Bull e Cody cavalcarono il più a lungo possibile. Temendo di essere raggiunti dagli inseguitori si concessero soltanto le soste strettamente necessarie a non crollare e a non far crollare i cavalli. La loro destinazione era Phoenix, una delle città più grandi dell’Arizona. Steve Jenning aveva già pronto un piano; avrebbe preso contatto con lo sceriffo di Phoenix raccontando di aver strappato la piccola Lilyth dalle mani della banda degli Stranieri, che l’avevano rapita nel villaggio di Freccia Rossa, e avrebbe chiesto il suo aiuto per sconfiggerli. Poi avrebbe lasciato il suo ostaggio a Phoenix, in custodia dello sceriffo o di qualcuno di sua fiducia, così avrebbe allontanato ogni sospetto di poter essere lui il rapitore.
-Infatti non s’è mai visto un sequestratore che consegna la sua vittima alla legge- pensò.
Dopodiché sarebbe partito insieme ai suoi due compari e agli uomini dello sceriffo per fronteggiare gli Stranieri, e avrebbe fatto in modo di liquidare Johnny e gli altri nello scontro che sicuramente si sarebbe scatenato. Poiché i ragazzi erano ritenuti colpevoli di crimini terribili nessuno avrebbe recriminato se fossero morti. A quel punto l’unico problema sarebbe stato rappresentato da Piccolo Bufalo e dai Navajo di Freccia Rossa (che sapevano la verità sul rapimento), ma le parole dei musi rossi valevano meno di quelle degli scarafaggi, per la maggior parte dei bianchi, e lui avrebbe avuto vita facile nel far pendere la bilancia dalla sua parte. Tanto più che Lilyth sarebbe tornata nelle mani di suo padre sana e salva, e questo avrebbe senz’altro tolto ai Navajo la voglia di cercare ulteriori fastidi.
Nonostante la meticolosità di questo piano, però, Jenning non aveva fatto i conti con la sfortuna: infatti uno dei loro cavalli si azzoppò, e furono costretti ad abbandonarlo. Questo li rallentò molto, e poiché anche gli inseguitori marciavano a tappe forzate, persero così tanto terreno che, una volta giunti a Phoenix, precedevano il gruppo di Johnny di neanche un’ora.
«Finalmente siamo in città» disse Bull. «Non vedo l’ora di sciacquarmi la gola con un buon whisky».
«Sarai presto accontentato» gli disse Jenning. «Faremo subito tappa al Silver Star; se non ricordo male è il primo saloon che incontreremo. Dopo questa interminabile galoppata, ho proprio bisogno di una buona bevuta».
«Non possiamo entrare con la bambina indiana» obiettò Cody.
«Infatti non sarà così» disse Jenning. «Tu aspetterai fuori con la mocciosa, poi Bull uscirà e ti darà il cambio; però non aspetterai davanti all’ingresso, non voglio che tu dia troppo nell’occhio: dietro il saloon c’è un vicolo, sul quale si affaccia la porta posteriore del locale. Tu aspetterai lì dietro, ok?».
«Ok» acconsentì Cody. «Ma fate alla svelta, anche io ho sete».
Dieci minuti dopo, i tre arrivarono al Silver Star.
«Ok» disse Jenning, «ora tu portati sul retro, Cody, e aspetta. Tra venti minuti Bull ti darà il cambio: quando ci saremo tutti rifocillati andremo dallo sceriffo».
«D’accordo» disse Cody, e si allontanò con Lilyth.
Gli altri due si diressero verso l’ingresso del saloon; scesero dai cavalli, li legarono ed entrarono nel locale.
 
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Johnny strappò il manifesto dall’albero, e lo osservò: c’era un disegno della sua faccia, con sopra scritto reward; sotto reward c’era scritto Foreigner Gang; sotto la sua faccia c’era scritto Dead or alive. Era un disegno piuttosto somigliante, e ce n’erano altri con i visi di tutti i suoi amici. Li chiamò: “Ehi, ragazzi!”. Gli altri si avvicinarono.
“Cosa c’è, fratellone?” gli chiese Manuela.
“Guardate” disse lui indicando i manifesti inchiodati alla corteccia dell’albero.
I ragazzi osservarono, ed esclamarono di stupore. Uno ad uno, strapparono i fogli e li scrutarono.
“Ehi, come mi somiglia” disse Michael.
“Eh eh” ridacchiò Carlo, “allora sarà brutto come te”.
“Ah ah che simpaticone” ribatté Michael. “Fai pure lo spiritoso, ma credo che queste locandine significhino guai”.
Tinetta si rivolse a Sabrina, e le chiese: “Cosa c’è scritto qui sopra, Sabrina?”.
La ragazza guardò il foglio con la sua faccia disegnata, poi spiegò: “Sono avvisi di taglia. La parola reward significa ‘ricompensa’. Foreigner Gang vuol dire ‘Banda degli Stranieri’”. Tutti i suoi amici ascoltavano interessati. “E Dead or alive vuol dire….” la ragazza si interruppe, pensierosa.
“Che vuol dire, Sabrina? Non tenerci sulle spine” le disse Renato.
Lei sospirò, e rispose: “Significa ‘Vivi o Morti’. Vuol dire che se qualcuno ci dà la caccia, può spararci senza timore. Anche se ci uccide, gli basta riportare i nostri corpi da un qualsiasi sceriffo per ritirare la ricompensa”.
Seguirono attimi di silenzio. “Beh, lo sapevamo, no?” disse poi Johnny, cercando invano di apparire disinvolto. “Sapevamo che ci danno la caccia. E…. ehm…. quanto è la ricompensa?”.
“4000 dollari a testa” rispose Sabrina.
“4000 dollari!?” esclamò Michael. “Per ognuno di noi?”.
“Proprio così” confermò Sabrina.
“Uffa!” brontolò Tinetta. “Speravo di valere molto di più”.
“Se è per questo non preoccuparti” le disse Sabrina. “Dopo che avremo liberato Lilyth, la nostra taglia salirà ulteriormente, ci puoi contare”.
Nel frattempo, Renato aveva raccolto un grosso bastone da terra e si era avvicinato alle spalle di Johnny. Ma gli altri lo videro e misero Johnny in allarme. Quest’ultimo si voltò, e trovò Renato che aveva già alzato il bastone sopra la testa, pronto a calarlo. “Che diavolo combini?” domandò Johnny.
Renato non rispose, si limitò a guardarsi in giro, come se cercasse una scusa plausibile.
“Un momento!” esclamò Johnny. “Ho capito! Vuoi consegnarmi e intascare la taglia”.
Renato non negò, assunse un’espressione quasi di scuse e borbottò: “Beh, insomma….”.
“Beh insomma un cavolo!” esclamò Johnny. “Sei un traditore!”.
“Ma quante storie!” ribatté Renato. “Che vuoi che sia una bottarella in testa! 4000 dollari non sono mica briciole”.
“Ma sentitelo!” esclamò Johnny.
“Renato!” intervenne Tinetta. “Questo è veramente troppo!”.
“Ehi, e tu che vuoi fare?” sbottò Carlo.
Si voltarono tutti verso di lui, e videro che anche Michael aveva preso un bastone e lo brandiva minaccioso verso Carlo.
“Vuoi vendermi allo sceriffo di Phoenix!” disse Carlo.
“Ma su, amico” gli disse Michael. “Guarda che stiamo parlando di una bella somma”.
“E io dovrei farmi bastonare per farti guadagnare tutti quei soldi senza fatica? Sei fuori di testa” lo accusò Carlo.
“Ecco, bell’amico che sei” ribatté Michael. “Per una volta che ti chiedo una cortesia, devi fare tutte queste scene”.
“Ah, si, eh?” disse Carlo. “Che ne dici se IO consegno TE allo sceriffo?”.
“Eh, no, l’idea l’ho avuta prima io” protestò Michael.
Si intromise Renato, dicendo: “Veramente, IO ho avuto l’idea”.
“E non te ne vantare, almeno!” sbraitò Johnny.
“Non scocciare” gli disse Renato, “e fatti tramortire buono buono”.
“Col cavolo!”.
“Non sei per niente collaborativo!”.
“Già, neppure tu, Carlo” concordò Michael.
“Ora ti faccio vedere io come collaboro” disse Carlo raccogliendo un bastone da terra a sua volta. “Preparatevi, soldini cari, a finire nelle mie tasche”.
“Ehi, fai tanto il santo e poi hai le mie stesse intenzioni” lo accusò Michael.
“Ragazzi, smettetela ora!” gridò Manuela. “Non siate ridicoli”.
“Uh uh” ridacchiò Carlo, poi si avvicinò a Michael e gli sussurrò: “se ti faccio arrestare, le gemelle saranno entrambe mie”.
Gli occhi di Michael si illuminarono. “Sei un genio, amico mio!”.
“Uh uh uh” ridacchiò gongolante Carlo. “Lo so, lo so”.
Poi fu Michael ad avvicinarsi al suo compare, e a sussurrargli: “Ma se ci togliessimo Johnny dai piedi, non sarebbe meglio?”.
“Uuuh, è vero” concordò Carlo. “Sta sempre a scocciarci perché non vuole riconoscere il grande amore che ci lega a Simona e Manuela. E’ geloso, secondo me”.
“Credo anche io”.
“E’ malsano essere troppo gelosi delle proprie sorelle” osservò Carlo. “In questo modo esse si sentiranno soverchiate dalla presenza iperprotettiva del fratello e svilupperanno un complesso di fobia e rifiuto di subconscio da negazione dell’uomo per maschile figura di riferimento e quindi dobbiamo farlo per il bene delle gemelle”.
“Non ho capito niente” disse Michael.
“Nemmeno io” disse Carlo. “Una cosa sola è certa. Siamo dei benefattori”.
“L’hai detto” concordò Michael.
I due si voltarono verso Johnny, e gli si avvicinarono sornioni.
“Jooohnnyyy” lo chiamarono.
Il ragazzo li osservò sospettoso. “Ehi, che avete in mente?” domandò.
“Nulla” risposero i due con aria innocente. “Abbiamo deciso di agire per il bene delle tue sorelle, e anche del tuo, fidati”.
“Si, come no”.
“Ehi” si intromise Renato, “Johnny è mio, l’ho visto prima io”.
“Che scemenza” disse Michael. “La ricompensa è di chi lo consegna”.
“Io ho avuto l’idea per primo, e Johnny è mio!”.
“Razza di farabutti!” sbottò Johnny, infuriato. “Vediamo se riuscite a catturarmi, prima”.
Improvvisamente, Carlo e Michael si gettarono su Johnny, che si preparò a difendersi. Anche Renato si gettò nel mucchio, per catturare Johnny a sua volta e per difenderlo dagli altri due cacciatori. In men che non si dica, si scatenò una pazzesca baraonda.
Le ragazze, affrante, scossero le teste: ormai avevano rinunciato a mettere un freno a quegli idioti. Persino i cavalli scossero i loro musi, come a biasimare quei quattro scalmanati.
 
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Il bisticcio tra i ragazzi, come accadeva di solito, si risolse velocemente. Una volta stancatisi, i quattro esaltati interruppero le ostilità. Tornata la calma, il gruppo si rimise in viaggio.
“Ragazzi, che ne dite se andiamo a bere qualcosa, una volta in città?” domandò Sabrina ai suoi amici, quando furono in vista di Phoenix.
“Siii” fu il coro di risposte.
“Io voglio una bella bibita fresca” disse Simona.
“Anche io, anche io” concordò Carlo.
“Ma come farete a bere una bibita fresca, se qui non hanno il frigorifero?” domandò loro Johnny.
“E tu come fai a saperlo?” protestò Simona.
“Simona, siamo in un tempo in cui non esiste il frigorifero” le spiegò Manuela.
“Veramente?” chiese Simona. “Mah, allora speriamo che abbiano almeno una buona pizza”.
“Non credo che facciano la pizza nel vecchio West” le fece notare Sabrina.
“Che cooosa? State scherzando, vero?”.
“Simona, non siamo nel ventesimo secolo, lo vuoi capire?” disse Johnny, spazientito.
“Potrò almeno guardarmi un bel cartone in TV o leggere i fumetti?”.
Sabrina allora scoppiò in una risata, che fece voltare tutti verso di lei. Quasi mai la si vedeva ridere, e senz’altro non aveva riso in quelle ultime settimane: era praticamente un evento. Era bello vederla così serena.
Si voltò verso Simona, e con un sorriso benevolo le disse: “Lo sai che la TV e i fumetti non sono ancora stati inventati, vero, Simona?”.
Simona restò impietrita. Fermò il cavallo in mezzo alla strada. Per un paio di secondi sembrò imbalsamata, poi urlò: “COOOOSA!?! NIENTE TV, NIENTE PIZZA, NIENTE BIBITE!?!”.
I suoi amici si voltarono sorpresi verso di lei quando gridò a quel modo.
Con occhi furibondi, guardò i suoi compagni, e sbraitò: “Ma dove cavolo mi avete portata?! Voglio tornare SUBITO a casa! E lì faremo i conti! Con tutti i posti che ci sono al mondo, mi avete portata dove non posso mangiare quello che mi piace di più?! E magari non hanno neppure il gelato, o un misero hamburger! Non posso fare nessuna delle cose che preferisco, tanto varrebbe essere a scuola! Ah, no, io torno indietro” e detto questo, la ragazza voltò il cavallo e si accinse ad allontanarsi.
Johnny, che le cavalcava accanto, le si avvicinò e la bloccò. “Dove cavolo vuoi andare?” le disse, “Non puoi muoverti da sola”.
“Ti faccio vedere io se non posso” insisté Simona.
Intervenne anche Manuela. “E’ pericoloso, Simona”.
“Ah, no, non è pericoloso” negò lei. “Non per me, almeno. Finora sono rimasta buona perché è una vacanza divertente, ma adesso me ne voglio tornare a casa per mangiarmi una bella pizza, e se qualcuno tenta di fermarmi peggio per lui. Nessuno si deve mettere tra ME e la PIZZA!”.
“Com’è possibile che non ti fossi accorta che qui non esistono le nostre comodità moderne?” le chiese Manuela.
“Credevo che non ci fosse nulla perché eravamo in campagna! Ma ora stiamo per entrare in una città e voi mi dite che non troverò neppure UNA misera pizzeria!” esclamò Simona. “E’ troppo!”.
“Per favore, Simona, resta con noi” le disse Sabrina, “Vedrai, troveremo altre cose buone da mangiare”.
Simona si girò come un fulmine verso Sabrina con gli occhi luccicanti e l’acquolina in bocca. “DAVVERO!?!” esclamò felice. “Più buone della pizza?”.
“Ehm…. non lo so…. fo…. forse” balbettò Sabrina, spiazzata dall’irruenza di Simona.
Simona allora si fece convincere, e voltò il suo cavallo, dicendo: “Bene, bene, sono proprio curiosa di assaggiare questi piatti prelibati”.
-Speriamo che siano prelibati davvero-, pensò Sabrina, -non vorrei che si mangiasse me-.
Michael si avvicinò allora a Carlo, e gli mormorò: “Certo che gli indiani hanno avuto buon occhio a chiamarla Locusta Infernale”.
“Eh, si” concordò Carlo.
Michael notò che anche il suo amico aveva l’acquolina in bocca.
“Carlo, ma ti sembra il momento di pensare al tuo stomaco?”.
“E’ SEMPRE il momento di pensare allo stomaco” sentenziò Carlo.
Michael sospirò. “Se Simona è una locusta, tu sei un vero maiale”.
“Ehi!” esclamò Carlo, “non offendere! Io sono giovane e aitante e devo mangiare molto per mantenermi”.
“Oh, allora ti mantieni bene, sta tranquillo” disse Renato.
“Beh, che vuoi dire con questo?” domandò Carlo.
Prima che la discussione potesse degenerare, Sabrina intervenne. “Ragazzi” disse, “non è il caso di mettersi a litigare, chiaro? Stiamo per entrare in città, e siamo ricercati; ci riconosceranno di certo. Saremo in pericolo”.
“In…. in pericolo?” balbettò Renato. “Ma allora perché non ce ne andiamo?”.
“Perché dobbiamo salvare Lilyth, Renato!” lo rimproverò Tinetta.
“Oh, già”.
“Bene, ragazzi, se siamo d’accordo, possiamo proseguire” disse Sabrina. “Prima di tutto, comunque, vorrei fermarmi in un saloon per bere qualcosa e sciacquarci la gola, dopo tutta la polvere che abbiamo mandato giù durante la cavalcata”.
I suoi amici furono d’accordo. Anche se non potevano bere una bibita ghiacciata, un buon bicchiere d’acqua (e magari una buona bistecca) li avrebbe comunque rimessi in sesto.
L’intero gruppetto si apprestò ad entrare in città.
 
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Quando entrarono in Phoenix, i ragazzi si guardarono intorno emozionati. Non erano mai stati in una città del west, fino a quel momento; si trovavano in Arizona da diverso tempo, ma avevano sempre viaggiato e vissuto all’aperto o quasi. Videro le insegne della scuderia, dell’emporio, della banca. Non si resero conto, mentre trottavano sulla strada principale, che gli occhi degli abitanti erano puntati su di loro; solo Sabrina se ne accorse, ma non ritenne di dover avvisare gli altri. Non voleva metterli in agitazione, finché si godevano quell’emozionante momento. D’altronde, gli abitanti di Phoenix parevano più spaventati che altro: probabilmente erano già andati ad avvisare lo sceriffo della presenza degli Stranieri in città, ma a parte quello, i privati cittadini non sembravano aver intenzione di attaccarli.
-Devono avere una paura matta di noi- pensò Sabrina. -Nonostante le taglie fortissime sulle nostre teste, nessuno prova a minacciarci-.
In effetti era così: la loro fama era tanto sinistra da scoraggiare ogni velleità di catturarli; come aveva ipotizzato Sabrina, non appena li avevano riconosciuti, gli abitanti si erano limitati ad avvertire lo sceriffo.
Il Silver Star, il saloon in cui erano entrati anche Jenning e soci, era il primo che si incontrava percorrendo la Main Street (cioè la strada principale del paese). In pochi minuti, infatti, Johnny e compagni lo raggiunsero.
Quando lo vide, Sabrina lo indicò agli altri: “Guardate, ragazzi, che ne dite di quel locale per fare una sosta?”. Nessuno obiettò; non erano mai stati in un saloon, e non potevano valutare se fosse migliore o peggiore di altri.
-Jenning e i suoi compari potrebbero pure essere lì dentro- pensò Sabrina.
Legarono i cavalli alla staffa davanti al Silver Star sotto gli occhi intimoriti dei passanti. Quando entrarono, tutti i volti si girarono verso di loro. Sabrina fu, naturalmente, la prima ad affacciarsi sulla porta di legno, e scrutò l’interno del locale alla ricerca di Jenning e soci; non li vide, poiché avevano lasciato il locale poco prima, diretti dallo sceriffo di Phoenix, ma in compenso adocchiò molti altri avventori dall’aspetto davvero poco rassicurante. Per nulla intimorita, si diresse verso il banco. Dietro di lei, i suoi amici, titubanti, la seguirono. Arrivata al banco, vi si appoggiò, e disse: «Un whisky». Il barman la scrutò. L’aveva riconosciuta, ma i saloon erano frequentati quasi esclusivamente da criminali, bari o comunque tipi loschi e rudi, e una delle regole non scritte più rispettata in quei locali era non fare domande.
Il barman le servì un whisky, poi chiese: «I tuoi amici cosa prendono?».
«Acqua» rispose lei.
«Che cosa? Se vogliono acqua c’è l’abbeveratoio dei cavalli qui fuori».
I clienti che sentirono questo scambio di frasi sogghignarono e risero.
Sabrina non voleva che i suoi amici bevessero; solo Tinetta aveva un minimo di resistenza all’alcool.
«Allora servi loro del latte» disse. «Te lo pagherò come whisky». Avrebbe pagato coi soldi che le avevano dato i McFLy: non ne aveva ancora speso neppure un centesimo.
Mise la mano in tasca per mostrare al barista che aveva i soldi per pagare, e tirò fuori alcune monete; tra queste c’era il suo dollaro d’argento. Lo rimise in tasca: quello non l’avrebbe speso. Ce l’aveva dal giorno stesso in cui tutta quella folle storia era iniziata.
Sentendo ordinare del latte, molti dei clienti scoppiarono a ridere.
“Sabrina, che succede?” le chiese Johnny; la ragazza glielo spiegò.
“Ehi, non sono un moccioso!” protestò Johnny, arrossendo. “Anche io voglio il whisky!”.
“Allora…. allora anche io!” disse Renato, non proprio convinto. -Non voglio fare la figura del bamboccio di fronte a Tinetta- pensò.
Michael e Carlo si guardarono perplessi.
“Tu vuoi bere?” chiese Michael a Carlo.
Quest’ultimo rigirò la domanda al compare. “Che ne so. E tu?”.
“Non ho mai bevuto del whisky” disse Michael, preoccupato.
“E perché, io si?” ribatté Carlo.
Mentre loro due bofonchiavano, Renato e Johnny si appoggiarono al banco, e dissero, risoluti: “Whisky!”.
“Ragazzi, non bevete” li ammonì Sabrina. “Dovete restare lucidi”.
Johnny e Renato tentennarono, ma alcuni clienti li attorniarono.
«Ah ah» rise uno. «E questi marmocchi sarebbero i tremendi Stranieri?».
«Già» concordò un altro. «Gli uomini del west si sono davvero rammolliti se si fanno spaventare da certi poppanti».
Uno di loro appoggiò le braccia sulle spalle di Johnny e Renato, e disse: «Cuccioletti, non ditemi che prendete ordini da una donna, eh?».
Sabrina intervenne, gelida: «Sparite, vogliamo bere in pace».
Quello che aveva circondato con le braccia le spalle di Johnny e Renato alzò le mani al cielo, dicendo: «Uuuh, che paura, ragazzina!». I suoi compari risero.
Poi si rivolsero di nuovo a Johnny e Renato. «Ah ah ah. Beve whisky e vi comanda a bacchetta!».
«Cosa siete, i suoi cagnolini? Ah ah ah ah».
I due ragazzi non avevano bisogno di capire cosa dicevano per sapere che li si prendeva in giro.
“WHISKY!” esclamarono di nuovo, convinti.
«Ah ahah aha ha ha, così si fa!» risero i clienti del Silver Star.
“Anche per noi!” dissero Michael e Carlo avvicinandosi al banco. Nonostante la paura di ubriacarsi o sentirsi male, non ci stavano a fare la figura delle mammolette.
“Whisky!” esclamarono, con voce sicura, anche se avevano le gambe tremanti.
Un coro di fischi e commenti divertiti accolse questa richiesta.
«Evviva! Anche gli altri due ragazzini vogliono un po’ di bruciabudella!».
«Bravi!».
«Questo è parlare da uomini!».
“Ragazzi, non cadete in queste provocazioni” disse Manuela.
“Whisky!” esclamò Simona appoggiandosi al banco.
I presenti restarono basiti, per un secondo, poi scoppiarono a ridere.
“Simona! Non dire idiozie” la rimproverò Manuela.
“Ehi” protestò Simona. “Se tutti vogliono questa roba chiamata whisky dev’essere buonissima. Ne voglio un po’ anche io”.
“Ehm” le disse Tinetta, “sai almeno cos’è?”.
“No, cos’è?” domandò Simona. “Succo di frutta? A me piace il succo di frutta”.
Manuela, sconsolata, le disse: “Vieni via di lì, Simona”.
«Ora mi avete scocciato» disse il barman a quel punto, burbero. Mise altri sette bicchieri sul banco, accanto a quello di Sabrina ancora pieno, e versò il whisky in ognuno. «Adesso bevete tutti, ragazzini e ragazzine!».
“Uuuh, che bello!” esclamò Simona. “Cos’è, aranciata?”; e prima che qualcuno potesse fermarla, prese il bicchiere e lo scolò d’un fiato.
“NOOOO!” gridarono in coro i suoi amici.
Invece gli avventori del Silver Star scrosciarono in un applauso.
«E brava la ragazzina!».
«Fantastica!».
Il barman commentò: «Mi venga un colpo secco se non è la prima volta che vedo una cosa del genere». La ragazza, dopo aver scolato il whisky, restò come paralizzata per alcuni istanti, poi crollò a faccia in giù sul bancone.
Sconvolti, gli amici di Simona non avevano ancora toccato i propri bicchieri, finché il barman non guardò Johnny, Renato, Michael e Carlo con aperto disprezzo, e disse loro: «E voi sareste dei maschi? Puah!».
Punti sul vivo, i quattro ragazzi, senza riflettere, afferrarono i bicchieri e li svuotarono in un sorso.
Sabrina, rassegnata, commentò: “Ecco, la frittata è fatta”.
E la frittata era fatta davvero; i suoi amici si sarebbero ubriacati anche con del whisky normale, ma quello servito in molti saloon del west era una agghiacciante mistura artigianale di alcool puro, tabacco e zucchero. Johnny e gli altri, che avevano incautamente bevuto, tossirono e si piegarono in due, provocando l’ilarità generale.
Poi, però, l’alcool cominciò a fare effetto: Renato si avvicinò ad uno dei cowboy che sedevano al banco. L’uomo, ridendo, gli chiese: «Che c’è, ragazzo? Vuoi attaccar briga?».
Renato gli si sedette accanto, gli posò un braccio sulle spalle e gli disse, con voce strascicata: “E…. ehi, tizio, io…. io…. io sono proprio felice di essere qui, sai?”.
«Ma che ti sta dicendo?» domandò il barista al tipo avvicinato da Renato.
«Non ne ho idea!» rispose il cliente.
“No, no, aspetta” continuò Renato. “Aspetta…. aspetta…. ecco, vedi quel mio amico?” e indicò Johnny. Quest’ultimo si avvicinò barcollando a Renato, e gli disse: “Che…. che cosa c’è? Vuoi…. vuoi litigare?”.
“No…. no….” rispose Renato. “Johnny, io…. io…. credo davvero che tu sia un gran bravo ragazzo, davvero. Davvero”. Poi lo guardò in faccia con attenzione, e chiese: “Ma chi…. chi sei tu?”.
“Chi?” domandò Johnny voltandosi indietro. “Chi è…. chi?” e si girò di nuovo verso Renato.
“No…. no, cerca di capire” continuò Renato, “quello, quello là. Cioè, tu, capisci? Io…. sono convinto che tu sia un gran bravo ragazzo”. Poi Renato si rivolse all’uomo che gli stava ancora accanto, e gli disse: “Lo vedi quello? Eh? Eh? Hai capito?”. Poi si arrabbiò, e gridò: “MA PERCHE’ NESSUNO CAPISCE QUELLO CHE DEVO DIRE?”. Ma nell’agitazione dello sfogo cadde a terra. Johnny, che gli era davanti, fissò inebetito il vuoto per qualche istante, poi domandò: “Ma…. ma…. dove sei andato?”.
Il barman e tutti i suoi clienti ridevano a crepapelle. Nel frattempo Carlo, che si guardava le mani con estrema attenzione, scoppiò a piangere, dicendo: “Ma peeeerché le mie dita sono così grasseeee?”. Si voltò per mostrarle a Michael, ma il suo amico stava andando minaccioso verso un tavolo occupato da quattro cowboy.
“Dobbiamo fermarlo!” disse Manuela, allarmata, e gli afferrò un braccio; Michael, però, si voltò furibondo e si liberò della presa. Manuela non si aspettava quella reazione, e quasi cadde.
“Michael sembra uno dalla sbronza aggressiva” commentò Tinetta. Lei, Sabrina e Manuela erano le uniche a non aver bevuto.
Michael raggiunse il tavolo che aveva puntato, e iniziò ad urlare frasi sconnesse, visibilmente arrabbiato. Uno degli uomini seduti si alzò, e gli si parò davanti. Era più alto del ragazzino di almeno venticinque centimetri, ma per il momento sembrava più divertito che minaccioso. Michael, per nulla intimorito, alzò l’indice e lo batté sul petto dell’energumeno, dicendo: “Tu…. tu…. hai fatto lo stupido con la mia ragazza!” e partì con un pugno, che però lo sbilanciò facendolo finire addosso al suo avversario; l’uomo lo sorresse, divertito.
Michael, cercando faticosamente di rimettersi ritto sulle gambe, continuò nella sua accusa: “Non…. posso permettere che tu…. si, proprio tu…. faccia il galletto con la mia…. la mia….”; disorientato, si voltò verso Manuela, e poi si girò di nuovo, pronto ad affrontare ancora il suo rivale.
“Ecco…. è…. è lei, capito?” disse. “E tu…. tu invece….” lo guardò negli occhi, e chiese: “Sei Carlo, tu?”.
“Michaeeeeel!” esclamò Carlo correndo dal suo amico. Michael si girò al suono della voce di Carlo, e lo accolse a braccia aperte. “Carlo!” esclamò, felice. “Quanto tempo!”.
“Eh?” fece Carlo perplesso. “Ma non…. non mi sembra che tu stia tanto bene, amico mio”.
“Certo che non sto bene! Lo sai che…. che quel tipo…. quello lì….” e indicò il lampadario, “ci ha provato con la mia donna? E anche con la tua!”.
“Che cosa!?!” sbottò Carlo. “Questo è troppo!”.
Da terra, anche Renato sentì queste parole; si alzò di scatto, furente.
“Uuuh, eccoti!” esclamò Johnny quando se lo ritrovò davanti. “Dov’eri finito?”.
Renato non rispose, si volse al barman e tuonò: “SEI TU CHE CI HAI PROVATO CON LA MIA RAGAZZA?”.
«Ehi, bamboccio, stà calmo» replicò l’accusato.
Johnny, dal canto suo, alzò l’indice verso il barista e gli disse: “No nononono…. non si fanno queste cose, caro signore. Chieda subito scusa al mio…. al mio amico”.
«Piantatela tutti e due» disse il barista.
Renato, invece di piantarla, fracassò con un pugno uno degli sgabelli; l’alcool gli aveva dato il coraggio di scatenare tutta la sua notevole forza fisica. Improvvisamente la situazione, da scanzonata, si fece seria.
Molti cowboy estrassero le pistole. Sabrina, però, fu una saetta nel prendere la sua arma dalla fondina: sparò alcuni colpi in rapida successione, e con un tiro preciso oltre ogni immaginazione fece saltare le pistole dalle mani dei cowboy. Poi, mentre ricaricava, si rivolse agli attoniti clienti del saloon e disse: «Tenete le armi nei loro alloggi, e statevene tranquilli, signori, se non volete fare indigestione di piombo».
Ma dopo pochi istanti, urla colleriche si levarono da tutti gli angoli del locale; i cowboy avanzarono ostili verso i nostri eroi, decisi a dar loro una bella lezione. Sabrina puntò nuovamente la pistola, e gridò ai suoi amici: “STATE GIU’!”. Tinetta e Manuela obbedirono, ma Johnny e Renato si gettarono invece incontro agli avversari; Renato cominciò a menare colpi di karate devastanti, mentre Johnny, con l’aiuto del potere, faceva volare i disgraziati a destra e a manca.
Anche Michael e Carlo, resi intrepidi dal whisky, si gettarono nella mischia, ma con risultati diversi: Michael non riusciva neppure a stare in piedi, mentre Carlo, fronteggiato un rivale per un istante, si mise poi a correre in cerchio urlando come un matto, in preda non si capiva bene a cosa, se terrore o euforia.
Nella baraonda, un tipo finì quasi addosso a Manuela e Tinetta, che stavano rannicchiate sul pavimento; quando si vide a tiro la gamba del tizio, Tinetta gli morse un polpaccio.
«AAAAAH!» urlò lo sventurato.
Il barman, intanto, gridava disperato: «FERMI! MI DISTRUGGERETE IL LOCALE!», ma nessuno lo ascoltava; per sua sfortuna, oltre a esserne il barista, era anche il proprietario del Silver Star. Prese allora un fucile da sotto il banco e sparò in aria, col solo risultato di aumentare la confusione. Alcuni cowboy estrassero le pistole, intenzionati a fermare i ragazzini con ogni mezzo, ma Sabrina fu pronta a intervenire e li disarmò di nuovo.
Visto che con le armi da fuoco non ottenevano nulla, gli avversari dei nostri eroi passarono a mezzi più rustici: sollevata una sedia, uno di loro colse Renato alle spalle e fece per calargliela sulla schiena. Johnny, però, lo vide in tempo, e bloccò l’aggressore a mezz’aria.
L’attonito energumeno riuscì appena a balbettare: «Ma…. ma…. non riesco più….» che Renato si voltò e si accorse di lui, e con un calcio gli fece volare via di mano la sedia, che andò a centrare il lampadario di vetro, che si ruppe e fece piovere schegge in ogni angolo.
«BASTAAAA! USCITE DAL MIO SALOON, MALEDETTI PAZZI!» urlò ancora il proprietario del Silver Star.
Ormai tavoli e sedie volavano letteralmente da un capo all’altro del locale. Michael, alzatosi da terra, malfermo sulle gambe, alzò i pugni come in un incontro di boxe, e minacciò tutti e nessuno in particolare. “In gu…. guar…. guardia, accidenti a voi; vi insegno io a infastidire le nostre donne” disse; poi gridando: “BANZAIIII!” si gettò sul primo tizio che si trovò di fronte. Questo, sollevata una sedia, la scagliò contro Michael: il ragazzo, però, scivolò e cadde a terra, evitandola. Dietro di lui la sedia, continuando la sua parabola, si diresse verso Carlo; ma lui, vedendo in quel momento Manuela e Tinetta rannicchiate sul pavimento, si abbassò fulmineo chiamandole: “Ragaaazeeee…. perché ve ne state là sotto?”. In questo modo, senza neppure accorgersene, evitò anche lui la sedia,
che gli passò sopra sfiorandolo e volò oltre il bancone, dove puntò il barista, che la prese in piena fronte; il poveraccio si accasciò a terra.
“Ve ne state qui sotto per evitarmi perché ho le dita grasse, vero?” disse Carlo, con tono lamentoso, a Manuela e Tinetta.
“Piantala di dire assurdità, Carlo, e pensa a startene al riparo” lo rimproverò Manuela.
Lui, però, non diede segno di averla intesa; si rialzò in piedi e ricominciò a correre in cerchio con le lacrime agli occhi, urlando: “Uaaah, perché ho le dita così grasseeee?”.
Da dietro il bancone apparve la mano del barista, che si aggrappò tremante al bordo di legno. Il pover’uomo, sollevandosi con fatica, piagnucolò: «Vi prego, smettetela….volete rovinarmi?».
Nel trambusto, fra spari, urla, lotte e mobili distrutti e rovesciati, tutti si erano dimenticati di Simona; la ragazza, ad un certo punto, alzò la testa dal bancone: i suoi occhi lanciavano scintille.
Si voltò verso il centro del Silver Star, e con quanto fiato aveva in corpo urlò: “BASTA CON QUESTA CONFUSIONEEEE!”, e scatenò contemporaneamente tutto il suo potere. Il saloon iniziò a tremare.
“Il terremoto!” esclamò Sabrina.
«Ci mancava solo questo!» disse il barista.
-Altro che terremoto- pensò Manuela, poi gridò: “Scappiamo!”, e afferrata Simona iniziò a trascinarla verso l’uscita.
Sabrina afferrò le braccia di Johnny e Renato, e seguì Manuela, dicendo a Tinetta: “Pensa tu a Michael e Carlo, non sono in grado di uscire da soli!”.
“Sicura che vuoi portarli via?” chiese Tinetta. “Un paio di belle travi sulla zucca potrebbero far loro più bene che male”.
“TINETTA!” esclamò Sabrina. “Non è il momento per le sciocchezze!”.
“E quando avrei detto una sciocchezza?” replicò Tinetta, afferrando però Carlo e Michael e trascinandoli via.
In poco tempo riuscirono tutti a mettersi in salvo, sia giapponesi che americani. Una volta fuori, si voltarono verso il Silver Star, appena in tempo per vederlo crollare.
Il barista, incredulo, cadde in ginocchio. «Il…. il mio locale….» balbettò.
Sabrina si avvicinò ai suoi amici. “State tutti bene?” chiese.
Manuela e Tinetta risposero di si.
Sabrina chiese ancora: “Anche i nostri beoni?”. Johnny, Renato, Michael, Carlo e Simona non erano feriti, ma parevano ancora ubriachi.
“Ci vorrà un po’ perché si riprendano” commentò Manuela.
“Beh, credo che dovranno farsela passare alla svelta, invece” disse Tinetta, “perché mi sembra che arrivino guai” e indicò qualcosa alle sue amiche.
Sabrina e Manuela guardarono nella direzione indicata da Tinetta, e videro arrivare il loro principale nemico, Steve Jenning (accompagnato dai suoi fidi scagnozzi Bull e Cody), e due uomini con delle stelle sul petto.
“Devono essere lo sceriffo e il suo vice” disse Sabrina.
“Che facciamo?” domandò Manuela.
Sabrina fissò con rabbia Jenning e, ricaricando le pistole, disse: “Io sono dove volevo essere, cioè di fronte a quel verme; voi due preoccupatevi di tenere al sicuro Johnny e gli altri, qui me la sbrigo io”.
In quel momento lo sceriffo raggiunse il luogo del disastro, e domandò: «Cosa diavolo è successo qui?».
«Sceriffo» disse uno dei cowboy sfuggiti al crollo del Silver Star, «io ero nel saloon: gli Stranieri hanno scatenato l’inferno lì dentro!».
«E’ vero!» confermò il barista. «Hanno bevuto e hanno iniziato a sparare e aggredire gli altri clienti!».
Lo sceriffo osservò i ragazzini che aveva di fronte; sapeva chi erano, ovviamente, e anzi li aspettava, perché Jenning lo aveva avvisato che sarebbero venuti a riprendersi la piccola indiana.
«Vi dichiaro in arresto» disse lo sceriffo puntando la pistola verso Sabrina. «Tu, ragazza, butta le armi a terra».
Sabrina lo ignorò, e si rivolse direttamente al suo nemico. «Jenning, canaglia che non sei altro, dov’è Lilyth?».
Una voce conosciuta alleggerì il cuore di Sabrina. [Bacio di Luna! Bacio di Luna!].
«Lilyth!» esclamò la ragazza. «Dove sei?».
Nel gruppetto di Jenning c’era un altro uomo con la stella sul petto; un altro aiutante dello sceriffo. Sabrina non l’aveva notato prima perché era nascosto dai suoi compagni. Ora, però, lo vide spuntare dalle retrovie, mentre si dibatteva agitato.
«Cosa stai facendo?» gli domandò lo sceriffo.
«Questa mocciosa sembra un’anguilla! Non vuole più stare ferma!». L’uomo portava in braccio Lilyth, e sentendo la voce della sua amica Bacio di Luna, la piccola aveva subito tentato di divincolarsi per raggiungerla.
«Ma cosa cerca di fare?» domandò lo sceriffo, perplesso. «Vuole raggiungere i suoi rapitori? Dovrebbe averne paura».
Steve Jenning fu scosso da un brivido: aveva rifilato allo sceriffo la balla che la banda degli Stranieri aveva rapito Lilyth, e non aveva previsto una situazione del genere.
Comunque trovò una scusa più o meno plausibile; disse: «E’ solo una bambina, sceriffo. Cosa volete che capisca?».
«Oh, già» mormorò lo sceriffo.
Sabrina, sentendo quello scambio di battute, trasalì. -Perciò quel vigliacco di Jenning ha accusato NOI di aver rapito Lilyth!- pensò.
Lo sceriffo, poi, si rivolse al suo aiutante. «E tu cerca di non farti scappare la bimba, chiaro?».
«Va bene» rispose l’uomo che teneva Lilyth. Aveva appena chiuso la bocca, che la piccola gli scappò di mano e corse come un fulmine verso Sabrina, che l’accolse a braccia aperte. Fu tutto talmente rapido e inaspettato che nessuno tentò neppure di fermarla.
«Ma…. ma…. che cosa diavolo mi combini!?!» disse lo sceriffo, incredulo.
L’altro, allibito, balbettò: «Io…. io…. non capisco. La…. la tenevo stretta e…. è come se mi fosse stata strappata di mano».
Quello che il poveretto non poteva sapere era che Manuela, usando il potere, gli aveva portato via la piccola, e l’aveva sospinta verso Sabrina, aumentando la velocità della sua corsa.
-Eh eh- pensò Manuela, soddisfatta, -questo vuol dire usare il potere con criterio-.
Jenning, però, fu rapido ad approfittare della situazione: resosi conto che Sabrina aveva le mani occupate perché teneva in braccio Lilyth, le puntò addosso la sua pistola.
«Ti dichiaro in arres….» disse, ma si interruppe quando l’arma gli cadde di mano.
«Che fai, Steve?» gli domandò Bull. «Non ti ricordi più come si tiene una pistola?».
Jenning non rispose, perché era ancora sbalordito; anche lui (ovviamente) non poteva saperlo, ma Manuela aveva di nuovo agito nell’ombra.
Sabrina si accorse del rischio che correva: si girò allora verso Tinetta e le affidò Lilyth, poi spianò le sue pistole contro gli avversari. Bull fece per sparare, ma lo sceriffo lo bloccò. «No! Fermati! Hanno la piccola, potresti colpire lei!».
«E a me cosa mi….» iniziò Bull, ma Cody lo interruppe, esclamando: «Ha ragione, Bull! Cerca di non fare sciocchezze».
«Ma…. ma cosa….».
«Pezzo d’idiota» mormorò Cody alle orecchie di Bull. «Noi siamo dalla parte della legge, te ne ricordi? Non possiamo sparare impunemente sui bambini».
«Diavolo» ribatté Bull con un fil di voce. «E cosa dovremmo fare, allora?».
«Non lo so» rispose Cody.
«Bene…. ottimo piano, dannazione» commentò Bull.
Sabrina intimò allo sceriffo e agli altri di gettare le armi; dopo alcuni istanti, questi obbedirono.
«D’accordo, piccioncini» disse Sabrina, «e ora sdraiatevi a terra; io e i miei amici ce ne andiamo di qui». Mentre il gruppo di Jenning eseguiva l’ordine, Sabrina si rivolse a Manuela. “Credi che Johnny e gli altri ubriaconi riusciranno a reggersi in sella?”.
“Cavolo, non stanno neppure in piedi” obiettò Tinetta.
“Allora dovremo caricarceli noi” concluse Sabrina.
E così fecero; recuperati i cavalli, fecero montare gli ubriachi in sella.
“Cadranno dopo due metri” disse Tinetta.
“Dovremo tenere noi le loro redini” disse Sabrina. “E li faremo sdraiare sulla groppa dei cavalli”.
Manuela, nel frattempo, per avvantaggiare il suo gruppo, andò verso Jenning e gli altri stesi a terra e prese le pistole che questi avevano dovuto gettare. Usando il potere si assicurò che nessuno si alzasse.
“Manuela, cosa fai?” le chiese Sabrina, allarmata.
“Ho preso le loro pistole. Credi che ci faranno comodo?” chiese.
“Si” ammise Sabrina. “Ma non li dovevi avvicinare: hai corso un grosso rischio”.
“Oh, forse hai ragione” disse Manuela, “ma ti assicuro che sono stata attenta”.
“Mmmh” mormorò Sabrina. Una volta terminati i preparativi, le tre ragazze montarono i cavalli, li voltarono verso l’uscita di Phoenix, e spronarono. Per diminuire il rischio che Johnny e gli altri cadessero, avevano infine deciso che ognuna di loro avrebbe caricato uno degli ubriachi sul proprio cavallo. Così Sabrina portava Johnny (oltre a Lilyth), Tinetta portava Renato e Manuela aveva caricato Simona. Gli animali montati da Michael e Carlo (letteralmente sdraiati sulle selle), invece, erano guidati da Sabrina e Tinetta, che ne tenevano le redini.
Quando uscirono da Phoenix, Sabrina tirò un sospiro di sollievo. “Accidenti” disse, “non mi sarei mai aspettata che filasse tutto così liscio”.
“Neppure io” si associò Tinetta.
“Ragazze, Jenning ha raccontato allo sceriffo di Phoenix che è stato il nostro gruppo a rapire Lilyth” disse Sabrina.
“Che cosa!?!”.
“L’ho capito da un’osservazione dello sceriffo”.
“Che essere spregevole!” commentò Manuela, indignata.
“Possiamo però dirci molto fortunate” aggiunse Sabrina. “Avevamo contro l’intera città e li abbiamo tenuti tutti a bada senza troppi problemi, e quel che più conta è che siamo riuscite a salvare Lilyth”.
“Già” concordò Manuela, poi pensò -Con un notevole ma discreto sostegno dei poteri-.
 
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Pochi secondi dopo la fuga di Manuela da Phoenix, l’influsso del suo potere cessò, e Jenning e gli altri poterono finalmente rialzarsi. Stupiti, si scambiarono sguardi interrogativi, finché Cody ruppe il silenzio: «Io…. non capisco cos’è accaduto. Mi sono sdraiato, ma subito dopo ho sentito un forte peso sulla schiena, come se qualcuno mi tenesse schiacciato a terra».
Gli altri annuirono, poiché anch’essi avevano avuto la stessa inspiegabile sensazione.
Il proprietario del Silver Star, inferocito, aggredì lo sceriffo: «Complimenti! In sei non siete riusciti a fermare un branco di ragazzini, di cui una soltanto sapeva usare una pistola!».
«Ehi, datti una calmata» replicò lo sceriffo, «li riprenderemo».
«Sarà meglio» continuò il barista, «il mio povero saloon è ridotto a un cumulo di macerie».
«Come è successo?» domandò Jenning. «Hanno usato della dinamite?».
«Macché dinamite» intervenne uno dei cowboy che erano presenti nel Silver Star al momento del disastro. «E’ stato il terremoto».
«Terremoto?» domandò Cody. «Quale terremoto?».
«Andiamo bene!» esclamò il barista, ironico. «I difensori della legge in questa città sono così stolti da non accorgersi neppure che la terra trema sotto i loro piedi».
«Piantala» disse lo sceriffo. «L’unico boato che abbiamo sentito è stato quello del Silver Star che crollava».
Alcuni dei presenti, che non facevano parte del gruppo dello sceriffo né del gruppo di coloro che si trovavano dentro il Silver Star, confermarono di non aver avvertito alcuna scossa tellurica.
Dopo pochi minuti di discussione, fu chiaro che non c’era stato alcun terremoto, se non all’interno del saloon.
«Allora sono stati quei maledetti! Hanno creato tanta di quella baraonda da far venire giù il mio locale!» disse il barista, inviperito.
«Critichi noi per non aver saputo catturare quei bambocci, ma voi non ve la siete cavata meglio, là dentro» disse Cody al barista; quest’ultimo si sentì punto sul vivo, ma non poté negare quell’accusa.
Replicò: «E’ vero. Quei marmocchi sembravano degli idioti, a parte la ragazza che li comandava; invece non siamo riusciti a sopraffarli né con le armi né con i pugni».
«Infatti» confermò uno dei cowboy che avevano partecipato alla rissa nel saloon. «Parola mia, non ho mai visto nessuno sparare in quel modo. La ragazza sembrava una folgore, e non ha sbagliato un singolo colpo».
«Forse qualcosa ha sbagliato, visto che siete ancora tutti vivi» osservò Jenning.
«No» lo smentì l’altro, «ogni volta ha sparato solo per disarmarci, colpendo con precisione disumana le pistole che tenevamo in pugno. Non voleva ucciderci».
«Strano» disse lo sceriffo di Phoenix, «per gente che non ha mai esitato a far fuori chiunque gli capitasse a tiro».
Jenning, deciso ad interrompere quelle scomode considerazioni, disse: «Abbiamo perso fin troppo tempo in chiacchiere; io e i miei uomini partiremo per dare la caccia a quei dannati. Andiamo, ragazzi».
Lo sceriffo lo trattenne. «Aspettate, Jenning. Metterò insieme un po’ di volontari e andremo tutti insieme».
«Purché vi sbrighiate» disse Jenning.
«Io verrò con voi, sceriffo» disse il proprietario del fu Silver Star. «Senza il mio saloon non ho nulla da fare. Voglio mettere le mani sugli Stranieri e far loro sputare i soldi per ripagarmi dei danni».
«Anche io sarò della partita» disse uno dei clienti del saloon. «Hanno distrutto il mio ritrovo preferito».
«Anche io verrò!» esclamò un altro.
In breve, gran parte dei perdigiorno che avevano costituito la clientela abituale del Silver Star si offrirono volontari per dare la caccia al gruppo di Johnny.
Procuratisi pistole e cavalli, in poco tempo una buona ventina di arrabbiati cittadini erano pronti a partire da Phoenix all’inseguimento degli Stranieri.
Jenning, che insieme a Bull e Cody era già in sella da un po’, gridò: «Ci siamo tutti?».
Dai cacciatori riuniti si levò in coro una risposta affermativa.
«Bene» disse Jenning. «Andiamo, allora!».
Pochi secondi dopo, la torma di cavalieri lasciò al galoppo la città, osservata dagli abitanti di Phoenix, che pregavano perché i loro coraggiosi concittadini riuscissero a catturare la spietata banda.
 
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“Ehilà, caro Johnny” disse il nonno al nipote.
Johnny si guardò in giro, stupito: si trovava all’ABCB, seduto su uno sgabello; dietro il bancone c’era il nonno. Dall’esterno entrava la tenue luce rossa del tramonto.
Johnny era ancora stordito dall’alcool.
“Nonno!” esclamò, “Che…. che ci fai qui?”.
“Ehi, non hai una bella cera, ragazzo mio”.
“Eh? Perché? E…. cavolo, da quando hai preso il…. il posto del signor Luigi?”.
“Johnny, sei ubriaco” constatò il nonno, incredulo.
“No, no, non lo sono”.
“Diavolo se lo sei”.
Johnny si afferrò la testa tra le mani, e chiuse gli occhi con forza; li riaprì dopo qualche istante.
“Mi sa che sono ubriaco” ammise. Tentò di ricordare gli avvenimenti, e gli sovvennero confuse immagini del Silver Star, del trambusto di cui era stato partecipe.
Faticosamente, mise a fuoco la situazione. “Questo…. è un altro sogno, vero?”.
“Proprio così”.
Johnny squadrò per bene il nonno. “Ma…. come sei conciato?” domandò.
“Ah, hai visto che bello?” disse il vecchio mostrando con orgoglio il suo costume da cowboy.
“L’ho comprato appena arrivato a Tucson. Non potevo venire nel west e non giocare a fare John Wayne! Mi sono divertito a seminare lo scompiglio in un locale della città; sono stato anche arrestato”.
“Eh? Arrestato?”.
“Si, da due poliziotti: mi sono divertito un mondo! Però poi li ho piantati in asso: non potevo perdere troppo tempo a giocare, con voi nei guai”.
“Oh” fece Johnny; per seguire le chiacchiere del nonno doveva fare uno sforzo di concentrazione.
In quel momento, sentirono aprire la porta d’ingresso.
Il nonno assistette sbalordito all’entrata di altri quattro chiassosi clienti. Johnny, i cui riflessi erano un po’ annebbiati, si voltò con una certa lentezza, e vide sua sorella Simona, Renato, Michael e Carlo avanzare verso il banco, tutti a braccetto, cantando incomprensibili litanie in un coro stonato.
“Ehilà, ecco…. ecco il mio fratellone!” esclamò Simona quando vide Johnny.
Barcollando, i quattro lo circondarono; Michael gli appoggiò il braccio su una spalla. “Unisciti a noi, a…. amico!”.
“Siiii!” aggiunse Carlo, “Ci divertiremo!”.
In quel momento Simona vide il nonno. “Nonnino!” esclamò, felice, buttandogli le braccia al collo.
“Oh, nipotina,” disse il vecchio ricambiando l’abbraccio “che bello rivederti”.
“Nonnino, sai che ci sono successe…. proprio un saaaaaacco di cose incredibili? Eh, si!”. Poi la ragazza si rivolse ai suoi compari di bisboccia: “E ora facciamo festa!”.
“Siiiiii!” risposero tutti insieme.
“Beh, ma dov’è Tinetta?” chiese Renato, scontento. “Che festa è se…. se non c’è lei?”.
“Ragazzi, non ditemi che siete ubriachi anche voi?” domandò il nonno.
“Nooooo” rispose Simona, ridendo. “Io ho bevuto solo una limonata. O era succo di frutta?”; ci pensò per qualche istante, poi concluse: “Ma chi se ne importa, cavolo!”.
“Bravaaaaa! Così si parla” approvò Carlo, battendo le mani.
Il nonno, arrabbiato, si rivolse a Johnny, mentre gli altri quattro saltavano e cantavano. “Johnny, perché hai fatto ubriacare tua sorella?!”.
“Eh? Ma cosa c’entro io?”.
“Tu sei il fratello maggiore, e ne sei responsabile”.
“Beh, ma…. ha fatto tutto da sola, sai? Almeno credo”. Il ragazzo non aveva ancora le idee chiare.
“Johnny” disse il nonno con tono di rimprovero, “a giudicare da quel che vedo, avete bevuto tutti quanti, per questo adesso siete in questo sogno. Per fortuna non vedo Manuela, vuol dire che almeno lei è sobria”.
Poi aggiunse: “Per sfortuna, invece, non vedo le tue due amiche carine, la biondina e la mora”.
“Nonnoooo! Sei sempre il solito” replicò Johnny.
“Va bene, ora parliamo seriamente. Ascoltami, e cerca di tenere a mente quel che ti dirò”.
“Mh” fece Johnny, concentrandosi.
“Io ho raggiunto la Mesa de Arena” esordì il vecchio.
“Davvero? Sei qui da noi?”.
“No, sono nel mio tempo; ma se raggiungete la Mesa io potrò aiutarvi a tornare indietro. E’ un luogo speciale, una specie di porta sul tempo, dalla quale in determinate circostanze si può viaggiare nel passato o nel futuro. Naturalmente è un evento rarissimo, e probabilmente non sarebbe accaduto nulla, in quel caso, se tu non fossi dotato dei poteri che hai”.
“Mmmh, va bene” disse Johnny, sforzandosi. “Scusa, ma non sono nelle condizioni di sostenere una conversazione troppo lunga. Non ho afferrato un granché, ma mi sembra di aver capito che dobbiamo raggiungerti alla Mesa de Arena al più presto, no?”.
“Esatto” confermò il nonno. “Beh, almeno hai compreso l’essenziale”
“Per fortuna” commentò Johnny, appoggiando la testa sul banco. “Senti, nonno, io ora vorrei dormire un po’”.
Simona, Michael, Carlo e Renato gli si avvicinarono. “Non puoi dormire, Johnny!” gli disse Michael.
“Infatti” concordò Simona. “Nonno, versaci un po’ d’aranciata! Io prendo anche una bella fetta di torta!”.
“Noooo, lasciatemi dormire” bofonchiò Johnny. “Sono stanco”.
“Johnny, tu STAI dormendo” gli disse il nonno. “E anche Simona e questi altri vostri amici, per questo siete tutti qui adesso. Probabilmente vi siete addormentati a causa dell’alcool”.
“E allora perché sono tanto stanco?” domandò il ragazzo.
“Perché sei ubriaco, nipotino. Sono contento che ti diverta, ma cerca di non esagerare. Soprattutto, non coinvolgere le tue sorelline, un’altra volta. Sono troppo piccole per bere”.
“Ufffaaaaa” mormorò Johnny.“Ho capito, va bene. Se la prendono tutti con me”.
“Ricordati che ci dovremo trovare alla Mesa de Arena” ribadì il nonno.
“Si si, ciao a tutti. Non fate troppa confusione nell’ABCB, sennò anche Sabrina se la prenderà con me. Tanto è sempre tutta colpa mia”. Mentre si svegliava, la voce del nonno e il chiasso degli altri divenne sempre più lontano e indistinto.
 
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“Tanto è sempre tutta colpa mia” borbottò Johnny, svegliandosi.
“Se lo dici tu” ribatté Sabrina.
“Eh?” fece il ragazzo, sbigottito. “Ma…. dove sono?”.
“Sei a cavallo dietro di me, Johnny” gli disse Sabrina. Poi informò le altre: “Tinetta, Manuela! Johnny si è svegliato”.
“Anche Simona si sta svegliando!” esclamò Manuela.
“E anche Renato!” aggiunse Tinetta.
“Bene, fermiamoci, allora” disse Sabrina.
Le ragazze arrestarono i cavalli.
Sabrina controllò se anche Michael e Carlo stavano svegliandosi, e si avvide che era così.
“Mh, sembra che si siano messi d’accordo” commentò Tinetta.
“Meglio così. Non possiamo restare fermi a lungo. Da Phoenix sono senz’altro partiti per darci la caccia, e non sappiamo quanto vantaggio abbiamo”.
“Come state, ragazzi?” chiese Manuela ai begli addormentati, apprensiva.
Tutti loro si stavano guardando in giro perplessi. Anche se non sembravano in gran forma, si erano ripresi abbastanza.
“Ehi, ma non ero all’ABCB?” si chiese Renato.
Gli altri si illuminarono. “E’ vero!” esclamò Michael. “Ricordo che eravamo tutti insieme all’ABCB”.
“Eravate in un saloon di Phoenix” disse loro Sabrina. “Magari fossimo davvero all’ABCB”.
“No, no, lo ricordo anche io” aggiunse Carlo. “Eravamo all’ABCB, e c’era pure il nonno di Johnny, vestito da Zorro!”.
“Si, certo, Zorro” disse Renato, sospirando.
“Il mio nonnino!” esclamò Simona. “L’ho visto, mi ha salutato”.
“Ma che state dicendo, ragazzi?” chiese Tinetta. “Avrete sognato”.
“Beh, ma non possiamo aver fatto tutti lo stesso sogno” obiettò Renato.
“Ragazzi, avremo tempo per parlarne dopo” li interruppe Sabrina. “Ora dobbiamo fuggire”.
In quel momento Renato vide Lilyth a cavallo davanti alla sua amica. “Ehi, abbiamo ripreso Lilyth!”.
“Già, abbiamo” ribatté Tinetta, sarcastica. “Tu hai dormito come una talpa, altroché!”.
“Ma…. ma….” balbettò Renato, confuso. “Io non mi ricordo niente”.
“Vi racconteremo dopo cos’è successo” disse Sabrina. “Ora andiamo”. Simona scese dal cavallo della sorella e montò il suo.
Johnny, invece, che stava molto bene a così stretto contatto con Sabrina, non aveva nessuna intenzione di scendere, e si strinse forte alla vita della ragazza. “Oh, io sto ancora male, non credo di riuscire a cavalcare da solo”.
Renato lo imitò all’istante. “Anche io sono ancora convalescente” e si strinse a Tinetta.
“Piantala, Renato!” esclamò Tinetta, e lo scaraventò giù dal cavallo senza tanti complimenti. “Non abbiamo tempo da perdere, lo vuoi capire?”.
“Tinetta, peerchéééé?” piagnucolò Renato.
Poi Tinetta si rivolse a Johnny: “Tesoruccio, se non te la senti di cavalcare, sali dietro di me. Ti porterò io. Sabrina ha già un passeggero”.
“Ehm…. ehm….” bofonchiò Johnny, titubante.
“Ma…. ma…. perché lui si?” si lamentò Renato.
“Smettila di scocciare, Renato” gli disse Tinetta. “Il mio Johnny non è uno scimmione come te: il suo fisico aggraziato ha bisogno di più tempo per riprendersi, vero tesoruccio? Su, sali sul mio cavallo”.
Come fulmini, e senza chiedere il permesso a nessuno, Michael e Carlo smontarono dai loro cavalli e salirono su quelli delle gemelle. Michael dietro a Simona, e Carlo dietro a Manuela, e iniziarono a lamentarsi: “Ooooh, come stiamo male; cavalcando da soli finiremmo senz’altro a terra, procurandoci orribili ferite”. Dopodiché si strinsero a Simona e Manuela con sorrisi lascivi sulle labbra.
“Lasciate in pace le mie sorelle, animali!” esclamò Johnny. “O vi procurerò IO orribili ferite!”.
“E quello sarebbe aggraziato!?!” disse Renato, che si avvicinò a Johnny e lo afferrò per una gamba. “Vieni giù, infido impostore, scommetto che non stai affatto male”.
“Lasciami, Renato!” esclamò Johnny, cercando di scalciare via il rivale.
Ma Renato non mollò, e riuscì a tirare giù Johnny; entrambi finirono nella polvere, e iniziarono a bisticciare. Contemporaneamente, anche Simona e Manuela, aiutate dai poteri, riuscirono a scollarsi di dosso Michael e Carlo, che finirono addosso agli altri due. In men che non si dica i quattro diedero vita al consueto tafferuglio.
Stavolta Sabrina non tentò neppure di rimproverarli: ormai era del tutto rassegnata.
Quando vide il polverone venire dalla direzione di Phoenix, sicuramente alzato dai cavalieri che li inseguivano, si limitò a commentare: “Appunto”.
 
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“Ehm, cos’è quel polverone laggiù?” chiese Simona.
“Nulla” rispose Sabrina, con noncuranza, “solo i nostri inseguitori, intenzionati ad arrestarci se non peggio. Avevamo un buon vantaggio, ma i nostri scriteriati amici ce lo hanno fatto bruciare”.
Solo allora, col pericolo incombente sulle loro testacce, i quattro litiganti si calmarono.
“Ma perché ci inseguono?” chiese Johnny. “Abbiamo salvato Lilyth, siamo noi i buoni!”.
“Già, peccato che loro credano che NOI siamo i rapitori” disse Manuela.
“Che cosa?!?” sbottò Renato.
“Proprio così” confermò Sabrina. “E peccato che abbiamo distrutto il loro saloon”.
“Eh?” fecero in coro i quattro ragazzi.
“E’ stato il terremoto a distruggere il saloon!” protestò Tinetta.
“Il terremoto lo ha fatto crollare” precisò Sabrina. “Ma se anche non fosse crollato, dopo il nostro passaggio ne sarebbe rimasto ben poco, credimi”.
“Eh? Quale terremoto?” chiese Carlo.
“Scusate, non vorrei mettervi fretta” intervenne Manuela, “ma non credete sia il caso di non farci prendere?”.
I ragazzi, finalmente, montarono a cavallo, e il gruppo partì al galoppo per sfuggire ai cacciatori.
“Speriamo di essere ancora in tempo per non farci raggiungere” disse Manuela.
Sabrina si voltò indietro. “Se non avessi paura per la sorte di Lilyth, mi fermerei ad affrontarli” affermò.
“Sarebbe una pazzia” ribatté Tinetta.
“Anche inseguire Jenning e i suoi a Phoenix era una pazzia, ma ha dato i suoi frutti” commentò Sabrina.
Dopo poche miglia, fu chiaro che gli inseguitori guadagnavano terreno. Sabrina si accorse che Dinamite era stanco, e non poteva fargliene una colpa: il povero animale aveva dovuto galoppare come un pazzo portando tre persone, anche se una era solo una bambina.
E se Dinamite (che era un vero fuoriclasse) era stanco, gli altri cavalli dovevano essere esausti.
Mentre la ragazza pensava a possibili soluzioni, si accorse che un altro grande polverone si alzava dalla pista davanti a loro.
“Ehi!” esclamò Johnny. “Guardate, ci sono altri cavalieri di fronte a noi”.
“Devono essere anche parecchi, a giudicare dalla terra che sollevano” notò Manuela.
“Chi saranno?” domandò Renato. “Amici o nemici?”.
Tutti si voltarono verso Sabrina, che osservava preoccupata dinanzi a sé. Avevano nemici alle spalle, dunque tornare indietro non era neppure da considerare, e avevano una moltitudine di sconosciuti davanti. Se quelli di fronte si fossero rivelati anch’essi nemici, non avrebbero avuto scampo; si sarebbero trovati tra due fuochi.
“Proseguiamo!” esclamò Sabrina. “Siamo certi che i nostri inseguitori sono nemici, mentre non sappiamo chi abbiamo davanti. Potrebbero non essere affatto interessati a noi”.
“E se…. invece lo…. ehm…. fossero?” domandò Michael, timoroso.
“Non lo so” rispose Sabrina, semplicemente. “Me ne preoccuperò quando sarà il momento”.
Il momento non si fece attendere a lungo, e quando giunse fu un vero sollievo per i nostri eroi.
“Ragazzi, guardate, sono i Navajo di Freccia Rossa!” esclamò Sabrina rincuorata, quando vide chi erano i cavalieri che stavano per incrociare.
Gli altri esultarono felici. “Evviva! Siamo salvi!”.
Quando i due gruppi si ricongiunsero, gli indiani salutarono con gioia Johnny e gli altri. Davanti a tutti cavalcava Freccia Rossa, che alla vista di sua figlia saltò giù di sella e corse a prenderla in braccio; la piccola Lilyth strinse suo padre piangendo forte.
«Ottimo lavoro!» disse una voce conosciuta. Johnny e i suoi amici si voltarono verso la voce, e videro che apparteneva a Cespuglio che Cammina; accanto a lui c’erano anche i suoi inseparabili amici.
«Ragazzi!» esclamò Sabrina. «Anche voi qui?».
«Certo» disse Nuvola Nera. «Quasi tutti i guerrieri della tribù sono partiti dal villaggio. Eravamo tutti preoccupati per Lilyth e per voi, ma a quanto pare ve la siete cavata benissimo».
«Vedo però che vi siete fatti dei nuovi ammiratori» disse Vento nella Bocca indicando il polverone sollevato dal drappello dei cacciatori che si avvicinava.
Sabrina si voltò verso gli inseguitori; che venissero pure, adesso. Con Lilyth al sicuro era pronta a sfidare quel farabutto di Jenning in qualsiasi momento.
-Già- pensò, -perché scommetto che tra quei balordi c’è anche il nostro vecchio amico Steve Jenning. Voglio proprio vedere cosa farà adesso-.
Sabrina però rimase con questa curiosità, perché il gruppo degli inseguitori si fermò a notevole distanza quando si accorse della presenza dei pellerossa.
«Che facciamo, sceriffo?» domandò uno dei volontari partiti da Phoenix. «Quelli sono un bel mucchio di indiani».
«Infatti» concordò un altro. «Saranno almeno una cinquantina, forse di più».
«Al diavolo, nonostante quel che mi hanno combinato, non vorrei essere nei panni degli Stranieri» commentò il padrone del Silver Star. «I Navajo li hanno beccati con la bimba che avevano rapito; gliela faranno pagar cara».
Lo sceriffo, però, appariva pensieroso. «C’è qualcosa che non capisco. Come mai la banda degli Stranieri è andata incontro agli indiani, invece di scappare? Senz’altro li hanno visti, ma invece di darsela a gambe gli si sono gettati tra le braccia».
«Mmmh, è vero» concordò un altro volontario. «E se non mi sbaglio, invece di lottare, quelli laggiù stanno parlando come vecchi amici».
Jenning, abituato a pensare in fretta, trovò anche in questo caso una plausibile scusa. «Sceriffo, ve lo spiego io».
Lo sceriffo di Phoenix si voltò verso Jenning, interessato. «Vi ascolto».
«Forse non vi ho detto che i Navajo non sapevano chi avesse rapito la piccola. Perciò quando gli Stranieri li hanno visti, invece di lanciarsi in una inutile fuga, devono aver deciso che era più conveniente restituire la bimba ai pellerossa, fingendo di essere riusciti a salvarla».
«Un momento» intervenne il padrone del Silver Star, «ma allora quei dannati marmocchi potrebbero raccontare che siamo stati noi a rapirla, e in quel caso….».
«In quel caso saremmo nei guai fino al collo» concluse Jenning.
«No, calma» disse lo sceriffo. «Se gli indiani ci attaccassero, potremmo dir loro che non siamo stati noi a rapirla. Perché dovrebbero credere agli Stranieri piuttosto che a noi?».
«Mi avete stancato!» esclamò Bull, preoccupato. Come Cody e Jenning, sapeva di essere in estremo pericolo, poiché i Navajo sapevano benissimo che erano stati loro a portar via Lilyth. «Io non resterò qui a farmi ammazzare!» e voltò il cavallo, imitato dai suoi compari e da molti altri.
«Preferirei restar qui e chiarire la faccenda» disse lo sceriffo.
«Fate come volete» replicò Jenning. «Vi faccio notare una cosa, però: non siamo stati noi a riconsegnare la mocciosa a suo padre. A chi pensate che vorranno far lo scalpo, gli indiani? A coloro che hanno restituito la bambina o a quelli che li inseguivano?».
«Maledizione!» esclamò lo sceriffo; vistosi senza alternative, voltò a sua volta il cavallo in direzione di Phoenix, e partì al galoppo insieme agli altri.
Jenning, Bull e Cody si distanziarono dagli altri cavalieri per poter parlare liberamente.
«Steve» domandò Cody. «Che facciamo?».
«Non lo so ancora, maledizione» rispose il capo della combriccola. «Non siamo riusciti a raggiungerli; quei dannati marmocchi sono protetti da tutti i diavoli dell’inferno!».
«L’unica cosa positiva è che adesso sono accusati anche di rapimento e di distruzione di un edificio» disse Bull.
«Si, per adesso possiamo dirci contenti così» convenne Jenning. «Noi siamo puliti come angioletti e quei bambocci hanno preso la colpa di tutte le nostre azioni. Ma se riuscissimo a farli fuori ci saremmo tolti un gran peso dallo stomaco».
«Più facile a dirsi che a farsi» commentò Cody. «Sono fuggiti dal ranch di Samson, nonostante avessero addosso tutti i suoi cowboy; sono sfuggiti al nostro agguato; hanno lasciato illesi Phoenix nonostante avessero contro l’intera città, e infine sono scampati al nostro inseguimento».
«Dobbiamo solo studiare un nuovo piano» disse Jenning. «La loro maledetta fortuna non può durare in eterno».
La discussione si concluse, ma mentre galoppava accanto ai suoi compari, Cody pensò: -Quei bambocci hanno ben altre armi che la fortuna, dalla loro parte-.
Per la prima volta, si chiese se la banda degli Stranieri non fosse un osso troppo duro, per loro.
 
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«Ehi, quei cuor di leone se la danno a gambe» disse Vento nella Bocca, accortosi che il gruppo degli inseguitori aveva fatto dietro front.
«Fanno proprio bene. Freccia Rossa darà loro una caccia spietata» aggiunse Cespuglio che Cammina.
Sabrina rabbrividì: non voleva che i pellerossa scendessero sul sentiero di guerra; sarebbe stato un disastro.
La ragazza ebbe un’intuizione improvvisa. «Non c’è bisogno che li inseguiate!» proclamò. «I rapitori di Lilyth sono già morti!».
Un coro sorpreso si levò dai Navajo di Freccia Rossa.
Sabrina continuò: «Si, fratelli rossi! Io stessa ho punito i tre malvagi colpevoli del rapimento di Lilyth, uccidendoli con le mie pistole». Lanciò un’occhiata a Cespuglio che Cammina: il ragazzo la osservava incredulo. Nuvola Nera e Vento nella Bocca si guardarono perplessi, ma non dissero niente. Sabrina fu contenta che Johnny e gli altri non capissero le sue parole, altrimenti l’avrebbero subito smentita. Freccia Rossa e gli altri Navajo conoscevano abbastanza l’inglese da aver inteso ciò che aveva detto Sabrina, tuttavia il capo indiano si rivolse a Cespuglio che Cammina: [Traduci nella nostra lingua quel che ha detto e quel che dirà Bacio di Luna; voglio essere sicuro di comprendere bene le sue parole].
[Come vuoi].
[Voglio sapere ciò che è accaduto da quando hanno lasciato il villaggio] aggiunse Freccia Rossa.
Cespuglio che Cammina si avvicinò alla ragazza. «Sabrina, mi è stato chiesto di tradurre in lingua Navajo ciò che dirai».
«Va bene» rispose lei.
«Freccia Rossa vuole sapere ciò che è accaduto da quando siete partiti per salvare Lilyth».
Sabrina acconsentì.
Freccia Rossa ordinò ai suoi guerrieri di smontare; si sarebbero presi tutti una breve pausa.
Sabrina si rivolse allora ai suoi amici, ansiosi di sapere cosa era stato detto fino a quel momento.
“Ragazzi, ho dovuto mentire ai Navajo”.
“Che vuoi dire?” le chiese Johnny.
“Sentite, adesso non ho il tempo di spiegarvi tutto, ma ricordate questo: noi non abbiamo soltanto liberato Lilyth, abbiamo anche ucciso i suoi rapitori, ok?”.
“Eh?” fece Renato. “Cosa abbiamo fatto, noi?”.
“Per favore” disse Sabrina. “E’ importante. Ho raccontato agli indiani che noi abbiamo anche ucciso Jenning e i suoi compari, e voi dovrete sostenere questa bugia, d’accordo?”.
Johnny e gli altri si scambiarono un’occhiata dubbiosa, ma Sabrina insisté: “D’accordo, ragazzi? E’ IMPORTANTISSIMO”.
Vedendola così seria, Tinetta disse: “Va bene, Sabrina. Ci fidiamo di te”.
“Grazie, Tinetta” disse Sabrina, con uno sguardo di riconoscenza alla sua amica di sempre. “Poi vi spiegherò”.
Mentre smontavano anche loro da cavallo, Carlo commentò: “Beh, ma tanto a noi non chiederanno niente; non capiscono la nostra lingua”.
“Si” convenne Johnny, “ma sempre meglio sapere quel che viene detto su di noi”.
Il gruppo di Sabrina, Cespuglio che Cammina e i suoi due compari, Freccia Rossa e Lilyth si sedettero su delle rocce; furono subito attorniati dai Navajo, che si assieparono attorno a loro, ansiosi di sentire il racconto di Sabrina.
La ragazza iniziò a narrare quel che era successo dal momento in cui avevano lasciato il villaggio.
Cespuglio che Cammina, Nuvola Nera e Vento nella Bocca, a turno, traducevano per i Navajo.
Sabrina raccontò le cose esattamente come si erano svolte, fino al momento in cui erano entrati in Phoenix.
«Siamo arrivati a Phoenix, e abbiamo scoperto che i rapitori di Lilyth si erano rivolti allo sceriffo accusando me e i miei amici del sequestro. Allora ci hanno aggredito, credendoci dei criminali, e noi non abbiamo potuto spiegare le nostre ragioni; perciò ci siamo concentrati sul salvataggio di Lilyth e sulla punizione dei rapitori. Come vedete, siamo riusciti nel nostro intento; Lilyth è salva e Jenning e i suoi due compari sono morti. Però questo nostro agire ci ha fatto apparire agli occhi dello sceriffo e degli abitanti di Phoenix come assassini, dunque non abbiamo potuto fare altro che fuggire; e saremmo stati catturati, se non avessimo incontrato voi».
Quando Freccia Rossa ebbe ascoltato l’intero resoconto, restò silenzioso per qualche istante, poi disse: [Vi accompagnerò a Phoenix, e io stesso dirò ai bianchi come si sono svolti realmente i fatti, così smetteranno di darvi la caccia].
Sabrina ascoltò la traduzione, e si affrettò a dire: «Ti ringrazio, nobile Freccia Rossa, ma non c’è bisogno di questo. Basterà che tu mandi assieme a me Cespuglio che Cammina, Nuvola Nera e Vento nella Bocca. Loro conoscono bene la lingua dei bianchi, e saranno un valido aiuto».
Pur non avendo idea di cosa passava per la testa di Sabrina, i tre acconsentirono ad accompagnare lei e gli altri a Phoenix, e tentarono di convincere Freccia Rossa.
Il capo indiano, infine, acconsentì.
Tutti si alzarono; l’assemblea era finita.
[Tornerete al villaggio, dopo aver risolto le vostre questioni?] domandò Freccia Rossa.
Sabrina chiese ai suoi amici cosa avrebbero voluto fare. Johnny, ricordando l’ultimo sogno fatto, disse: “No, Sabrina. Penso che dovremmo raggiungere la Mesa de Arena al più presto. Sono convinto che da lì riusciremo a tornarcene a casa, così come siamo finiti qui”.
“Sei ottimista, Johnny” notò Sabrina. “Bene, allora non ci resta che salutare i nostri amici pellerossa”.
Quando seppe che non sarebbero tornati tra loro, Freccia Rossa chiese: [Ci sarà almeno speranza che vi rivediamo, un giorno?].
Sabrina fu incerta su cosa rispondere, poi decise di dire la verità: «Vivere in mezzo a voi è stato un onore e una gioia, ma se riusciremo a tornare a casa, non ci vedremo mai più. Se invece non riusciremo a tornare, forse saremo ancora vostri ospiti. In quel caso, però, saremo sempre tristi e malinconici, perché avremo nostalgia della nostra casa».
[Capisco] disse Freccia Rossa. [Vi auguro allora di riuscire nel vostro intento, anche se mi dà molto dolore sapere che ve ne andrete per sempre].
Poi annunciò ai suoi Navajo di prepararsi a rientrare al villaggio.
Johnny e gli altri salutarono Freccia Rossa.
Johnny si raccomandò di portare i suoi saluti a Ta-Hu-Nah.
Poi, Sabrina prese un’ultima volta in braccio Lilyth.
[Bacio di Luna se ne va?] domandò la bambina. [Non voglio che te ne vai].
Sabrina non le rispose; la abbracciò soltanto, stretta; poi la restituì a suo padre, dicendole: «Addio, piccola. Comportati bene».
Lilyth, pur non sapendo cosa succedeva, capì che la sua adorata amica andava via, e scoppiò a piangere, nascondendo il visino nel petto del padre.
Quando i suoi indiani furono pronti a partire, Freccia Rossa disse: [Partiremo rendendo omaggio a questi grandi amici del popolo Navajo. Parla coi Sogni, Cucciolo Ringhiante, Occhi di Vetro, Faina del Deserto, Locusta Infernale, Germoglio nella Sabbia, Capelli del Sole, e Bacio di Luna!].
I Navajo lanciarono tutti insieme grida di giubilo, in onore dei giovani giapponesi.
Poi voltarono i cavalli e partirono al galoppo verso il villaggio, sempre gridando festosi.
Una volta rimasti soli, Nuvola Nera si rivolse a Sabrina: «Non è vero che avete ucciso i rapitori di Lilyth, giusto?».
«Esatto» confermò lei.
«Perché hai mentito?» le chiese Cespuglio che Cammina.
«Perché non voglio che i Navajo debbano soffrire a causa nostra; Jenning e i suoi hanno rapito Lilyth per poter colpire noi. Non sono stupida, so che se i Navajo avessero davvero ucciso Jenning sarebbe scoppiata una vera e propria guerra. Non dimenticate che, per tutti, Jenning è un uomo rispettabile; è persino sceriffo di Tucson, mentre noi siamo pericolosi criminali».
«Capisco» disse Cespuglio che Cammina. «Devo dire che sei stata molto saggia. Freccia Rossa non avrebbe mai perdonato i rapitori di sua figlia. Li avrebbe inseguiti e catturati, spazzando via chiunque si fosse messo sulla sua strada».
«Già» convenne Vento nella Bocca. «E questo non sarebbe affatto piaciuto ai bianchi».
«Sarebbe scoppiata una rivolta contro i Navajo» aggiunse Nuvola Nera. «Probabilmente sarebbe intervenuto anche l’esercito, e l’intera tribù di Freccia Rossa avrebbe dovuto combattere fino alla morte».
«Si» disse Sabrina, sospirando. «E’ proprio ciò che ho voluto evitare».
«Dunque, adesso cosa farai?» le chiese Nuvola Nera.
Sabrina guardò i suoi amici. «Proveremo a tornare a casa, una volta per tutte» disse.
«Non c’è niente che possiamo fare per voi?» le domandò Cespuglio che Cammina.
«Certo» rispose Sabrina. «Raccontate di essere venuti con noi in città, di aver avuto conferma della morte dei rapitori di Lilyth e di essere riusciti a riabilitarci».
«Se è solo questo che vuoi non ci sarà nessun problema» disse Vento nella Bocca. «Ma potrei venire veramente a Phoenix con te e convincere lo sceriffo che siete innocenti. Io sono un grande diplomatico, e riuscirei a far venire a galla la verità in poco tempo».
«Ecco che ricomincia con le scemenze» sospirò Nuvola Nera.
«Piantala, sei solo invidioso» replicò Vento nella Bocca. «Perché sai che incanterei tutti con il mio aspetto, col mio portamento signorile, con la mia voce soave. Gli abitanti leggerebbero l’onestà nei miei splendidi occhi limpidi e sinceri, e….».
«Oh, no!» esclamò Nuvola Nera. «Quanto vuoi andare avanti? Ci stai rincretinendo!».
«Oh, beh, non è una grossa fatica, Nuvolaccia! Tu sei già mezzo cretino».
«Ehi, come ti permetti? Senti chi parla, poi! Vuoi fare a botte?».
«E tu vuoi fare a botte? Fatti sotto, io sono pronto».
«Io sono SEMPRE pronto a darti una bella lezione!».
«Ragazzi!» esclamò Cespuglio che Cammina. «Perché non la smettete? Non vorrete salutare i nostri amici bisticciando!».
I due litiganti si interruppero. Nuvola Nera disse: «Oh, vuoi dire che dobbiamo separarci?».
«Eh, si. Noi dobbiamo tornare al villaggio. Ormai l’arrivo delle nostre promesse spose dovrebbe essere soltanto una questione di giorni».
«E noi dobbiamo tornare a casa» disse Sabrina. -O almeno provarci- pensò.
I tre ragazzi salutarono Johnny e gli altri, e si soffermarono a parlare con Sabrina.
«Bacio di Luna, se vorrete tornare al villaggio, sarete sempre i benvenuti» le disse Cespuglio che Cammina.
«Non ne dubito, amici. Ah, devo chiedervi una cosa; per poco lo dimenticavo».
«Cosa?».
«Non avreste un po’ d’acqua? Le nostre borracce sono quasi vuote. Contavo di rifornirmi a Phoenix ma non ce n’è stata l’occasione».
I ragazzi ne avevano, e la dettero quasi tutta a Sabrina.
«Purché non manchi a voi» disse la ragazza.
«Non c’è problema» la rassicurò Nuvola Nera. «In poco tempo noi saremo al sicuro nel nostro villaggio, e avremo tutto quello che ci serve. Quelli che rischiano siete voi».
«Grazie» disse Sabrina.
Strinse la mano ai tre ragazzi. Poi li osservò mentre saltavano in sella; una volta a cavallo, prima di partire, ognuno di loro alzò una mano in un ultimo gesto d’addio. La ragazza ricambiò, guardandoli allontanarsi. Poi sorrise, quando sentì Nuvola Nera e Vento nella Bocca riprendere a punzecchiarsi.
«Ehi, Nuvolaccia, stai piangendo».
«No che non piango, rompiscatole».
«E invece si! Sei proprio una donnetta».
«Ah, si? A me pare invece che TU stia piangendo, mio caro».
«Ma che dici! Un vero uomo come me non piange. Solo che mi è finita della polvere….».
Le voci si affievolirono, fino a scomparire del tutto.
 
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Sabrina decise di fare il punto della situazione.
Avevano acqua e viveri a sufficienza per arrivare a Tucson; ognuno di loro aveva una pistola, ma Sabrina tolse le munizioni a tutte, tranne che alla sua. Nessuno obiettò; erano consapevoli che uno qualsiasi di loro, con un’arma carica in mano, avrebbe rischiato come minimo di spararsi in un piede; avevano i due coltelli trovati nella baracca dei minatori. Non avevano altre armi, poiché si erano dimenticati i fucili, gli archi, le frecce e persino la dinamite al villaggio indiano. Avevano finito i fiammiferi, ma potevano contare sui due accendini che erano nello zaino di Michael; uno era quasi esaurito, ma l’altro era ancora pieno. Inoltre (per quel che serviva) avevano ancora tutti i soldi dei signori McFly.
“A questo punto, dovremmo dirigerci direttamente alla Mesa de Arena. Qualcuno ha obiezioni?” chiese Sabrina ai suoi amici.
Nessuno ne aveva.
“Dovremo passare vicino a Tucson e al ranch Black Arrow, vero?” chiese Johnny.
Sabrina rispose di si.
“Ricordo che si era parlato di travestirci” continuò Johnny. “Manuela aveva proposto di camuffarci in modo da passare inosservati nei dintorni della città”.
“E' vero” ammise Sabrina, “ma non abbiamo nessun tipo di travestimento. Anche i nostri abiti indiani sono rimasti al villaggio di Freccia Rossa”.
“Allora correremo un grosso rischio” disse Michael, preoccupato.
“Da quando è iniziata questa assurda storia abbiamo corso un rischio dietro l’altro” disse Sabrina. “Finora però ce la siamo cavata benissimo, non vi pare? Siamo sfuggiti senza un graffio a nugoli di inseguitori”.
Questo era innegabile; gli altri si sentirono rincuorare dalle parole di Sabrina, e fu deciso che si sarebbero diretti senza ulteriori indugi alla Mesa de Arena, affrontando chiunque avesse cercato di intralciarli. Si riposarono per una buona ora, mangiando e immaginando il sospirato momento in cui sarebbero tornati nel loro tempo: casa sembrava più vicina che mai.
Rifocillatisi, i ragazzi montarono in sella e partirono in direzione Tucson.
Johnny affiancò Sabrina, e le domandò: “Credi che ci imbatteremo di nuovo in Jenning?”.
La ragazza rifletté per qualche istante. “Non lo so, ma devo confessare che mi piacerebbe moltissimo trovarmelo di nuovo davanti. Non mi importa essere considerata una criminale, ma vorrei che quel bandito pagasse per i suoi misfatti”.
“Potremmo passare da Phoenix a cercarlo. Forse è ancora lì” propose Johnny.
“Non è il caso; abbiamo deciso di dirigerci alla Mesa e credo che cambiare idea in questo momento possa essere dannoso. Dobbiamo concentrarci su come tornare a casa”.
“Lo penso anch’io. Voglio tornare a casa a tutti i costi” concordò Johnny. Dopo alcuni istanti di raccoglimento, aggiunse: “La prima cosa che farò sarà contare gli scalini”.
Per un attimo Sabrina restò sgomenta; Johnny si chiese se quell’accenno al loro primo incontro non fosse troppo sfacciato. Però, poi, la ragazza sorrise e si voltò verso di lui.
“Contali pure” disse, “vedrai che sono solo 99”.
“Ma non erano 99 e mezzo?”.
I due si scrutarono un secondo, poi scoppiarono a ridere.
I loro compagni, più avanti, si voltarono a guardarli.
“Cosa c’è?” domandò Tinetta, affiancandosi ai due. “Perché ridete?”.
“Oh, nulla, Tinetta, una stupidaggine” le rispose Sabrina.
“Che cosa? Che cosa?” insisté lei, delusa perché si sentiva tagliata fuori.
Johnny rise. “Abbiamo scoperto di avere in comune l’amore per la matematica” disse.
Incrociò di nuovo lo sguardo di Sabrina, e i due scoppiarono a ridere ancora.
“La matematica?” disse Tinetta spostando gli occhi dall’uno all’altra, come se seguisse un incontro di tennis. “Uffa, siete cattivi!” sbottò, quando si rese conto che non avrebbe ricevuto spiegazioni.
“Il mio tesoro e la mia migliore amica non dovrebbero avere segreti per me”. Si allontanò, ma dopo pochi metri si voltò imbronciata, e fece una boccaccia a tutti e due.
 
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Alcune miglia più avanti, Jenning, Bull e Cody cavalcavano in silenzio. Dopo una breve sosta a Phoenix, abbastanza da rendersi conto di non avere i Navajos alle calcagna, avevano deciso di partire per Tucson, così adesso precedevano di poco i nostri eroi.
Avrebbero messo in atto il loro piano: mantenere un profilo basso per un anno, forse più, poi lasciare per sempre quella regione e andare a godersi i soldi del bottino ognuno dove preferiva.
Anche se non erano riusciti a sgominare gli Stranieri, sapevano che, con i crimini di cui erano accusati, i mocciosi dovevano restare ben nascosti: chiunque abbastanza sveglio da saper usare una pistola, infatti, avrebbe cercato di liquidarli appena li avesse avvistati; la taglia pendente sulle loro teste avrebbe fatto gola anche a un santo. Non potevano sospettare che gli odiati nemici li seguivano a poca distanza, cavalcando sulla loro stessa pista.
 
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Il piano di Sabrina era a dir poco azzardato, ma la ragazza, sorda alle lamentele dei suoi amici, fu irremovibile. D’altronde, la maggior parte dei rischi (se non tutti), sarebbero toccati a lei.
Avevano raggiunto, dopo tanto galoppare, la gola che attraversava la catena montuosa vicino a Tucson, quella su una delle cui pareti si apriva l’accesso alla radura che portava alla baracca dei minatori.
Sembravano passati millenni da quando vi si erano rifugiati, da quando avevano involontariamente fatto esplodere la dinamite che aveva chiuso quel passaggio.
Arrivati alle prime rocce, si erano concessi una breve sosta; Sabrina si era arrampicata su un punto rialzato per tenere d’occhio la pista in entrambe le direzioni e dare l’allarme in caso di pericolo.
Poi il pericolo era stato avvistato, e la ragazza l’aveva segnalato ai suoi amici: stavano arrivando una decina di soldati, dalla parte di Phoenix, diretti anch’essi verso Tucson.
Erano giacche azzurre, ovvero soldati dell’esercito, così chiamati per via dell’azzurro delle loro divise.
In un primo momento i ragazzi si prepararono a nascondersi, poi Sabrina fu folgorata da un’idea, che lasciò letteralmente di stucco i suoi compagni.
“Che ne dite” chiese loro, “se catturassimo quei soldati?”.
I suoi amici credettero di aver capito male. “Come, scusa?” le domandò Michael.
“Sono solo una decina, e cogliendoli di sorpresa potremmo catturarli”.
“Stai scherzando?” chiese Renato. “Perché dovremmo farlo?”.
“Per travestirci” spiegò lei. “Ruberemo loro le uniformi e le indosseremo noi. Se qualcuno si avvicinerà troppo, scoprirà il trucco, ma in lontananza nessuno si sognerà di venirci ad infastidire”.
“Ma sono soldati!” esclamò Renato. “Non ce la faremo mai. Sono senz’altro armati fino ai denti, mentre noi abbiamo sette pistole scariche, a parte la tua”.
Tutte le rimostranze dei suoi amici non bastarono a farle cambiare idea; se fossero riusciti a rubare quelle uniformi, avrebbero potuto raggiungere la Mesa de Arena indisturbati, a patto di non incrociare nessuno troppo da vicino.
Il piano era semplice quanto temerario: si sarebbero nascosti dietro le rocce e sarebbero sbucati fuori all’improvviso, da punti diversi, ognuno impugnando una pistola e puntandola sulle loro prede. Naturalmente solo quella di Sabrina sarebbe stata carica, ma le giacche azzurre non potevano saperlo.
“Se le cose dovessero prendere una brutta piega” disse la ragazza ai suoi compagni, “buttatevi subito al riparo delle rocce, e non mettete il naso fuori per nessun motivo. Io sola fronteggerò i nostri avversari”.
La cosa, al pari dell’intero piano, non piacque agli altri, ma nessuno poteva farci niente;
per quel che servivano loro, Sabrina avrebbe potuto mettere in atto quella follia anche da sola, e sarebbe stato senz’altro peggio.
Sabrina ebbe cura di sistemare i suoi amici in punti il più possibile riparati e lontani dal pericolo; l’unica veramente vicina ai soldati sarebbe stata lei; correva un rischio enorme, ma la sua prodigiosa abilità di tiratrice l’aveva salvata in situazioni anche peggiori.
In realtà (ma non poteva saperlo) il pericolo che incombeva su di lei non era così grave: Johnny, infatti, si appostò vicino alle sue sorelle, e appena furono al riparo da orecchie indiscrete le avvicinò. “Ragazze, mi raccomando, Sabrina non deve farsi alcun male. State pronte a usare i poteri al minimo cenno di pericolo, ok?”.
“D’accordo, fratellone” concordò Manuela. “Mentre gli altri punteranno pistole scariche noi punteremo le nostre menti”.
Tutto fu pronto, e non rimase che attendere; il rumore di cavalli al trotto divenne sempre più vicino. Sabrina osservava da un punto riparato l’avvicinarsi delle prede, e quando giunse il momento adatto, saltò fuori gridando: «MANI IN ALTO, QUESTA E’ UNA RAPINA!».
Un istante dopo spuntarono fuori anche i suoi amici, tenendo sotto tiro i soldati.
Questi, però, dopo un primo momento, reagirono. Misero mano alle pistole, ma Sabrina aveva previsto quell’eventualità: sparò come una folgore quattro colpi, che disarmarono tre avversari (uno andò a vuoto), poi si gettò al riparo di una roccia, e contemporaneamente aprì il tamburo dell’arma per ricaricarla.
«Tutti a terra!» esclamò uno dei soldati, evidentemente il capo.
Gli uomini si buttarono giù dalle selle e cercarono di ripararsi, ma Johnny e le gemelle entrarono in azione. Johnny li fece scivolare, Manuela fece volar via le loro armi, e Simona, sempre esagerata, sollevò in aria i cavalli e li fece sedere sulle schiene dei malcapitati.
Nessuno dei loro amici vide nulla, per fortuna: Sabrina stava ricaricando la pistola, e gli altri, seguendo le sue indicazioni, si erano gettati dietro le rocce e se ne stavano rannicchiati.
Velocemente, Johnny e Manuela spostarono i cavalli che schiacciavano i poveri militari.
“Perché lo avete fatto?” domandò Simona, con voce lamentosa.
“Accidenti, Simona” disse Johnny arrabbiato, ma senza alzare la voce per non farsi sentire dagli altri. “Volevi spezzare la schiena a quei disgraziati?”.
“Uffa” sbuffò lei. “Mi rimproverate sempre, solo perché faccio tutto con entusiasmo”.
Quando Sabrina si affacciò cautamente dal suo riparo, per un attimo non credette ai suoi occhi; pensò a una trappola, ma contò gli uomini che si contorcevano sul terreno, doloranti, ed erano dieci; perciò nessuno di loro si era nascosto per tenderle un agguato.
Uscì da dietro il rifugio, e si avvicinò ai soldati, con prudenza. Si accorse che erano anche disarmati.
-Ma cosa diavolo è successo?- pensò. -Forse li ha colpiti qualcuno degli altri, con delle pietre-.
Alzò lo sguardo, ma non vide nessuno; neppure Johnny e le gemelle, che si erano abbassati per non farsi scoprire.
-Lasciamo stare- pensò, infine. -Non abbiamo tempo da perdere-.
Chiamò i suoi amici, e insieme immobilizzarono le giacche azzurre, legandole con la corda che avevano trovato nella baracca dei minatori, dopo averla tagliata per ricavarne dieci pezzi.
Poi i ragazzi sfilarono otto delle loro divise, mentre le ragazze controllavano cosa c’era nelle tasche delle selle. Trovarono acqua e viveri, e li presero; trovarono alcuni fucili e pistole, ma non ne avevano bisogno; presero invece un po’ di munizioni, perché la loro scorta era limitata.
Indossarono infine le uniformi dei soldati; non li sorprese scoprire che erano tutte troppo grandi di almeno tre o quattro taglie. Solo Carlo, con la sua stazza, riusciva a entrarci quasi bene; Michael ovviamente lo prese in giro senza ritegno, per questo.
Comunque non dovevano partecipare ad una sfilata sulla nuova collezione autunno/inverno dell’esercito degli Stati Uniti; per ciò che dovevano fare, quegli abiti, anche se troppo larghi, erano adatti.
Poi Sabrina si avvicinò ai soldati.
Quello che doveva essere il capo le domandò: «Voi siete gli Stranieri, eh?».
«Si» confermò Sabrina. Non aveva ritenuto necessario coprirsi il viso; quegli uomini li avrebbero riconosciuti in ogni caso: non dovevano esserci molti gruppi di ragazzini armati in giro per l’Arizona.
«Pagherete per quello che avete fatto oggi» li minacciò il capo delle giacche azzurre. «Avete già una lista d’accuse lunga dieci miglia, ma aggredire l’esercito scatenerà contro di voi una caccia spietata».
«Ah, si?» replicò Sabrina. «Sai che ti dico, allora? Che almeno stavolta saremo accusati di un reato che abbiamo EFFETTIVAMENTE commesso».
 
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Sabrina non aveva infierito sui soldati, e questo li spiazzò. Quando la banda degli Stranieri si allontanò, il sergente disse: «Questa non me l’aspettavo. Hanno fama di criminali spietati, invece ci hanno soltanto tolto le uniformi e poche altre cose».
«E cos’altro voleva che facessero, sergente?» lo apostrofò il tenente. «Non le basta ritrovarsi in mutande e legato come un salame?».
«Con tutto il rispetto, signor tenente, sul legato come un salame avrei da obiettare» disse il sergente, agitandosi.
«Eh, si, l’ho notato anch’io» concordò un soldato, iniziando a contorcersi.
«Ma cosa combinate?» domandò il tenente.
«Queste corde non sono ben strette, signore» spiegò il sergente. «Quei ragazzi non sanno fare dei buoni nodi».
Il tenente provò a sua volta la resistenza dei nodi. «Avete ragione» disse. «Sono lenti. Ci potremo liberare con poca fatica».
In realtà, era stata Sabrina a decidere di non legarli troppo stretti. Voleva essere sicura che riuscissero a slegarsi facilmente, per non lasciarli immobilizzati in mezzo al nulla alla mercé di possibili pericoli.
«Non ci hanno neppure rubato i cavalli» notò un soldato.
«Appena liberi ci metteremo alle costole di quei bambocci» ordinò il tenente.
«E’ davvero incredibile» commentò il sergente. «Nonostante abbia visto gli avvisi di taglia, non me li aspettavo così giovani: sono poco più che bambini».
«Meglio non ricordarcelo» disse il tenente. «Non è onorevole essersi fatti derubare da dei marmocchi».
«Qualcuno ha capito cosa è successo?» domandò un soldato. «Io sono sceso di sella, e due secondi dopo mi sono ritrovato a terra, disarmato e col cavallo seduto sulla schiena».
La stessa cosa era accaduta a tutti; per un momento si guardarono l’un l’altro, in cerca di una spiegazione. Non la trovarono.
Circa quindici minuti dopo, erano liberi. Saltarono a cavallo e partirono al galoppo in direzione Tucson.
«Non hanno molto vantaggio, forse li riprenderemo» disse il sergente.
«Li prenderemo comunque» assicurò il tenente. «Se non li raggiungiamo prima, appena usciti dalla gola saliremo sulla parete fino ad un punto abbastanza alto e da lì invieremo segnali di fumo».
«A che scopo, se posso chiedere, signor tenente? Noi conosciamo i codici dei segnali di fumo, ma è molto improbabile che li capisca un civile bianco».
«Non c’è bisogno che siano decifrati: i segnali saranno ben visibili dalla pista di Tucson, e chiunque li vedrà terrà gli occhi aperti. Così per gli Stranieri sarà impossibile passare inosservati.
La loro idea di travestirsi con le nostre uniformi è stata buona, perché per essere scoperti la gente deve avvicinarsi, e nessuno si insospettisce vedendo un drappello di soldati in lontananza. In questo modo, invece, chi vedrà dei soldati provenire dalla stessa direzione dei segnali di fumo, correrà loro incontro per chiedere informazioni».
«Ottima idea, signore» commentò il sergente. «Così il loro travestimento, invece di tenere lontani i curiosi, li attirerà come le api al miele».
Il tenente annuì. -Oggi- pensò -la vostra carriera di furfanti finirà, mocciosi musi gialli-.
 
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I segnali servirono al loro scopo. Alcuni cow-boy del Black Arrow, vedendoli, corsero ad avvisare Samson, il padrone. In poco tempo, tutti gli uomini del ranch osservavano le volute di fumo
innalzarsi nel cielo.
«Qualcuno capisce cosa dicono?» chiese Samson.
Nessuno lo sapeva. Samson decise di andare a controllare di persona. Scelse alcuni dei suoi uomini più abili con le armi (dopotutto, potevano andare incontro a qualche pericolo) e partì nella direzione da cui provenivano i segnali di fumo.
 
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L’incontro tra i due gruppi fu, per tutti, una grossa sorpresa.
Quando si videro di fronte quelli che scambiarono per soldati, Samson e i suoi (proprio come aveva previsto il tenente delle giacche azzurre), puntarono dritti su di loro per chiedere informazioni.
Nel gruppo di Johnny nessuno aveva notato i segnali di fumo.
Quando videro i cavalieri che andavano loro incontro, si prepararono alla lotta.
“Perfetto” commentò Renato. “Questi vengono proprio nella nostra direzione. Ora che facciamo?”.
“A questo punto non ci sono alternative” disse Sabrina. “Dovremo combattere”.
“Noi siamo disarmati” le ricordò Carlo, timoroso. “E anche se fossi armato non credo che riuscirei a sparare un solo colpo”.
“Basterà che voi puntiate le pistole sui nostri avversari, come prima, per intimidirli. Se nascerà una sparatoria ci penserò io”.
“Stavolta il rischio è eccessivo, Sabrina” obiettò Johnny, preoccupato. “Prima potevamo contare sull’effetto sorpresa e in più avevi moltissimi nascondigli intorno a te. Qui siamo troppo esposti”.
-Inoltre, usare il potere in una battaglia in campo aperto è pericoloso- pensò, -perché chiunque vedrebbe cosa sta succedendo. Nessuno capirebbe che siamo stati noi ad agire, ma gli avvenimenti inspiegabili comincerebbero ad essere un po’ troppi. Gli altri potrebbero iniziare a farsi domande spinose. Possiamo solo sperare che gli uomini di fronte a noi non ci conoscano e non ci diano fastidi-.
Che quella speranza fosse vana, Johnny lo capì quando riconobbe l’uomo alla testa dei cavalieri davanti a loro.
“Ma quello…. quello….”.
“Quello è Rick Samson” concluse per lui Sabrina.
“Sbaglio” disse Michael, spaventato, “o siamo nei guai fino al collo?”.
 
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«Non posso crederci» disse Samson, quando riconobbe, sotto le divise militari, Johnny e gli altri.
Si volse ai suoi uomini. «Sono gli Stranieri! Prendeteli vivi!» ordinò.
Sabrina fermò Dinamite; si fermarono anche i suoi amici dietro di lei. Poi estrasse le pistole, dicendo: “Dobbiamo trovare un riparo, per avere qualche possibilità di cavarcela”. Purtroppo, però, come aveva notato Johnny poco prima, erano in campo aperto e pianeggiante. Solo pochi rinsecchiti cespugli e cactus costellavano il terreno.
Gli uomini di Samson avevano fucili, e li spianarono non appena furono a tiro.
«Gettate le armi!» intimò Samson.
Sabrina provò a prendere la mira con la pistola, ma rinunciò a sparare: gli avversari erano troppo lontani. Si diede della stupida per non aver rubato i fucili dei soldati.
“Restate qui!” disse Sabrina, ripartendo al galoppo. “Li affronterò io!”.
“D’accordo!” dissero in coro Michael e Carlo, felici; un istante dopo, però, gli altri li gelarono con sguardi furenti.
“Provate a farlo davvero” disse Renato agitando il pugno, “e vi faccio fuori io”.
Michael e Carlo si guardarono, e abbassarono gli occhi arrossendo di vergogna.
Ripartirono tutti al galoppo dietro Sabrina.
Samson sparò un colpo di avvertimento, che sibilò poco sopra le teste dei ragazzi.
Gli avversari erano fuori portata delle pistole di Sabrina, ma erano a tiro del potere di Johnny: il ragazzo fece scivolare il fucile dalle mani di Samson, pensando: -Così smetterai di fare il bullo-.
Purtroppo, però, quando l’arma cadde a terra, partì un colpo, che ferì il cavallo di Johnny ad una zampa. Il povero animale rovinò sul sentiero; Johnny fu colto alla sprovvista e non riuscì a reagire in alcun modo. Quelli che cavalcavano dietro di lui non riuscirono a evitarlo e gli finirono addosso. Sabrina, spaventata, girò Dinamite. Solo lei, Tinetta e Renato erano ancora in sella; gli altri erano tutti finiti a terra.
Sabrina si precipitò vicino ai suoi amici, gridando: “Johnny! Johnny!”.
“Speriamo che stiano tutti bene” disse Renato. -A parte Johnny- pensò.
I tre saltarono giù di sella, accorsero presso i propri compagni e li aiutarono a rialzarsi. Simona e Manuela erano illese.
Johnny, che aveva un brutto bernoccolo sulla nuca, si tirò su a fatica.
“Ti senti bene, tesoruccio?” gli chiese Tinetta, angosciata.
“Si…. credo di si” disse lui. “Che volo, però”.
Sabrina sospirò di sollievo. “Hai avuto fortuna, Johnny. Poteva andare peggio”.
Tinetta, quasi piangendo, lo abbracciò. “OOOOhh, tesorooo! Ho avuto tanta paura!”.
Le gemelle avvisarono gli altri: “Ehi, Michael e Carlo sono ancora a terra!”.
Tutti accorsero vicino ai due; sembravano svenuti.
Manuela si era inginocchiata accanto a Michael e gli teneva sollevata la testa.
“E’ ferito?” le chiese Sabrina.
“Non mi pare” rispose Manuela, “ma non si sveglia”.
“Neanche Carlo si sveglia” disse Simona. “Ora provo a farlo rinvenire” e gli appioppò un paio di schiaffoni.
“SIMONA!” esclamò Manuela. “Potrebbe essere ferito!”.
“Già, non è questo il modo di prendersi cura di un infermo” disse una voce vicino a Simona.
“Ah si? Qual è, allora?” domandò lei.
“Conosci la respirazione bocca a bocca?” chiese la voce.
“Eh?” disse Simona arrossendo. “Ma che dici?”.
“Eppure è l’unico modo per salvare il povero Carlo. Coraggio, prova”.
“Ma…. ma…. io….” balbettò la ragazza. Poi si domandò: “Un momento, ma chi è che parla?” e abbassò lo sguardo; Carlo, sveglio e pimpante, le stava dicendo: “Su, su, bocca a bocca, bocca a bocca! Non vorrai che il povero Carlo muoia, vero?”.
Simona lo fulminò con lo sguardo; si alzò in piedi e gli disse: “Per me il povero Carlo può restare qui sdraiato fino a domani”.
“Noooo!” piagnucolò lui. “Non andartene, mia amata”.
“Carlo!” esclamò Manuela. “Sei uno stupido! Ci hai fatto preoccupare tutti!”.
“Proprio così, e intanto Michael sta male; non t’importa niente del tuo amico?” lo rimproverò Renato.
Carlo non intendeva essere l’unico a fare quella figuraccia, e disse: “Povero Michael, eh? E di chi credete sia stata l’idea di fingersi svenuti per convincere le ragazze a farci la respirazione bocca a bocca?”.
“Cooosa!?” esclamarono gli altri, girando tutti gli occhi sul ragazzo ancora a terra.
-Oh, no- pensò Michael, senza aprire gli occhi. -Quello scemo me la pagherà. Ora la mia unica speranza è far finta di essere DAVVERO svenuto-.
“Conosco io un buon sistema per far rinvenire la gente” disse Renato, facendo scricchiolare i pugni.
“E’ lo stesso che abbiamo in mente noi” disse Sabrina, minacciosa. Michael sollevò una palpebra di un millimetro, e vide gli altri circondarlo dall’alto, con sguardi che lanciavano saette.
Scattò in piedi, esclamando: “Sto bene! Miracolo!”.
“Miracolo?” disse Johnny. “L’unico miracolo qui sarebbe che voi due imparaste a usare il cervello. Siamo in grave pericolo, e fate gli idioti con le mie sorelle”.
“Ma non capisci?” si lamentò Michael. “E’ proprio perché siamo in pericolo che dobbiamo percorrere i sentieri dell’amore”.
“Sono d’accordo” disse Carlo.
Ma queste cretinate non commossero gli altri, che continuarono a pararsi minacciosi di fronte ai due. Loro, allora, si inginocchiarono a terra, frignando: “Perdonooo! Non lo faremo più! Saremo braviiii”.
Sabrina sospirò. “Non ho parole; questi tonti sono irrecuperabili”.
«Non ho capito niente di quel che è successo, comunque alzate le mani» disse Samson.
Nel trambusto, i ragazzi si erano dimenticati dei nemici.
Solo allora si accorsero di essere circondati: Samson e i suoi uomini li accerchiavano, tenendoli sotto tiro dei loro fucili.
-E’ finita- pensò Sabrina, alzando le mani.
I suoi amici si guardarono perplessi, poi si arresero anche loro.
Johnny valutò se usare il potere, ma decise di stare buono; troppi rischi, in quel frangente.
Si avvicinò alle sorelle, e sussurrò: “Non facciamo niente, per ora. Capiterà senz’altro un’occasione migliore”.
I ragazzi furono legati ed aiutati a salire a cavallo; quello di Johnny, però, era ferito.
Gli uomini di Samson lo esaminarono.
«Guarirà» disse uno. «Il proiettile è uscito: basterà disinfettare la ferita, bendarla e tra poco tempo tornerà a cavalcare».
«Bene» disse Samson. Poi si avvicinò a Dinamite: lo carezzò, lo osservò con cura. «Che animale superbo» commentò. «Dove l’hai trovato?» chiese a Sabrina.
La ragazza non sembrava voler rispondere, ma poi disse: «Dalle parti di Phoenix».
«L’hai rubato?».
«No».
«L’hai comprato?».
«No».
«Avanti, non farti cavare le parole di bocca!» protestò Samson.
«Scusi se non mi sento in vena di fare conversazione» sibilò la ragazza; poi rispose: «L’ho catturato io. Era allo stato brado. L’ho domato».
Samson ne fu impressionato. «Diavolo, ragazzina!» esclamò. «Ma da dove salti fuori? Sei più abile tu di tutti i miei cowboy messi insieme».
«Ehi, capo, grazie del complimento» ribatté uno dei suoi uomini.
Samson lo ignorò. «Come si chiama?».
«Dinamite» rispose Sabrina.
«E’ un nome appropriato?» chiese ancora l’uomo.
Sabrina lo guardò dritto negli occhi. «Può giurarci» disse.
 
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Circa un’ora dopo, Johnny e i suoi amici facevano il loro ingresso a Tucson, con le mani legate dietro la schiena. Non erano più vestiti come soldati, perché questi ultimi li avevano raggiunti poco dopo la loro cattura da parte di Samson e avevano recuperato le proprie divise.
I cittadini di Tucson si assieparono lungo i lati della strada principale, e un brusio insistente accompagnò l’avanzare di Johnny e gli altri.
«Gli Stranieri….» mormorava la gente. «Hanno catturato gli Stranieri, finalmente».
Samson si fermò davanti all’ufficio dello sceriffo, e lo chiamò: «Jenning, vieni a vedere che sorpresa ho per te!». Dopo pochi secondi, uscì Steve Jenning, assieme agli inseparabili Bull e Cody.
Johnny restò sorpreso. -Jenning è a Tucson?- pensò. -Qualcosa non quadra; ricordo che il nonno mi disse di aver letto sui libri di storia di come Jenning, dopo essere partito dalla città per darci la caccia, non vi tornò che dopo molti mesi-.
I tre tutori della legge si fecero avanti sbalorditi.
«Ma come diavolo avete fatto a catturarli?» domandò Jenning.
«Erano nei dintorni» rispose Samson. «Travestiti da giacche azzurre; non so dove volessero andare».
«Che cosa!?» esclamò Cody.« Travestiti?».
«Proprio così» confermò Samson. «E’ dura da spiegare».
-Un momento- rifletté Johnny. -Ora che ci penso, il nonno mi ha detto che anche noi non tornammo più a Tucson. Invece eccoci qui. Questo significa che la storia è già cambiata-.
Steve Jenning si fece vicino a Samson; era sulle spine, ma doveva sembrare disinvolto.
«E cosa hanno detto?» domandò. «Hanno rivelato dove hanno nascosto il bottino?».
Cody e Bull trattennero il fiato, sudando freddo in attesa della risposta.
«Non hanno detto niente» rispose Samson. I tre malfattori si rilassarono.
«Proprio…. ehm…. niente?» chiese Bull.
«Nulla» ribadì Samson. «Cosa avrebbero dovuto dire?».
«Beh, tanto avrebbero senz’altro mentito» tagliò corto Jenning. «Ottimo lavoro, Samson. Ora li prendiamo in consegna noi; ci sono delle solide celle che li aspettano da un bel pezzo».
«Un momento, Jenning» disse un uomo che uscì dalla folla riunita davanti all’ufficio dello sceriffo.
Venne avanti, e tutti riconobbero Mulligan; accanto a lui c’era il dottore.
«Mulligan, vecchia spugna» disse Samson. «Non sapevo che fossi in città».
«Ciao, Rick» salutò Mulligan. «Si, ripartirò domattina. E sono davvero contento di essere in città, così ho potuto assistere alla cattura degli Stranieri».
«E allora perché non vuoi che li porti dentro?» gli chiese Jenning.
«Perché devono fare prima un giro d’onore» disse il dottore.
«Cioè?» fece Jenning.
«Suvvia, Steve» gli disse Mulligan. «Non vorrai privare i cittadini di Tucson della vista dei peggiori criminali della storia di questa città».
«Sono d’accordo» si accodò Samson. «Una bella passeggiata a cavallo, e poi li sbatterai al fresco. Tanto non vanno da nessuna parte».
Sabrina ascoltò interessata tutta la conversazione; le sembrò una proposta strana: credeva che avessero una gran fretta di impiccarli, invece volevano portarli in giro.
Jenning ci rifletté qualche istante, poi acconsentì: «E sia, dunque. Mi sembra una inutile perdita di tempo, ma visto che sembra ci teniate tanto….».
«Ci teniamo eccome» mormorò Samson, con un strano tono di voce.
Sabrina lo sentì, e si chiese cosa stava succedendo. -Questa storia non mi piace- pensò, -non mi piace per niente-.
Tenne per sé le sue preoccupazioni, però.
Quando i loro cavalli furono fatti muovere per iniziare la passeggiata per le vie del paese, Tinetta le chiese: “Sabrina, dove ci portano? Cosa hanno detto tutti?”.
“Nulla di importante” rispose Sabrina sfoggiando un’espressione quanto più possibile serena.
“Vogliono mostrarci la città”.
Tinetta conosceva la sua amica troppo bene, per non accorgersi che era preoccupata. Nonostante questo, fece finta che fosse tutto a posto. “Bene” disse, fingendosi radiosa. “Una gita è proprio quel che ci voleva”.
Samson, tenendo il cavallo al passo, guidava il corteo. Mulligan, il dottore, Jenning, Bull e Cody seguivano a piedi. Johnny e gli altri, inermi, si guardavano intorno timorosi.
Poi, al centro della strada principale, di fronte al saloon, Samson si fermò, e scese da cavallo.
Si avvicinò a Sabrina e fece scendere anche lei; Jenning gli domandò: «Beh, perché l’hai fatto?». Ma la curiosità per quel gesto si trasformò in stupore quando Samson, preso il suo coltello di tasca, tagliò le corde che legavano i polsi di Sabrina.
«Ehi!» esclamò Jenning. «Cosa diavolo….».
«Calma» gli disse Samson. «Non avrai paura di una ragazzina, eh, sceriffo?».
A Jenning quella situazione cominciava a non piacere, ma rispose, un po’ titubante. «No…. no, certo che no….».
«Bene» disse Mulligan. «Perché vogliamo che vi battiate a duello».
«Che cosa?!» sbottò Jenning. «Perché diavolo dovrei….».
« Perché sei lo sceriffo, ecco perché» gli disse il dottore. «Sei stato nominato da poco tempo, e i cittadini devono sapere che possono contare su un uomo coraggioso e veloce con la pistola».
«Infatti» aggiunse Mulligan. «Sfidando a duello questa mocciosa, che è il capo degli Stranieri, dimostrerai di avere del fegato».
«E siamo sicuri che vincerai, Jenning» disse Samson. «Nessuno può pensare che tu sia tanto incapace da perdere contro una ragazzina».
«Ok, ora basta» disse Cody, mettendo mano alla pistola. «Questo scherzo mi ha stancato….».
Ma si fermò, quando si accorse di essere tenuto sotto il tiro dei fucili degli uomini di Samson.
«Ehi, che storia è questa?» domandò Bull. «Non potete puntare armi su un vicesceriffo».
«Mi pare che lo stiamo facendo, Bull» disse Mulligan. Bull si voltò, e vide che anche Mulligan e il dottore, impugnate le pistole, li minacciavano.
«Alzate le mani, ragazzi» disse Mulligan. «Non vogliamo rischiare che interrompiate il duello dello sceriffo».
Bull e Cody alzarono le mani, e furono disarmati.
Jenning, senza via d’uscita, esclamò: «Va bene! E’ questo che volete? Sosterrò il duello, e lo vincerò».
«Buon per te, Jenning» disse Samson.
Sabrina, stordita, si vide consegnare una pistola. «E’ carica» le disse Samson. «Controlla pure».
Lei controllò. Non riusciva a capire affatto che stava succedendo. Se Jenning era sbalordito, lei non lo era di meno.
Tutti si spostarono dalla strada, e lasciarono spazio ai duellanti, che si trovavano a circa venti metri l’uno dall’altra.
Jenning fronteggiò Sabrina. Era spaventato, perché sapeva che la ragazza aveva un’abilità eccezionale, ma non poteva tirarsi indietro.
Si girò verso Samson, Mulligan, il dottore e gridò: «MI PRESTERO’ A QUESTA BUFFONATA, MA SAPPIATE CHE DOPO FAREMO I CONTI! IN QUALITA’ DI RAPPRESENTANTE DELLA LEGGE, IO….».
«NON TIRARE IN BALLO LA LEGGE, STEVE JENNING, LURIDA CAROGNA!» tuonò un’altra voce: una voce che veniva da sotto un portico, una voce che veniva dalla sagoma di un uomo in ombra, di cui si distingueva solo il profilo.
Ma Sabrina non ebbe bisogno di vederne il viso per riconoscerne il proprietario.
“GIUDICE!” gridò la ragazza, felice.
Anche Jenning riconobbe quella voce, ma sentirne il suono lo paralizzò.
Il giudice Pearson venne avanti, fino a trovarsi in pieno sole. Johnny e i suoi amici restarono sbigottiti.
Jenning, vistosi perduto, alzò la pistola, mirando al giudice, ma decine di armi gli furono puntate addosso.
«Non fare sciocchezze, Jenning» gli disse Mulligan. «Ormai sei in trappola. Sappiamo che sei stato tu a tentare di uccidere Pearson».
Sabrina era doppiamente felice: il giudice era ancora vivo e loro non erano più dei fuorilegge.
-Ecco perché Samson, Mulligan e gli altri erano così misteriosi, poco fa- pensò Sabrina. -Dovevano tendere questa trappola a Jenning-.
Quest’ultimo, ormai sconfitto, disse: «Ero convinto di averti fatto fuori, vecchio scemo. Hanno persino celebrato il tuo funerale».
«Il funerale era una messinscena, Jenning» disse Pearson. «La cassa che è finita sotto terra è vuota. Quella notte nella baracca, quando mi accorsi che volevi strangolarmi, lottai per un po’, poi finsi di essere svenuto. Non stavo bene, questo è certo, ma tu hai creduto di avermi liquidato, e mi hai lasciato andare. Dopodiché mi hai sparato; ho avuto fortuna, non mi hai colpito in un punto vitale, ma ciò non toglie che ero malmesso. Alla mia età è un miracolo che io sia sopravvissuto a un trattamento simile. Però sono sopravvissuto; quando mi sono ripreso, in casa del dottore, c’era soltanto lui. Gli raccontai cos’era accaduto, e mi spiegò che del mio tentato omicidio erano stati accusati i ragazzini stranieri. Gli rivelai la verità, ma decidemmo che non era il caso di far sapere che ero ancora vivo prima di essermi rimesso in forze. Così mi feci passare per morto, per poter guarire in pace. Oggi non mi sono ancora del tutto rimesso, ma visto ciò che ho passato non mi posso lamentare».
Poi si rivolse a Sabrina. «Mia cara» le disse, «mi hanno raccontato cose mirabolanti sul tuo conto. Sono felice di vederti in forma, ma mi spiace moltissimo che tu abbia passato tanti guai per colpa mia».
Sabrina sorrise. «Jenning sta per passare dei guai molto peggiori, giudice». Indomita, sicura e finalmente libera dalla tensione con cui aveva convissuto per tanto tempo, Sabrina esclamò: «Forza, Jenning, risolviamo la questione!».
Poi le venne in mente una battuta, una cosa che chiunque avesse visto anche solo un paio di film western avrebbe voluto dire in un frangente simile.
«Questa città è troppo piccola per tutti e due!» proclamò.
Jenning replicò: «Su questo siamo d’accordo».
«Bene, allora» intervenne Samson. «Ecco le regole del duello. Io conterò fino a quattro, al quattro sparerete, d’accordo?».
«Si» disse Sabrina, voltandosi leggermente verso Samson.
Jenning le puntò contro la pistola e sparò. Sabrina restò un istante interdetta, poi si gettò a terra e da lì sparò alcuni colpi verso Jenning. I suoi proiettili colpirono la pistola che l’uomo impugnava, facendola volare via. Jenning si ritrovò disarmato. Nonostante il suo vigliacco attacco a sorpresa, era stato battuto.
Mulligan e Samson lo andarono a prelevare, per portarlo in galera assieme ai suoi complici Bull e Cody.
«Verme fino in fondo, eh?» gli disse Samson. «Un gesto degno di un coniglio come te».
«Già» concordò Mulligan. «Per fortuna sei una schiappa con la pistola».
«Io non sono una schiappa» disse Jenning.
«Come no; l’hai mancata, sebbene foste così vicini e tu abbia sparato di sorpresa» commentò Mulligan.
«Non l’ho mancata» disse Jenning.
Mulligan e Samson si voltarono verso Sabrina; forse la ragazza era stata colpita?
La osservarono, e sembrava stare bene. «Ehi!» la chiamarono. «Sei stata colpita?».
Sabrina rispose: «No. Tutto a posto».
«Visto?» fece Samson. «Sei una schiappa».
Jenning li guardò con freddo, lucido odio. In quel momento, per la prima volta, Samson e Mulligan vedevano il vero volto di Steve Jenning, assassino spietato. Rabbrividirono.
«Non l’ho mancata» ripeté Jenning, calmo.
Samson e Mulligan non replicarono.
 
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Johnny non avrebbe saputo quale divinità osannare per la fortuna che aveva avuto, ma dovendo rendere omaggio a qualcosa o qualcuno, ringraziò commosso la buona sorte, la dea bendata che gli aveva permesso di salvare Sabrina.
Jenning aveva ragione: non aveva sbagliato mira. Il proiettile da lui sparato verso Sabrina era stato deviato per un soffio da Johnny. Pochi istanti prima dello sparo, il ragazzo si era reso conto che Jenning, sconfitto o no, aveva un’arma in mano, e da serpente qual era non avrebbe esitato a usarla.
Grazie a quella intuizione, aveva spostato gli occhi sul criminale, appena in tempo per vederlo alzare la pistola: si era concentrato ed era riuscito ad influenzare la direzione della pallottola, facendole mancare il bersaglio. Se quella provvidenziale intuizione fosse giunta mezzo secondo dopo, non avrebbe potuto fare niente, e la sua amata (non voleva nemmeno pensarci) sarebbe stata uccisa. Sabrina non poteva sapere che lui le aveva salvato la vita, ma Johnny era felice di averlo fatto.
Era l’unico a sapere quanto Sabrina avesse davvero rischiato; il terrore folle sperimentato nel momento dello sparo, unito al sollievo che provava adesso per il miracoloso salvataggio, gli annebbiarono i sensi.
Si accorse appena che alcune persone lo fecero scendere da cavallo, lo slegarono e iniziarono ad acclamarlo. -Ma perché mi festeggiano?- pensò.
Poi si guardò intorno e si avvide che tutti i suoi amici erano circondati dai cittadini di Tucson.
La gente li condusse dentro il saloon, davanti al banco; un allegro chiasso riempiva il locale. Pearson, con un gesto, chiese ed ottenne il silenzio.
«Aspettiamo che arrivino Samson e Mulligan, poi berremo tutti a mie spese!! Alla salute della feroce banda degli Stranieri!!» proclamò.
La gente riunita nel saloon eruppe in un boato di approvazione.
Il barista si avvicinò a Pearson, e gli chiese: «Scusate, ma siete sicuro di volerlo fare? C’è riunita tutta Tucson, qui dentro: spenderete una fortuna».
Pearson si voltò radioso, e rispose: «I giudici guadagnano bene, e io sono giudice da tutta la vita. Ho tanti di quei soldi che non riuscirei a spenderli neppure se volessi, considerato poi che i miei anni su questa terra sono ormai agli sgoccioli. Mi sono appena ristabilito da gravissime ferite e ho aiutato dei bravissimi ragazzi a scagionarsi da accuse infamanti. Tutto sommato, mio caro, direi proprio di essere sicuro di volerlo fare. Più che sicuro, anzi».
«Se me lo consentite, vorrei fare anch’io la mia parte» disse un uomo avvicinandosi al banco. Era il sindaco Grant, che si affiancò a Pearson. I due si strinsero calorosamente la mano.
«Cosa ti ha tirato giù dalla tua poltrona, vecchio mio?» domandò Pearson all’amico.
«Credi che voglia perdermi questa festa?» ribatté Grant, che poi si rivolse ai cittadini, e annunciò: «Stasera i nostri giovani amici saranno ospiti del miglior ristorante di Tucson. La città offrirà loro una cena sontuosa, per farsi perdonare di averli trattati da fuorilegge».
Grida di gioia accolsero quelle parole, che si trasformarono in un nuovo boato di approvazione quando Grant aggiunse: «Naturalmente sono invitati anche tutti i presenti».
In quel momento tornarono Samson e Mulligan, che si avvicinarono al banco.
«Ci siamo persi i festeggiamenti?» chiese Mulligan.
«Cominciano adesso!» esclamò Grant. «Da bere per tutti!».
La festa ebbe inizio. Sabrina si avvicinò a Pearson e gli disse: «Giudice, dovranno bere anche i miei amici?».
«Perché? Non hanno sete?» chiese lui.
«Non è questo: loro non reggono l’alcool, neanche un goccio. Hanno demolito un saloon di Phoenix dopo essersi ubriacati con un bicchiere di whisky».
Pearson restò di stucco: «Veramente?» chiese.
«Già».
«Forse allora sarebbe meglio se…. ehi!».
«Cosa c’è?» disse Sabrina voltandosi; il giudice si era interrotto dopo aver guardato in un punto alle spalle della ragazza. Per un istante, lei temette che fosse tornato Jenning, poi vide quel che aveva visto il giudice. I suoi amici (tutti quanti) stavano svuotando in un sorso un bicchiere di whisky.
“Oh, no! Un’altra volta!” esclamò. Cercò di fermarli, avvicinandosi per togliere dalle loro mani i bicchieri, ma fece in tempo a fare un solo passo, che era già troppo tardi.
Per un istante, smarrita, restò indecisa su cosa fare, poi si rese conto che non poteva fare proprio più niente, ormai. “Oh, beh” disse, rassegnata. Prese un whisky a sua volta, si voltò verso il giudice e fece tintinnare il proprio bicchiere con quello di Pearson. «Se non altro, stavolta berrò anche io» disse.
 
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I preparativi per la partenza erano quasi ultimati; i ragazzi sarebbero tornati verso la Mesa de Arena sulla diligenza condotta da Mulligan, proprio come erano arrivati. Renato e Johnny, per ammazzare il tempo, avevano intrapreso una improvvisata gara di lanci su un lato della strada principale.
Con un guantone a testa, si lanciavano la palla con tutta la loro forza. Renato non era bravo, ma se la cavava comunque meglio di Johnny, che era (purtroppo per lui) una mezza calzetta in qualunque tipo di sport; non avendo intenzione di darla vinta senza combattere al suo rivale, però, il ragazzo si avvaleva del proprio potere.
Renato, caricando un lancio, disse: “Mi sorprendi, Johnny. Ti facevo più incapace” e fece partire la palla.
Johnny, in condizioni normali, non l’avrebbe nemmeno vista; grazie al potere, invece, la prese con sicurezza nel guantone.
Poi rilanciò a sua volta, dicendo: “Parla meno e concentrati, o i miei bolidi potrebbero farti brutte sorprese”. Alcuni abitanti di Tucson li osservavano incuriositi.
«Cosa stanno facendo?» chiese qualcuno a Pearson, che stava parlando con Sabrina vicino alla diligenza.
«Non lo so» rispose Pearson. «All’est ho visto giocare uno sport molto simile, ma non ne conosco il nome».
Sabrina restò sconcertata. «Giudice, quello è baseball! Com’è possibile che non lo conosciate? Questo sport è nato in America».
Pearson la osservò perplesso. «Oh, beh, se lo dici tu, dev’essere così. Ne sai senz’altro più di me, in ogni caso».
-Evidentemente- pensò allora Sabrina, -siamo agli albori del baseball. Sta nascendo in questo periodo-.
Osservò i suoi due amici. -E’ incredibile. Renato e Johnny stanno facendo un gioco che presto o tardi diverrà il più popolare degli Stati Uniti, tanto che la passione degli americani per il baseball contagerà anche il Giappone; in pratica stanno insegnando loro ciò che negli anni a venire essi insegneranno a noi-.
“Aaah, ti ho battuto!” esclamò Johnny, quando a Renato sfuggì un suo lancio.
“Bravo tesoro!” gli disse Tinetta, che assisteva alla gara.
Renato, recuperando la palla, disse: “Bah, non darti troppe arie: sei riuscito a sorprendermi solo perché sono ancora un po’ stordito a causa della sbronza di ieri”.
“Anche io ero sbronzo ieri” replicò Johnny.
Il giorno prima, felici per la libertà riconquistata, i ragazzi avevano deciso che, per festeggiare, avrebbero bevuto tutti. Ovviamente, si erano ubriacati subito, e avevano scatenato un vero pandemonio. Per fortuna, però, anche TUTTI gli altri si erano ubriacati, e si erano sbizzarriti come non mai. Il saloon ne era uscito davvero malconcio, ma Pearson, Grant e Samson si erano offerti di ripagare i danni al locale, e alla fine nessuno ci aveva rimesso.
C’era stata anche la cena promessa da Grant, solo che alla fine si era trasformata in una gran baldoria. I ragazzi, che erano gli ospiti d’onore, erano crollati presto, ed erano stati portati a dormire in un hotel vicino al ristorante. Solo Sabrina, pur avendo bevuto più dei suoi amici, era andata a dormire reggendosi sulle sue gambe.
Adesso, dopo una bella nottata di sonno e una sostanziosa colazione, i postumi della sbornia si erano affievoliti. I ragazzi si erano preparati al ritorno, vestendosi con gli abiti che avevano quando si erano ritrovati all’interno della grotta, sulla Mesa de Arena. Dopo colazione Sabrina aveva spiegato ai suoi amici cosa era accaduto il giorno prima: infatti da quando aveva detto a Tinetta che sarebbero stati portati a visitare la città, non aveva più avuto occasione di aggiornarli. Avevano capito anche da soli che le cose si erano sistemate, ma Sabrina spiegò loro tutto, nei dettagli.
-Che avventura incredibile- pensò Sabrina. -Da un bel pezzo nessuno di noi si chiede nemmeno più come siamo finiti qui; ci siamo e basta-.
Pearson interruppe i suoi pensieri, chiamandola: «Sabrina?».
Ebbe un leggero sobbalzo. «Oh…. scusi, giudice; ero distratta».
«Non è niente» disse lui. «Volevo avvisarti che siamo pronti a partire».
Lei guardò la diligenza. Mulligan e Samson, a cassetta, aspettavano solo di caricare i passeggeri.
Sabrina andò dunque ad avvertire gli altri. -Bene- pensò, -il momento della verità si avvicina. Ancora poco e si saprà se riusciremo a tornare a casa oppure no-.
“Siamo pronti a partire, ragazzi” disse. Un coro festoso si alzò dal gruppo dei suoi amici; corsero verso la diligenza. Johnny esclamò: “Si torna a casa, finalmente!”.
Sabrina lo osservò, sorridendo dolcemente. -Vorrei avere la tua sicurezza, Johnny- pensò. -Lo vorrei davvero-.
 
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Sabrina e Pearson seguirono la diligenza a cavallo.
Sabrina approfittò della cavalcata accanto al giudice per raccontargli tutto ciò che avevano vissuto da quando erano scappati dal Black Arrow, lasciandolo per morto.
Pearson ascoltò ogni parola, rammaricandosi sempre più di essere stato la causa, seppur involontaria, di tutti i guai di Sabrina e dei suoi amici.
Mulligan e Samson, seduti a cassetta, condussero la diligenza fino alla Mesa de Arena. Johnny, Tinetta, Renato, Manuela, Simona, Michael e Carlo avevano viaggiato come passeggeri. Quando si fermarono, Johnny fu il primo a scendere. Posando piede a terra, guardò la Mesa sopra di sé.
-Quanto tempo per tornare qui, accidenti- pensò. -Finalmente ci siamo-.
Infine, era giunto il momento dei saluti.
I ragazzi strinsero la mano a Pearson, Mulligan e Samson. Si salutarono, e pur non capendo le rispettive lingue, sapevano che si stavano dicendo addio. Poi i tre uomini si avvicinarono a Sabrina, che accarezzava per l’ultima volta Dinamite.
“Addio, amico” gli disse. Dinamite nitrì, come se avesse capito.
«Sta tranquilla» gli disse Pearson. «Ci occuperemo noi di lui».
«Si» disse lei. Sapeva che lo avrebbero trattato bene.
«Ascolta» le disse Samson. «Ho un amico che ha un grande allevamento di cavalli. E’ molto esperto; potrei portarlo lì, se sei d’accordo».
Sabrina ci pensò un attimo. «Mi basta che sia trattato come merita. E’ un cavallo fantastico».
«Infatti» concordò Samson. «Proprio per questo te ne ho parlato. E’ un allevamento che si trova in Texas, dalle parti di Laredo, ed è molto rinomato; Dinamite potrà cavalcare quanto vorrà, e sarà accudito e nutrito dal personale più competente e riguardoso che tu possa immaginare».
«Sembra un bel posto» commentò Sabrina.
«Lo è. Lo conosco anche io» confermò Mulligan.
«Inoltre, in onore di questo superbo animale e in tuo ricordo, chiederò a quel mio amico di chiamare Dinamite il primo figlio che avrà il tuo cavallo, come suo padre, e di chiamare allo stesso modo ogni primo figlio dei suoi discendenti, maschio o femmina che sia. Che ne dici?» aggiunse Samson.
Sabrina sorrise, a quell’idea. Se davvero fosse iniziata una simile tradizione, nel suo lontano futuro lei avrebbe potuto incontrare un discendente del suo Dinamite, chiamato allo stesso modo.
Era una bella prospettiva, pur se molto improbabile. Comunque sognare che fosse possibile non costò niente.
Alla fine, giunse anche il momento di salutare Pearson. «Mia cara» le disse lui, «grazie per l’amicizia che mi hai dimostrato».
«Grazie a lei, giudice» rispose la ragazza. « »
«Se mai tornerai da queste parti, vieni a trovarmi».
«Senz’altro». Fu triste, per lei, non potergli dire che non ci sarebbe mai più stata l’occasione di andarlo a trovare.
Si strinsero la mano, poi il giudice le si avvicinò e la baciò in fronte, cogliendola un po’ di sorpresa.
«Addio, mia cara ragazza. Sii felice» e si allontanò.
Lei rispose, con voce sommessa: «Addio».
Mulligan era già al suo posto di conducente, mentre Samson montava Dinamite; aspettavano Pearson. Quando il giudice fu salito in sella, tutti e tre si avviarono senza fretta in direzione di Tucson. I ragazzi li osservarono allontanarsi. Quando scomparvero dalla vista, Johnny fu il primo a rompere il silenzio. “Che stiamo aspettando? La nostra grotta ci aspetta”.
“Già” disse Michael, osservando la parete scoscesa. “Sarà una bella scarpinata, fin lassù”.
Sabrina si avvicinò alle pendici della Mesa, dicendo: “Forza, pelandroni, in marcia” e iniziò la salita.
Johnny ebbe la netta impressione che fosse turbata; si chiese perché, ma in pochi istanti lo comprese. Sabrina aveva comunicato con le persone incontrate, aveva fatto amicizia, si era integrata e si era fatta benvolere. Lei si era immersa del tutto in quel mondo, mentre loro erano sempre stati semplici ospiti, ignari di quel che accadeva finché Sabrina non li metteva al corrente dei fatti. Per loro, quel periodo non era stato molto diverso da una lunga scampagnata (certo molto più movimentata), ma per lei aveva rappresentato un coinvolgente, intenso periodo di vita.
E gli aveva appena detto addio.
Sabrina si voltò; aveva già percorso un buon tratto. “Coraggio, ragazzi” disse, con uno strano sguardo premuroso e triste allo stesso tempo, “tra poco saremo di nuovo tutti a casa”.
Gli altri la seguirono, sperando che avesse ragione. Ognuno di loro, infatti, sapeva in cuor suo che non c’era alcuna certezza di riuscire a ripetere il viaggio in senso inverso, ma nessuno lo disse a voce alta. In quel momento, con la meta così vicina, non c’era altro da fare che avere fiducia, piena fiducia nel ritorno.
 
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“Bene, e adesso?” chiese Renato, quando raggiunsero la grotta. Carlo e Michael si sdraiarono letteralmente a terra. “Adesso riposiamoci un po’, per favore” disse Carlo, col fiato grosso.
“Che pappemolli” commentò Renato.
“Ehi! Abbi rispetto, noi siamo più grandi” lo rimproverò Michael.
“Si, certo” disse Renato; avevano già avuto quello scambio di battute, e non aveva voglia di entrare di nuovo nell’argomento. In realtà anche lui era molto stanco, ma non voleva darlo a vedere per impressionare Tinetta. Si guardò in giro, però, e si accorse che tutti erano malconci e sfiatati; la salita era stata a dir poco massacrante, a causa di quel fondo sabbioso che tanto tempo prima li aveva invece agevolati nella discesa. Allora si sentì autorizzato a mostrarsi stanco anche lui, e si sedette sospirando di sollievo.
Johnny, dopo qualche minuto di riposo, si alzò e si diresse verso il fondo della grotta.
“Dove vai, tesoruccio?” gli chiese Tinetta.
“Spero per lui che abbia qualche idea sensata su cosa fare” disse Renato. “E’ stata sua la trovata di tornare qui, e adesso voglio proprio vedere che intenzioni ha”.
“Beh, non mi pare che tu abbia avuto pensate migliori” replicò Tinetta. “Almeno il mio Johnny fa un tentativo”.
Quello di Johnny era davvero un tentativo: non c’era alcuna garanzia di riuscita, nonostante l’aiuto del nonno.
Manuela seguì suo fratello, fingendo di essere preoccupata per lui: “Johnny, non ti inoltrare nella grotta da solo. Rischi di perderti”.
Veloce, lo raggiunse. Lui si aspettava di essere seguito, sua sorella era sveglia. Almeno quella sorella.
“Johnny, qual è il piano?” gli chiese Manuela, sottovoce.
“Non è complicato. Dobbiamo fare in modo che ci sia contatto fisico tra tutti noi. Dobbiamo essere collegati l’uno all’altro, e poi io, te e Simona dovremo concentrarci sul nonno. Credo che lui sappia come agire”.
“D’accordo” disse Manuela. “Lascia fare a me, andiamo”.
La ragazza si incamminò, e lui la seguì.
“Allora?” chiese Renato quando li vide ricomparire. “Scommetto che quell’imbranato si era perso”.
“Niente affatto” rispose Johnny. “Stavo esaminando il terreno”.
“Oh, bella idea” commentò Renato, sarcastico.
“Falla finita, Renato” ribatté Tinetta.
Manuela approfittò di quel battibecco per avvicinarsi a Simona. Le sussurrò: “Prendi per mano Carlo”.
“Eh?” fece sua sorella.
“Prendi per mano Carlo!” disse perentoria Manuela, però sempre a bassa voce. “E’ l’unico modo per tornare a casa! Credimi! Io e Johnny abbiamo un piano”.
“Che razza di piano è?” domandò Simona.
“Simona, poi ti spiegheremo tutti i dettagli; per ora fa come ti dico: prendi per mano Carlo, con una scusa”.
“Non credo ci sarà bisogno di scuse”.
“No” concordò Manuela, “ma in questo caso è una fortuna. Ascolta, tu prendilo per mano, poi quando te lo dirò concentra tutto il tuo potere per tentare di collegarti telepaticamente al nonno, va bene?”.
“Il nonno? Ci aiuterà lui?”.
“Si, ma fai come ti ho detto. Prendigli la mano e non lasciarla per nessun motivo!”.
Simona, controvoglia, si avvicinò a Carlo, e senza dire niente gli prese la mano.
Michael era sbalordito: “Che coooosa!?”.
Carlo restò immobile per un secondo, poi sbuffò come un toro, e tentò di abbracciare Simona, esclamando: “Simonaaaa, mia caraaaaa!”.
Michael lo bloccò.
“Cosa fai?” gli chiese Carlo, arrabbiato.
“Non fare l’animale” disse Michael, “un gentiluomo non si comporta in questo modo”.
“E da quando tu sai come si comporta un gentiluomo?”.
“Non essere offensivo”.
“So io perché mi hai bloccato, sei invidioso del nostro amore” disse Carlo.
“Non dire assurdità….”. In quel momento Manuela prese la mano di Michael, dolcemente.
Michael restò immobile per un secondo, poi sbuffò come un puledro, e tentò di abbracciare Manuela, esclamando: “Manuelaaaa, mia caraaaaa!”.
Carlo lo bloccò.
“Cosa fai?” chiese Michael, arrabbiato.
“Non fare l’animale” disse Carlo, “un gentiluomo non si comporta in questo modo”.
“Ah, è così, eh?” sibilò Michael.
“Si, è così” replicò Carlo.
Poi Michael disse: “Ma, un momento, perché dobbiamo litigare tra noi?”.
“Già” concordò Carlo che capiva al volo le intenzioni del suo ignobile socio. “Perché perdiamo tempo a litigare, quando abbiamo le nostre belle ragazze a portata di mano?”. Ognuno di loro si voltò verso la ragazza che gli teneva la mano, e tentò di saltarle addosso.
In quel momento, però, Johnny si gettò furibondo sui due, gridando: “Aaaargh!! Non toccate le mie sorelle, animaliiiiii!!!!”. Il piano di Manuela stava funzionando. Neanche Johnny aveva capito che era stata un’idea di sua sorella. In breve, si ritrovarono tutti e cinque avvinghiati a terra.
Manuela gridò: “TINETTAAA! JOHNNY SI E’ FATTO MALEEE!”.
Renato chiese, felice: “Davvero?”, ma Tinetta, invocando il suo tesoro, si buttò nella mischia.
Di nuovo Manuela gridò: “RENATOOO! JOHNNY APPROFITTA DELLA SITUAZIONE PER INSIDIARE TINETTA!”.
“COOOSAAA!? MALEDETTO!!!!”. Un istante dopo, anche Renato si fiondò nel mucchio urlando ferocemente.
Restava solo Sabrina, che non sapeva cosa fare. Se avesse avuto ancora la pistola avrebbe sparato in aria. Manuela però non le diede il tempo di preoccuparsi oltre; col potere, spostò l’intero gruppo di litiganti verso Sabrina, che non fece in tempo a scansarsi e fu risucchiata nella mischia.
Manuela lanciò il segnale: “Johnny, Simona, oraaaaa!!!!”.
Johnny capì dunque che quello era un sistema di Manuela per ottenere quel che serviva, cioè che fossero tutti in contatto fisicamente. I tre fratelli si concentrarono sul nonno, incrociando mentalmente le dita.
Funzionò, anche se nei primi momenti nessuno se ne accorse, a causa del trambusto. Poi qualcuno disse: “Ahio! Fermi!”.
Per qualche istante ancora continuarono ad azzuffarsi, poi le esclamazioni di dolore si moltiplicarono.
“Ahi! Ma cosa c’è?”.
“Ah! Che botta! Fermi!”
Allora smisero di accapigliarsi, e si guardarono intorno. Ma vedevano poco o niente, l’oscurità era quasi totale.
“Ma che succede?” chiese Tinetta. “Il sole non può essere già tramontato”.
Poi Michael disse, con voce che vibrava d’eccitazione: “Ehi, sentite qui!”.
“Cosa c’è?” chiese Sabrina.
“Sentite!” insisté lui; era chinato e aveva una mano posata a terra. “Stavo tastando il terreno per capire cosa fosse quella cosa durissima contro cui siamo andati a sbattere e che ci ha fatto fermare, e sentite cos’era”.
Gli atri si abbassarono e tastarono il terreno con le mani. Quando incontrarono i binari urlarono di gioia.
“Binari!” esclamò Jhonny. “Siamo in una galleria ferroviaria!”.
Nel tripudio generale, si abbracciarono l’un l’altro. “Ce l’abbiamo fatta! Siamo tornati a casa!”.
 
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Seguirono la strada ferrata per un bel pezzo, facendo attenzione a non farsi travolgere dai treni che passavano su quella linea; cercarono di fermarne un paio, sbracciandosi e urlando, ma il massimo che ottennero fu la risposta della sirena.
“Beh, seguendo la ferrovia, prima o poi arriveremo in una stazione” disse Johnny.
Era una giusta osservazione, e d’altronde non avevano alternative.
Riconobbero il paesaggio che attraversavano; era lo stesso che vedevano dal treno il giorno della loro sparizione.
“Chissà” disse Sabrina, “forse siamo tornati nella stessa galleria dalla quale eravamo partiti”.
Nessuno lo sapeva, ma era una possibilità; in ogni caso, quello adesso li interessava poco. Volevano soltanto giungere in un luogo abitato.
“Non vedo l’ora di raccontare a tutti quel che è successo” disse Michael.
“Si, anche io” concordò Carlo.
Se qualcuno avesse scommesso una montagna di soldi che il prossimo commento dei due avrebbe riguardato le ragazze, avrebbe vinto due montagne di soldi.
“Ci pensi? Saremo i ragazzi che hanno viaggiato nel tempo!” disse Michael. “Saremo famosi, andremo in televisione! Le ragazze faranno i salti mortali per conoscerci!”.
“E pensare che noi ci accontenteremmo anche di quelle che fanno i salti normali” disse Carlo, eccitato da quella prospettiva. “Anzi, di quelle che camminano e basta, pure lentamente”.
“Mi spiace deludere le vostre speranze” disse Johnny, “ma sul serio pensate che andrà così?”.
“Perché non dovrebbe?” chiese Michael. “Tu sei invidioso delle nostre donne”.
“Certo, come no” mormorò Johnny.
“Anche a me piacerebbe andare in tivù, tesoro” disse Tinetta. “Anche io credo che diventeremo famosi”.
“Temo che Johnny abbia ragione” disse Sabrina.
“Eh? Perché?” chiese Renato, sconfortato; anche lui sperava di diventare famoso.
“Perché la gente non ci crederà” rispose Sabrina. “Penseranno che ci siamo inventati tutto o ce lo siamo sognato”.
Carlo, Michael, Tinetta, Renato si guardarono sconcertati. “Ma…. ma racconteremo tutti la stessa storia” disse Michael. “Siamo scomparsi per tanto tempo, dovranno crederci”.
“Non abbiamo prove” disse Johnny. Gli altri faticavano a riconoscere quella verità; la loro grandiosa avventura sarebbe passata per un’invenzione?
In effetti, non avevano prove: erano vestiti con gli stessi abiti con cui erano partiti dalle loro abitazioni, e gli unici oggetti che avevano erano lo zaino di Michael e la sacca con l’attrezzatura da baseball trovata nel treno.
Johnny aveva convinto i suoi amici a lasciare nel west tutto quello che avevano trovato nel corso dell’avventura, perché non erano cose loro; sarebbe equivalso a rubare, aveva detto.
In realtà, non voleva che i suoi amici portassero nel futuro testimonianze del viaggio temporale; era meglio essere considerati bugiardi o mezzi matti, che scatenare troppa curiosità intorno a quel caso. Johnny non voleva mettere a rischio il segreto di famiglia.
“Io non mi arrendo!” disse Carlo. “I miei genitori mi crederanno, e tutti i nostri amici a scuola”.
“E’ vero!” concordò Michael. “Racconteremo tutta la storia e avremo le ragazze!”.
“Siiiiii! Avremo le ragazze!” approvò Carlo, entusiasta.
Johnny si strinse nelle spalle: lasciarli illudere non costava niente.
 
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Qualche ora dopo, i ragazzi arrivarono alla stazione di un piccolo paesino, e da lì chiamarono le rispettive famiglie. La polizia li sorvegliò, finché non arrivarono i loro genitori. L’incontro fu caotico e gioioso. Il padre di Johnny abbracciò felice i tre figli, e tutti gli altri fecero altrettanto coi propri. Anche Sabrina, con sua enorme sorpresa, vide arrivare la sua famiglia al gran completo: padre, madre e sorella.
“Ma…. cosa ci fate qui?” chiese, incredula.
“Quando abbiamo saputo che eri scomparsa, ci siamo precipitati in Giappone” rispose sua madre.
“Ma avrete atteso settimane! In questo modo avete perso importanti impegni di lavoro” disse Sabrina.
I suoi genitori e sua sorella si guardarono perplessi, poi suo padre le disse: “Ma che dici, Sabrina? Noi siamo arrivati ieri”.
“Ieri? Ma avete detto di esservi precipitati qui non appena saputo della mia scomparsa!”.
“Appunto” disse sua madre. “Tu e i tuoi amici siete spariti due giorni fa”.
 
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Quando Johnny, Simona e Manuela rientrarono finalmente in casa propria, seguiti dal padre, riabbracciarono con gioia la nonna ed Ercole, che erano rimasti a casa.
“Vostro nonno sarà felice di rivedervi” disse la nonna.
“E’ già qui?” chiese Johnny.
“No” rispose lei. “Ma ha telefonato poco fa. Gli ho detto che eravate tornati”.
Johnny e le gemelle non vedevano l’ora di riabbracciare il nonno, che era stato determinante per il loro ritorno.
Si sedettero, esausti.
“Che bello, il divano!” disse Simona. “Dopo tutto quel tempo in sella ai cavalli mi sembra un sogno”.
“Volete che vi prepari del tè, ragazzi?” chiese la nonna.
“Si, che bello” risposero praticamente all’unisono i tre nipoti.
“Incredibile” disse Manuela dopo qualche secondo. “Siamo tornati indietro solo due giorni dopo la nostra scomparsa. Sarà merito del nonno?”.
“Chissà” rispose Johnny stringendosi nelle spalle. “L'unica cosa certa è che questo è un vantaggio per noi; una sparizione di un paio di giorni creerà mano scalpore e sarà più facile da spiegare di una molto lunga”.
“Già” concordò Manuela. “I nostri amici erano davvero sconvolti! Forse ora si convinceranno di aver sognato tutto”.
“Mmmh, magari sarebbe meglio” commentò Johnny.
Il padre dei ragazzi disse: “Non vedo l’ora che mi raccontiate tutta la vostra storia”.
“E’ incredibile, papà!” disse Simona, entusiasta. “E’ lunghissima, io sono indiana e ho bevuto il succo di frutta e ho fatto scoppiare le candele e ho fatto girare tanti cavalli! Forte, eh?”.
“Ehm…. si….” disse l’uomo, per non deludere la figlia. “Fantastico! Davvero fantastico!”.
Poi si chinò verso Johnny. “Ha battuto la testa, per caso?” chiese.
“No” rispose il ragazzo. “Ha detto la verità, anche se ha fatto un riassunto”.
“Oh, capisco” disse suo padre, ma naturalmente non aveva capito niente.
D’ improvviso, il nonno apparve nella stanza.
“Ciao” disse.
“Nonno!” esclamarono i nipoti e corsero ad abbracciarlo.
La nonna arrivò dalla cucina, col tè. Salutò il marito: “Bentornato, caro. Vuoi una tazza di tè?”.
“No, grazie” disse il nonno. “Devo scappare”.
“Ma come, devi andartene?” gli chiese Johnny. “Sei appena arrivato dall’America”.
“America?” disse la nonna. “E cosa saresti andato a fare in America?”.
Il nonno fece sedere tutti, ma non fece altrettanto. Si rivolse a Johnny, ma parlava per l’intera famiglia.
“Tanto per cominciare, ragazzi, sono felice che siate tornati sani e salvi. Se ve lo siete chiesti, sappiate che sono stato io a farvi ricomparire due giorni soltanto dopo la vostra scomparsa”.
“Ce lo eravamo chiesto” disse Johnny.
“Io però non appartengo a questo tempo” continuò il nonno.
I tre fratelli si guardarono, senza capire.
“Sono comparso in questa stanza, adesso, solo per accertarmi che steste bene e per spiegarvi come stanno le cose. Vi ho fatti tornare molto tempo indietro, ma appartengo al futuro, quello in cui voi siete spariti da settimane e io sono venuto fino in Arizona per cercarvi”.
“Arizona?” chiese il padre dei ragazzi.
“Esatto” confermò il nonno. “Comunque, dovete capire che ADESSO il nonno di questo tempo è
alla vostra ricerca. Visti i tempi, dovrebbe essere di ritorno tra poco, dopo aver preso il vostro stesso treno, alla stessa ora in cui lo avevate preso voi, senza però esser venuto a capo di nulla.
Lo so perché è ciò che ho fatto io, il secondo giorno successivo alla vostra scomparsa. Quindi non possono esserci due me in questo tempo, vi pare? Io devo tornare nel futuro che mi appartiene”.
“Ma la nonna prima ha detto che avevi chiamato” obiettò Manuela.
“Ha chiamato il nonno del tempo attuale, dalla stazione. Questo intendevo” spiegò la vecchia. “Tra poco tornerà”.
“E noi?” chiese Johnny. “Dove saremo?”
“Sarete nel futuro dove vado io adesso, naturalmente, visto che siete tornati a casa oggi. Tra qualche settimana mi vedrete comparire in salotto, in questo stesso punto, e saprete che sono io, partito da questo momento. Per voi saranno passati molti giorni, per me solo un istante. L’istante del viaggio nel tempo”.
“Che confusione!” esclamò Simona. “Non ci ho capito niente, ma non voglio che te ne vai, nonnino!”.
“Simona, scomparirò adesso, ma tornerò qui tra poco, dalla stazione”. Poi si rivolse alla moglie.
“Spiega tu al me stesso attuale cosa ho fatto. Io devo andare”.
“Certo” rispose la moglie.
“Ciao a tutti. Ci vediamo in questo stesso salotto, nel futuro”. Detto questo, il vecchio scomparve.
Quando, pochi minuti dopo, il nonno del tempo attuale tornò a casa, per prima cosa abbracciò i nipoti, felice; poi la moglie gli spiegò ogni cosa.
“Oh, capisco” disse lui. “Ciò vuol dire che non potremo tornare a casa nostra prima che io ricompaia nel futuro. Dovrete ospitarci a lungo, ragazzi”.
“Che bello!” esclamarono i nipoti. “Che bello!”.
“Ma perché, nonno?” domandò Serghej.
“Perché l’altro ricomparirà qui, e se io sarò da un’altra parte finirò per sdoppiarmi, e ci saranno due me in giro. Se invece resterò qui, proprio dove apparirà, ci ricongiungeremo automaticamente, e tutto tornerà a posto”.
“Ma allora quel che ha fatto il nonno del futuro sarà cancellato?” chiese Manuela.
“No” rispose la nonna. “Nell’attimo del ricongiungimento, il nonno attuale conoscerà tutto ciò che ha fatto il nonno del futuro: sono la stessa persona, Manuela, solo in due momenti diversi”.
“Uffa!” disse Simona. “Io mi sarei divertita tantissimo con due nonnini!! Avrei avuto doppi regali”.
“Simona” la rimproverò Manuela. “Non essere egoista!”.
“Uffaaaa!” ribadì Simona.
Johnny si alzò, sbadigliando.
“Io sono stanchissimo” disse. “Ti chiedo scusa, papà, ma per oggi non credo di poterti raccontare nulla. Ho proprio bisogno di una buona dormita”.
“Sta tranquillo, Johnny” gli disse suo padre. “Avremo tempo di parlare”.
Johnny si avviò verso la sua camera, dicendo: “Buonanotte”.
Quando vide il suo vecchio, amato letto, quasi si commosse. Vi si buttò sopra a peso morto; la stanchezza degli ultimi avvenimenti lo travolse. Tentò di riordinare i pensieri, per prepararsi a ciò che avrebbe dovuto fare l’indomani, ma ogni sforzo di restare cosciente fu vanificato dal torpore. In meno di due minuti, era immerso in un sonno profondo.
 
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Per quanto incredibile potesse sembrare, poco tempo dopo la ricomparsa di Johnny e degli altri, tutto era tornato alla normalità.
Come aveva previsto Johnny, il fatto che fossero spariti per soli due giorni tolse presto ogni interesse all’avvenimento.
Mentre camminava lungo i corridoi della scuola durante la pausa pranzo, Johnny pensò che, nonostante fosse passata una sola settimana dalla conclusione della loro avventura nel west, già quelle vicende sembravano una sorta di sogno lontano.
Nel corridoio incrociò Sabrina.
“Ciao” salutò lei.
“Ciao” ricambiò lui.
Si incamminarono verso la loro aula.
“Com’è andato il test di matematica?” domandò Sabrina.
“Non chiederlo” rispose Johnny, afflitto al solo pensiero.
“Johnny! Questo test era importante” lo rimproverò Sabrina. “Non era neppure difficile”.
“Per te, non era difficile”.
Chiacchierando del più e del meno, raggiunsero la classe. Come di consueto, sentirono Michael e Carlo descrivere le loro avventure ai compagni.
“Allora io e Carlo siamo fuggiti dal ranch Black Arrow, inseguiti dagli uomini del padrone, che ci sparavano addosso”.
“Si, eravamo pericolosi fuorilegge! Il west era costellato di avvisi di taglia con sopra le nostre facce. La testa di ognuno di noi valeva 4000 dollari”.
“Poi abbiamo vissuto con gli indiani, e ci siamo costruiti da soli la casa”.
“Si, e abbiamo derubato i soldati delle uniformi”.
I compagni si sorbivano quelle storie da una settimana. Uno chiese: “Come avete potuto fare tutto questo in così poco tempo? Fatela finita”.
“Te l’ho già spiegato” disse Michael. “Quando siamo tornati nel nostro tempo, qui erano passati solo due giorni”.
Nessuno, ovviamente, gli credeva. Ormai tutta la scuola li prendeva in giro. Quando passavano nei corridoi, gli altri ragazzi estraevano immaginarie pistole dalle fondine e le puntavano su Michael e Carlo, dicendo: “Ehi, voi fuorilegge; siete morti” e fingevano di sparare.
Quando videro Johnny e Sabrina, i due li chiamarono in causa. “C’erano anche loro; diteglielo voi, ragazzi, che abbiamo vissuto in Arizona, nel west”.
“E’ la verità” confermò Sabrina.
“Sentito?” disse Carlo.
Ma nessuno li ascoltava più.
Michael e Carlo si arresero, sconsolati. Il giorno dopo avrebbero senz’altro ripreso a raccontare ciò che era successo, e il giorno dopo ancora, e il successivo, e sarebbero andati avanti ancora un bel pezzo, probabilmente. Prima o poi, però, si sarebbero stancati.
Sabrina non voleva mentire: aveva detto la verità, quando Carlo gli aveva chiesto di confermare davanti alla classe le parole sue e di Michael. Aveva sempre detto la verità, in quei giorni. Per quel che valeva, tanto…. nessuno credette mai a quella storia.
Vedendoli così abbattuti, Johnny disse: “Che ne dite, andiamo a farci un panino?”.
Carlo, dopotutto, non aveva perso l’appetito. “Purché sia il panino con la cotoletta!”.
“Faremo il possibile”.
Uscirono. Nel corridoio, come se li avessero chiamati, comparvero gli altri quattro compagni di avventure.
Tinetta e Renato avevano raccontato ai compagni le stesse cose di Michael e Carlo, con gli stessi risultati. Beh, quasi: nessuno prendeva in giro apertamente Tinetta e Renato, perché ne avevano paura.
Anche Simona aveva sempre detto la verità, ed era l’unica alla quale veniva dato un po’ di credito. Simona, infatti, era troppo ingenua e candida per inventarsi una storia del genere, lo sapevano tutti.
I suoi compagni dicevano allora che doveva aver sognato. Johnny e Manuela non le avevano impedito di raccontare tutto proprio perché se lo aspettavano.
Gli otto, comprati dei panini, andarono a mangiarli sul tetto della scuola.
“Uffa” disse Renato, “non mi va di passare per bugiardo o svitato”.
“Se almeno avessimo portato via con noi qualcosa dal west, ora avremmo delle prove” si lamentò Michael.
“Abbiamo vissuto un’avventura favolosa, e nessuno crede a una sola parola” disse Carlo. “Neppure i miei genitori mi credono: mi hanno mandato da un dottore, perché avevano paura che avessi battuto la testa”.
A Johnny spiaceva sapere i suoi amici in quella situazione, ma lui li aveva avvisati che nessuno avrebbe preso sul serio quella storia.
Mangiarono, silenziosi, per qualche minuto.
Poi Michael si alzò. “Io torno in classe”.
“Vengo anche io” disse Carlo.
Erano degli squilibrati, ma faceva male vedere quei due, sempre frenetici al limite della follia, andarsene così mogi.
Tinetta, assorta, stava guardando oltre la rete di protezione che delimitava il terrazzo.
“Però” disse, “non possiamo biasimare i nostri compagni, non credete?”.
Michael e Carlo, che erano quasi sulla porta, si fermarono ad ascoltare.
Tinetta continuò: “Se qualcuno, prima che vivessimo tutto questo, fosse venuto a raccontarci quello che raccontiamo noi, l’avremmo preso per matto”.
Gli altri si scambiarono uno sguardo; non potevano negarlo.
“Oh, beh, anche io devo tornare in classe” concluse Tinetta, voltandosi verso i suoi amici.
“Ciao, tesoruccio!” esclamò saltando in braccio a Johnny, all’improvviso.
Johnny ne fu imbarazzato, e Renato lo guardò con odio. Michael e Carlo gli fischiarono dietro: “Piccioncini, a quando le nozze?”.
“Oooh, non prendeteci in giro, stupidi” disse Tinetta, scendendo dalle braccia del suo amato. Si allontanò salutandolo.
“Tutto come sempre, eh?” commentò Sabrina.
“Eh, si” concordò Johnny. “Tinetta è inaffondabile”.
Ormai giunta alla porta di accesso al tetto, Tinetta si fermò, e si voltò verso gli amici.
“Sapete?” disse. “Mi hanno ripetuto talmente spesso che questa storia me la sono sognata, che quasi quasi comincio a crederlo davvero”.
Gli altri non seppero cosa dire. “Ma so che era realtà” continuò la ragazza. “Anche se a questo punto non credo faccia molta differenza. Comunque, sapete una cosa? Realtà o sogno che fosse, mi sono divertita a vivere questa avventura con voi. Non avrei voluto altri compagni accanto all’infuori di voi. Oh, faccio tardi. Ciao ragazzi”. Si voltò e corse giù per le scale.
I suoi amici, confusi e imbarazzati, non aprirono bocca per molti secondi.
Con le sue classiche ingenuità e semplicità, Tinetta aveva spiazzato e commosso tutti.
“Beh, noi dobbiamo andare” disse Michael.
“Già” confermò Carlo.
“Anche noi dobbiamo scendere” disse Manuela, avviandosi con la sorella verso la porta.
“Vengo anche io” disse Renato.
Si incamminarono tutti insieme, ma Sabrina li chiamò. “Ragazzi”. Gli altri si fermarono e si voltarono verso di lei.
“Che ne dite” chiese Sabrina, con un lieve sorriso, “vogliamo scioglierla questa banda degli Stranieri?”.
I suoi amici si guardarono l’un l’altro, poi Simona esclamò: “Cavolo, no! Dobbiamo prima saccheggiare tutti i frigo del mondo!”.
Quella uscita, tipica di Simona, fece scoppiare tutti a ridere. I ragazzi si avviarono, divertiti, giù per le scale.
Sabrina e Johnny restarono soli sul tetto.
“Allora?” chiese Johnny. “Tu pensi di aver sognato?”.
“Io? No, so che era tutto vero” rispose lei.
“Come fai ad esserne così sicura?” domandò Johnny, curioso.
“Perché ho una cosa che mi conferma la realtà di quei fatti”.
“Cosa?!” domandò lui. “Di che si tratta?”.
Lei lo guardò, sorridendo. “Ce l’ho proprio qui” disse, infilando una mano in tasca; con un sorriso malizioso, avvicinò il viso a quello del ragazzo. “Vuoi saperlo davvero, Johnny?”.
“Io…. si…. vorrei saperlo” rispose lui, confuso.
“E allora devi prendermi” disse lei allontanandosi repentinamente. Sfilò dalla tasca l’oggetto di cui aveva parlato, ma lo nascose nella mano.
“Ehi!” esclamò Johnny. “Dimmelo, cos’hai?”.
“Non te lo dico!” disse lei mentre correva per il tetto, inseguita dal ragazzo. “Lo saprai se riuscirai a prendermi!”.
“Ah, si?” disse lui. “Non puoi sfuggirmi, lo sai?”.
“Sfuggirti è uno scherzo” replicò lei facendogli una boccaccia.
Ma Johnny, con uno scatto che la ragazza non si aspettava, la raggiunse e la bloccò.
Nel momento in cui la prese, però, a Sabrina sgusciò di mano l’oggetto, che cadde dalla terrazza, nel grande giardino sottostante.
“Oh, no!” esclamarono i due, affacciandosi in basso per quanto permetteva la rete di protezione.
Johnny non aveva visto cos’era. “Mi dispiace, Sabrina” disse. “Sono mortificato, davvero”.
“No, non importa” disse lei, gentile. “Forse lo ritroverò. Più tardi andrò a cercarlo”.
Dopo un attimo, Johnny, esitante, chiese: “Non vuoi dirmi cos’era?”.
“No”.
“Per favore”.
“Ti ho detto che l’avresti saputo se mi avessi presa”.
“Ma ti ho presa!”.
“A me non sembra!” disse lei riprendendo a correre verso la porta che dava sulle scale.
“Ehi, non vale! Ti avevo catturata!”.
“Ma io sono riuscita a fuggire. Non dimenticare che sono una dei terribili Stranieri; valgo 4000 dollari!”.
Johnny, serio, le disse: “Per me vali molto di più”.
Lei si immobilizzò per un momento. Poi chiese: “Veramente?”.
“Si”.
Per un attimo, si scambiarono uno sguardo d’intesa profonda.
Poi lei disse: “E allora, a maggior ragione, devi prendermi”. Puntò un’immaginaria pistola verso Johnny, e gli disse: “Ricorda: Dead or Alive”.
“Allora questa è una sfida” ribatté lui.
“Direi proprio di si”.
Johnny partì di corsa, ma stavolta Sabrina era pronta e scattò verso la porta.
“Dovrai sudare per prendermi!”.
“Forse” disse lui. “Ma ti prenderò”.
-Ti prenderò, ad ogni costo- pensò, mentre si lanciava all’inseguimento del suo unico desiderio.
 
Qualche decina di metri più in basso, sul terreno, l’oggetto caduto poco prima a Sabrina rifletteva i raggi del sole. Un corvo ne fu attratto; si alzò in volo, e vi si posò vicino: lo raccolse col becco, e spiccò di nuovo il volo. Lo posò nel suo nido. Aveva raccolto molti altri oggetti luccicanti, ma nessuno bello come quel dollaro d’argento.

Fine

Sandro Lunghini
  
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