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Autore: evelyncla_Trixie    22/01/2014    3 recensioni
FanFiction a quattro mani, ad opera di evelyn_cla e _Trixie_
Dal prologo:
Regina inspirò a fondo il familiare profumo di Henry, prima di scioglierlo dal suo abbraccio e di lanciare una breve occhiata alla donna che lo aveva riportato a casa.
«Cosa è successo?» domandò, senza soffermarsi sui tratti dell’altra troppo a lungo.
Eppure, quel breve sguardo aveva ricordato a Regina dei lineamenti fin troppo noti, ma in cuor suo sapeva che non poteva assolutamente trattarsi di lei.
Non ci fece caso subito, perché suo figlio –il bambino che aveva allevato con amore e devozione per undici anni- le gridò contro quelle poche parole che Regina aveva sperato di non sentire mai.
«Ho trovato la mia vera madre!»
[SwanQueen]
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Regina Mills
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo I



 
Regina sbuffò, arrotolandosi il lenzuolo intorno al corpo e voltandosi sul lato sinistro, tentando disperatamente di chiudere gli occhi e, con essi, di chiudere fuori i pensieri. Eppure le era quasi impossibile riuscire a farlo: quello che era successo appena un’ora prima era ancora vivido nella sua mente.
Non riusciva a spiegarsi tutto quello che stava succedendo. Non era possibile che Emma fosse lì. Anzi, non era possibile che Emma fosse viva. Non lei, non la sua Emma.
Eppure le erano bastati pochi minuti di conversazione con lei, davanti ad un bicchiere di buon sidro, per avere di fronte la pura e semplice evidenza. La ragazza che era appena arrivata in città era Emma, in tutto e per tutto.
Tranne che per un minuscolo dettaglio.
Non si ricordava di lei.
E questo poteva significare una sola cosa, cioè che anche Emma, in un modo o nell’altro, era stata raggiunta dalla maledizione.
Regina rotolò sulla schiena, fissando l’anonimo soffitto della sua camera da letto, e scalciò con rabbia le coperte. Si impose di calmarsi e di analizzare con raziocinio la situazione.
Doveva esserci una spiegazione, una spiegazione semplice e ovvia, che lei al momento non riusciva a intuire a causa dell’agitazione e della sorpresa.
Emma, la sua Emma, era arrivata a Storybrooke in compagnia di Henry, credendo fosse sua madre biologica. Naturalmente, suo figlio si sbagliava. Perché Emma era morta tra le braccia di Regina molti anni prima e nulla avrebbe mai potuto riportarla in vita, nemmeno la magia, e questo il sindaco lo sapeva fin troppo bene.
Un brivido di freddo percorse il corpo della donna, che si alzò a sedere di scatto per recuperare le coperte malamente ammucchiate ai piedi del letto. Si coprì, sdraiandosi sul fianco destro e lasciandosi sfuggire un gemito di frustrazione.
Eppure, e il pensiero la colpì con la forza di una valanga, esisteva la minuscola possibilità che Emma fosse effettivamente la madre biologica di Henry. Anche se la donna non aveva la più pallida idea di come suo figlio fosse riuscito a trovarla…
Regina si schiaffeggiò mentalmente. Doveva smettere di pensare a Emma come se fosse davvero lei. Doveva smetterla di pensare alla sua Emma.
Anzi. Doveva smettere di pensare a Emma in generale.
Ma era impossibile. Regina si passò le mani sul volto, gemendo di frustrazione. La sua vita procedeva tranquilla fino a tre giorni prima. Cos’era successo, cos’era capitato per scombussolare tutto?
Regina sapeva che a Storybrooke c’era una sola persona in grado spiegarle in che modo Emma potesse essersi presentata alla sua porta con Henry e quella persona era il signor Gold.
Il sindaco represse la propria rabbia nel cuscino, prima di lanciarlo a terra e alzarsi a sedere, decisa a risolvere la questione all’istante. Si allungò e raggiunse il telefono sul comodino. Aveva quasi finito di comporre il numero di Gold, con l’intento di buttarlo giù dal letto perché le desse una spiegazione, quando un pensiero le attraversò la mente.
Non aveva importanza come e perché Emma fosse arrivata a Storybrooke, dato che probabilmente aveva già lasciato la cittadina e Regina non l’avrebbe mai più rivista. Non c’era ragione perché Emma rimanesse. Aveva una vita fuori da Storybrooke che l’aspettava e Regina era sicura che non vi avrebbe rinunciato per un figlio che aveva abbandonato già una volta.
Riluttante, il sindaco ripose la cornetta e raccolse il cuscino da terra, sistemandolo dietro la testa. Cercò di tranquillizzarsi grazie a quella considerazione e decise di rinviare la questione alla mattina seguente, quando, a mente lucida, avrebbe affrontato Gold e i suoi stupidi giochetti di magia.
Camminando a passo svelto per le vie della città, Regina quasi non si accorse del maggiolino giallo parcheggiato fuori dalla stazione di polizia. Trattenendo a stento un ringhio e domandandosi perché la signorina Swan fosse ancora in città, Regina marciò ancor più speditamente verso il negozio dei pegni del signor Gold.
Aprì la fragile porta di legno con una manata, imponendosi di mantenere la calma.
«Gold.» disse, procedendo verso il bancone, dove l’uomo con cui le interessava parlare stava lucidando attentamente gli schinieri di una vecchia armatura.
Regina si chiese a chi fosse appartenuta, prima di riportare la sua attenzione sul signor Gold.
«Signor sindaco» sorrise mellifluo l’uomo, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. «Qual buon vento la porta da me a quest’ora?»
«Emma Swan» tagliò corto Regina, indispettita dalla semplice presenza del folletto. «Sono sicura che lei sappia perfettamente di chi sto parlando.»
«Oh, in questo caso mi spiace deluderla» rispose il signor Gold, mettendo finalmente da parte gli schinieri e lanciando un’occhiata di finta ignoranza alla donna.
«Non so di chi stia parlando, purtroppo.»
Regina strinse i pugni e si morse l’interno delle guance visibilmente irritata da Gold. Poteva leggerglielo negli occhi, a quel maledetto folletto, che si stava incredibilmente divertendo.
«Lei sa perfettamente di chi sto parlando. Emma Swan si è presentata a casa mia, ieri sera. È la madre biologica di mio figlio. Non sono coincidenze, Gold, lo sappiamo entrambi.»
«Mio caro sindaco,» esclamò il signor Gold, allargando teatralmente le braccia. «Mi sta chiedendo spiegazioni del perché suo figlio è scappato ed è tornato con la madre biologica?»
Regina si domandò di come facesse l’uomo a sapere del fatto che fosse stato proprio Henry a portare lì Emma, ma il signor Gold le sorrise.
«Le notizie girano in fretta, in questa città.»
Regina si riprese in fretta.
«Non le sto chiedendo il perché delle azioni di mio figlio, Gold.» sbottò la donna, appoggiando le mani sul bancone, sporgendosi verso di lui. «Le sto chiedendo perché Emma Swan è…»
“Viva.” Avrebbe voluto dire.
Ma non lo fece. In un certo senso, ne aveva quasi paura.
Aveva paura non solo di scoprire il perché di ciò che stava succedendo. Aveva paura soprattutto di scoprire che Emma, in qualche modo, non fosse la sua Emma: ne aveva paura e insieme lo sperava.
E quei sentimenti la confondevano.
«…qui» concluse infine il sindaco, dopo una breve pausa.
Il signor Gold sorrise, ma Regina non avrebbe mai definito quella smorfia un sorriso, quanto piuttosto un ghigno.
«Lei è una donna dotata di una forza di volontà spiazzante, oserei dire» commentò l’uomo, con un gesto frivolo della mano che ricordò a Regina le sue lezioni di magia in compagnia di Tremotino.
«Cosa intende dire, Gold? La smetta con questi ridicoli giochi di parole» intimò il sindaco con voce tagliente.
«Intendo solo dire che questa città sembra essere stata costruita esattamente secondo il suo desiderio, mio caro sindaco, e che ognuno si trovi esattamente dove, secondo il suo volere, deve trovarsi. Se Emma Swan è qui è perché lei lo vuole e lo permette» disse l’uomo, con finto tono di supposizione. Regina si morse il labbro inferiore e strinse le mani con forza. Con un ultimo sguardo di sfida e rabbia furente dritto negli occhi di Gold, il sindaco girò sui tacchi e uscì quasi correndo dal vecchio negozio, sbattendo con forza la porta e facendo tintinnare molti dei numerosi gingillati li stipati. Se solo avesse prestato maggiore attenzione all’uomo e meno alla propria ira, Regina sarebbe anche riuscita a cogliere il suo ultimo sussurro.
«E, dopotutto, non ho saputo dire di no a quella piccola clausola, cara».
Regina avrebbe dovuto immaginare che chiedere aiuto a Tremotino sarebbe stato come chiederlo a un sasso. Chiedere ad un sasso, perlomeno, le avrebbe evitato le prese in giro e le espressioni irritanti dell’uomo.
Il sindaco dovette fermarsi qualche istante per riprendere il controllo delle sue azioni. Si appoggiò stancamente al muro del negozio dei pegni, pizzicandosi la punta del naso con le dita. Non era da lei perdere le staffe in quel modo: in città era famosa per il suo portamento elegante e per la sua immutabile calma. Non poteva permettere ad un ricordo del passato di distruggere tutto ciò che aveva così faticosamente costruito, nemmeno se quel ricordo era proprio ciò che aveva fatto scaturire tutto.
Respirando profondamente, Regina tentò di riordinare i suoi pensieri.
Ma lo squillo del suo telefono cellulare la fece sussultare, distraendola da quel vago –e inutile- tentativo.
Estrasse l’aggeggino dalla borsa.
«Regina Mills.»
«Sindaco Mills?» la voce all’altro capo era debole e timorosa. «Sono la segretaria della scuola, signor sindaco. La maestra di Henry ci ha appena comunicato che suo figlio non era a lezione, oggi.»
Il cuore di Regina fece un balzo.
«…e lei aveva dato direttive di chiamare ogni qualvolta Henry…»
«Conosco benissimo gli ordini che ho dato alla scuola, signorina.» sbottò Regina, cercando di controllare il tremolio nella voce. «Henry è a casa malato. Per questo non era a lezione.»
«Spero non sia nulla di grave, sono sicura che guarirà presto» rispose la segretaria, con una punta di compassione nella voce che Regina trovò fastidiosa.
«Non ho bisogno di essere rassicurata, signorina. Ora, se non le dispiace, ho delle faccende importanti da sbrigare, grazie della telefonata» disse il sindaco, attendendo la risposta all’altro capo del telefono prima di riagganciare, per non apparire eccessivamente scortese.
In fondo, la povera segretaria non aveva fatto nulla di male.
«M-Ma certo, sindaco Mills, a-arrivederci».
Dominando la propria paura - perché non aveva la minima idea di dove potesse essere suo figlio e, dannazione, se gli fosse successo qualcosa, Regina sapeva che sarebbe impazzita - il sindaco si diresse verso la propria macchina, i tacchi che risuonavano nell’aria mattutina di Storybrooke, seppur non così rumorosi da riuscire a sovrastare i battiti del proprio cuore. Non prestò la minima attenzione ai passanti, se non per assicurarsi che non si trattasse di Henry, e nella sua forsennata ricerca quasi superò l’entrata della stazione di polizia, dove si stava dirigendo. Aveva bisogno dell’aiuto di Graham perché gli riportasse suo figlio. In fondo, nella Foresta Incantata lui era il Cacciatore, qualcosa del suo istinto doveva sicuramente essere rimasto in lui.
«Graham!» esclamò Regina, direttamente dal corridoio, dirigendosi verso gli uffici; sistemò nuovamente il cellulare nella borsa. Il suono dei suoi tacchi era l’unica cosa che risuonava sul marmo. «Henry è scappato di nuovo, dobbiamo-»
Le bastò entrare negli uffici della stazione di polizia per interrompersi in ciò che stava dicendo.
Due paia di occhi, uno dei quali assurdamente familiare, si voltarono nella sua direzione. Regina deglutì, tentando di mantenere un contegno, avanzando nella stanza.
«Che ci fa lei qui?» domandò, rendendosi conto che la sua voce non rispondeva ai suoi comandi, uscendo più disperata e sconfortata di quanto volesse lasciare a vedere.
Decidendo di mettere da parte i suoi problemi, si avvicinò alla sbarre dietro le quali Emma Swan era appoggiata, gli avambracci mollemente abbandonati contro la grata, il volto incastrato tra due aste di ferro. La ragazza la guardò con espressione da cucciolo bastonato, l’espressione di chi desiderava essere ovunque meno che lì, e Regina dovette fare ricorso a tutto al suo autocontrollo per non cadere ai suoi piedi.
«Sa dov’è Henry?» disse invece.
«Non lo vedo da quando l’ho lasciato a casa sua» rispose la ragazza, drizzando la schiena come se volesse tenere testa al sindaco.
In realtà, non si trattava solo di una sfida nei confronti nell’altra. Il fatto era che sapere che Henry era scappato, di nuovo, aveva provocato una punta di dolore nel suo cuore più intensa di quanto Emma si sarebbe aspettata. A quel ragazzino poteva accadere qualsiasi cosa, davvero qualsiasi, persino finire nelle fauci del lupo che l’aveva quasi uccisa la sera precedente.
«E ho un ottimo alibi» aggiunse Emma, appoggiandosi allusivamente alle fredde sbarre della prigione.
«Non si è presentato a scuola, questa mattina» disse Regina, decidendo di mettere da parte qualsiasi sensazione, o emozione, la bionda di fronte a lei riuscisse a scatenare in lei in un momento come quello. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era farsi distrarre e addolcire dagli occhi della bionda. La signorina Swan non era che la madre biologica di Henry e questo non poteva portare a nulla di buono.
Certo, se si trattava davvero della sua Emma, forse…
«Ha chiamato gli amici?» domandò la bionda, interrompendo i pensieri di Regina.
«Henry non ha amici.» rispose subito Regina, mascherando il senso di colpa. «È un tipo solitario.»
Dopotutto, se Henry non aveva nessun compagno di giochi, era gran parte per colpa sua. Sua e delle sue ossessioni, sua e del suo desiderio di vendetta. Per quanto l’infanzia del suo bambino fosse stata felice e spensierata crescendo, Henry aveva iniziato a capire come stavano davvero le cose, e a isolarsi dal mondo.
«A quell’età ce li hanno tutti.» replicò Emma senza guardarla. Lei stessa, per qualche motivo oscuro al sindaco, non sembrava molto convinta di ciò che stava dicendo.
Regina fu tentata di domandarle il perché, ma prima che dalla sua bocca uscissero quelle parole che l’avrebbero incastrata in una discussione scomoda, Emma tornò a guardarla.
«Ha controllato il computer? Potrebbe trovare qualcosa nelle email.»
Regina non voleva, non voleva che Emma cercasse di aiutarla. Non voleva avere una scusa per starle vicina, non voleva rendersi conto che il carattere di Emma Swan era così tremendamente simile a quello della sua Emma. Non voleva.
Eppure c’era una parte di lei, una minuscola e masochistica parte, che lo desiderava ardentemente.
«E lei cosa ne sa?» sbottò Regina, mascherandosi dietro a un tono sgarbato.
«È il mio lavoro» rispose Emma, stringendosi nelle spalle. «Ho un’idea. Fatemi uscire e in cambio vi aiuterò a trovare il bambino».
A Regina non sfuggì il finto tono di noncuranza con cui Emma pronunciò quelle parole. Glielo leggeva, nella voce e negli occhi, che qualcosa di quella situazione la stava spaventando. Si prese qualche secondo di pausa, riflettendo sulla proposta della ragazza, serrò le labbra e ascoltò il ticchettio dell’orologio. Nessuno osava muoversi. Regina sapeva perfettamente quale sarebbe stata la sua scelta. Certo, Regina faceva di tutto per ignorare quella sensazione di sollievo e di sicurezza che le proveniva dal sapere che Emma era disposta ad aiutarla nel ritrovare Henry.
«Graham, la chiave» disse infine il sindaco, porgendo la mano all’uomo senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Lo sceriffo acconsentì esitante e consegnò la piccola chiave a Regina, che si avvicinò alla cella lentamente, senza interrompere il contatto visivo con Emma.
«Non un passo falso, signorina Swan. Henry è mio figlio. E quando sarà di nuovo al sicuro in casa mia, lei tornerà a Boston, senza esitazioni. Sono stata chiara?» sottolineò il sindaco, infilando la chiave nella toppa, ma senza far scattare la serratura.
Emma strinse gli occhi e poggiò una mano su quella di Regina. A quel contatto, il sindaco si immobilizzò e trattenne il fiato.
«Chiarissima» rispose Emma, girando la mano del sindaco con un gesto leggero, ma deciso. La serratura scattò.
Regina rilassò i muscoli e fece immediatamente un passo indietro, come se si fosse scottata. Se si fosse trattato di una qualsiasi altra persona, probabilmente in quel momento si sarebbe ritrovata priva di una mano. Ma si trattava della sua Emma… no, si corresse Regina, si trattava della signorina Swan.
Lavorare fianco a fianco con Emma fu ancora più difficile di quanto avesse immaginato in precedenza.
Qualsiasi cosa la ragazza dicesse, qualsiasi cosa facesse, Regina si sentiva stringere il cuore al pensiero di quanto lei fosse simile alla sua Emma.
La ascoltava parlare con Graham e ricordava i sussurri che Emma era solita rivolgerle tra una cavalcata e l’altra; guardava le sue mani lavorare frenetiche al pc di Henry e ricordava il modo in cui Emma la sfiorava; osservava i suoi capelli e ricordava il loro movimento, il loro dolce ondulare, scossi dal vento.
Regina sistemò una maglia di Henry, persa nei suoi pensieri.
Più le ore passavano, più cercava di convincersi che quella non poteva essere Emma, non la sua.
Eppure, più le ore passavano, più si rendeva conto che era una coincidenza troppo strana, troppo particolare, troppo assurda per poter essere solo un caso.
E quando Emma la guardò, dritta negli occhi, chiedendole chi fosse Mary Margaret Blanchard, l’intestataria della carta di credito, Regina si rese conto di una cosa. Una cosa importantissima, che di sicuro le avrebbe causato molti altri problemi.
Regina si rese conto, il cuore stretto in una morsa e gli occhi di Emma che la scavavano a fondo, che anche dopo tutti quegli anni, era ancora innamorata di Emma Swan.
Per questo motivo, quando Regina rispose a quella semplice domanda, le parole scivolarono dalla sua bocca a fatica, colme di odio e rancore.
«La sua insegnante» disse. E la ragione per cui ti ho persa, aggiunse la sua testa.
«Non ci resta che andare a farle qualche domanda, dunque» annuì Emma alzandosi in piedi.
Lei e lo sceriffo Graham si scambiarono un’occhiata di intesa dirigendosi verso la porta della stanza di Henry. Regina strinse istintivamente le mani a pugno non appena la colse.
«Em-, signorina Swan» chiamò infine, facendo voltare la ragazza ormai sulla soglia. Dopo pochi secondi, il sindacò distinse i passi pesanti di Graham scendere le scale.
«Signor sindaco?» domandò Emma, disorientata e titubante, sulla difensiva.
«Mi chiedo se…» iniziò Regina, fermandosi e mordendosi il labbro. Mi chiedo se ti ricordi di me, Emma, di noi. Mi chiedo da dove vieni e come sia possibile che tua sia qua. Mi chiedo cosa provi, se hai qualcuno che ti aspetta a Boston. Mi chiedo se riuscirò mai a dimenticarti e quanto male ci farà questa storia, Emma.
«Mi chiedo quanto mi costerà il suo lavoro da investigatrice, signorina Swan» disse solo, schiarendosi la gola.
Emma scosse la testa, aprendo la bocca un paio di volte solo per richiuderla immediatamente.
«Io non…» rispose infine, «io non voglio nulla. Henry è anche… Henry è legato anche a me, in un certo senso» concluse la ragazza, stringendosi nelle spalle.
Regina sentì una stretta alla bocca dello stomaco, mentre quelle parole le facevano realizzare un altro dettaglio importante.
Henry era suo figlio, lei lo aveva adottato.
Ma, se tutto quello era reale e non era un brutto incubo, Emma era la sua madre naturale.
Alla fine ce l’avevano fatta, lei e Emma, ad avere un figlio. Regina per poco non sentì le gambe cederle, a quel pensiero. Si appoggiò con noncuranza al mobile dove Henry teneva l’intimo, sorreggendosi.
«Già. Così sembrerebbe.» rispose Regina, laconica.
Emma spostò il peso da un piede all’altro, in difficoltà. Alzò lo sguardo e incrociò quello nero e profondo di Regina, e per un attimo si sentì colpita da qualcosa.
Non avrebbe saputo definire che cosa fosse, ma non era sicura che fosse stato propriamente piacevole. La ragazza fece un passo indietro, rischiando quasi di inciampare nel tappeto.
Evitò lo sguardo di Regina. Non sapeva cosa aveva appena provato, guardandola negli occhi, e a lei non piaceva non sapere.
Regina, dal canto suo, si accorse che doveva essere successo qualcosa. L’espressione di Emma si era come trasformata, quando l’aveva guardata.
«Dovremmo andare dalla maestra di Henry, no?» disse incerta Emma. «Graham si starà chiedendo che fine abbiamo fatto.»
«Certamente, signorina Swan» rispose Regina, distogliendo a sua volta lo sguardo e osservando un angolo della stanza di Henry con ostinazione, fino a quando non sentì anche i passi di Emma, leggeri, ma decisi, scendere velocemente al piano inferiore. Regina si decise infine a seguire la giovane, cercando di ignorare quel profumo di cannella che si era lasciata alle spalle, e fermandosi a metà della scalinata, solo per scorgere Graham che teneva galantemente aperta la porta per Emma.
La ragazza gli lanciò uno sguardo sospettoso, prima di ringraziare con un debole sorriso e un cenno del capo.
«Non perdiamo tempo, per favore, ancora non ho idea di dove sia mio figlio» disse Regina con voce tagliente.
Scese gli ultimi scalini, i tacchi che risuonavano violentemente, e uscì dalla propria casa con un sguardo d’ira nei confronti di Graham.

Il breve viaggio in auto era stato uno delle situazioni più tese che Emma avesse mai vissuto. Seduta sul sedile posteriore, si sentiva come quando, da piccola, i suoi genitori adottivi litigavano a causa sua. Allora, lei cercava di rannicchiarsi nel sedile di pelle, sperando che questo lo inghiottisse, sentendosi terribilmente colpevole. Ma ormai Emma era una donna adulta e non era difficile intuire il legame che legava l’affascinante sindaco di Storybrooke a Graham.
«Chi tipo è questa… Mary Qualcosa Blanchard?» chiese con curiosità, ciascun gomito appoggiato a uno dei sedili anteriori. Involontariamente, il suo sguardo accarezzò la scollatura di Regina Mills. Non era difficile intuire perché Graham la trovasse attraente nonostante la differenza di età. Se solo non fosse stata una tale stronza…
Però, si disse Emma, leccandosi involontariamente le labbra, Regina aveva davvero qualcosa di magnetico. Forse era proprio la sua stronzaggine a renderla tale, ma la donna possedeva un fascino e un portamento che Emma non aveva mai visto in nessuno.
«Una principessina innocente.» sbottò Regina. E non era esattamente una bugia.
Le sue parole fecero riscuotere Emma, che distolse immediatamente lo sguardo dalla scollatura del sindaco. Fece vagare lo sguardo nell’auto, alla ricerca di qualcosa che la distraesse dai pensieri che aveva appena avuto. Non la conosceva nemmeno da ventiquattro ore e già meditava come fosse portarsela a-
Dio, la sua vita sessuale faceva davvero schifo.
«Una…principessina?» borbottò Emma, pizzicandosi la radice del naso.
Le parole che Henry le aveva detto la notte precedente balzarono improvvisamente alla sua memoria.
Favole. Principesse. Cavalieri.
Regine.
«Mary Margaret è una donna molto tranquilla.» intervenne Graham, come per placare l’irritazione che Regina sembrava provare ogni volta che si nominava la maestra. «Fa volontariato un po’ ovunque, in città. Non ha mai dato fastidio a nessuno e, anzi, è una persona davvero gentile.»
«Innocente.» ripeté Emma.
“Innocente. Certo.” Pensò Regina con stizza, stringendo i pugni sul volante.
«Candida come la neve» aggiunse sarcasticamente il sindaco, frenando bruscamente di fronte alla scuola elementare di suo figlio.
Emma si accorse che Regina era scesa dalla macchina solo quando il sindaco chiuse la portiera con violenza, tanto erano stati repentini e affrettati i suoi movimenti. Graham si affrettò ad imitarla, ma quando fece per seguirla, si ritrovò il passaggio bloccato dalla portiera che Emma aveva appena aperto.
«Prova a chiedere loro se conoscono Henry, se giocano con lui. Sanno che sei lo sceriffo e sei gentile, ti risponderanno» disse Emma, indicando con la testa i bambini che in quel momento stavano uscendo nel cortile.
«Io mi accerterò che il sindaco non uccida nessuno».
Graham sorrise appena scuotendo la testa e fece per ribattere. Non aveva la minima intenzione di prendere ordini dall’ultima arrivata, ma Emma si era già dileguata e ormai era alle calcagna di Regina. In pochi secondi, scomparvero in rapida successione all’interno della scuola.

Emma perse di vista di vista il sindaco, ma non fu difficile ritrovarne le tracce. Chi altri avrebbe mai potuto portare dei tacchi tanto rumorosi in una scuola elementare?
«Sarei qui, se così fosse?» le sentì dire, non appena entrò nell’aula dove una donna minuta, dai capelli corti e il viso delicato, cercava di non soccombere sotto lo sguardo accusatore di Regina.
«Gli ha dato la sua carta di credito per rintracciare questa donna?» incalzò il sindaco, non appena percepì la presenza di Emma nella stanza. Un brivido le percorse la schiena.
«Mi scusi, lei sarebbe?» disse la maestra. Emma notò che tra le mani stringeva una pera; aggrottò le sopracciglia.
«Io sono…» Emma stava per rispondere. Davvero, stava per farlo. Ma cosa poteva dire? “Sono sua madre”? Non poteva, non davanti al sindaco. «Sono…»
«La donna che dieci anni fa lo ha abbandonato.» concluse Regina per lei, salvandola da quella risposta imbarazzante e allo stesso tempo rovesciandole addosso la nuda e cruda verità.
Dal canto suo, per Regina sembrava essere molto più facile pensare ai difetti di Emma, che non ai pregi che conosceva già molto bene.
Mary Margaret sembrò rendersi conto della tensione che aleggiava in quella stanza, così si limitò a cercare di risolvere la questione per cui il sindaco era arrivata fin nella sua aula. Appoggiò la borsa sul banco di fronte a lei ed estrasse il portafoglio.
«Non sa niente di questa storia, vero?» domandò Emma, sapendo già la risposta. Poteva capire quando le persone mentivano, e Mary Margaret non era una di queste. Anzi, ad un primo giudizio, la maestra sembrava una di quelle persone programmate per dire solo la verità. Improvvisamente, Emma capì perché Regina l’avesse paragonata ad una principessa innocente.
La voce di Henry sempre viva nella sua mente le lanciò un avvertimento, che Emma ignorò prontamente.
«No, purtroppo non so niente.» rispose infatti Mary Margaret, corrucciata.
Abbassò il proprio portafoglio, mostrando alle due di come fosse stato defraudato di tutte le carte di credito.
«È un tipo sveglio.» mormorò la donna, quasi a se stessa. «E io non dovevo dargli quel libro.»
«Ma che cos’è questo libro di cui tutti parlano?» sbottò Regina con irritazione.
«È solo un vecchio libro di fiabe. Come lei certo saprà, Henry è un bambino speciale» rispose Mary Margaret, cercando di nascondere il proprio spavento a causa della reazione del sindaco.
Sia Emma che Regina furono catturate immediatamente dalle sue parole, entrambe avide di conoscere dettagli di Henry o, semplicemente, di sentirsi dire quanto di bello ci fosse in lui. Sul volto di entrambe, Mary Margaret vide disegnarsi un identico sorriso d’orgoglio.
«È così intelligente e creativo. E come di certo si sarà accorta, molto solo».
Il sorriso di Emma si trasformò immediatamente in un’espressione preoccupata. Poteva fingere a lungo, che di Henry non le importasse poi molto, ma era suo figlio. Aveva rinunciato a lui per potergli regalare la migliore opportunità di vita e le cose, come al solito, non sembravano andare come aveva programmato.
«Gli serve solo di tornare alla realtà. Sto perdendo tempo» ribatté Regina, con rabbia.
Si voltò e Emma indietreggiò istintivamente, mentre il sindaco scaraventava a terra, di proposito, a parere della ragazza, una pila di libri.
«Faccia buon ritorno a Boston» sibilò poi Regina passandole accanto, senza nemmeno guardarla.
Perché così sarebbe stato più facile, pensava il sindaco. Allontanarla, non poterla raggiungere, certo non oltre i confini di Storybrooke, avrebbe reso le cose più facili, le avrebbe riportate alla normalità.
Regina sarebbe tornata ad essere l’unico punto di riferimento per Henry e Henry sarebbe stato di nuovo quello della donna. Per Emma Swan, chiunque fosse, non poteva esserci spazio nella loro vita.
Peccato solo desiderare che la seguisse, che la aiutasse in quel momento in cui non aveva nessun altro disposto a farlo per propria volontà e che le riportasse Henry, di nuovo.
E poi Regina ne era sicura: come avrebbe fatto a vivere tranquillamente la sua vita, sapendo che la copia esatta dell’unica donna che aveva mai amato era a poche ore di auto da lei?
Come avrebbe fatto a svegliarsi ogni giorno, sapendo che Emma –Emma!- era viva, per qualche strano e assurdo modo, e così vicina alla sua vita?
E d’altro canto come avrebbe fatto ad andare avanti, sapendo che la donna che non aveva mai smesso di amare viveva tranquilla, amando il loro stesso figlio ma non amando e non ricordandosi di lei?
Regina si prese la testa tra le mani, disperata.
Emma tamburellò sul volante, guardando la casa del sindaco dal finestrino dell’auto.
Aveva trovato Henry immediatamente dopo aver scambiato poche parole con la sua maestra; il difficile era stato convincerlo a tornare a casa. Emma non riusciva a capire se il figlio che aveva dato in affidamento era molto fantasioso o solo molto problematico. In ogni caso, non era sicura che la soluzione migliore fosse lasciarlo nuovamente solo.
Si era riscoperta a tenere a quel bambino, e alla sua salute.
E a Regina, disse una vocina nella sua testa, che Emma scacciò immediatamente.
Ma la verità era che Regina la metteva in difficoltà. E lei non era mai stata messa in difficoltà.
«Forza, ragazzino» sospirò Emma, facendo un cenno a Henry perché scendesse dal maggiolino.
Fianco a fianco, i due si incamminarono lentamente lungo il vialetto della casa di Regina. Emma apriva e richiudeva la bocca in continuazione, alla ricerca di qualcosa da dire, senza trovare le parole adatte.
A salvarla fu Regina Mills stessa aprendo di colpo la porta di ingresso, riportando bruscamente Emma alla realtà. La ragazza non riuscì a reagire abbastanza prontamente per fermare il ragazzino e salutarlo, dato che Henry si precipitò in casa senza degnare la madre adottivo di uno sguardo.
Emma, al contrario, le dedicò più sguardi di quanti le fosse civilmente consentito.
«Grazie» disse Regina, avvicinandosi lentamente verso di lei. Emma nascose un sorriso divertito.
Il tono del sindaco le era sembrato dolce e il modo in cui le si stava avvicinando, con le mani costrette nelle piccole tasche della giacca, i passi deliberatamente lenti, lungo una linea perfettamente retta, suscitò un senso di tenerezza che la colse di sorpresa. Sul serio, si trattava pur sempre di Regina Mills.
«Nessun problema» minimizzò infine Emma.
«Sembra che Henry l’abbia presa in simpatia» commentò Regina, pochi metri a separarle.
«È una cosa strana. Ieri era il mio compleanno. Ho comprato un dolcetto e ho spento una candelina. Ho espresso un desiderio». Emma fece una pausa, studiando la reazione di Regina, poi proseguì. «Che non avrei mai più passato da sola il compleanno. E poi Henry ha bussato…»
E mi ha portata fino a Storybrooke e ho scoperto di voler bene a mio figlio e che sua madre… che sua madre…, pensò Emma, ma non ebbe il coraggio di proseguire, la sua voce si affievolì appena, nascondendo un tremore appena percepibile.
«Spero che non si stia facendo illusioni» si inserì Regina, approfittando di quell’esitazione troppo lunga.
Regina nemmeno pensava a quello che stava dicendo. Emma la terrorizzava, la destabilizzava. Al sindaco sembrava quasi di avere una lotta al suo interno: per metà avrebbe voluto prendere Emma per mano, trascinarla in casa e raccontarle tutto; per l’altra metà avrebbe desiderato spingerla via, fuori dalla sua vita, dalle loro vite: allontanarla, scottarla, far sì che non provasse più alcun desiderio di restare.
Regina era spaventata.
E si domandò perché, delle uniche volte in cui si era spaventata nella sua vita, Emma dovesse essere l’unica costante.
«Come scusi?» mormorò la ragazza, mentre il suo sorriso si spegneva.
Regina dovette fare ricorso a tutto il suo autocontrollo per non cedere davanti a quell’espressione delusa.
«Non prenda questi episodi come un invito a tornare da lui.» rispose. Non permise a Emma di dire nulla, perché sapeva che, se l’avesse fatto, probabilmente ne sarebbe uscita turbata. «Lei ha preso una decisione, dieci anni fa.»
Emma sembrò accusare il colpo, sbattendo rapidamente le palpebre. Rimase immobile, come se le parole di Regina nascondessero molto di più di ciò che davano a vedere. Guardò la madre adottiva di suo figlio, incapace di ribattere, lasciando che lei le rovesciasse addosso quella che non era altro che la verità.
«E in tutto questo tempo, mentre lei era… Chissà cosa era intenta a fare», tra le braccia di altri uomini, di altre donne, aggiunse Regina nella propria testa, muovendo un passo verso Emma mentre cercava di soffocare quei pensieri e riportare il discorso su Henry. «Sono stata io a cambiare i suoi pannolini, a curare ogni raffreddore e a sopportare ogni singolo capriccio. Lei lo avrà pure dato alla luce, ma è mio figlio.»
«Io non volevo per nien-»
«No! Non ha diritto di parola» la interruppe bruscamente Regina. «Lei non ha alcun diritto. Li ha persi nel momento in cui lo ha abbandonato».
Il sindaco si avvicinò di nuovo a Emma, pochi centimetri a separarle.
«Lei sa cosa è un’adozione chiusa? Dovrebbe, l’ha chiesta lei. Legalmente lei non ha alcun diritto su Henry, se lo ricordi».
Regina inspirò a fondo. Il profumo di Emma… il profumo di Emma era rimasto lo stesso. Per un istante, il sindaco esitò. Ma poi si ricordò di Henry e di tutto quello che aveva fatto per arrivare fino a lì e del perché lo aveva fatto. Ora, semplicemente, non poteva tornare indietro, giusto?
«Volevo solo…» iniziò Emma, scuotendo la testa esitante. Non era mai stata brava con le parole. «Volevo solo salutare Henry e… e anche lei. Sa, voglio dire, abbiamo passato del tempo insieme per via del ragazzino e ho adorato il suo sidro di mele. Per questo pensavo che lei… che io… che dovessi salutarla, ecco».
Emma si strinse nelle spalle, le mani nelle tasche posteriori dei jeans, gli occhi che sfrecciavano ora al cielo, ora al pavimento, ora su Regina. Soprattutto su Regina.
Il sindaco si morse il labbro inferiore. Era solo Emma, dopo tutto.
«È quasi ora di cena» disse infine, distogliendo lo sguardo della ragazza e posandolo in lontananza. «Come?» domandò Emma, confusa.
«Presti maggiore attenzione quando le persone parlano, signorina Swan. Ho detto che è quasi ora di cena. Può unirsi a me e a Henry, se lo desidera, poi salirà sulla sua auto e lascerà la città» disse Regina.
Il sindaco sapeva perfettamente che l’invito che aveva appena fatto a Emma altro non era che pazzia e che permetterle di rimanere, anche solo per qualche altra ora, non era affatto una buona idea.
Lasciarla andare, senza sapere se sarebbe mai tornata, sarebbe stato ancora più difficile.
Eppure, non riusciva a soffocare la speranza nel suo petto o a fermare il tremito delle mani, in attesa di un assenso che stentava ad arrivare.
Quando finalmente la ragazza rispose, il cuore di Regina mancò un battito.



NdA 
Grazie mille per le bellissime recensioni, sia da parte mia che di Cla, che ci informa gentilmente di aver mangiato troppo per aggiungere altro u.u 
Speriamo che anche questo capitolo vi sia piaciuto, soprattutto per l'inaspettata svolta finale... :D 
A presto, 
Cla & Trixie. 


 
  
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