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Autore: aturiel    26/01/2014    1 recensioni
Hansel è stato tradito dal suo migliore amico, dalla sua anima gemella, dal suo amante per un motivo egoista.
Ma forse si accorgerà delle cose veramente importanti solo dopo una chiamata.
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Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Un mondo'
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Un mondo - Rumore

 
Nightbook - Einaudi

 

«Ma porca puttana, che cos’hai in testa? La gommapiuma?!»
Hansel stava camminando avanti e indietro per la stanza, pestando forte i piedi sul pavimento.
«Io mi devo calmare?! Mi stai pigliando per il culo, quindi! Cioè, tu fai la puttana e io devo calmarmi?!»
Prese un libro e lo lanciò.
«Sì, ho capito che avevi bevuto, fatto sta che un altro ha ficcato la sua lingua umidiccia nella tua bocca e ti ha fatto un pompino.»
Tirò un pugno sulla parete, lasciando leggermente il segno.
«Senti, io non me se faccio niente delle tue palle. Volevo solo le tue scuse. Pretendevo tanto? Non mi pare. Vaffanculo, Carl. Tre volte vaffanculo.»
Riattaccò con violenza la cornetta e scagliò il suo cellulare per terra.
Si accasciò sul divano e incominciò a singhiozzare, a tratti sputando insulti, a tratti disperandosi.
Il suo Carl si era fatto un altro. Il solo pensiero che un altro avesse potuto toccarlo o baciarlo gli faceva venire la nausea, figuriamoci l’idea che qualcuno avesse potuto fargli un pompino! E lui come si era giustificato? “Ho bevuto”.
Sì, si era bevuto il cervello.
Aveva addirittura provato a dare la colpa a lui! Solo perché aveva saltato una stupida festa da amici comuni per andare a un concerto per cui aveva risparmiato da mesi, lui si era sentito solo e abbandonato.
Egoista, piuttosto.
Non poteva renderlo colpevole di una cosa che non aveva fatto. Ne aveva combinate di cazzate, ma non aveva mai tradito il suo migliore amico, il suo ragazzo, la sua anima gemella, perché non era potuto stare con lui una sera, rinfacciandoglielo pure.
Che bell’amore, davvero!
Si sentiva male. Non solo psicologicamente, ma anche fisicamente. Aveva la testa che gli scoppiava e voglia di vomitare.
Sarebbe stato meglio non rincontrarlo, anzi, proprio non conoscerlo!
Affondò i denti nella stoffa del divano e urlò.
Un urlo animale, ferito.
Rabbia, odio, tristezza, delusione.
Forse lo aveva sempre saputo che non era destinato ad avere qualcuno di cui si potesse fidare davvero al fianco, forse era troppo difficile stare al suo passo.
Nemmeno lui a volte ci riusciva.
Non riusciva a tenere il passo dei propri pensieri, delle dita mentre suonavano, del cuore, delle lacrime che scendevano senza ragione anche quando avrebbe dovuto essere felice, non riusciva a darsi pace. Era come una creatura notturna che si contorceva alla luce del sole, cercando di sfuggirgli ma senza mai riuscirci.
Urlava, urlava, urlava.
Avrebbe voluto strapparsi il cuore dal petto e lasciarlo andare via, vederlo camminare lontano per andare da colui che gliel’aveva prima accarezzato, poi rubato e infine fatto a pezzi per puro egoismo.
Voleva qualcosa in quel momento: voleva la verità.
La verità.
Quel concetto astratto che non ha niente se non il suo nome.
La verità era forse che lui non l’aveva mai amato davvero?
Forse.
La verità era che lui non lo soddisfaceva abbastanza?
Forse.
Non l’avrebbe mai conosciuta, questa particolare signora. Non l’avrebbe mai potuta osservare nella sua interezza, sarebbe stato impossibile.
Ma la voleva, la desiderava, quasi quanto desiderava Carl.
In quel momento, anche in quel maledetto momento, avrebbe voluto afferrargli le spalle e baciarlo, percorrere senza gentilezza il suo corpo, le sue labbra e i suoi pensieri, come un brivido. Avrebbe voluto fargli male, forse, ma dopo gli avrebbe curato lui stesso le ferite, piangendo.
E si odiava per questo, si faceva pena.
Hansel era debole nel suo amore senza riserve, un amore profondo e completo che lo afferrava e lo faceva soffocare; ma era anche immensamente forte, proprio per questo.
I pensieri vorticavano in lui, come falene impazzite sotto la luce di un lampione. Non riusciva a fermarli, non riusciva a smettere di urlare, mentre aveva finito di piangere già da molto: aveva speso giusto due lacrime per una delusione troppo profonda per poter essere sfogata con un semplice pianto.
Si sentiva immensamente sciocco.
Non perché era rimasto deluso.
Non perché si era fidato.
Non perché non riusciva a piangere.
Ma perché un amore finito male non può distruggere una persona, tanto meno dovrebbe avere questo effetto su di lui. Succede a tutti, prima o poi, di rimanere delusi: non vedeva il motivo di disperarsi così tanto.
Ma se questo era ciò che gli bisbigliava la sua mente, il suo stomaco si ribellava al pensiero di altre labbra che lo baciavano, le sue mani tremavano dal desiderio di sbatterlo al muro e scoparlo senza alcuna delicatezza fino a morirne, i suoi occhi erano sigillati, per paura di incontrare ancora una volta la stanza vuota e bianca intorno a lui e il suo cuore… il suo cuore? Dov’era sparito, in quel mare gelido?
Non lo trovava più.
Passarono le ore e lui non si era ancora mosso dalla posizione fetale che aveva assunto, con gli occhi chiusi senza però riuscire a dormire. Il telefono aveva squillato un paio di volte, ma non si era alzato per rispondere.
Chissà chi era? Forse era Carl che sperava di scusarsi.
Illuso.
Forse, anzi sicuramente, alla fine l’avrebbe perdonato, ma non sarebbe potuto essere come prima. Quello che era adesso non è più.
All’ennesima chiamata decise di afferrare la cornetta e rispondere.
Era Carl, come aveva immaginato.
Accettò la chiamata e rispose:
«Che vuoi ancora?»
Non fu la voce di Carl a rispondergli:
«Buongiorno, abbiamo trovato il suo numero nell’agenda del signor Carl Witherbright sotto la voce “chiamare in caso di emergenza”. Lei è il signor Hansel Catterway?»
La voce era quella di un uomo, fredda.
«Sì, sono io. Perché mi state chiamando? Che è successo? Perché non sto parlando a Carl?»
«Vorremo informarla che il signor Carl è stato ricoverato nell’ospedale St. Paul a seguito di un incidente stradale. Lei è un parente?»
No.
Urlò.
L’uomo aldilà della cornetta continuava a parlare.
«Signor Catterway, si calm…»
«No! Non mi calmo! Andatevene tutti a fanculo, voi e la vostra calma. Io non mi calmo. Il mio ragazzo è stato investito e lei mi dice di calmarmi? Mi prende per il culo? No? Bene. Adesso smetto di farle perdere tempo e, completamente fuori di me, mi recherò da Carl. Arrivederci.»
Sbatté giù la cornetta, afferrò le chiavi di casa, quelle della macchina e si fiondò di corsa per le scale.
Incespicava, piangeva, urlava, bestemmiava, imprecava.
Era tutto un incubo, un maledettissimo incubo, vero?
Le scale non finivano.
Le mani tremavano.
Gli occhi erano appannati.
Carl era all’ospedale e lui non era con lui, troppo preso dai suoi egoisti pensieri.
I suoi occhi scuri dov’erano? Si erano chiusi dopo l’impatto? E si sarebbero riaperti?
Che cazzo di domande, Hansel.
Ovvio che si sarebbero riaperti, ovvio.
Doveva ancora affogarci.
Ovvio che la sua pelle sarebbe stata ancora calda.
Doveva ancora soffocarci.
Ovvio che le sue labbra si sarebbero ancora aperte in un respiro.
Doveva ancora respirare con loro.
Ovvio che sarebbe sopravvissuto.
Doveva ancora arrabbiarsi con lui, dovevano ancora fare pace.
No.
Arrivò all’ospedale, salì subito al terzo piano, quel piano che aveva odiato, quello per le operazioni urgenti, quello dove gli avevano dovuto curare la gamba.
Che ironia.
Rintracciò subito la stanza, si affacciò al vetro.
Qualcuno era sdraiato su un letto bianco, almeno cinque persone gli stavano appresso, con aria tesa e concentrata.
Iniziò a singhiozzare.
Non riusciva a respirare, non riusciva a smettere di piangere. Più vedeva i volti dei medici contrarsi per l’ansia, meno riusciva a staccare lo sguardo dalla linea verde che saliva su e giù sullo schermo a lato. Pregava per una nuova curva, per un nuovo battito. Ogni pulsazione mancata, moriva un po’ anche lui.
Non sapeva per quanto tempo restò lì a osservare quello schermo e quelle linee spezzate, ma quando queste si trasformarono in un’unica linea piatta e inerte, lui non abbassò gli occhi.
Morto.
No, non era morto.
No.
No.
No.
Solo quella semplice negazione gli rimbombava in testa, come una cantilena.
Vuoto, un incolmabile vuoto si era spalancato per inghiottirgli l’anima.
La linea era piatta, vuota, non si muoveva.
Urlò?
Forse.
Ma nessuno lo sentì, perché la voce era troppo roca per risuonare nei corridoi semivuoti.
Si sedette sulla sedia lì vicino, non riuscendo a reggersi in piedi. I suoi occhi erano vacui e spenti, lo sguardo passava su ogni cosa senza sfiorarla, senza soffermarvisi. Nemmeno quando aveva dovuto operarsi alla gamba con la certezza di non poter più giocare a basket si era sentito così simile all’Hansel che vede i corvi mangiare le molliche di pane, facendogli smarrire la via.
Certo che il destino è proprio strano.
Perché non aveva voluto che si riappacificassero, prima di togliergli la vita?
Perché adesso Hansel si sentiva in colpa?
Perché avrebbe preferito che fosse lontano da lui, abbracciato e toccato anche da cento ragazzi diversi, ma che comunque fosse vivo?
No, Carl non può essersene andato.
Si ricordò di molte cose, in quel momento. Si ricordò di dettagli che erano rimasti sepolti fino a quel momento. Inutili, forse, ma che gli riportavano in mente Carl.
Un bambino che sorride, con i capelli castano scuro e gli occhi quasi neri.
Un acceso litigio per una trattenuta.
Una giornata di sole e l’erba sotto la schiena a solleticargli la pelle accanto al suo amico, con lo sguardo perso ad osservare il cielo e la pace nel cuore.
I pianti, quando si erano dovuti lasciare.
E i morsi dati ai polsi di sua madre che tentava di trattenerlo dal correre da Carl che stava salendo sul treno.
Le gocce di sudore che scintillavano sotto le luci artificiali del campo da pallacanestro, quel giorno in cui si erano rivisti.
La sua canzone, quella che gli aveva suonato con dita incerte su una pianola piccola e impolverata.
Il suo respiro caldo e tremante nell’istante prima di un bacio.
Il dolore pungente ma piacevole delle sue unghie nella carne.
La sua voce che si arrochiva dal piacere nella penombra.
La corsa veloce e ferita che l’aveva allontanato da Carl dopo un litigio.
I suoi passi che lo seguivano.
La pioggia fredda che cadendo gli nascondeva le lacrime, in un bacio di fuoco.
La bellezza della sua pelle nuda color mattone illuminata dalla luce della luna.
La paura che aveva provato nel sentire ansiti provenire dalla camera che era stata loro.
I suoi occhi densi di un piacere dato da un altro che lo incontravano nella stanza da letto.
La porta sbattuta.
Il vuoto.
E ora era lì, da solo. Carl non era più con lui, non potevano più baciarsi, non potevano più ridere e scherzare, non potevano più litigare e poi far l’amore, ancora arrabbiati.
Tra un tremito e l’altro vide in lontananza una figura alta avvicinarsi a lui, zoppicante, dai contorni sfuocati.
All’inizio non vi prestò attenzione, ma quando si fece più vicina notò che le spalle erano aguzze come quelle di Carl.
Ancora un passo e notò la forma delle mani, perfette per afferrare una palla.
Allora i suoi occhi si mossero un poco, seguendo quella figura camminare verso di lui.
Sto sognando?
Oh, sì che bel sogno! Il suo Carl lo stava salutando per l’ultima volta: vedeva i suoi occhi scuri contornati dalle lunghe ciglia, vedeva le sue labbra dolci piegarsi in un sorriso, vedeva la felpa bordeaux che gli aveva regalato e un piccolo taglietto sulla tempia, non ancora pienamente cicatrizzato.
Un taglietto?
Batté le palpebre per mettere a fuoco Carl che camminava verso di lui.
Era un Carl in carne ed ossa o solo un prodotto della sua mente?
Però quella mano che gli accarezzava il viso sembrava così reale, così viva...!
Hansel l’afferrò e la strinse forte, poi la baciò piano, ispirandone il profumo e bagnandola con lacrime salate.
«Scusami, Hansel.»
Stupore.
«Ma tu… tu sei vivo?»
«Certo che sì! Ma che ti salta in testa!»
«Ma allora la linea…»
«Quale linea?»
«Quella… no, niente.»
In quel momento una barella con una figura accartocciata coperta da un lenzuolo bianco, uscì dalla stanza affianco.
Hansel spostò lentamente lo sguardo dal lettuccio al suo ragazzo, rendendosi conto dell’errore che aveva commesso.
Scattò in piedi e abbracciò Carl, così forte da farlo soffocare, poi gli cercò le labbra e le baciò con forza, ignorando gli sguardi sbalorditi e un po’ disgustati degli altri pazienti in sala d’aspetto. Carl ricambiò subito l’abbraccio e il bacio e stettero così legati per qualche minuto, almeno per il tempo necessario a Hansel per smettere di tremare.
Separò leggermente la fronte da quella del ragazzo e disse, con voce strozzata:
«Oh, dio, pensavo fossi morto, pensavo fossi andato via, pensavo che non mi avresti più baciato, pensavo che sarei rimasto il bambino sperduto nella foresta per sempre, che non saremmo più stati così, pensavo che Carl non ci fosse più… io come avrei fatto, eh? Come avrei fatto?»
«Stai zitto, smettila di dire stupidaggini, non preoccuparti, ci sono.»
Strinse tra le mani la stoffa della felpa tra le mani, tanto forte da sentire alcuni fili strapparsi.
Stettero qualche minuto ancora in silenzio, avviluppati in un intrico di braccia e anime.
«Promettimi una cosa però.»
«Cosa?»
«Che per quanto tu abbia bevuto, non ti farai baciare, fare pompini o altre schifezze da qualcuno che non sia io.»
Carl rise forte e lo baciò ma, quando si staccò, aveva anche lui le lacrime agli occhi.
«Promesso.»
Il bambino perduto aveva ritrovato la via.
   
 
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